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L’ALTO LÀ DELLA GRAMMATICA.
Le ho da parlare.
Non mi guardi bieco. Non le ho gridato che per celia l’alto là soldatesco. Non sono più la dura tiranna che molti credono; non considero più come offese mortali ogni rifiuto di cieco ossequio, ogni minima licenza o confidenza che si prenda la gente con me. Essendomi persuasa che, come tutte le cose di questo mondo, son destinata anch’io a mutare col tempo, mi vengo piegando man mano a transigere coi diritti dell’uso, con la ragione dell’armonia, con molte piccole convenienze dell’arte che una volta disconoscevo. Ma non vorrei che per queste ragioni ella si credesse lecito di buttarmi tra i ferravecchi, che sarebbe anche un gran male per lei, com’è per tutti quelli che gliene dànno l’esempio; e però voglio che c’intendiamo bene, che ella sappia da me quanto posso concedere, e quanto credo d’avere ancora il diritto di vietare. Dirà lei che questo è il linguaggio d’una tiranna?
E veda, a provarle quanto sono arrendevole dovrebbe bastare quel lei; col quale entro in [311] materia. Io volevo una volta che nel caso retto s’usasse sempre egli, e ora lascio dire lui e lei in tutti i casi in cui il significato della frase s’appoggia sul pronome, che deve perciò far rilievo. Quindi: – È lui che l’ha detto. – Lo saprà lui, io non lo so. – S’impanca a filosofo, lui! – sta bene. Ma che bisogno c’è di dire: – Me lo dice lui stesso? – Andai senza che lui lo sapesse? – Mi valsi delle ragioni che lui addusse? – Questo non è più uso giustificato; ma profusione dell’idiotismo, inutile e ristucchevole. E così eglino ed elleno son pronomi diventati arcaici, ridicoli nel parlar famigliare e un po’ pedanteschi anche nella prosa letteraria; ma non vi si può sostituire essi ed esse, che sono pur sempre dell’uso comune, invece di quello sfacciato loro, che molti vogliono in ogni caso, forse non per altro che per vilipendermi? E perchè bandire questi, quegli e altri al nominativo singolare, per sostituirvi questo, quello e un altro, sempre, anche quando non sono richiesti dal carattere famigliare del discorso? E perchè usare a tutto pasto lei invece di ella, quando ella è ancora vivo e comunissimo nell’uso dei Toscani, i quali dicono l’uno o l’altro secondo che vuole l’orecchio o il diverso grado di famigliarità che hanno con la persona a cui si rivolgono? E consento che si dica e scriva gli in luogo di loro e a loro, quando il loro dà impaccio, come nell’esempio: – Vuoi dare del vino ai ragazzi? Non voglio dargliene –, perchè: – non voglio darne loro o loro darne – sarebbe troppo duro all’orecchio; ma non che si dia lo sfratto a loro come a una parola intollerabile per sè, e che si scriva, ad esempio: – Fermò i suoi compagni [312] e gli disse –, dove il gli è una sgrammaticatura gratuita, più sgradevole a due doppi del loro. E non mi si dica che, ragionevolmente, dovrei essere inflessibile, e aver per massima: – O sempre o mai –, perchè, ammettendo questo, io mi dovrei disfare e rifare per metà: non dovrei permettere di dir come me e come te; nè glielo dissi riferito a femmina; nè consentire che s’usi il verbo nel plurale con un nome collettivo singolare, come nell’esempio: – La gente vanno –; nè tollerare che si riferisca un verbo in singolare ad un soggetto plurale, preceduto o no da un di partitivo, come nelle frasi: – Non c’è cristi. – C’è dei birboni. – Malati non ce n’era. – Può nascer di gran cose –; licenze che io consento, come altre moltissime, perchè per una parte io sono costituita da leggi generali della ragione immutabili, e per un’altra parte non sono che il codice degl’idiotismi della lingua; onde ne vengo accettando sempre di nuovi, benchè adagio adagio. Per continuare: chiudo gli occhi sul lo proaggettivo (per esempio: “non fosti generoso, ma lo saresti stato„) quando sonerebbe troppo ingrato il tale, che i miei devotissimi usano, o sarebbe uggiosa la ripetizione dell’aggettivo, o il non dir quello nè ripeter questo lascerebbe nella frase un vuoto anche più sgradevole. Lascio passare, quando cadono opportuni, tutti quei costrutti viziosi, come: – A me non me ne vien nulla; a chi sa mostrare i denti gli si porta rispetto, ecc., – che sono frequentissimi, e per ragion di suono quasi inevitabili nel linguaggio parlato. Permetto il volgare cosa per che cosa, e il costrutto toscano noi si fa, noi si dice, e il gli e il la soggetti pleonastici ogni [313] volta che servano a riprodurre fedelmente un discorso famigliare o di gente del popolo. Gabello, infine, tutti gli anacoluti più arditi in tutti i casi in cui per mezzo loro si scansa di dar alla frase una rigida forma grammaticale che nuocerebbe alla chiarezza, alla naturalezza, all’efficacia, e quando, come disse un maestro, s’usa l’anacoluto per non mettere altrimenti in contraddizione un pensiero ingenuo, immediato o semiserio con una maniera d’esprimerlo riflessa, compassata o seria. Ma (e qui siamo al nodo) se do il dito, non voglio che mi si pigli la mano, e poi il braccio, e poi tutta la persona. Voglio che non s’usino se non gl’idiotismi necessari o utili; che tra due locuzioni di eguale naturalezza ed evidenza, una sgrammaticata e una corretta, si scelga sempre quella corretta; che non si consideri, come molti fanno, ogni idiotismo come una gemma per la sola ragione che è un idiotismo; che non si creda ogni licenza ugualmente lecita così nella riproduzione d’un dialogo famigliare come in un discorso letterario, così nel far parlare un uomo del contado come quando parla lo scrittore in persona propria; che all’antica tirannia della Grammatica, non si sostituisca il dispotismo della Sgrammaticatura, e all’ostentazione dell’eleganza la sfacciataggine della volgarità; che non si calpesti ogni legge del galateo linguistico, cascando nel linguaggio mercatino per non cascare nel linguaggio accademico; che, infine, perchè s’è buttata via la parrucca e la cipria, non si creda un dovere il mettersi anche in maniche di camicia e l’andare attorno con la faccia sporca.
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