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Dunque, regole, precetti, niente? Adagio Biagio. Ma questo non dovrebb’essere affar mio, che essendo tuo consigliere soltanto, non maestro, non sono in debito di dirti ogni cosa. E poi i precetti tu li hai nei tuoi libri di scuola. Questi ti dicono quanto t’occorre: che, nello scrivere con vien badare che tra i pensieri ci sia unità e continuità; che bisogna collocare vicine le frasi che hanno fra di loro relazione più stretta, e di cui l’una chiama l’altra quasi naturalmente; che le proposizioni secondarie (precedenti, conseguenti o concomitanti che siano) debbono essere misurate e collocate in modo da non nuocere mai all’evidenza della proposizione principale, che regge tutto il periodo, o che è principale, se non altro, per il suo valor logico. Ti dicono pure che non si ha da abusare di nessuno dei vari modi di legare fra di loro i concetti, per coordinazione, per subordinazione, per conclusione, ma usarli alternatamente, quanto è possibile senza forzar la sintassi; che certi concetti o certe parti del concetto, perchè [364] richiamino sopra di sè l’attenzione, debbono essere staccati, invece che fusi con gli altri, e fatti risaltare, come gli aggetti in architettura; che in certi casi bisogna affollare nel periodo le proposizioni, in altri diradarle, per la stessa ragione che si fa del tempo nella musica; e in alcuni punti fare una breve pausa, per lasciar liberi un momento al lettore la mente e il respiro, e in altri una pausa più lunga, perchè il lettore riposi, come si fa danzando e camminando; e che è necessario variare il tipo del periodo, come il tono nella parlata, per iscansare la monotonia nella quale i pensieri si confondono e si velano come dentro una nebbia.
Tutti questi precetti tu conosci, e Dio mi guardi dal dirti che sono inutili. Ti dico, anzi, che ne devi tenere grandissimo conto, perchè alcuni di essi, che sono leggi fondamentali del pensiero, se li avrai sempre vivi nella mente, saranno come voci che, a quando a quando, mentre scrivi, ti faranno star attento a non uscir della retta via, o t’avvertiranno che ne sei uscito e t’indurranno a rientrarvi, cancellando le orme dei passi fuorviati. E aggiungo che il conoscere bene i termini e le definizioni della precettistica ti sarà utilissimo a formare nettamente nel tuo pensiero le osservazioni che farai sugli scrittori, a determinare con esattezza a te medesimo i difetti e gli errori che troverai in loro, altrettanto utili a studiare quanto i pregi e le bellezze, a fare, insomma, delle opere letterarie quella lettura analitica e critica, che è la sola veramente proficua.
E non di meno ti dico che da tutta la precettistica del mondo non imparerai a scriver bene; [365] te lo dico perchè tu non ti sgomenti, come avviene a molti giovani, della difficoltà, della quasi impossibilità d’aver tutti presenti, scrivendo, e d’osservare tanti precetti rigidi e astratti, che pare debbano essere un inciampo più che un aiuto, e come una rete tesa intorno al pensiero, che gli tolga ogni libertà di movimento. No, non ti sgomentare dei precetti. Quando ti metterai a scrivere con un concetto chiaro nel capo, e mosso da un sentimento vivo, quando ti troverai, procedendo nel lavoro, in quello stato di mente e d’animo, nel quale chi scrive “è compreso, agitato, spronato da dieci operazioni della mente distinte e conflate ad un tempo, che vanno come in figura di cono a metter capo a un prodotto comune„, l’osservanza della più parte di quei precetti ti riuscirà spontanea per modo, che quasi non avrai coscienza d’osservarli. Sarà la tua ispirazione che, dando l’impulso alle parole e alle frasi, le manderà ad occupare il posto che loro convien meglio nel periodo; sarà la mobilità del tuo pensiero che scanserà naturalmente la monotonia, facendoti rompere le uguaglianze, variar le misure dei periodi, mandare innanzi il discorso a onde ora lunghe e placide, ora rotte e precipitose; sarà la stessa respirazione mutevole del tuo pensiero che ti farà trovare le giuste pause, e rallentare il passo dopo le corse, per riprender lena, e riprender la corsa più rapida dopo esser andato un tratto a rilento; sarà il tuo sentimento eccitato il maestro muto, pronto e sicuro che ti farà dar risalto a certi concetti, sollevandoli come sur un piedestallo, e collocarne alcuni disparte, come in uno spazio vuoto, ed esporre altri quasi a una svoltata [366] brusca del periodo, dove facciano un’apparizione inaspettata. Tu metterai in atto molte arti sottili che non saprai di possedere, obbedirai a molti precetti ai quali non avrai mai pensato, sarai nello scrivere, come dice il Tommaseo che ogni uomo è nel parlare, guidato da certe norme sapientissime di natura che sono l’umana ragione medesima.
Prevedo ora una tua domanda. Riguardo ai due stili, non è vero? C’è in ogni letteratura due forme di stile, che, come dice benissimo un grande scrittore, scaturiscono tutt’e due dall’intima natura del cervello umano. C’è quello più spontaneo, che del pensiero rende tutte le flessioni, segue tutti i serpeggiamenti, accompagna in tutti i minimi moti il processo, non lasciando nulla sottintendere a chi legge; al quale mette innanzi come un quadro, dove il pensiero stesso è rappresentato in tutti i suoi particolari, e questi nell’ordine e nel disordine con cui si sono affacciati alla mente. E c’è lo stile che, con un lavoro sintetico, segna del pensiero soltanto i rialti e le cime, in modo che la mente di chi legge faccia un salto dall’uno all’altro pensiero importante, sorvolando e sottintendendo tutti i pensieri secondari che fanno catena fra quelli, ossia compiendo da sè il quadro di cui lo scrittore non ha dato che i tratti principali.
Ebbene, tu domandi a quale dei due stili ti debba attenere.
E chi te lo può dire, amico mio? Noi andiamo perpetuamente dall’uno all’altro. L’uno e l’altro si trovano a vicenda, se non in ciascuna opera, nell’opera complessiva di quasi tutti gli [367] scrittori, non tanto perchè essi passino da questo a quello deliberatamente, sentendo che ciascuno di essi, alla lunga, affatica, quanto perchè al primo o al secondo sono naturalmente condotti dalla varia natura degli argomenti, dal diverso modo di concepire che induce in loro il diverso genere degli studi, e dalle condizioni dello spirito mutate dall’età e dai casi della vita. È più naturale nell’età giovanile la prima forma, cioè, il lasciar andar la parola, la frase, la sintassi libere e agili come è il pensiero della gioventù, viva e impaziente; s’inclina più all’altra nell’età matura, quando, pensando più denso e più cauto, si è di conseguenza più sobri nel parlare e nello scrivere, e come in tutte l’altre cose anche nell’espressione del proprio pensiero si cura soltanto quello che più importa e si va dritti allo scopo per la via più breve. Tu, se diventerai uno scrittore, prenderai più spesso l’uno che l’altro stile secondo che vorrà la tua indole; o fors’anche tutt’e due cozzeranno sempre in te senza che l’uno o l’altro prevalga: chi lo sa? Questi son misteri, come dice Giambattista Giorgini, che l’anima celebra con sè stessa.
Non te ne dar pensiero per ora. Quello che più preme, per riuscire nell’uno o nell’altro modo a scriver bene, è che tu possegga da padrone la lingua; senza di che nessuna forma di stile prenderai, perchè chi è povero di lingua, ed è quindi costretto a far servire a tutti gli usi quel poco che n’ha, non va dove la natura e l’ispirazione lo spingono, ma dove le scarse parole e frasi del suo dizionario lo tirano; le quali, invece di obbedirgli, gli comandano, come fa in generale chi serve, quando gli s’addossano [369] anche dei servizi che non deve fare, ed egli sa che non abbiamo nessuno da sostituirgli.
E ora tiriamo innanzi..... Ma no; aspetta un momento. Mi devo prima difendere da un tale, eccolo qua, che mi corre addosso come uno spiritato...
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