Edmondo De Amicis: Raccolta di opere
Edmondo De Amicis
L'idioma gentile

PARTE SECONDA.

“GLI ARDIRI„.

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 “GLI ARDIRI„.

Confessioni d’uno scrittore pusillanime a uno senza paura.

 

Il dialogo segue in casa del primo, di nome Leone, che sta seduto allo scrittoio, coperto di fogli. L’altro, Rompicollo di pseudonimo, gli siede di faccia. Età dei due personaggi: vicini al pendìo dove l’età precipita.

Leone (che ha finito di leggere un manoscritto). – Che te ne pare? Sii sincero.

Rompicollo. Sincerissimo. La narrazione è ordinata, lucida, scritta bene come tutto quello che tu scrivi. Ma c’è il difetto che è in tutti i tuoi scritti. Ci manca una bella qualità, una sola.

L.Tira il colpo.

R.Mettiti in guardia. Si può riferire a te il giudizio che diede un editore illustre sul modo di scrivere d’un romanziere che tu conosci: – Scrive da maestro; ma.... non c’è caso di vedergli una volta la cravatta per traverso.

L.Spiègati meglio.

R. – Per spiegarmi meglio, bisogna che te la faccia un po’ lunga.

[296]

L.Purchè tu la faccia di corsa.

R. – Mi rifaccio a ottantanni addietro, quando già un grande maestro osservava che negli scrittori del suo tempo la lingua italiana s’andava geometrizzando, riducendo al linguaggio magro e asciutto della ragione e delle scienze che si chiamano esatte, con grave pericolo di cadere nella timidità, povertà, impotenza, regolarità eccessiva, ch’egli rimproverava alla lingua francese dell’età sua. Egli voleva dire che s’andava perdendo l’uso di quella libertà, di quei tanti idiotismi e irregolarità felicissime, di quelle tante licenze, o ardiri, per servirmi d’una sua parola, nei quali consistevano principalmente “la facilità, la varietà, la volubilità, la pieghevolezza, la forza insomma e la bellezza, il genio e il gusto della lingua italiana.„ Gli ardiri, capisci! Li definisce bene anche il Padre Cesari dove dice che i nostri antichi scrittori non procedevano sempre a passi di stretto costrutto grammaticale, che alcune cose, scrivendo, lasciavano da mettercele i leggitori, che prendevano spesso un giro o legamento che usciva dal comune, che s’allargavano fuori della via trita, tenendo l’occhio più alla sentenza che alla costruzione delle parole. C’erano insomma nella loro lingua (tanto lontana per questo dal cader nell’arido e nel matematico) scorci, ellissi, annodature e snodature, travolgimenti di costrutto, ogni d’idiotismi efficaci e di belle licenze, che le davano una naturalezza e un vigore ammirabile; c’era una franchezza, un far da padroni, un coraggio....

L. – Che io non ho.

R. – Hai voluto la sincerità. La maggior parte di quelle licenze o ardiri, consacrati dall’uso dei [297] classici, d’errori che erano a rigor di grammatica, son diventati bellezze. Vezzi e grazie, dice il Cesari. Ma sono anche concisione e forza. Ebbene, tu non te ne servi mai. Ma non tu solo: pochissimi se ne servono, e con parsimonia paurosa, anche fra gli scrittori toscani. Scriviamo tutti col compasso e con le seste. E scrivendo così, disconosciamo, offendiamo la natura della nostra lingua. Tu m’intendi. Le lingue, ha detto un grande scrittore francese, sono somiglianti ad antiche foreste, dove le parole e le frasi vennero su come vollero o come poterono. Ce n’è di bizzarre e anche di mostruose; ma formano tutt’insieme, riunite nel discorso, armonie bellissime; ed è da barbari e da insensati il potarle come i tigli dei passeggi pubblici. La lingua, aggiunge lo stesso scrittore, esce da un fondo popolare: è piena d’ignoranze, d’errori, di capricci, e le sue più grandi bellezze sono ingenue.... Perchè mi fai quel risolino ironico?

L. (buttando il manoscritto con dispetto). – Perchè t’affanni a sfondare una porta aperta, figliuol mio. (Balzando in piedi). Ah, tu non sai che tasto ingrato mi tocchi! Ma io sono più persuaso di te della verità di quanto mi dici. Ma io sento e riconosco meglio di te quello che mi manca, e questo appunto è il tormento della mia vita. Ma delle belle licenze, dei solecismi efficaci, degli ardimenti felici, che tu mi decanti, io ho fatto nei nostri scrittori uno studio amoroso e paziente come nessuno l’ha fatto mai, e te lo posso far toccare con mano...

R. – E allora... perchè non ti si vede mai la cravatta per traverso?

L. (lasciandosi ricader sulla seggiola e con [298] accento sconsolato). – Perchè sono un vigliacco.

R. (ridendo). – Eh via, amico; non ti calunniare.

L. (con un movimento impetuoso apre un cassetto, e ne tira fuori e sbatte sul tavolino un grosso scartafaccio). – Vedi se ti dico la verità. Qui ci sono esempi cavati da scrittori di tutti i secoli, dai trecentisti ai contemporanei, dal Villani al Machiavelli, dal Machiavelli al Bartoli, dal Bartoli a Gino Capponi... Guarda, sfoglia; questa è la prova della mia vigliaccheria.

R. – Ma è una raccolta preziosa. Io non ho mai pensato a farla. Te l’invidio. Tu me la devi far leggere.

L. – E vedi se l’ho fatta con amore. Ho diviso e ordinato gli esempi: esempi dell’uso di certe preposizioni, di certi pronomi, di certi avverbi, di certi costrutti. Ah, tu credevi ch’io fossi compassato e geometrico per non sapere come si violano bellamente le buone regole! Ma io sento la bellezza delle licenze classiche quant’altri mai al mondo, e n’ho a mia disposizione un magazzino. Solo ch’esse ci stanno come le monete d’oro nella cassa forte d’un avaro fradicio. Io non le spendo per vigliaccheria. Vedi qui, soltanto intorno all’uso del che, quante n’ho ammucchiate...

R.Leggi, te ne prego. Sono curiosissimo.

L. – Quel che, che è la mia tortura e la mia vergogna! Ti voglio svelare tutta la mia dappocaggine. Vedi qui il Villani: – Una cosa ebbero i rettori di quello (del popolo di Firenze), che furono molto leali e diritti a comune. – Vuoi credere ch’io non sarei da tanto d’usare il che in quella maniera, che mi parrebbe temerario? [299] Che ne dici? E quest’altro esempio del Sacchetti: – E pone questa sua pultiglia a mensa, che non è porco in terra di Roma che n’avesse mangiato. – E neanche quest’altro che io m’arrischierei ad usare. – Udite le mie parole, e non le abbiate a schifo per la nostra etade, che siamo giovani. – E anche questo che, che sta a maraviglia, mo lo rimangerei. – E uscì di Parigi, e cavalcò tante giornate ch’egli giunse a Narbona, che sono cento venti leghe. – E io, cane, scriverei: – che è distante da Parigi cento venti leghe. – E campò da quel morbo, che non ne campò uno sul centinaio. – E vorrei che fosse qualche uccello nuovo, che non se ne trovano molti per l’altre genti, come sono fanelli e calderelle. – Come scriverei io, per non usar quei due che, non ho la faccia di dirtelo. Questo del Machiavelli: – Perchè dai Tarquini ai Gracchi, che furono più di trecentanni. – Io avrei scritto un orrore: – fra i quali e i primi corsero più di trecentanni –, o forse peggio. – Mi pasco di quel cibo che solum è mio, e che io nacqui per lui. – Un anacoluto bellissimo, non è vero? E io non lo scriverei neppure sotto il bastone. E vado innanzi, senza citar gli autori: – Diedegli un colpo in su l’elmo, che tutto il grifone d’ariento andò per terra. – Io ci avrei premesso un tale o un così forte, per salvar l’onore. – Un teatro che non ci toccava d’entrarvi che cinque o sei volte in tutto il carnevale... – Cosa che me ne dispiace anche adesso. Per bisogno di danari arrandellò quella villa, che avrebbe potuto pigliarci il doppio. Epopea e storia sono due termini che l’uno ammazza l’altro. – Il magnanimo fa le grandi cose con l’agevolezza che il comune degli uomini fa le cose [300] comuni... Io, vile, avrei usato in quest’ultimo caso un vile con la quale, e commesso altre piccole viltà compagne nei casi precedenti...

R. – O perchè mai, se di quei modi senti l’efficacia, e sai che sono legittimati dagli scrittori?

L. – Te lo dirò poi. Senti sull’uso dell’avverbio dove, che è un’altra mia afflizione, perchè lo saprei usar bene, e vi sostituisco ogni specie di locuzioni odiose. – Con questi m’ingaglioffo... – Hai già ricosciuto messer Niccolò, non è vero? – Con questi m’ingaglioffo per tutto il , giuocando a cricca, a trictrac, dove nascono mille contese. – In questo caso è dove si riconosce la virtù dell’edificatore. – In queste cose bisogna esser cauto, ma dove ne val capo, cautissimo. – Vollero farli malgrado loro santi, dove non era poco che fossero cristiani. – Accanto a dove ora è San Francesco di Paola. Si fecero molte ricerche a Meda, di dovera la conversa. – Io sarei capace di scrivere: – che era il paese nativo della conversa. – Non uno dei dove citati avrei l’animo d’usare in quella maniera. Che te ne pare? Andiamo innanzi. Ti secco?

R. – Ma no; sèguita, che mi ci godo.

L. – Sull’uso della preposizione da. Vedrai se io so a quante belle locuzioni abbreviative e svelte si può far servire. – Fin da abatonzolo (da quando era abatonzolo) il fatto suo era uno spasso. – Quello non è luogo da andarvi di notte. – La passione il fe’ dare in falli da non inciamparvi altro che un cieco. – Gli dia un tema tale che i due vocaboli cadano da dover adoperare. Le son cose queste da farle e da lodarle le donne della santa nazione; ma noi... – Il [301] penultimo esempio è del Tommaseo, l’ultimo del Carducci. Io farei il viso rosso, vedi, se dovessi dirti il giro ignobile di parole che avrei fatto per esprimere l’uno e l’altro pensiero!

R. – Ma perche, in nome di Dio?

L. – E riguardo all’uso del se, senti che ellissi efficaci, che scorci d’espressione io rifiuto per codardìa. – Brancolando con le mani, se a cosa nessuna si potesse appigliare. – Il desiderio che questi signori Medici mi cominciassero adoperare, se (quand’anche) dovessero cominciare a farmi voltolare un sasso. Erano saliti sui tetti, se di potessero veder la cassa, il corteggio, qualche cosa. – Sei persuaso che non mi mancherebbe l’arte, se non mi mancasse il fegato?

R. – Ma dunque!

L. – Ma aspetta. Io ti voglio ben persuadere che so, e che soltanto per poltroneria, non per ignoranza, scrivo come un tanghero. Mi voglio schiaffeggiar con le mie mani quanto merito. Passo all’uso dell’infinito. Ecco del Sacchetti: – Il lupo entrava domesticamente nelle case, senza far male a persona, e senza esserne fatto a lui. – O nobile duca, dov’è la tua saviezza a sedere dove tu non dèi per dignità di re? Tu devi essere un ladroncello a entrare per le case altrui. E se alcuno dicesse Niccolò da capo) –: i modi erano straordinari, e quasi efferati: vedere il popolo insieme gridare contro il Senato, il Senato contro il popolo, correre tumultuosamente per le strade, partirsi tutta la plebe da Roma ecc., dico come ogni città... – Com’è detto bene! E io non direi così per un biglietto da mille. – Venendo alla seconda inginocchiazione, la fatica della prima aggiungendosi alla seconda, [302] e volere far presto e non potere, (bellissimo!) lo costrinse a far sì, che la parte di sotto si fe’ sentire. – Ed ecco il saluto che meriterebbero da chi legge gli scrittori poltroni del mio stampo.

R. – Ma le ragioni della poltroneria!

L. – E quelle proposizioni incidenti, interpolate fra gli elementi d’un’altra, quasi indipendenti, e per così dir sospese nel periodo, che imitano così bene il linguaggio parlato, e dànno al discorso un andamento così disinvolto e spigliato, un così bel colore di naturalezza....

R.Giusto; qui t’aspettavo: sono la mia predilezione. Vediamo se n’hai qualcuna della mia raccolta.

L. – Ce n’ho un cassone. – Per mia , che chi mi donasse l’oro del mondo, non t’offenderei. – Come pienamente si legge per Lucano poeta, chi le storie vorrà cercare. – Il Chiodo è un chirurgo che, chi lo paga bene, tien segreti gli ammalati. – E se tira vento, t’acceca, poichè non può stare se non intinge ogni momento le cinque dita in una gran tabacchiera, e su su, e quel che non c’entra semina, movendo i polpastrelli aggruppati.

R. – È detto con un garbo ammirabile. E tu non useresti nemmeno codeste forme di sintassi, che tutti usano?

L. – No, ch’io sia dannato! Nemmen queste. E tutti quegli altri modi semplici e ingenui, tolti dal linguaggio famigliare, di legare un pensiero ad un altro, e d’accozzar l’uno all’altro senza legame, che sono una bellezza! Per esempio: – Il quale manifesta agli uomini certe cose che non sanno, ed egli le sa. Questi piani, che sono in mezzo di queste montagne, sono spazzati e [303] puliti come la palma della mano, e tutto questo fa il vento. Venendo San Francesco a Santa Maria degli Angeli con frate Leone a tempo di verno, e il freddo grandissimo fortemente il crucciava.... E il grande verso di Dante:

Vedi che non rincresce a me, e ardo.

Sostituiamo all’e un che, come avrei fatto io, vigliacco, e facciamo un verso mediocre e floscio d’un verso che fa fremere: non è vero? Ah, tu credevi ch’io scrivessi come scrivo per ignoranza! Per esempio, ci ho un tesoro di modi ellittici preziosi, che tengo a muffire. – Ora perchè si sappia come morì, udii dire a mio padre che gli venne voglia d’andare alla stufa.... – Com’è garbata l’omissione del dirò che, ch’io mi sarei ben guardato dall’omettere! – E avendo dato a questo suo figliuolo certe carte, e che andasse innanzi con esse, e aspettasselo da lato della badìa di Firenze.... – Disse: i nemici esser oltre numero molti: quaranta che essi erano, non far corpo da sostener contro a tanti, e i paesani da non fidarsene in tale estremo. – Per dir questo io avrei fabbricato un periodaccio doppio. – Confortate la donna e ella voi. – Io c’avrei rificcato un conforti. Io rispetto bassamente tutte le concordanze, io bacio la terra purchè sia sempre in perfetta corrispondenza il soggetto col verbo, e rovini il mondo! Vedi, per me è una bellezza la frase: – In questo, i signori chi andava in qua e in , e chi ’nsù e chi ’ngiù, e il restante, chi si nascose in un luogo, chi in un altro; – e quest’altra: – dubbiosi, mutoli, attratti, ciechi ed ogni altra infermità vennero dal re –; ma (scrollando il [304] capo, con un sorriso ironico) mi farei levar la pelle prima di metter sulla carta quelle bellezze. So bene che “una parte della Grammatica è costituita dalla somma degl’idiotismi d’una lingua, diventati un fatto„, so che “la scienza della lingua consiste nel sapere e l’arte dello scrivere nell’adoperare quelle variazioni idiomatiche„ che sono innumerevoli, e tutte opportunamente usabili, anche quelle di cui non c’è esempio negli scrittori; so tutto questo.... e scrivo come scrivo!

R: – Ma me lo dici una volta di che, di chi, per che ragione hai paura!

L. (scoppiando). – Ho paura dell’ignoranza del maggior numero, ho paura della pedanteria degli asini, ho paura di Giuseppe Prudhomme! Ecco di che ho paura.

R. – Di Giuseppe Prudhomme? Ah, capisco finalmente!

L. – Sì. Tu conosci il Prudhomme, quel personaggio maraviglioso in cui Enrico Monnier ha rappresentato la scioccheria, l’ignoranza saccente, la meschinità e la pecoraggine intellettuale, inconsapevole e presuntuosa di una grande famiglia d’esseri, non soltanto della sua Francia, ma d’ogni paese del mondo. Ebbene, io, nello scrivere, ho paura del Prudhomme italiano, e della signora Prudhomme, e dei suoi figliuoli e delle sue figliuole, e di tutti i suoi congiunti ed amici, e di tutti coloro che poco o molto rassomigliano a lui. Quando sto per mettere sul foglio uno di quei tanti modi che abbiamo visti, e degli altri moltissimi, che ho notati, mi si leva davanti tutta quella gente, li vedo col mio libro o col mio articolo fra le mani, e li sento esclamare: – Oh che ciuco! Ma che italiano è [305] questo? Ma costui non sa la grammatica! – perchè tutte quelle licenze e arditezze che per te e per me sono bellezza e forza della lingua, per il Prudhomme e per i suoi simili sono offese alla grammatica, alla logica, al senso comune; poichè Prudhomme, liberale in politica, è in letteratura un tiranno superbo e stupido, che sputa sull’idiotismo, e calpesta ogni libertà di parola. È il suo fantasma che mi fa geometrizzare la lingua: io faccio l’asino per paura degli asini. Sono di coloro, di cui dice il Carducci che, per scrivere, si mettono i guanti, per parer gentiluomini ai borghesucci. Se non che egli parla di chi ha le mani grosse e nocchiute, piene di porri, di verruche e di schianze, che i guanti non bastano a mascherare. Ed io no: io avrei una mano ben fatta, leggera, una mano da signore; e sono i guanti che me la sformano: i grossi guanti grammaticali, tutti sgonfi e grinze e frinzelli. E dire che m’inguanto per il Prudhomme! Che abbominio!

R. – Eh via, tu esageri. Il Prudhomme è una testa piccola; ma non un cretino addirittura. Mi pare che tu lo calunni per iscusarti.

L. – E tu lo difendi per farmi coraggio, capisco. Ma fors’anche non lo conosci quanto me. Io non lo conosco soltanto per i giudizi suoi che mondo ripete; ma anche per esperimento diretto che feci di lui in varie occasioni. Ecco qua un foglio col quale lo misi alla prova. Son tutti periodi, frasi di scrittori magistrali, che sottoposi al suo giudizio, dandoglieli per roba di sconosciuti; di quei costrutti, frequentissimi negli scrittori classici, dei quali noi ammiriamo la naturalezza e l’efficacia. – E tutte quelle cose delle quali non è ragione naturale perchè così debba [306] essere o intervenire, non si debbono osservare credere. – Ma che pasticcio è questo? – domandò il Prudhomrne. – Costui non deve aver fatto le elementari! – Questo Castruccio, guerreggiando, e dando assai che fare ai Francesi, fra le altre nobili cose che fece fu questa. – Oh che bella sintassi! – esclamò il Prudhomme.– Rilegga un po’, tanto per ridere. – Perchè il Prudhomme, lo devi sapere, va in estasi davanti alle inversioni latine più forzate e contorte, che gli paiono eleganze aristocratiche; ma a quelle naturali e necessarie alla lingua viva, che sono, come dice un filologo, una parte di stile diventato lingua, arriccia il naso come a volgarità di scrittori incolti. E senti quest’altre, che sono anche più amene. – Io so che la cagione che tanta moltitudine è qui, è solo per udire quello che più volte v’ho detto. – A questa il Prudhomme fece una risata. – Non c’è materia da farne proverbio, i quali generalmente si fondano sulla ragione e sull’esperienza. Proverbio, i quali disse –; e chi è questo pazzo? – Era scritto che egli portato su dai tumulti di Livorno, un tumulto di Livornesi dovesse farlo precipitare. Commento: – Che egli.... lo dovesse.... Una grammatica da serve. – I dodici capitani del Cairo è come se tu dicessi i dodici capitani di guerra. I dodici capitani è.... E chi è quest’asino? – È Daniello Bartoli, – risposi.

R.Codesta è incredibile.

L. – Ma vera. Te ne cito ancor una, che sarà l’ultima. Lessi a un Prudhomme questa frase del Carducci: – Leggendo sì fatte cose, chi conosce discretamente la letteratura nazionale, la prima cosa che pensi è.... – Ma questa – mi disse[307] è una costruzione da scolaretto di terza elementare. – Capisci: secondo lui, il periodo doveva esser rovesciato!

R. (ridendo). – Andiamo, te lo confesso ora: avevi ragione: non ho difeso il Prudhomme che per farti coraggio.

L. – A un vigliaccone par mio? Ma è fatica sprecata, caro amico. E lascia ch’io finisca la mia confessione perchè voglio che tu mi disprezzi nella misura che mi spetta. Tu non puoi immaginare fino a che segno io arrivi. Nel racconto che t’ho letto, nel primo dialogo, avevo scritto: – Ma bada, me, tu m’hai a risparmiare. – Vedi qua: ho cancellato il me. – Avevo scritto: – Era un luogo destinato ad ammazzarvisi le bestie. – Ho sostituito: – Dov’era destinato che s’ammazzassero le bestie. – Un orrore. Qui, dov’era scritto: – Quel ragazzaccio non gli si può dir nulla che si rivolta come un aspide, ho corretto: – A quel ragazzaccio non si può dir nulla.... – Sì, ridi pure. Dove avevo detto: – Mi diede che m’accompagnasse per la città il suo segretario – ... come abbia corretto non oso dirtelo. E nota che per ciascuno di quei modi ho i miei bravi esempi classici. Ah, faccio stomaco a me stesso! A questa miseria son ridotto!

R.Amico, sei gravemente malato, lo riconosco. Ma i malati della tua malattia, consòlati, sono molti più che non credi fra gli scrittori. La conclusione è questa: che hai bisogno d’una cura rigorosa.

L. – Eh, tu puoi celiare, tu che sei intrepido. Leggendo le cose tue, non sai come t’invidio!

R. – E dunque segui la mia via, che è assai [308] più comodo che continuar per la tua. Io ero come te, un tempo. E guarii senza cura. Fu una parola di Gino Capponi il mio toccasana. Ci sono certi motti di scrittori che operano di questi miracoli. Egli dice in una lettera: – Io, quando piglio la penna in mano, ho sempre la voglia di farmi bastonare. – Fu un lampo per me. Dopo d’allora, ogni volta che pigliai la penna, saltò addosso a me pure quella voglia, ma doppia: di buscarne e di darne ad un tempo. L’immagine del Prudhomme italiano, critico di lingua, che a te fa tanto spavento, a me mette il diavolo in corpo. Io ci ho un gusto matto a provocarlo con la penna, a irritarlo, a farlo strillare, e mentre me lo immagino fuor della grazia di Dio, rido di lui, e batto più forte. Dar delle urtonate al buon gusto del Prudhomme, schiaffeggiare la sua pedanteria, sfondare a pugni e a calci la sua grammatica tarlata, è per me una sodisfazione indicibile. Pròvatici, e vedrai che piacere ci troverai tu pure. Eccoti la cura della tua malattia: la lotta. Rimbòccati le maniche, e picchia.

L. (guardandolo). – Ti ammiro. Io, invece, rassomiglio a quel pittore che passava delle giornate davanti al suo quadro, esclamando: – Ah, se osassi! Se osassi! – Ma a che serve? Come dice don Abbondio, il coraggio uno non se lo può dare. E sì che per darmelo ho tentato ogni mezzo; perfino.... (dopo un momento d’esitazione) quello di bere del cognac prima di mettermi a scrivere.

R. – E allora osavi?

L. – Sì, ma (vergognandosi) la mattina dopo.... cancellavo.

[309]

R. – Ma oggi tu devi farla finita. Tu devi giurar qui, in mia presenza, stendendo la mano sul tuo scartafaccio, guerra implacabile al Prudhomme!

L. (scrollando il capo). – Sarebbe un giuramento di marinaro. (A un tratto, tendendo il pugno). Ah, come l’odio!

R. – Chi odia teme. Fin che lo temerai, non lo affronterai. Fa’ il giuramento.

L. – Ebbene, andiamo: giuro.

R.Guerra a morte?

L. (con viso truce, ma con accento fiacco). – A morte.

R. (tra , guardandolo di sott’occhio). – Non si batterà. Non c’è altro. Requiescat in pace.

 

[310]


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