Edmondo De Amicis: Raccolta di opere
Edmondo De Amicis
L'idioma gentile

PARTE TERZA.

LA SFILATA DEI BRUTTI PERIODI.

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LA SFILATA DEI BRUTTI PERIODI.

Vienora, che assisteremo insieme a uno spettacolo singolare, il quale ti potrà dar argomento a osservazioni utili.

Come le madri spartane facevano vedere ai figliuoli gl’Iloti ubbriachi perchè prendessero in aborrimento il vizio dell’ubbriachezza, io ti farò sfilare dinanzi i periodi deformi e viziosi, affinchè lo spettacolo ripugnante e compassionevole ti fortifichi nel proposito di non mostrar mai nulla di simile nella prosa che uscirà dalla tua penna.

La moltitudine miserevole sfilerà in tre processioni successive, che rappresenteranno ciascuna una deformità o infermità particolare, comunissima nel mondo letterario, dalla quale tu dovrai fare ogni sforzo per preservarti, in special modo nel primo periodo dei tuoi studi.

Ecco la prima colonna che viene avanti, come può.

È lo sciame dei periodi nani, appartenenti tutti alla gran famiglia dello Stile singhiozzato, che è numerosissima, e sparsa in tutti i campi [389] della letteratura. Sono molto in voga a cagione del gran comodo che fanno a chi vuol scrivere facilmente, senza darsi la noia d’affrontar le difficoltà della sintassi, di collegare, cioè, e d’intrecciare le idee, di concatenare e di saldare l’una all’altra le frasi, che è un perditempo di pedanti e una fatica di certosini. Vedi che son quasi tutti periodi d’una sola, o di due proposizioni al più, semplici come la miseria. Grazie a loro il discorso va avanti a piccoli salti, come gli uccelli, o a brevissimi passi misurati come le galline a cui si mettono i laccetti alle gambe, perchè non scappino. Chi li usa, dice che servono a imitare il linguaggio parlato; ma quella non è imitazione, è caricatura, perchè anche nel parlare è rarissimo che s’esprima il pensiero così a pezzi e bocconi, che si proceda in quel modo a scatti e a sussulti, come se la mente battesse la terzana. Vedi se non è buffo che un uomo scimiotti l’andatura d’un bambino. Prova a seguitar per un po’ codesti periodi, e ti sentirai le gambe rotte. Non son periodi, ma rottami, briciole di periodi; pensieri in pillole e in polvere; trucioli e segatura di prosa. E ne passa, e ne passa, di tutti i gradi di statura al disotto della media, di tutte le gradazioni di magrezza fra il corpo spolpato e lo scheletro nudo, e usciti d’ogni dove: da romanzi d’appendice, da discorsi politici solenni, da commemorazioni mortuarie lacrimose, da parlate asmatiche di drammi, da lettere d’amore deliranti a freddo e simulatamente disperate. Dicono: – È brevità efficace. – Ma non è vero; si provino d’un lungo periodo perfetto d’uno scrittore conciso a far tre periodi, e vedranno se non [390] l’allungano, dovendo ripigliare il cammino due volte, e ripetere verbi e soggetti. – È stile scolpito! – Ma non sono scultura i denti d’una ruota di legno, come non è musica il rumore che n’esce. – È vivacità di stile! – Ma chi è più vivace dell’epilettico? – È un risparmio di noia al lettore! – Ma che c’è di più uggioso del tic tac d’un orologio? Oh, di che riso amaro e sprezzante riderebbe il Machiavelli al veder la prosa italiana ridotta a questo balbettìo di scamiciati aggranchiti dal freddo! Ma non occorre ch’io ti dica altro. Tu non ti mescolerai con questa ragazzaglia di periodi; tu preferisci fin d’ora la compagnia degli adulti; chi ha buona gamba non fa tre passi sur un mattone. Lasciali andare all’Asilo.

Guarda ora quest’altri che s’avvicinano. Non ti par di veder venire innanzi lentamente, l’un dietro l’altro, di quei piccoli treni di strada ferrata, che si dànno per balocco ai ragazzi? Sono i periodi degli scrittori geometrici. È un altro modo di scansar la fatica e le difficoltà delle orditure sintattiche sapienti e belle, pur avendo l’aria di far dei periodi di grande disegno. Sono periodi fatti d’una lunga serie di membri, d’un’egual misura a un di presso, e legati fra loro quasi tutti con lo stesso legame di coordinazione, per modo che alla fin di ciascuno il lettore può riposarsi, quasi come a un punto fermo; ciò che allo scrittore il pretesto di stendere dei periodi sterminati, e di poter dire che non leva al lettore il respiro. Vero è che lo ammazza in un altro modo, e non più piacevole. Questi periodi non c’è ragione mai che finiscano, se non quando lo scrittore non ha più [391] nulla da dire: li finisce quando vuole, per bontà sua; e potrebbe, con quell’andare, fare anche un libro d’un periodo solo. Sono pensieri cristallizzati, come disse a maraviglia un critico, in espressioni geometricamente uguali. Non sono propriamente periodi, ossia, non tessuti di proposizioni, ma filze; non costruzioni, ma pietre e mattoni ammontati a filo di piombo, senza cemento incastro; non c’è in questo periodare rilievi, intrecci, scorci, inversioni efficaci, varietà di suoni e di modulazioni; non v’è che una sfilata monotona di pensieri, tutti vestiti a un modo, che vanno avanti con lo stesso passo, mettendo l’uno il piede sull’orma dell’altro, come una processione di frati. Vedi che soltanto a parlarne, si prende il contagio: di questi periodi n’ho scritto uno. Alla fin di ciascuno tu ti senti cascare il capo e le palpebre e ti devi dare un pizzicotto per incominciare il secondo. Dev’esser qualche cosa di simile il viaggiare sul dorso d’un ippopotamo. In tutto il tempo che ho impiegato a discorrere n’è passato uno solo. E se n’avvicina un altro della stessa mole. Schiaccia un sonnellino, che ti sveglierò al terzo. Buon riposo.

Ecco la terza sfilata. Questa è la più sbalorditoia, quella che comprende tutte le deformità, malattie e vizi più miserevoli e strani: i periodi zoppi, i gobbi, gl’idropici, gli accidentati, i periodi tutti testa o tutti pancia, quelli senz’occhi che vanno a tentoni, quelli senza gambe che si trascinano per terra, e quelli che dalle reni hanno tornato il volto, come gl’indovini dell’inferno dantesco, e i malati d’atassìa che non hanno coordinazione fra i movimenti delle membra, e [392] gli ubbriachi che camminano a zig zag, barcollando, e a ogni tratto soffermandosi o inciampando, e finiscono a cadere sulle ginocchia o sulle mele. Sono tutte le mostruosità sintattiche che possono uscir dalle menti che non conoscono seste, compasso, e in cui “la ragion naturale e reciproca della parte d’un concetto è continuamente turbata dalle varie associazioni della fantasia che s’intromette nel processo del loro pensiero„; dalle menti di tutti coloro che, come diceva il Montaigne, data la mossa coi remi alla barca del periodo, costeggiando, si soffermano qua e e imbarcano alla cieca tutte le idee che loro fanno cenno di voler salire, per modo che la barca sopraccarica va innanzi a sbilancioni e bevendo acqua, fin che si capovolge o s’affonda, e tutti annegano. Alcuni, come vedi, non hanno forma nessuna: non son periodi, ma una certa quantità di parole chiuse fra due punti fermi. Altri rassomigliano alle Sirene, che hanno un bel viso e finiscono in coda di pesce. Qualcuno è vestito bene; ma le ossa sformate e i bubboni gli fanno dei gonfi sotto i panni, o i panni gli s’aggrinzano dove mancano le carni o le costole, o il pelame intonso e arruffato, somigliante a una vegetazione selvatica, nasconde la fisonomia. Ce n’è parecchi che non sono che aggrovigliamenti di congiuntivi, figliati l’uno dall’altro, o sequele di parentesi, che si fanno buio a vicenda, e mettono il pensiero principale all’oscuro; e molt’altri che mostrano d’essere stati fatti con gran cura, ma con la cura e con l’arti d’un chirurgo, che per tenerli su li ha ricerchiati come botti d’apparecchi ortopedici visibilissimi, e mezzi coperti di bende, d’imbottiture e di [393] cerotti. Se questi periodi tu esaminassi a uno a uno, riconosceresti che la più parte dei loro vizi e difetti non richiedono ad essere scansati ingegno singolare arte sopraffina o esperienza consumata di scrittore; ma che sono quasi tutti errori di logica elementare, dai quali basta il buon senso e un po’ di riflessione a preservarci. Guardali bene, e vedi quanta bruttezza e quanta miseria! E pensa quant’è grande il numero di questi mostricini messi al mondo di continuo da innumerevoli persone anche non incolte, o per sbadataggine o per furia o per trascuranza d’ogni decoro letterario, e immagina gl’infiniti piccoli danni che ne derivano nel commercio universale del pensiero: quante oscurità, quante confusioni, quanti malintesi, e quindi intoppi e lentezze e sciupìo di lavoro e di tempo! Senza parlar del ridicolo, altra fonte infinita di piccoli guai.

Dunque, hai veduto gl’Iloti. Guàrdati. Non periodi singhiozzati, non periodi mastodontici, non periodi sciancati, gibbosi, malati, selvaggi, matti.

Volta il foglio, e troverai il periodo perfetto. Ma no: bisogna che tu conosca prima Carlo Imbroglia.

 

[394]

CARLO IMBROGLIA.

Imbrogliava il discorso, intendiamoci subito: non il prossimo; chè anzi nel commercio che esercitava, e anche fuor del commercio, era uno specchio di galantuomo; e se non ci fossero al mondo che imbroglioni del suo genere, sarebbe un tutt’altro viverci. Non mancava, per commerciante, di cultura letteraria, ed era pieno di buon senso; ma aveva il difetto accennato da Dante dove dice che l’uomo, nel quale rampolla pensiero sopra pensiero, arriva tardi al segno, a cui intende; e il perchè si capisce: perchè il pensiero di lui s’intralcia a ogni passo in medesimo. Ha definito mirabilmente questo vizio mentale comunissimo un critico moderno, dicendo che in non so quale scrittore la nozione si corrompeva e si disgregava prima d’esser vissuta, presentando quel fenomeno che, secondo certi fisiologi, segue in ogni organismo che si discioglie: il quale di sede ch’egli era d’un solo principio vivente, diventa il semenzaio di parecchi, che con nuovi moti e combinazioni si riorganizzano nella sua materia imputridita.

[395]

Che diavolo d’arruffio si facesse nella mente del nostro buon amico quando filava un ragionamento o raccontava un fatto anche semplicissimo, non saprei ben dire. Incominciava con un’idea, e subito quest’idea si fendeva in due; poi ciascuna idea si biforcava alla sua volta, o si triforcava e si sfaccettava; e volendo seguire tutte le deviazioni e accennare tutte le trasformazioni e le sfaccettature del proprio pensiero, egli diceva e ridiceva, correggeva e aggiungeva, e accumulava incisi e incastrava parentesi, fin che si smarriva nei raggiri delle sue frasi, come in un labirinto, e doveva rifarsi da capo.

Il difetto grammaticale più frequente in cui si manifestava questo suo modo farragginoso di pensare era l’abuso del congiuntivo. Egli parlava come un certo personaggio d’una commedia francese che un amico suo definisce: un subjonctif à jet continu. Mi ricordo parola per parola un periodo ch’egli disse a proposito di certe pratiche fatte da noi per riconciliarlo con un amico: – “Nel caso ch’egli volesse ch’io andassi prima da lui, affinchè non si credesse da chi non conoscesse i fatti ch’egli si fosse umiliato...„ – Il famoso verso di Dante

Io credo ch’ei credesse ch’io credessi

poteva essere la divisa del suo stile. Alle persone di servizio, perchè facessero a puntino questa o quella cosa, non volendo omettere nessun particolare e dir tutto ben chiaramente, dava gli ordini con certi periodi così complessi e aggrovigliati, che finivano col non capirci una maledetta. Tale e quale era nello scrivere. Ai suoi corrispondenti commerciali scriveva delle lettere sulle [396] quali dovevano meditare un pezzo, col capo fra le mani, come sopra dei palinsesti, per tirarne fuori l’idea principale. Nella conversazione con gli amici, poi, era una vera calamità. Povero Carlo Imbroglia! Quando principiava un racconto, o diceva: – Ecco il ragionamento ch’io farei –, oppure: – Mi spiegherò meglio – tutti allibbivano. Era uno spasso nella trattoria sentirgli dire al cameriere, per esempio: – Io vorrei che tu dicessi al cuoco che mi cocesse la bistecca in modo (ma già credo ch’egli lo sappia, ma è bene che tu glielo ricordi, caso che l’avesse dimenticato, il che non è improbabile) in modo che facesse meno sangue che fosse possibile; ma che un poco ne faccia, intendiamoci bene, e non mancar di dirglielo, che non gli accadesse di mandarmela secca, che mi restasse nel gozzo, come qualcuno vuole ch’egli la faccia, ch’io non so che gusto ci trovino. – E quasi tutti i suoi periodi erano di quest’architettura.

Ma questi erano i suoi periodi chiari. Alle volte, quando lo vedevamo impigliato in una rete da cui non gli riusciva di strigarsi, cercavamo d’aiutarlo: chi gli suggeriva l’espressione d’un pensiero incidentale, chi gli porgeva una parentesi bell’e fatta, chi gli apriva con un’abbreviatura una via d’uscita. Ma egli respingeva tutti i soccorsi e s’ostinava a finir da il suo periodo, volendo a ogni costo dir la cosa a modo suo. Qualche volta era costretto a fermarsi, per ravviare le fila arruffate del discorso, e stava alcuni momenti in silenzio, accennandoci con la mano di pazientare un poco, e socchiudendo i piccoli occhi cerpellini, spesso malati; i quali lacrimavano, dicevamo noi, per effetto dello sforzo [397] ch’egli faceva nella troppo minuta e intricata orditura della sua sintassi. Un giorno si scherzava nel crocchio sopra un argomento poco faceto: sul genere di morte che ciascuno di noi avrebbe preferito. Quando fu la sua volta, uno lo prevenne, dicendogli: – Quanto a lei, mi perdoni, la sua fine è scritta: lei resterà soffocato fra le spire d’uno dei suoi periodi. – Rise con gli altri egli pure, dicendo che era consapevole del proprio difetto; ma soggiunse che aveva ferma certezza di riuscire a forza di volontà ad emendarsene, a parlare finalmente come voleva e come, secondo lui, si doveva parlare. E infatti incominciava sempre a parlare col fermo proponimento di resistere alla forza dell’abito vizioso, d’andar diritto con la parola allo scopo, rigettando tutte le tentazioni del pensiero serpeggiante; ma era invano: ci ricascava sempre. Un momento dopo d’aver fermato per la millesima volta quel proponimento, era capace di scrivere, a proposito d’un amico, del quale s’era discusso se si dovesse sì o no invitarlo a un banchetto, una maraviglia di letterina come questa: – “Penso che converrebbe che gli mandassimo l’invito (poichè avete stabilito che gli si mandi, benchè io fossi d’opinione che sarebbe stato meglio che non si facesse) prima ch’egli avesse notizia del pranzo da altri (il che non credo che sia impossibile, chè anzi è assai probabile che l’abbia), affinchè non potesse sospettare che noi avessimo deciso d’invitarlo all’ultimo momento con la speranza ch’egli non facesse in tempo a venire; cosa di cui, se la credesse, credo che anche voi, che sapete quanto egli sia permaloso, ammettiate che sarebbe [398] naturale ch’egli si risentisse; ciò che dispiacerebbe a tutti, benchè avessimo coscienza che fosse infondato il sospetto.„ – Che sudata, povero Imbroglia! Eppure, come si capisce, anche da quel viluppo di parole, ch’egli non avrebbe scritto malaccio se fosse riuscito a levar le gambe dal congiuntivo e a camminar con la penna per la via più corta!

Ogni volta che penso a lui, mi rigodo una scenetta comica, che è il più piacevole dei ricordi ch’egli m’abbia lasciati. S’era convenuto fra una mezza dozzina d’amici di desinare con lui alla trattoria. Eravamo già tutti intorno alla tavola, era passata l’ora da un pezzo, ed egli non compariva. Comparve finalmente in vece sua, con un biglietto in mano, una sua vecchia serva, buona donna semplice, che stava con lui da moltanni, e gli era affezionata come una parente. Uno di noi lesse a voce alta: – “Cari amici! È impossibile che immaginiate quanto io sia dolente che un malore, che m’affligge da due giorni, m’impedisca d’intervenire a codesto desinare amichevole, al quale è superfluo che io vi dica quanto sarei stato felice....„ –, e terminava dicendo che era malato di congiuntivite.

Che volete? S’ha un bel dire che è inumano il ridere del male altrui. Ma chi si sarebbe frenato? Malato di congiuntivite! Era un caso comico di forza maggiore.

Ma il meglio venne dopo, quando la buona donna ci domandò se non avevamo nulla da mandar a dire al suo padrone.

– Sì, – rispose uno, – ditegli che abbiamo detto che ce ne rincresce assai, ma che della malattia che lo tormenta non crediamo possibile [399] ch’egli guarisca. Riferitegli queste precise parole. Ci capirà.

– La donna ci guardò stupefatta; poi disse: – Eh no, signori. Non credano. Non è grave. È un incomodo a cui va soggetto.

E allora si scoppiò addirittura.

 

[400]


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