Edmondo De Amicis: Raccolta di opere
Edmondo De Amicis
L'idioma gentile

PARTE SECONDA.

A TRAVERSO I SECOLI.

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A TRAVERSO I SECOLI.

 

I Trecentisti.

 

A questo punto bisogna che ci fermiamo un poco a discorrere dei principali scrittori che s’hanno da leggere per imparare la lingua.

Prima di tutti....

Qui vedo sorridere i miei lettori, che in questo momento suppongo siano tre, un giovinetto, una signorina e un cittadino originale, a cui è saltato il ticchio, fra i trenta e i quarant’anni, di mettersi a studiare la lingua del suo paese: li vedo sorridere con certa malizia, e mi par di sentirli dire tutti e tre insieme: – Già, ci aspettavamo il consiglio prammatico –, e poi in cadenza di canto: – i Tre-cen-ti-sti!

Eh, Dio buono, non è una novità, lo so bene. E so anche, giovinetto mio, quello che tu e gli altri due lettori mi vorreste rispondere: che a leggere quei nostri antichi scrittori vi provaste, ma che vi riuscirono ostici, non tanto per la materia quanto per la forma; voglio dir per la lingua e per lo stile troppo diversi da quelli delle scritture moderne; per cagion di che vi [325] sentiste, leggendoli, come spaesati, sconcertati nelle consuetudini del vostro pensiero e del vostro gusto, e quasi in compagnia di gente con cui non fosse possibile, per la differenza dell’indole, pigliar famigliarità; e fra la quale e voi s’interponesse un velo di nebbia, che v’impedisse di vederli bene in viso, e quindi di mettervi in comunicazione immediata con l’animo loro.

Ma io vorrei principalmente persuader te, giovinetto, che, vincendo quel primo senso ostico, e persistendo nella lettura di quegli scrittori, finiresti col prendervi amore, con tuo vantaggio grandissimo, per quelle medesime ragioni per le quali ti pare ora che quella lettura non t’abbia mai ad attirare. Pròvatici un’altra volta, te ne prego, e persisti, tenendo sempre presente che quelle parole e frasi, nelle quali consiste la maggior differenza fra quegli scrittori e i moderni, erano allora in Toscana, e in specie a Firenze, d’uso comune, e quindi naturalissime a coloro che scrivevano; i quali, eccetto pochissimi, non facevano distinzione fra lingua parlata e lingua scritta; di che deriva appunto la ricchezza, la schiettezza, l’efficacia delle loro scritture. Dopo che avrai preso con essi qualche famigliarità, non sentirai più la novità di quei modi, che ora ti paiono affettazioni e stranezze; parranno anche a te naturali come parevano agli scrittori a cui venivano spontanei; e allora, non più arrestato da quegl’intoppi, ti lascerai andare all’onda di quella prosa viva, fresca, giovanile, sentirai, come dice il nostro primo poeta vivente, quello che c’è di più vivido e più frizzante, più zampillante e più mosso nell’elocuzione di quei prosatori che in quella dei moderni che tu [326] preferisci; nei quali l’arte è più raffinata, ma tanto meno ricca e meno schietta la vena. Ti parrà di sentirli parlare di viva voce in quei loro periodi, simili appunto al linguaggio parlato, d’una orditura così semplice e debole, con poca o nessuna legatura rettorica di pensieri, e affollati di determinazioni accessorie; i quali alle volte piglian la fuga, alle volte s’arrestano a un tratto, e fanno mille brusche svoltate, come seguendo tutti i balzi del pensiero nascente e riproducendo il disordine del discorso vivo; ammirerai, come dice il Capponi, quella naturalezza delle armonie, in cui non sono mai cercate combinazioni di suoni, e “hanno più rilievo quelle parole che avevano avuto prima nella voce più vivo l’accento„; ti delizierai in quella loro proprietà di vocaboli, non studiata, perchè essi eran propri per necessità, in quelle loro locuzioni “della nitidezza che si vede nelle monete novellamente coniate„, in quella fresca verginità d’una lingua, che cominciava appena a diventar letteraria, e in cui si sente come la fragranza della sbocciatura. E sempre più, continuando a leggere, t’innamorerai di quello che così giustamente si chiama candore di tali scrittori, di quell’aria amabile d’ingenuità che alla loro prosa la frequenza della congiunzione semplice, come l’usano i bambini e la gente del popolo, e la profusione dei superlativi, in cui si manifesta la fanciullesca vivacità dell’ammirazione, e quel martellamento, che fanno così spesso, sopra un’idea semplicissima, come per farla entrare in capo a un lettore ignorante; ciò che pure è proprio della gente ingenua. Vedrai che singolari effetti d’arte escono dalla schietta ispirazione [327] non corretta dall’arte, dal calore del sentimento libero, dalle negligenze, dalle rozzezze medesime, dagli stessi difetti non mascherati d’alcun artifizio, ma lasciati scoperti come nudità innocenti. Come si respira in quelle pagine! Ecco gente che parla davvero alla buona e alla libera, che ci dice quello che ha da dire senza l’interprete letterario! Ci par quasi un miracolo. E quanta naturalezza nel modo di raccontare, quanta vivezza in quei dialoghi a botte e risposte, e quanta evidenza in quello stesso disordine affannoso con cui ci rappresentano le scene animate, e che graziosa semplicità negli esordi e nelle considerazioni sugli uomini e sugli avvenimenti! Ti diletterai pure a osservare quante cose si potevano dir bene allora senza una quantità di parole e di frasi che a noi, per dir quelle cose stesse, paiono ora di necessità assoluta; ti maraviglierai di trovare interi periodi che si potrebbero riscrivere al presente, dopo sei secoli, senza mutarvi un vocabolo; ti divertirai a notare qua e i francesismi curiosissimi, le parole che mutarono significato, e quelle cadute in disuso, che ora farebbero sorridere, le diversità singolarissime, fra quel tempo e il nostro, del senso e del linguaggio comico, del frasario cerimonioso, delle forme del ragionamento, dell’espressione della gioia e dell’amore. E arrivato a un certo punto, vivrai con l’immaginazione in quel tempo, ti parrà d’aggirarti fra quella gente e di respirare l’aria che essi respiravano. Avendo cominciato a leggere per imparar la lingua, sarai preso a poco a poco dalla sostanza, attratto dalla curiosità di quel modo di sentire e di pensare, dalla descrizione delle costumanze, degli usi [328] pubblici, della vita domestica, dell’arte della guerra e dei viaggi, da tutte le manifestazioni dello spirito di quel popologiovane, forte, adoprante, pieno d’immaginazione, più inventore che ora non sia„, e compreso d’una fede religiosa semplice e ardente. E ammirerai di più quegli scrittori se proverai qualche volta a staccarti all’improvviso da loro per leggere uno qualsiasi dei prosatori del tuo tempo. Come ti parranno compassati, troppo ligi alla fredda ragione, pieni d’artifici e di civetterie e ricercati nell’orditura e nell’armonia dello stile anche quelli che per questi rispetti peccano meno! E più avvertirai il vantaggio di quelle letture quando, avendone ancor piena la mente, ti metterai a scrivere, chè ti sentirai tanto più sciolto, più libero, meglio inclinato a esprimere i tuoi pensieri semplicemente, fresco e leggiero dello spirito come si sente del corpo chi esce dall’acque d’un fiume. E ti do un consiglio: di leggere prima i più semplici, dai quali quando passerai a Dante, rimarrai maravigliato, come d’un prodigio, del passo gigantesco che fa con lui la prosa italiana, senza perdere la sua freschezza giovanile, pure prendendo a norma la sintassi latina; maravigliato profondamente della elaborazione sapiente che egli vi porta insieme coi “soavi numeri„ e i “sottili legamenti„ della poesia, dell’arte magistrale con cui egli disegna l’idea, plasma l’immagine, illumina tutti i particolari dei fatti in quell’architettura mirabilmente varia dei periodi, in quella prosaora solenne ora gentile, profonda e limpida„ che è il primo vero e grande esempio di prosa artistica nella nostra letteratura. E studia con amore anche l’altro grande [329] maestro. Vinci la noia che ti daranno da prima i lunghi periodi, nei quali, per accarezzare l’orecchio, sovrabbonda di parole, e per raggruppare intorno a un concetto principale troppi concetti accessori, addossa incisi ad incisi, e per imitare la prosa latina intreccia e traspone forzatamente frasi e vocaboli. Vinci quella prima noia, e dello sforzo sarai compensato ad usura. Dov’egli esprime un sentimento vivo o tratta un argomento che s’accorda con le sue facoltà naturali, i suoi difetti spariscono o s’attenuano; dove ai suoi personaggi fa parlare il linguaggio della passione, ha tratti d’eloquenza calda, logica e impetuosa che t’avvolge e ti trascina; nella pittura della realtà comica, nella descrizione delle scene e dei personaggi lepidi, nel dialogo, nella satira, egli si serve con ardimento e con arte impareggiabile di tutti i più efficaci costrutti del parlar fiorentino, dell’idiotismo, del proverbio, di tutto quanto v’è di più vivo nella lingua viva, come se in lui fossero raccolti e saltassero fuori l’un dopo l’altro dieci scrittori. Ti parrà uniforme da principio: poi vi troverai mille forme, mille armonie, mille colori. E non possiamo imitarlo, non forzare il nostro pensiero moderno alle sue forme, a cui non si piegherebbe che snaturandosi, dipingere e scolpire con l’arte sua, ripeter la sua musica; ma egli resta pur sempre un architetto sovrano, un pittore insigne, uno scultore stupendo, un artefice di suoni maraviglioso, uno scrittore unico, che fece nella prosa italiana il lavoro d’una generazione, che ogni volta che ci riprende, ci domina, e al quale è bene ritornare ogni tanto, perchè se n’esce sempre con un raggio nella mente e dell’oro nelle mani.

 

[330]

Dal Boccaccio a Leonardo.

 

Vuoi ora qualche consiglio, non da maestro, ma da vecchio amico, per proseguire dopo il Trecento? Fatto che avrai il gusto al Boccaccio, non ti svoglierà dalla lettura l’imitazione che troverai di lui in una serie di scrittori del secolo seguente; i quali, sotto l’influsso del culto risorgente dell’antichità, seguirono l’esempio del grande novelliere, dislogando le ossa, come dice il Leopardi, e le giunture della nostra lingua, per imporle violentemente le forme latine. Leggerai Leon Battista Alberti che della gravezza della sintassi boccaccesca ti compenserà con molte pagine di stile elegante e agile, sparse di parole vive e frasi schiette del suo volgare nativo. Leggerai con piacere la lettera di Lorenzo il Magnifico a Federico d’Aragona, che si può dire la prima esposizione critica della nostra più antica letteratura poetica, oltre che un esempio di bella prosa, foggiata alla latina, d’una eloquenza nobile e calda. Per formarti un concetto della prosa classicheggiante di quel secolo, qual è nel più alto grado del suo svolgimento, leggerai, con un po’ di pazienza, l’Arcadia del Sannazzaro. Altri scrittori leggerai, che con più o meno garbo innestarono la latinità nel volgare, temperando la gravità dello stile forzato con quella parte della lingua viva, che irresistibilmente veniva loro dalla bocca alla penna. E farai una cosa: alternerai con la lettura di questi, che prolungata ti stancherebbe, quella degli scrittori semplici e spontanei, che anche nel Quattrocento fiorirono. Leggi le lettere di Alessandra Macinghi, [331] dove, col candore dei Trecentisti, troverai la ricchezza e la vivacità del parlar fiorentino del tempo suo, e come in uno specchio limpidissimo riflessa la vita d’una famiglia di quel secolo, e in questa un’anima schietta, buona, amorosa, di cui ti resterà l’immagine impressa nel cuore. Leggi le prediche di Fra Bernardino da Siena, tutte fiorite di bei modi dell’antico parlar senese, tutte apologhi, novellette, arguzie, quadretti pieni di freschezza e di vita. Leggi, come esempio di spontaneità e di forza, belle nonostante le ruvidezze dello stile, efficacissime nelle forme piane e spezzate del parlare popolaresco, le prediche del Savonarola, piene di lampi e di tuoni, qualche volta grandi e terribili. Leggi sopra tutto il Trattato della Pittura di Leonardo da Vinci, per vedere a che grado d’efficacia possa pervenire nello scrivere un homo senza lettere quando tratta una materia in cui è maestro, a qual segno di gagliardia, di densità, di concisione, di limpidezza possa arrivar nella prosa, pur senza lettere, chi ha osservazioni profonde e grandi pensieri da esprimere, che quadri stupendi di colorito e d’evidenza riesca a dipinger con la penna chi ha delle cose la visione fisica netta, luminosa, immensa ch’egli aveva.

 

Da Leonardo al Machiavelli.

 

La stessa norma, d’alternar le letture di scrittori d’indole opposta o diversa, ti consiglio di seguire per gli scrittori del secolo decimosesto, il più ricco di grandi maestri, il più vario nelle opere, il più ammirabile per ricchezza di lingua e perfezione di forma, di tutta la letteratura [332] italiana. Nel Bembo, primo legislatore della lingua volgare, che giovò più di tutti in Italia alla formazione d’un idioma letterario comune, e in molti dei suoi imitatori, che tutta l’arte dello scrivere ridussero nella scelta e nella collocazione delle parole, ti spiaceranno la mancanza di spontaneità, l’asservimento del pensiero alla frase, l’imitazione pedissequa del Boccaccio, e più che altro quel pavoneggiarsi perpetuo, come se a ogni periodo dicessero ai lettori: – Vedete come scrivo bene! – Ma leggili con attenzione, non fosse che per la lingua purissima, chè ne ricaverai un grande vantaggio. Quanti felici costrutti e garbati giri di sintassi vi troverai, che fine arte nel concatenare i periodi e nel rendere ogni sfumatura del pensiero, che ricchezza di modi e che belle e flessuose forme di eleganza e di cortesia signorile! E non soltanto lo stile dignitoso e semplice ti attirerà nel Cortegiano del Castiglione; ma la rara potenza dell’osservar dal vero e sul vivo, e la forte pittura di caratteri storici, e la rappresentazione evidente della vita delle Corti italiane del Cinquecento, e la magistrale arte dialogica. E nel Galateo del Della Casa, oltre la grazia, la fiorentinità schietta, il sapore trecentistico, la ricchezza delle espressioni proprie e calzanti, ammirerai le osservazioni argute e finissime sull’animo umano, sui costumi e sulla vita; e nel Gelli la forma semplice, tersa, spontanea, ricca del più bel volgare fiorentino e in molti tratti quasi moderna, con la quale egli rende intelligibile e gradevole a ogni lettore anche la materia ardua della filosofia; e nel Firenzuola l’amenità, la leggiadria, la lingua candidissima, snella, vivace, tutta grazie e [333] bei modi del parlar famigliare. Che salti maravigliosi farai da un prosatore all’altro! E come sentirai meglio l’originalità e i pregi di ciascuno raffrontandolo col precedente! Dopo la prosa rapida, nervosa, scolpita del traduttore stringatissimo del più stringato degli storici, dal quale imparerai a serrare nel più breve cerchio possibile di parole l’espressione del tuo pensiero, ti parrà più mirabilmente fluida e musicale l’eloquenza dei dialoghi e delle lettere del Tasso. Dopo esserti dilettato nell’arte squisita delle Lettere del Caro, di stile disinvolto e brillante, ma correttissimo, e piene di gaio lepore, leggerai con doppio piacere il più eloquente e più incantevole sgrammaticatore di tutte letterature, quel libro unico, riboccante di vita, di forza, di baldanza, d’ingegno, viva immagine d’un uomo e d’un secolo straordinario, quella specie d’Orlando Furioso in prosa, quell’indiavolato e sfolgorante capolavoro, che è la Vita di Benvenuto Cellini. Quando t’avranno un po’ stancato le descrizioni e le orazioni sfoggiate della storia del Giambullariartista finissimo della parola e della sintassi„ ma impettito e freddo nella sua “dignità impeccabile„, leggerai e rileggerai con sempre più calda ammirazione l’Apologia di Lorenzino dei Medici, una folata d’eloquenza italianissima, lucidissima, ardente di passione, bella e spaventevole come un torrente in piena, che travolge ogni cosa. E senti: studia il Guicciardini. Non ti sgomentare di quello stile involuto e austero, talvolta un po’ rude, sovente oscuro, che sulle prime al lettore un senso d’oppressione, e gli confonde la mente. Continua a leggere. Tu riconoscerai a poco a poco che quel [334] modo di scrivere non è tanto sforzo e artifizio quanto effetto naturale della maniera di sentire e di pensare propria dell’autore, del procedimento con cui si svolgono e s’intrecciano le idee nel suo intelletto profondo e complesso, “uno dei più chiaroveggenti che siano stati al mondo.„ E dai periodi lunghi e farragginosi, di cui si stenta a cogliere il senso, distinguerai quelli lunghi del pari, ma architettati con maestria mirabile, periodi da gran signore della lingua e dello stile, in cui dagli accessori emerge l’idea principale, dominante, come una torre sopra un villaggio. E da questi imparerai a legare con ordine e con armonia in un periodo solo, intorno a un solo concetto, una famiglia di concetti minori; e dai magistrali ritratti dei personaggi e dalle considerazioni acute e profonde sugli avvenimenti, a studiare l’animo umano e i casi della vita; e di quella lettura ti rimarrà nella mente un suono grave e solenne, che risentirai come un’eco ispiratrice ogni volta che, scrivendo, cercherai una forma degna a un ordine di alti pensieri.

Ma sopra tutti ammirerai e studierai il Machiavelli, che “segna il punto d’arrivo della sincera prosa antica e il punto di partenza della moderna„, prosatore che dal latinismo e dall’uso volgare trae insieme una forza che nessun altro raggiunse, il più schietto, il più sicuro, il più sintetico, il più logico scrittore del tempo suo, il più sdegnoso disprezzatore della rettorica, il più strettamente legato alla realtà delle cose, il più potentemente drammatico, il più superbamente eloquente; grande nell’arte che va innanzi al suo secolo, grande [335] nell’ardimento e nella carità di patria che gli fiammeggia nell’anima, grande nel pensiero folgorante, che illumina il presente e legge nell’avvenire.

 

Da Galileo all’Alfieri.

 

Un altro grande maestro. Di dove arriva il Machiavelli, il più moderno dei prosatori antichi, muove Galileo, che infondendo nella prosa il soffio di quella nuova filosofia, la quale “fa più ricche, più chiare e più dritte le teste„, le sulla via della libertà e della verità l’impulso poderoso, per cui ella procede fino al tempo nostro. La sodezza e la concisione che viene dalla densità del pensiero e dalla profondità della dottrina, la lucidità pura che deriva dalla chiarezza perfetta e dallo stretto e sottile concatenamento delle idee, l’eleganza, la dignità, la sprezzatura signorile che è effetto del pieno possesso e del sentimento profondo della lingua letteraria e della famigliare, tutto questo è in quella nobile prosa che scorre come un largo fiume pacato e limpido, e in cui si sente la forza d’un intelletto sovrano e d’un’anima grande. Rimani un pezzo alla scuola di Galileo, e ritornavi ogni tanto per imparare, non soltanto a scrivere, ma a meditare e a ragionare; senza di che si mena la penna, ma non si scrive. Poi leggerai i suoi discepoli e continuatori, e ti piacerà nel Redi la grazia prettamente paesana, nel Magalotti la scioltezza tutta moderna, nel Boccalini la vivacità e la gagliardìa. In altra forma ti persuaderà eloquentemente dell’obbligo di ben parlare la propria lingua il Dati, nella cui prosa ritroverai il miglior Cinquecento; e nel Sarpi ammirerai la [336] sobrietà vigorosa e lucida, retta da una coscienza fortissima e da un alto intento civile. Ti parrà di ritornare indietro col Bartoli, adoratore della forma, studioso di vezzi e di grazie, servitore, non dominatore della lingua; ma di lingua vi troverai una miniera enorme, e v’imparerai l’arte difficile di “condurre come in ordinanza stretta i pensieri e trarre dalla destrissima collocazione delle parole chiarezza lucidissima e nobile e grato temperamento di suoni„. E artificio rettorico troverai pure nelle prediche del Segneri, concitate talvolta per proposito più che per passione; ma anche spontaneità nell’esuberanza, e puro eloquio e varietà d’armonie nella stretta argomentazione e negl’impeti non rari d’eloquenza vera; e calda, viva, irruente eloquenza nelle Filippiche del Tassoni, frementi d’ira contro la dominazione straniera e tutte palpitanti di generose speranze italiane. C’è bisogno di raccomandarti Gaspare Gozzi, maestro di eleganza e di grazia, pieno di buon gusto e di buon senso, e osservatore arguto e finissimo, che in pieno Settecento oppone all’invadente gusto straniero la sua bella prosa castigata, ancora atteggiata della dignità antica? Occorre accennarti la prosa agile, spigliata, scintillante, con la quale Giuseppe Baretti allarga i confini della critica e tratta a ferro e a fuoco le frivolezze e le pastorellerie dell’Arcadia? Ma a lui non t’arresterai per studiare gli effetti prodotti nella prosa italiana dal nuovo mescolarsi della cultura nazionale con la cultura europea contemporanea. Leggerai del Cesarotti, benchè francesizzante, le pagine dove si prefigge di liberar la lingua dal dispotismo dell’autorità e dai capricci della moda [337] e dell’uso per sommetterla al governo legittimo della ragione e del gusto; e non trascurerai il Bettinelli, se vorrai un esempio singolare di prosa battagliera, ribelle alle tradizioni pedantesche, inforestierata, ma viva; l’Algarotti, che nello stile foggiato alla francese ha l’arte di render piane con facilità e vivezza quasi di conversazione le verità più difficili della scienza; Alessandro Verri, non puro di lingua di stile, ma uno dei primi nostri scrittori riusciti efficacissimi nella mozione degli affetti. E arriverai così a Vittorio Alfieri, che con la sua Vita eresse il primo monumento di prosa veramente moderna: e s’intende di quella prosa personale, non calcata su alcun esemplare da tutti imitabile, la quale prende forma e colore dall’indole dell’autore, ed è opera d’arte, ma d’un’arte sua propria, uscita dall’intimo dell’animo suo, e che non si può confondere con quella di nessun altro, come l’espressione del viso e il suono della voce.

 

Dal Foscolo al Carducci.

 

E ora una schiera di maestri, mirabilmente vari, nei quali, come nell’Alfieri, parla il nuovo spirito destato dalla rivoluzione e la coscienza nazionale risuscitata dalla dominazione francese; e primo fra questi Ugo Foscolo con quell’Epistolario impareggiabile, in cui egli trasfuse e svelò tutta l’anima sua con un calore, con una sincerità, con una franchezza e vigoria di stile che ti soggiogheranno. Ma non trascurerai però la prosa fluida, chiarissima, sonoramente faconda del suo rivale poetico, Vincenzo Monti, battagliante col diavolo in corpo contro la Crusca [338] e i propri critici. ti spiacerà il ritorno all’imitazione dell’antico in quegli scrittori che tentarono per tal via di salvare le nostre lettere dalla corruzione straniera; chè anzi essi ti gioveranno per questo. Declamazione, ridondanza d’ornamenti, affettazione anticheggiante; ma anche vigor maschio di stile, pagine scultorie e magniloquenti troverai nel Botta. Ammirerai il gusto squisito e “la strettissima fabbrica dei periodi„ nel Giordani, benchè per il soverchio studio appunto di legare strettamente le idee e di serbar la lingua purissima, egli abbia qualche cosa di rattenuto, come dice il Capponi, e “non scorra nella sua prosa libera e franca l’onda della parola„. E benchè la parola idoleggi, e sia schiavo del suo principio di restringere la lingua al Trecento, ti gioverà il Padre Cesari, prosator gioielliere, tutto eleganze classiche, che fu al tempo suo contro il forestierume linguistico un “antidoto potente„ non inutile affatto ai giorni nostri. E lascerai dire chi vuole: leggerai il Colletta, non impeccabile nella lingua e non sempre chiarissimo, ma fiero e gagliardo in quella sua prosa da uomo di guerra, che porta lo stampo profondo dell’animo suo. E non leggerai soltanto, studierai con amore i due prosatori ammirabili che sono nel Leopardi: quello libero, vivo, tutto moderno dei Pensieri inediti, dove s’abbandona all’ispirazione subitanea, quasi parlando più che scrivendo, e quello meno agile, meno colorito, ma di disegno più puro e più fermo, delle Operette morali: prosa originalissima, mista di modernità e di classicismo, magistralmente ordita, d’una “serenità marmorea„, d’un’armonia sommessa e delicatissima, e d’una [339] chiarezza “a traverso la quale si vedono i pensieri come per un’acqua limpida le rene e i sassolini del fondo„. Quello che il Leopardi non fece, di rinfrescare la lingua alla sorgente dell’uso vivo, troverai nel Tommaseo, che alla propria prosadiede moto e vita e copia ritraendo giudiziosamente dall’uso fiorentino„, poeta e scienziato della parola, qualche volta troppo forzatamente conciso, ma ricco, robusto, proprio, e pittore e scultore e cesellatore, che dice mirabilmente e in modo tutto suo ogni cosa più difficile a dire. C’è bisogno di rammentarti Giuseppe Giusti? Non è a imitarsi la soverchia ripetizione dei modi prediletti, l’abuso delle forme vernacole, l’affettazione della sprezzatura, in cui cade troppo spesso nell’Epistolario; ma quanta ricchezza di modi famigliari e popolari, che pieghevolezza, che amabile baldanza, che briosa disinvoltura di stile! Non t’avrei neppure da rammentare il Guerrazzi, non scevro di vecchia rettorica, d’enfasi romantica, e spesso forzato nello stile; ma ricchissimo di lingua pura, di frasi scultorie e d’immagini ardite, potente nell’espressione dell’ira e del sarcasmo e negl’impeti d’eloquenza patriottica, scrittore originale e grande nelle sue pagine migliori, venate d’oro e scintillanti di gemme, irte di rilievi di bronzo e di punte d’acciaio. Leggi dopo questa, per amor del contrasto, la prosa nobilmente famigliare di Gino Capponi, bella d’una proporzione, d’una discrezione, d’una compostezza patrizia, nella quale, come dice il Carducci, l’anima del lettore si riposa e si contenta come l’occhio dello spettatore nelle linee degli edifizi fiorentini. E non soltanto per dovere di cittadino, ma per interesse di studioso, [340] leggerai la prosa del Mazzini, “lievemente colorita di classicismo„, misurata, ma viva, armoniosa, ma senza ridondanza, ora profeticamente solenne, ora squillante come una musica guerriera, e sempre chiara come cristallo. E per prender coraggio da un esempio insigne del come anche un italiano nato ai piedi delle Alpi possa con lo studio riuscire uno scrittore facondo, nobile e ricco, leggi Vincenzo Gioberti: un maestro, benchè vesta troppo ampiamente il pensiero e “faccia sciupìo di metafore e di splendori„. Col quale terminerei, non essendo necessario l’accennare i viventi, se d’uno di questi non si potesse in nessun modo tacere, perchè è incominciato per lui il giudizio della posterità. Voglio dire Giosue Carducci, prosatore potentissimo, che dice tutto quello che vuole e come vuole, solennemente e famigliarmente, con un’arte che sgomenta chi studia l’arte; nel quale la conoscenza profonda della lingua letteraria e il possesso perfetto dell’uso vivo, non abusati mai ad alcun proposito, si fondono e si contemperano in un linguaggio di forza straordinaria e d’armonia svariatissima, egualmente bello e potente nella descrizione e nella polemica, nel discorso dottrinale e nel volo lirico, nell’orazione politica e nella fantasia scherzosa, sempre segnato d’un’impronta in cui lo riconosci e lo ammiri.

– Ma, e Alessandro Manzoni? – domanderai a questo punto.

L’ho lasciato ultimo per finire con lui, e volevo finir con lui perchè è lo scrittore che devo raccomandarti con maggior insistenza di studiare, parendomi la prosa dei Promessi Sposi la più vicina a quello che è per tutti oramai [341] il tipo ideale della prosa moderna: moderna e perfettamente italiana. È semplice, in fatti, conforme al linguaggio parlato, e pare spontanea; ma non cade mai nella volgarità, e neppure nell’affettazione della naturalezza. È chiara, limpida come l’aria, ma non per effetto d’una semplicità elementare: ha la chiarezza che deriva dalla precisione e dall’ordine dei pensieri, e dall’arte finissima di ridurre ogni idea, per quanto profonda e complessa, a un’espressione semplice, che la fa parere un portato del senso comune. È sempre stretta al pensiero, ma senza impacciarlo mai; logica, ma senza mostrar lo sforzo delle connessioni e dei legamenti; omogenea, ma pieghevole a tutti gli atteggiamenti del pensiero e alla natura propria d’ogni oggetto o argomento; originale, ma non ribelle alla tradizione, e scevra a un tempo d’ogni imitazione o reminiscenza di stili altrui. È ricca di lingua, e dove il soggetto lo vuole, elegante, ma senza che la forma si faccia mai sentire per stessa, senza che alcuna parola o frase distolga mai l’attenzione dal pensiero; ed è variamente colorita, ma senza vistosità, e con una fusione perfetta di tinte; ed è mirabilmente armoniosa, ma senza ricerca evidente del numero, d’un’armonia riposta e delicatissima, che par non venga dalle parole, ma dal pensiero, e nasce infatti dall’equilibrio perfetto delle idee, e suona nella mente quasi senza che l’orecchio la senta. Leggila e studiala con attenzione e con amore. Studiala confrontando le due Edizioni del Romanzo, quella del primo testo, del 1825, e quella corretta, del 1840, e ne intenderai meglio la ragione, l’arte e la bellezza al vedere come del primo testo l’autore [342] ha appianato le scabrosità, addolcito le durezze, sostituito al latinismo o al modo vernacolo la locuzione italiana, all’arcaismo la parola viva, alla pedanteria grammaticale l’anacoluto efficace; per che via, con che norma lucida e costante egli ha rifatto in parte e avvicinato l’opera sua alla forma ideale che gli splendeva nella mente. Studiala, e t’affinerai il criterio e il gusto, e prenderai in avversione per sempre il manierato e il falso, il troppo e il vano, la trivialità e la stranezza, l’orpello e la ciancia. Studiala, e imparerai a fare e a correggere, a condensare e a semplificare, a esser chiaro e sincero, dignitoso e discreto, logico e giusto. Studia il Manzoni e amalo per tutta la vita.

Ma non lo adorare; ti sia maestro, non idolo.

 

Conclusione.

 

Voglio dire: non te lo prefiggere modello unico di prosatore, per avere il pretesto, comodo alla pigrizia, di non leggerne altri, come molti fanno; ai quali il maestro unico raffina il gusto, ma lo circoscrive; poichè il Manzoni mostrò ciò che può la lingua nostra, ma non in tutti i campi, in ogni forma della letteratura, non avendo trattato ogni argomento, tutto detto in tutti i modi possibili neppure nel campo suo. E non lo imitare, per la ragione principalissima, ch’egli non ha imitato nessuno. Ma la semplicitàdomanderai – la naturalezza, tutte le qualità mirabili che riconosciamo nella sua prosa, perchè non s’hanno da imitare? – E io ti rispondo che quelle qualità non te le darà l’imitazione, con la quale troppo facilmente la semplicità degenera [343] in sciatteria, la grazia in sguaiataggine e in superficialità la chiarezza. Quelle qualità devono essere in te, come furono nel Manzoni, il frutto maturo d’infiniti studi e letture, e disse stupendamente il più sensato dei manzoniani: che è illusione il credere di potergliele rubare, leggendo lui soltanto, senza rifare in qualche modo il cammino ch’egli fece. Leggi dunque, e studia tutti gli scrittori. Leggi e confronta fra di loro quelli che si rassomigliano e quelli che più si dissomigliano, arrestandoti in special modo a considerare gli effetti simili ottenuti con mezzi diversi. In ciascuno troverai certi ordini di pensieri e di sentimenti ch’essi esprimono con maggior efficacia d’ogni altro; troverai nei più artificiosi espressioni e forme semplici; nei meno eleganti forme elegantissime; nei meno ricchi di lingua locuzioni e costrutti preziosi, da altri non usati, frasi e parole, dalle quali essi soli traggono certi effetti vivi, per il punto e il modo con cui le adoperano, come se quelle forme acquistassero dalla loro penna, incastonate nei loro periodi, un valore particolare. Cerca in tutti, quando sei arrestato da una frase o da una parola che suona falso, o da un’oscurità, o da una slegatura che ti il senso d’un vuoto, o da un giro di parole che ti un principio di noia, cerca in qual maniera si potrebbe correggere l’errore, chiarire l’oscurità, annodare i pensieri sconnessi, recidere la frase oziosa. Arrèstati in special modo ogni volta che trovi espressi con facilità e proprietà certi sentimenti e pensieri, dei quali a te suol riuscire difficile l’espressione, o perchè corrispondono a lati deboli delle tue facoltà, o perchè sono remoti dalla tua indole, o perchè si [344] riferiscono a cose sulle quali non hai mai fermato a lungo l’attenzione. E ritorna sulle pagine belle: non ti contentare di quella prima commozione viva e piacevole ch’esse ti destano, nella quale, come dice il Leopardi, la mente tumultua e si confonde; ma esamina, com’egli faceva, e rivolgi in mente quelle bellezze fin che esse vi piglino un posto, dove rimangano. Locuzioni, armonie, inflessioni di stile, particolarità sintattiche degli scrittori più diversi si mescoleranno nella tua memoria, si combineranno coi tuoi pensieri, e ti verranno fuori in certi momenti, senza che tu ne riconosca l’origine, come dall’intimo del tuo spirito, come nate nel tuo capo, e tutte tue; chè saranno tue veramente. Ti verranno, nello scrivere, reminiscenze inconsapevoli di tutte le scuole, di tutti i generi e di tutti i secoli della letteratura, soccorsi inaspettati, echi lontani e vicini e soffi animatori e baleni; scriverai con la cooperazione misteriosa di tutti i grandi scrittori; e ti parrà nondimeno di non ricever nulla da nessuno, perchè quello che n’avrai tolto sarà diventato tua eredità legittima, ti sarà penetrato “nei più profondi strati del pensabile„, sarà diventato sostanza del tuo cervello e del tuo sangue, il tuo ingegno, la tua italianità, la parola spontanea e necessaria del tuo sentimento e del tuo pensiero.

 

[345]

UN PARLATORE IDEALE.

È uno dei più cari ricordi della mia gioventù questo toscano illustre, al quale, per riuscire un grande scrittore, non mancò l’ingegno, la dottrina, il sentimento, l’arte; ma solamente la voglia di scrivere. Già dissi di lui in altri libri; ma l’impressione ch’egli mi lasciò di nell’animo e nella mente è così profonda, e ancor così viva, che, riparlandone, non ho coscienza di ripetere cose già dette; e se ripeto le cose, mi vien sempre fatto di dirle in modo diverso, poichè mi pare di non averle mai dette prima con bastante efficacia.

È il più ammirabile maestro di lingua parlata ch’io abbia inteso mai, quello che mi mostrò meglio d’ogni altro più eletto parlatore ciò che può la lingua italiana nel campo della conversazione agile e varia, irto di tante difficoltà per la maggior parte degl’italiani anche colti.

Si sentiva ch’era toscano; ma non negl’idiotismi di pronunzia che ai toscani si rimproverano, chè non n’aveva nessuno, non aspirando neppur leggermente la c: si sentiva nella pronunzia [346] perfetta che, fuor di Toscana, nessun italiano o pochissimi possedono, anche di coloro che hanno reputazione meritata di parlar perfettamente. Ma la pronunzia era il pregio minore del suo parlare. Il pregio massimo era d’esprimere ogni pensiero, anche più difficile, intorno a qualunque argomento, o più ovvio o più astruso, con una facilità e con un garbo impareggiabile, senza uscir mai dal tono della conversazione famigliare; di dire ogni cosa con proprietà, con finezza e con eleganza, senza che apparisse mai nel suo discorso neppure un’ombra di ricercatezza e d’ostentazione letteraria. Parlava con facilità, ma non in furia, e se qualche volta s’arrestava un momento a cercare una parola o una frase, nessuno dei suoi ascoltatori s’impazientiva; non solo, ma l’aspettazione era piacevole, perchè sapevan tutti che l’espressione aspettata veniva poi quasi sempre più felice, più calzante al pensiero di quella che alla mente loro s’affacciava. E v’erano nel suo linguaggio gradazioni finissime secondo ch’egli parlava con persone con le quali non avesse dimestichezza, o con amici stretti, o in un crocchio dove non fossero signore, o con signore. Non c’era caso che con queste gli sfuggisse mai uno di quei tanti modi volgari, comunemente usati, dello stampo di tirar su le calze o romper le tasche o mandare a far friggere, che molti credono leciti in ogni compagnia perchè li hanno letti nei libri: egli non aveva neppur da fare un atto di riflessione per iscansarli: il suo senso squisito della dignità e della grazia li escludeva. E così, quando gli occorreva di spiegare ad uno qualche cosa che questi non comprendesse alla prima, o quando faceva una [347] citazione, o ribatteva un’opinione altrui, erano ammirabili le sfumature, le industrie gentili della frase e dell’accento, ch’egli usava, non lasciandole quasi avvertire, perchè non ci fosse nel suo linguaggio nessun’apparenza d’insegnamento, colore di saccenteria, asprezza di contraddizione. Ne seguiva mai ch’egli mostrasse, come fanno molti bei parlatori, di star a sentire stesso, o di cercar negli occhi degli uditori l’ammirazione della propria eloquenza: non si vedeva mai sul suo viso, non si sentiva mai nel suo accento altra espressione da quella del pensiero o del sentimento ch’egli esponeva. Alla semplicità signorile e amabile del linguaggio corrispondeva perfettamente il suo modo di gestire: vivo, ma sobrio, e sempre spontaneo, e pieno d’efficacia, sia che facesse l’atto di disegnar nell’aria un’immagine, o d’incidere col cesello una frase, o di modellare una forma nella creta, o di scacciare con la mano un velo di nebbia che ondeggiasse fra il suo pensiero e la sua parola. Maravigliosa era poi la varietà del suo vocabolario, ricchissimo, secondo gli argomenti della conversazione, di locuzioni letterarie e di modi popolari, senza che nessun modo insolito usato da lui paresse mai strano o nuovo affatto a chi l’udiva per la prima volta, tanto egli l’usava a proposito, e in maniera che da tutto il discorso n’era chiarito il senso e l’opportunità dimostrata. Persino quei vocaboli stranieri, che s’usano di necessità per designar nuove cose, ma che suonano sgradevolmente all’orecchio non ancora assuefatto a sentirli, riuscivano meno esotici, pigliavan quasi suono e apparenza italiani in quel suo linguaggio di sostanza e di forma tutta [348] italiana, come se questo comunicasse loro un poco del suo colorito e della sua armonia. Con che agilità di parola raccontava, con che evidenza di disegno e securità di tocco descriveva, con che vivezza faceva scattare e scintillare l’arguzia, e con che stretta concatenazione d’argomenti e lucida semplicità di dizione ragionava, smorzando il tono, allentando la stretta della dialettica, raffinando la cortesia dell’espressione man mano che sentiva vacillare l’avversario, non più ostinato a resistere che per salvare l’orgoglio! Si diceva ogni momento, ascoltandolo: – Senti, come si può dire semplicemente la tal cosa che io dico sempre con una frase solenne! – Oppure: – Guarda, e io sostenni sempre che la tal frase francese non si poteva tradurre in buon italiano! – A sentirlo, desideravo sempre che fosse qualche dotto straniero, di quelli che intendono l’italiano e lo gustano, perchè ammirasse in quel parlare un saggio della ricchezza e della potenza della nostra lingua, e mi rallegravo in fondo all’anima, e sentivo alterezza d’esser nato nel paese dove una tal lingua si parla. E osservavo che quasi tutti, discorrendo con lui, parlavano meglio del solito, e non per uno sforzo che facessero, per emulazione; ma naturalmente, come per un’eco armoniosa ch’egli destasse in loro; ciò che pure osservai nelle famiglie, dove parlan tutti più o men bene, se c’è uno che parla benissimo. La sua conversazione era un diletto, un pascolo intellettuale, una scuola di lingua e di gentilezza. E per effetto dei vari pregi ch’egli riuniva, dell’espressione propria e colorita, della pronunzia bella, dell’accento e del gesto [349] efficacissimo, tanta parte dei suoi discorsi m’è rimasta impressa nella memoria, che ad ogni tratto, parlando e scrivendo, nell’atto stesso che certe espressioni m’escono dalla bocca o dalla penna, mi ricordo d’averle imparate da lui; e molte volte, dopo che ho scritto una frase o una parola che mi pare affettata, o volgare, o disadatta, domando a me stesso s’egli l’avrebbe usata, e se, immaginando d’udirla dire da lui, mi par che stoni col suo discorso, la cancello; e quasi sempre, nel rileggere con intento critico qualche cosa mia che non mi contenti, per forzarmi ad esser severo con me medesimo in ciò che riguarda il buon gusto, mi figuro che ci sia lui, ad ascoltare. E così nei buoni effetti del suo insegnamento mi risorge dinanzi sovente l’immagine del maestro insigne e caro, che da venticinque anni non vedo più, e a cui m’è dolce esprimere ancora una volta la reverenza antica e la gratitudine fatta più viva dal tempo.

 

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