Edmondo De Amicis: Raccolta di opere
Edmondo De Amicis
L'idioma gentile

PARTE TERZA.

COME S’HA DA INTENDERE LA MASSIMA CHE SI DEVE SCRIVERE COME SI PARLA.

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COME S’HA DA INTENDERE LA MASSIMA CHE SI DEVE SCRIVERE COME SI PARLA.

L’anonimo, ansando: – Sono arrivato in tempo, grazie al cielo! Lei stava per consigliare a questo povero ragazzo di scrivere come si parla!

– Ha indovinato.

– O come si fa ad avere i capelli bianchi e così poco giudizio?

– Glielo dirò poi, quando lei avrà sfogato la sua generosa indignazione. Faccia liberamente.

– Faccio sicuro. Voglio salvare un’anima. Lei, dunque, consiglia a chi scrive di proporsi come ideale un linguaggio imperfetto. No? Ma è necessariamente imperfetto il linguaggio parlato, poichè chi parla, chiunque sia, non ha tempo di vagliare i vocaboli, di sceglier le frasi, d’ordinare le idee, d’architettare con garbo i periodi; perchè i migliori parlatori non esprimono i più dei loro pensieri che a mezzo, o ne dànno l’espressione compiuta a furia di ritocchi e d’aggiunte, e allungano e ripetono, e parlano a sbalzi e a strappi, e suppliscono alle deficienze dell’espressione parlata con l’accento, col gesto e con lo sguardo. Che cosa mi può rispondere?

[370]

Le rispondo prima di tutto che lei ha sciorinato un periodo che è un argomento in mio favore, perchè è un periodo parlato che sta benissimo; invece del quale ne farebbe probabilmente un altro men naturale e meno efficace se scrivesse quello che m’ha detto seguendo la sua teoria: che non bisogna scrivere come si parla. In secondo luogo, le rispondo che lei sfonda una porta spalancata.

– Come sarebbe a dire?

– Sarebbe a dir questo. Che per iscrivere come si parla io intendo: scrivere come uno che parlasse perfettamente.

– Oh bella! Lei si la zappa sui piedi, dunque, e riconosce la mia ragione, perchè chi parlasse perfettamente parlerebbe come si scrive... da chi sa scrivere com’io m’intendo.

– No, ed ecco il punto: non parlerebbe perfettamente, perchè riuscirebbe, e parrebbe anche a lei strano e affettato, chi, parlando, adoperasse tutti i vocaboli, le frasi e i costrutti che per solito s’adoperano scrivendo; la maggior parte dei quali non sono adoperati parlando neppure da coloro che ne abusano nelle scritture, e ciò perchè sentono anch’essi che quei modi parrebbero nella conversazione ricercati e pedanteschi. Ora io dico che quei modi, per la stessa ragione che non s’usano parlando, si deve scansar d’usarli scrivendo, perchè essi non mutano natura suono nel passar dalla bocca alla penna; e se ai più fanno un altro senso sulla carta da quello che fanno nella conversazione, questo non deriva che da una consuetudine viziosa della mente, la quale non vede più nella scrittura la rappresentazione della parola viva, com’è in realtà, ma [371] qualche cosa di convenzionale, quasi d’impersonale, e quindi indipendente dalle leggi del linguaggio comune. E questo è tanto vero, che a quelli stessi che sono del parer suo, cioè che parlano in un modo e scrivono in un altro, par più naturale, più viva, più efficace, benchè sempre non lo dicano, la prosa conforme al linguaggio parlato che quella non conforme; e non può essere altrimenti. Credo giusta perciò questa regola: quando s’è scritto un periodo, domandare a noi stessi se, dovendo dire quella stessa cosa che abbiamo scritta, la diremmo nello stesso modo, con la certezza di non parer leziosi, o pedanti, o forzati; e se ci pare di no, levar via dal periodo i vocaboli e le frasi che non diremmo, e sostituirvi quelli che diremmo. Sono assolutamente certo che in tutti i casi, così facendo, il periodo riuscirebbe più semplice, più chiaro e più bello.

– Ha finito?

– Per ora.

– Dei del cielo, perdonategli! O non riconosce lei che c’è una quantità di modi e di forme, che non s’usano parlando perchè non son naturali, ma che si possono e debbono usare scrivendo perchè abbreviano l’espressione del pensiero, legano i pensieri fra loro meglio delle forme usuali della conversazione, e tengon su la sintassi, e dànno forza al discorso; e che è irragionevole, nell’interesse medesimo dell’efficacia dello stile, il sacrificare tutti quei vantaggi alla naturalezza?

– Lo riconosco, e per questo a questa povera anima che lei vuol salvare, avrei detto, se me n’avesse lasciato il tempo, che quelle forme e quei modi, a cui lei accenna, bisogna evitarli [372] quanto è possibile, non in modo assoluto. Gli avrei detto prima che per scrivere come si parla non si ha da intendere che si debba scrivere con lo stessissimo linguaggio una pagina di romanzo e una commemorazione dantesca, una lettera a un amico e un capitolo di storia. Ma questa distinzione non contraddice punto al mio principio, poichè lo stesso linguaggio parlato non ha sempre lo stesso carattere e le stesse forme, con chiunque, dovunque e in qualsiasi occasione e di qual si voglia cosa si parli. Intesi un giorno un amico improvvisare un discorso sopra un feretro, al camposanto, in presenza d’un migliaio di persone: egli usò frasi e parole che non avrebbe usate dicendo quelle stesse cose a me solo: eppure non stonavano perchè erano esse pure del linguaggio parlato; ma del linguaggio che si parla quando s’ha l’animo commosso, in un momento solenne, davanti a un grande uditorio. E le vorrei mostrare le migliori pagine degli scrittori italiani di tutti i tempi, dal Machiavelli al Carducci, e farle toccar con mano che le più eloquenti e più belle tra le migliori, anche sopra argomenti altissimi, quelle che ci vanno più dritte al cuore e alla mente, e che ci rimangono più scolpite nella memoria, e che rileggiamo sempre con maggior piacere, sono per l’appunto le pagine, nelle quali abbiamo più viva l’illusione di sentir parlare l’autore come immaginiamo che parli o che parlasse con tutti, nelle quali troviamo meno parole, frasi e costrutti lontani dall’uso del linguaggio parlato.

– Ah, no! Ah, no! Ah, no! E se anche potessi riconoscere vero codesto per quanto riguarda le parole e le frasi, non lo potrei mai ammettere [373] rispetto alla struttura del periodo; il quale, nel linguaggio parlato, non è mai e non può essere, come spesso nella prosa scritta dev’essere, largamente svolto, sapientemente costrutto, nobilmente architettato.

Nego, nego, nego. Lei può aver ragione in riguardo al periodo della conversazione ordinaria, su argomenti comuni, famigliare e tranquilla; ma ha torto, se riferisce quello che dice anche al linguaggio della passione. La passione, parlando, ha due maniere di periodo. Parla a brevi incisi, senz’ordine e senza legature, negl’impeti violenti e passeggeri, che offuscano la mente e fanno balbettare il pensiero come la lingua. Ma quando l’uomo infiammato dalla passione, e tanto più se è un uomo colto, le fa un racconto o una descrizione o un ragionamento, nel quale, per produrle un’impressione immediata e viva, ha bisogno di presentarle tutt’insieme, o nel minor tempo possibile una quantità d’idee, d’argomenti, di fatti, d’immagini, che nella sua mente s’affollano e s’incalzano, osservi come svolge anch’egli largamente il periodo, che periodi lunghi le tesse, pieni d’incisi e pur rapidi, complessi e chiari ad un tempo, e ben lumeggiati in ogni loro parte, e ampi e armonici e leggeri; che paiono stati preparati e imparati a mente, e sono non di meno pieni di spontaneità e di naturalezza, e non hanno parole, frasi, costrutti che non siano comunissimi nel linguaggio parlato! Per questo io dico che anche dove occorre di svolgere ampiamente il periodo, scrivendo, si può serbare la naturalezza del linguaggio di chi parla, e che non soltanto nei termini e nelle frasi, ma anche nella sintassi e nell’andamento della [374] prosa scritta, pur mirando sempre a una perfezione che nel parlare non si può raggiungere, ci dobbiamo scostare il meno possibile dal linguaggio che usiamo nella conversazione. Così io intendo lo “scrivere come si parla„.

– Non creda d’avermi persuaso. In ogni modo, nel dar quella norma ai giovani c’è un pericolo: di farli cadere nella trascuratezza e nella volgarità.

– Ma c’è un pericolo anche nel combatterla, ed è di farli cadere nell’affettazione e nella pedanteria.

Lasciamola .

Badi che è lei che la lascia.

– Allora la ripiglio.

Ripigliamola.

(Continua).

 

[375]


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