Edmondo De Amicis: Raccolta di opere
Edmondo De Amicis
L'idioma gentile

PARTE SECONDA.

QUELLO CHE SI PUÒ IMPARARE DAI TOSCANI.

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QUELLO CHE SI PUÒ IMPARARE DAI TOSCANI.

Se t’accadrà, fin che sei giovane, di fare, un soggiorno breve o lungo in Toscana, sarà per te una buona fortuna, perchè, volendo, imparerai in un mese dalla voce della gente più che in un anno altrove dallo studio dei libri. Se questa fortuna non avrai, t’occorrerà senza dubbio, nella tua o in altre città d’Italia, di conoscere e di frequentare toscani. Ebbene, ti raccomando fin d’ora d’ascoltarli sempre con gli orecchi bene aperti, e di studiare attentamente il loro linguaggio, in special modo se saranno fiorentini. Non soltanto molto materiale di lingua potrai imparare da loro, essendo gran parte dell’uso fiorentino presente, come tutti sanno, l’uso fiorentino antico, che diventò lingua letteraria comune a tutta Italia; ma, quello che più importa, la proprietà, la spontaneità, la prontezza dell’espressione, che son quello che manca a noi principalmente. Perchè corre fra noi e loro questa gran differenza, come osservò giustamente un linguista illustre: che a noi, parlando, per dire una data cosa, vengono quasi [315] sempre sulla bocca due modi: il dialettale e uno o più modi italiani, fra i quali dobbiamo scegliere; e a loro viene un modo solo, quello che dice per l’appunto quella data cosa, quello che è il più proprio, e che tutti i loro concittadini usano in quello stesso caso; donde la facilità, la sicurezza, la precisione del loro parlare, dove il nostro è quasi sempre opera di stento e d’artifizio. Possono qualche volta anche i toscani stentare e riuscire artifiziosi, quando hanno da esprimere un pensiero nuovo o insolito o complesso, perchè in tal caso cercano essi pure, se non la parola, la frase, e il modo di collegare le frasi; ma nel dire le infinite cose comuni, che sono argomento quotidiano di discorso, tutti sono sempre pronti, spontanei e semplici; non tentennano perchè non hanno dubbî; non sbagliano perchè non possono sbagliare. Fa’ bene attenzione. Vedrai quanti modi piani e agili hanno d’esprimere pensieri che noi esprimiamo di solito in forma ricercata e pesante; in quanti casi fanno un salto con la frase dove noi facciamo più passi; in quant’altri scansano con una mossa snella e garbata l’intoppo che noi urtiamo, o arrivano con la parola un tratto di dal punto dove noi crediamo che la sua potenza si arresti. E anche nel parlare di quelli che non hanno cultura nessuna, osserverai certi modi di legar le proposizioni, certe forme armoniche di sintassi, certe abbreviature di frase efficacissime, che negli scrittori ti parrebbero effetti di arte meditati, e sono pregi naturali del loro linguaggio. E sentirai da loro a ogni tratto una parola inaspettata, che è come un tocco di pennello dato all’idea, che tu non sapresti dare con [316] altra parola; espressioni ingegnose, graziose e comiche, eleganze e arguzie felici, che non sono proprie di chi parla, ma di tutta la sua gente, e tanto più efficaci per questo, che gli vengon via come da , e l’una incalza l’altra, e nessuna ti fa pensare che sarebbe più calzante un’altra al pensiero. E bada bene a loro anche quando parli tu, ed essi t’ascoltano: uno schiarimento che ti chiederanno, un’ombra leggiera di stupore o di dubbio, che passerà sul loro viso, o un sorriso leggerissimo, o una ripetizione emendata, che faranno quasi senza volerlo, dell’espressione d’un tuo pensiero, t’avvertiranno che t’è sfuggita una parola impropria, e perciò non chiara, invece della propria, un’espressione letteraria in luogo della famigliare, una frase affettata in cambio di quella semplice, ch’essi avrebbero usata in quel caso. Che sono mai i pochi idiotismi che ai toscani si rinfacciano per rincalzar la stramba affermazione che essi parlino un dialetto come gli altri, di fronte alla ricchezza, alla finezza, alla grazia, alla mirabile armonia pittrice del loro linguaggio? E che stupido orgoglio è quello che non vuol riconoscere in loro una superiorità, della quale ci avvantaggiamo tutti, poichè tutti attingiamo alla loro lingua quando non ci basta la fonte degli scrittori e dei dizionari, e che cocciutaggine il non voler riconoscere che si parli meglio l’italiano in quella regione, che fu la culla della lingua, ed è la sola in cui la lingua si parli da tutti? Ma tu non sarai di questi, certamente. Se andrai in Toscana, tu t’immergerai, nuoterai con piacere infinito in quell’onda di lingua viva e pura, alla cui armonia ti parrà che consuoni [317] quella che spira nelle linee dei monumenti di arte maravigliosi, che ti sorgeranno d’intorno; e ti parranno dolci anche quegl’idiotismi di pronunzia, che prima deridevi, quando penserai che sonarono pure sulle labbra degli scrittori e degli artisti immortali che il mondo venera; e con l’amore della lingua e con l’ammirazione dell’arte nascerà nel tuo cuore un sentimento di gratitudine affettuosa e profonda per quel popolo, primo custode del tesoro della nostra parola, dotato d’ogni facoltà più gentile e del più squisito senso della bellezza; di quel popolo al quale dobbiamo tanta parte della nostra gloria, che, a immaginarlo assente dalla storia italiana, non ci appare più la immagine della patria che con la corona smezzata sulla fronte.

 

[318]

IL DOTTOR RAGANELLA.

Era stato un pezzo in Toscana il dottor Raganella; ma dai toscani non aveva imparato nulla, perchè non li aveva mai lasciati parlare.

La parola, soleva egli dire, è il più bel dono di Dio. Noi dicevamo che il dono a lui era toccato un po’ troppo abbondante. Ma per fortuna non era che dottore in legge, non esercitava l’avvocatura, non rintronava la testa che agli amici.

Si vantava d’avere una grande facilità di parola. Ed era vero: aveva una facilità spaventevole. E sarebbe riuscito eloquente se fosse stato persuaso della verità detta dal Bonghi: che gli uomini dotati di parola facile si debbono assoggettare più degli altri a una disciplina rigorosa per non cadere nella prolissità, con la quale non c’è eloquenza stile.

Non erano discorsi i suoi: erano cascate, frane, diluvi di parole. Non intaccava, non si posava mai, e parlava sempre più in fretta via via che il suo discorso s’allungava. Disse un poeta francese ad un giovane: Se tu riuscirai a parlare dieci ore di seguito senza sputare, sarai [319] padrone della Francia –: egli avrebbe dovuto esser padrone dell’Italia. Dopo averlo inteso discorrere per un quarto d’ora, restava a tutti una romba nell’orecchio come quando ci passa accanto a grande velocità un treno di strada ferrata. Egli aveva l’illusione, comune a tutti i parlatori troppo facili, che la rapidità vertiginosa del discorso impedisca la noia in chi ascolta; quando segue invece l’opposto, perchè in quella furia essi non hanno tempo modo di dar rilievo e colore a nessun concetto o parte di concetto, e riescono però necessariamente uniformi. E accadeva pure a lui, come a tutti gli altri suoi simili, che avendo coscienza di quella mancanza di rilievo e di colore, cercava di supplirvi ripetendo più volte l’espressione d’ogni pensiero, a modo di quel giornalista verboso d’uno scherzo comico del Ferrari, che incomincia un discorso col verso

So, conosco, m’è noto e non ignoro,

e va innanzi così fino alla fine. E pure la soverchia facilità di parola lo portava a non far grazia, raccontando un fatto qualsiasi, di nessuno anche minimo e più futile particolare, di modo che se aveva da dire, per esempio, ch’era stato a visitare un amico, diceva per quali strade era passato e che cosa gli era frullato pel capo camminando, e poi: – “Salgo le scale, suono il campanello, m’aprono, domando: – È in casa? – È in casa, – vado avanti, entro nel salotto....„ e via su quest’andare. E come di ragione, non lasciandogli tempo di riflettere la troppa foga, parlava scorretto, come tutte le raganelle umane. Il suo eloquio era un torrente impetuoso che [320] travolgeva improprietà, sgrammaticature, riempitivi, cacofonie, contraddizioni e vesciche. Non di meno, la prima volta che l’udivano, alcuni l’ammiravano. – Che ammirabile facondia! – dicevano. Ma facondia non era la parola che facesse al caso. Si poteva dire di lui quello che uno scrittore disse d’un suo critico, il quale scriveva come il dottor Raganella parlava: – La buona educazione mi vieta di definire con la parola propria le fughe del suo stile.

Ciò non ostante egli ci divertiva, qualche volta; in special modo quando faceva uno sfogo di collera contro qualche suo nemico, quando si metteva a gridare, per esempio: – Gridi pure, strepiti, strilli, minacci, tempesti; non mi lascerò smovere: sono deciso, risoluto questa volta, irremovibile, inflessibile nel proposito di far quel passo, e vi accerto, v’affermo, vi giuro sul mio onore.... – Fèrmati! – gli dicevamo –, e bevi un sorso.... – o gli cantavamo l’aria del Matrimonio Segreto:

Prenda fiato, prenda fiato,

Seguitare poi potrà.

E come parlava nel calore della passione, così nello scherzo. Gli venivano spesso dei motti arguti; ma ne sciupava sempre l’effetto ripetendoli, parafrasandoli, commentandoli, fin che ce li faceva tornare a gola, come bocconi indigesti. E quale nel parlare era nello scrivere. Tirava via con la rapidità che usano gli attori quando fingono di scrivere sulla scena: letteroni d’otto pagine, in cui le proposizioni si succedevano senza legame grammaticale, e le ripetizioni cadevano l’una sull’altra come le fette di salame [321] accanto al coltello, e ad ogni pagina la lettera ricominciava.

Ma del più bel dono di Dio non abusava soltanto per esprimere il pensiero proprio; anche per parlare per conto nostro, come fanno tutti i parlatori irrefrenabili, che non vogliono star a sentire i discorsi degli altri. Egli rompeva in bocca all’amico il ragionamento o il racconto, e lo finiva per lui: – Ho capito: tu gli hai risposto così e così, lui ha replicato in codesto modo, tu hai perso la pazienza, e l’hai piantato, non è vero? E hai fatto bene, e io feci lo stesso in un caso simile che m’occorse appunto.... – E non serviva dirgli: – Fa’ il comodo tuo; quando avrai finito tu, ricomincerò io –; sorrideva e tirava innanzi, e non ci lasciava ricominciare.

Quando andava al teatro o faceva una gita fuor di città, o quando sapevamo che gli era seguìta qualche avventura, lo aspettavamo con vero sgomento nella saletta appartata del caffè dove ci veniva a trovare ogni sera; perchè non c’era cristi, egli ci voleva riferire le sue impressioni, e filava dei discorsi di mezz’ora così rapidi e fitti, che a noi non riusciva neppure di farci entrare di straforo un’osservazione. E s’aveva un bel tentare di scoraggiarlo non badandogli: egli pensava che la nostra disattenzione fosse simulata per un tantino d’invidia che ci pungesse del dono di Dio, e questo pensiero lo stimolava anche più. Oppure, vedendoci disattenti noi, rivolgeva il discorso agli altri pochi avventori che venivano nella stessa sala, anche se sconosciuti, e s’infervorava a cicalare anche più del solito, scambiando con ammirazione lo [322] stupore che quelli mostravano in viso, un poco somigliante all’intontimento che il rumore monotono d’una ruota di mulino.

Una sera, fra l’altre, prese di mira un grosso medico barbuto che stava sorbendo il caffè dalla parte opposta della saletta, e di discorso in discorso gli venne a parlare d’un suo incomodo, del quale gli raccontò la storia minuta con una fiumana di parole; e finì con domandargli: – Che rimedio mi consiglia lei?

Quegli lo guardò fisso, e poi, fra il silenzio di tutti, con un viso grave e un vocione di basso, gli rispose spiccicando le sillabe: – Lei ha bisogno d’un astringente.

Tutti risero in coro, e fu quella la prima volta che il dottor Raganella mostrò un’ombra di vergogna d’aver troppo parlato.

Il matrimonio ci liberò dalla tirannia della sua loquela. Ma ci separammo da buoni amici, quando partì per il viaggio di nozze. Nel fargli i nostri augùri, peraltro, compiangemmo tutti in cuor nostro la sua povera moglie: come avrebbe potuto resistere per tutta la vita al flagello di quella facondia? Pochi giorni dopo, uno di noi ricevette dalla Svizzera una sua lunga lettera, nella quale egli diceva, fra l’altro, che la sua sposa era stata così commossa dallo spettacolo della cascata del Reno a Sciaffusa, che l’aveva fatto rimaner un’ora con lei ad ammirarlo. Lo stesso pensiero balenò a tutti: l’aveva fatto rimaner perchè il fragore della cascata copriva la sua voce, e in quel tempo essa s’era un po’ riposata.... Lo stesso amico ricevette poi un’altra lettera, con la quale egli annunziava il suo ritorno, e che la sera dopo sarebbe venuto a trovarci al caffè. [323] Tremammo all’idea della descrizione del viaggio ch’egli ci avrebbe inflitta: chi ci poteva reggere? Sarebbe stata una grandinata di parole dalle otto a mezzanotte. La sera fatale, un amico, che l’aveva visto avvicinarsi per la strada, ce lo preannunziò, affacciandosi all’uscio: – Si salvi chi può! – Tutti se la diedero a gambe. Trovando la saletta vuota, egli sospettò la fuga, se n’ebbe per male, e non ritornò più. Ne fummo dolenti; ma non c’era rimedio. Pochi mesi dopo, per ragione d’interessi domestici, andò a stare a Bologna, e per anni non se n’ebbe più notizia. Poi si seppe che sua moglie gli aveva fatto causa per separazione legale. Il vero perchè non ci fu detto. Ma per noi non ci fu dubbio. Egli doveva aver reso alla povera donna la vita intollerabile. La causa della separazione era certissimamente il più bel dono di Dio.

 

[324]


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