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LO STILETTATORE.
Vien qui a proposito un nuovo personaggio piacevole.
Non bazzicò che breve tempo il nostro piccolo cenacolo letterario di capi armonici, quando Firenze era capitale; ma vi lasciò di sè una memoria vivissima,
che, come vedi, ancor non m’abbandona;
(o dolce Francesca, perdonami!) In che modo si fosse imbrancato con noi non ricordo bene: mi pare al caffè, dove attaccò conversazione di punto in bianco, da un tavolino all’altro, una sera che discutevamo di letteratura, vociando tutti a un tempo, com’era nostro costume. Era Emiliano, agente di varie Case di commercio, benchè ancora molto giovane, e dilettante di lettere a ore avanzate. Aveva scelto per passatempo la letteratura, non so perchè, invece del biliardo o del tiro al piccione: forse perchè meno costosa; ma a poco a poco ci aveva preso passione; e l’idea madre della sua passione era, com’egli diceva corrugando la fronte, di farsi uno stile. Questa [358] frase, nella quale si riduceva, credo, quanto egli conservava degli studi ginnasiali non finiti, gli s’era ficcata nel capo come una vite; farsi uno stile era diventato per lui il pensiero precipuo della vita, dopo quello di guadagnarsi il pane. Ma qualunque altra cosa avesse disegnato di farsi, anche un palazzo di marmo di Carrara, credo che gli sarebbe riuscita più facilmente di quella, da tanto ch’era falso e strambo il modo ch’egli teneva per conseguirla.
Al pari di molt’altri, egli considerava lo scrivere come un’industria a parte, che non avesse che fare col pensiero, o quasi; come un’arte meccanica in cui si riuscisse maestri con l’esercizio, indipendentemente dal fatto di avere o no qualche cosa da dire; e credeva quindi che uno si potesse fare uno stile, come un sarto fa un abito, per esporlo nella vetrina della sua bottega. E neanche studiava a modo suo (chè sarebbe stato inutile) di farsi uno stile suo proprio. Egli andava cercando nella gran sartoria della letteratura italiana un abito bell’e fatto; pigliava ora questo ora quello, se lo insaccava, e veniva a farcelo vedere, pavoneggiandosi. Un certo talentaccio d’imitazione l’aveva. Letto per una settimana un autore, ne cavava un certo numero di frasi e di costrutti, gl’imbastiva insieme alla diavola sopra un argomento qualsiasi, e correva al caffè a leggerci la paginetta come un saggio dello stile che s’era fatto. Gli saltavamo agli occhi, dandogli del contraffattore, del falso pavone, dell’arlecchino finto Principe. E allora egli ricorreva a un altro autore, e tornava dopo un po’ con un’altra paginetta, tessuta con la filaccia spicciata dai panni di quello. Una volta rifaceva [359] il Giusti, un’altra il Boccaccio, una settimana guerrazzeggiava, la settimana appresso impiccava i fantocci del suo pensiero al laccio del Davanzati. E non si scoraggiava mai per le nostre canzonature. – Eppure –, esclamava, picchiando il pugno sul tavolino – io mi farò uno stile!
Parve una volta persuaso, finalmente, della falsità della via che batteva: che uno stile non si sarebbe fatto mai scimiottando ora l’uno ora l’altro scrittore. Avete ragione – ci disse – non bisogna imitare pecorescamente nessuno. – E ci manifestò la sua nuova idea, un’idea luminosa, una trovata da uomo di genio, espressa con una formula farmaceutica: – Bisogna mescolare e agitare. – E mescolò e agitò davvero. La sera che ci portò il suo nuovo saggio, si fece un baccano di casa del diavolo. Era la brutta copia d’un lungo articolo di giornale, in cui aveva fatto il più bizzarro intruglio di stili che si possa immaginare; dove quasi ad ogni periodo saltava dall’imitazione d’uno scrittore a quella d’un altro, facendo anche salti di secoli, con una temerità di matto furioso; un cibreo stilistico, nel quale si sentivano i più disparati sapori della cucina letteraria nazionale, dalle semplici minestre patriarcali dei trecentisti ai lambiccati manicaretti dolciastri dei cianciatorelli fiorentineggianti e francesizzanti della scuola manzoniana degenerata. Il chiasso che facemmo lo sconcertò al primo momento; riconobbe sbagliata la ricetta; ma si rifece animo ben presto, e ripetè fieramente che in ogni modo, o per una via o per un’altra, a furia di cercare e d’ostinarsi, si sarebbe fatto uno stile. E [360] appunto per questo suo continuo farci balenare agli occhi, quasi in atto di minaccia, il suo stile futuro, gli mettemmo il soprannome di stilettatore.
Il ridere che si fece alle sue spalle, povero stilettatore! Quando l'incontravamo per la strada, dopo qualche giorno che non s’era visto, gli domandavamo lì su due piedi: – Te lo sei fatto?
– Non ancora proprio –, rispondeva; – ma sono sulla buona strada.
– Ma è tempo che tu ti spicci!
– Si fa presto a dire –, ribatteva sul serio. – Ma non ci si fa mica uno stile in ventiquattr’ore! – lasciando capire con quelle parole, che forse in fin di settimana avrebbe avuto il fatto suo.
Non gli davamo requie. Aveva ragione di dirci che gli stilettatori eravamo noi. Quando al caffè si chinava a cercare un soldo che gli era cascato, gli domandavamo: – Che cosa cerchi? Uno stile? – Quando mescolava nel bicchiere vari liquori per farsi una certa bibita di sua invenzione, dicevamo: – Ecco Pippo (era il suo nome di battesimo) che si fa uno stile! – E gli davamo ogni specie di ricette scritte per farselo. – Recipe: tanti grammi di questo, tanti di quest’altro: pestare, sbattere, far cuocere a bagnomaria –, e la parte del corpo dove aveva da applicare l’impiastro. Ma egli non badava alle nostre burle, e seguitava a braccar lo stile. – Uno stile – ci disse gravemente una sera (e doveva essere una frase imparata di fresco) – che sia nello stesso tempo moderno e ritragga dai grandi esemplari.
Curiosa, fra l’altro, era l’impressione che gli [361] facevano tutte le locuzioni e le definizioni insolite ch’egli leggesse, concernenti la tecnica (era una sua parola prediletta) dello stile. Non le capiva bene, e non poteva; ma le raccoglieva con cura amorosa, e le veniva ripetendo con cert’aria di solennità e di mistero, come formule d’arte magica. L’elaborazione formale del periodo, il tipo periodico, il nodo sintattico, i legami gerundivi e ipotetici, gli spunti melodici dello stile lo facevano pensare, non so ben che cosa, nulla forse, ma profondamente. Ricordo che gli fece un gran senso una frase bella davvero che aveva letta in un libro, dove era detto di certe curve del periodo prosastico di Dante, non mai girate per intero, rompentisi come a formare un sesto acuto. Ah! s’egli avesse potuto fare dei periodi col sesto acuto! Anche uno solo! Credo che avrebbe dato per questo tutti i suoi guadagni commerciali d’un mese.
Ma per tutto il tempo che rimase a Firenze, lo stile non lo trovò.
Per i suoi affari di commercio dovè andare a stabilirsi a Milano. Ma per lungo tempo noi continuammo a parlare spesso di lui. Non occorreva di nominarlo. Quando, in un ristagno della conversazione, saltava su uno a dire: – Se lo sarà già fatto? – tutti capivano ch’egli domandava se lo stilettatore si fosse fatto finalmente uno stile.
Lo incontrai molti anni dopo a Milano, mentre attraversava la Galleria con aria affaccendata.
Mi salutò con viva cordialità: aveva dimenticato o perdonato le canzonature fiorentine. Dopo lo scambio solito di rallegramenti e di notizie, pensando che la fisima dello stile gli fosse uscita [362] di capo da un pezzo, gli domandai, per celia, se se l’era fatto.
Ma da questo genere di monomanìe letterarie non si guarisce. Mi rispose seriamente: – Eh, no, non ancora. Che cosa vuoi? Ho avuto tanto da lavorare in tutti questi anni! Ma ci penso sempre. Ho un tipo stilistico nella mente. Oh, ci riuscirò, ci dovessi impiegare tutta la vita. Ora son persuaso che a trovar lo stile ideale basta appena la vita d’un uomo.
– Ma che ne farai del tuo stile ideale nei tuoi ultimi anni? – gli domandai; – poichè può ben darsi che tu non lo trovi che agli ultimi, e anche proprio all’estremo passo. A che serve lo stile in punto di morte?
Mi diede una risposta sublime: – Io ho un ideale puro, senz’ambizioni. Sarei contento anche di portar la mia trovata con me al camposanto. Ma lascerò qualche pagina, vedrai. Basterà una pagina!
E queste furono le ultime parole che intesi dalla sua bocca, e che spesso mi risuonano in mente. Ma di lui non rido più. Ogni volta che ci penso, ora, mi prende un sentimento d’ammirazione, misto di tenerezza pietosa, raffigurandomi quel povero sognatore che ancora abbracciato alla sua illusione letteraria, sul letto di morte, dice con un ultimo sorriso alla sua famiglia sconsolata: – Fatevi coraggio! Io muoio contento. Ho uno stile.
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