Edmondo De Amicis: Raccolta di opere
Edmondo De Amicis
L'idioma gentile

PARTE TERZA.

IL SOGNO D’UNO SCRITTORE FALSO.

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IL SOGNO D’UNO SCRITTORE FALSO.

Scena: una camera buia. Lo scrittore dorme e sogna, agitato. Al principiare del sogno egli vede accanto al letto, dalla parte del capezzale, un cassone enorme, pieno di cose preziose, che gli son care quanto la vita; e udendo un rumoretto all’uscio, e parendogli che un ladro tenti di forzar la serratura per venirgli a rubare quel tesoro, stende e preme la mano tremante sul coperchio del cassone, respirando con affanno.

Una figura di donna, bianca e leggera

come vapore in nuvoletta accolto

sotto forme fugaci all’orizzonte,

appare nel mezzo della camera, e gli rivolge la parola con voce limpida e pacata.

 

La semplicità. – Vengo non desiderata, lo so. Ma fino a quando rifuggirai da me come da una nemica mortale? Fino a quando persisterai a metter sul viso dei tuoi periodi cipria e belletto e ad appiccicarvi nèi e finti riccioli e orecchini di perle false? Fino a quando, per ottenere codesta bellezza artificiosa e stucchevole, farai gli sforzi che dovresti fare invece per nasconder l’arte, per conseguire “quell’apparenza di [406] trascuratezza, di sprezzatura, quell’abbandono, quella quasi noncuranza„ che, come dice un grande maestro, è una delle mie specie più amabili, e in cui si manifesta veramente l’ingegno; dovecchè il raccattare e l’accozzare lustre e chincaglie è cosa da tutti? Disse un critico ardito che per secoli, fatte poche eccezioni, fu una fitta di damerini dello stile e della lingua tutta la letteratura italiana. Fino a quando farai il damerino tu pure, vecchio vanerello smanceroso?

Il sognatore uno scossone.

Un esploratore africano. – O senta, signore! Ritornato appena dall’Africa, ho letto per caso un libro suo. Vidi laggiù certi piccoli re selvaggi che sul loro semplice abito primitivo di stoffa bianca mettevano quanto potevan raccogliere di vistoso e di luccicante, come fanno le gazze, dagli europei di passaggio; e quando mi venivan dinanzi così addobbati, con aria maestosa e contenta, mi dovevo morder la lingua per non scoppiare dal ridere. E vidi anche dei selvaggi che avevano incise sulla pelle figure di fiori, d’alberi, d’armi e d’animali, e credevano d’esser belli, conciati a quel modo; e a me parevano orribili e buffi. La sua , mi perdoni, mi ricorda l’abito di quei re, e il suo stile mi par tatuato, signore.

Il sognatore geme.

Un gentiluomo. – Io, signore, conobbi un tale, un bottegaio arricchito, che quando gli capitava in casa qualcuno, lo faceva girar per tutte le stanze, dove aveva messo in mostra un poco prima tutta l’argenteria da tavola, i gioielli di sua moglie e ogni oggetto di valore comprato o ricevuto in dono da lui nel corso di trent’anni; [407] e credeva con quello sfoggio di farsi veder gran signore; e tutti lo giudicavano invece uno spocchione senza gentilezza e senza gusto.

Il sognatore si volta di scatto sur un fianco, cercando una posizione più comoda.

Un critico (con un sorriso acre e una voce di sega). – Signore! È tempo oramai ch’io le spiattelli la verità nuda e cruda. O chi crede d’ingannare con codesto abbarbaglio di frasi, con codesta ostentazione di gale e di lustrini? Crede che non si capisca ch’Ella ricorre a codesti mezzi perchè non ha un possesso sicuro della lingua, per nascondere l’indeterminatezza che da quel possesso malsicuro deriva all’espressione del suo pensiero? Che non si capisca ch’Ella tira a scriver bello e avventato perchè non le riesce di scriver proprio ed esatto? E s’illude che con quelle cianfrusaglie brillanti si possa mascherar mai il pensiero nullo o mediocre? Eh, via! Anche il lettore meno colto ha una percezione finissima per iscoprire un concetto trito o volgare sotto il cencio di porpora dozzinale, come scopre la menzogna nel falso sorriso. Smetta codesta roba, che sciupa anche i pensieri migliori, perchè svia la mente dalla diritta e rapida intuizione del buono e del vero. O che è l’immagine, quando non serve a dar risalto all’idea, altro che polvere negli occhi? O quando capirà che la bellezza non è che nella parola o nella frase necessaria, e che questa non può essere che la più propria, e che la più propria è sempre la più semplice e la più comune? Oh, rinunzi una volta per sempre a tutta codesta rigatteria letteraria, che si compra e si vende a peso a tutte le cantonate.

[408]

Lo scrittore respira sempre più affannoso, contraendo il viso e le mani.

La passione. – Il tuo linguaggio non è il mio. Tu non parli mai con la mia voce e con le mie parole. Tu mi tradisci sempre. Io non pèttino, non arricciolo, non infioro le frasi e i periodi: io sono semplice e franca. Tu non commovi nessuno perchè sei l’opposto di quello ch’io sono. Chi ti può credere sincero? Crederesti tu alla sincerità d’un uomo che mentre ti confida, per impietosirti, un grande dolore, facesse il bocchin di miele e gli occhi languidi come una donnina leziosa, e atti vezzosi del capo come una tortora in amore?

La ragione. – E piglieresti sul serio un altro che mentre s’affanna a persuaderti d’una grande verità o a indurti a un’azione generosa, scoprisse ogni tanto i polsini per mostrarti i bottoni d’oro o lanciasse un’occhiata allo specchio per veder l’effetto del suo gesto?

Un vecchio. Senti. Io ho molto vissuto e conosco il mondo. Se tu lo conoscessi quant’io lo conosco, se tu sapessi a quanta gente ha recato e reca danno di continuo codesto mal vezzo, in cui tu t’ostini, d’inorpellare l’espressione d’ogni sentimento e d’ogni pensiero, tu faresti ogni maggiore sforzo per liberartene, come d’una malattia pericolosa di morte. Quanti uomini retti e modesti son giudicati irreparabilmente non sinceri, vanitosi, presuntuosi, e si vedon rifiutati favori e vantaggi ed aiuti non per altro che perchè li chiedono con codeste forme affettate e leziose a persone che aborriscono l’affettazione e la leziosaggine quanto la malvagità e l’impostura! Quante lettere e scritture d’ogni forma, che [409] chiedono cose giuste e dovute, sono lacerate e buttate fra le cartacce non per altro che perchè sono scritte nel modo che tu scrivi! Quanti scrittori di alto ingegno e di animo buono sono diventati universalmente uggiosi e odiosi, e stati in ogni modo avversati e defraudati dell’onore che per altri rispetti meritavano, per non essere riusciti mai a spogliarsi di codestabito sciagurato d’infronzolare, d’ingioiellare, di fiorettare il proprio linguaggio! Che aberrazione! O com’è ancora possibile?

Uno scrittore. – Ho pietà di te, confratello, e non te n’offendere, chè è pietà fraterna, poichè l’ebbi un tempo di me pure; e fu quando tutte le gale e le lustre della parola, di cui avevo fatto abuso cieco per vent’anni, m’apparvero nel loro vero aspetto, e mi fecero il senso che risentirebbe un uomo, il quale, addormentatosi nell’orgia d’un martedì grasso, si risvegliasse il mercoledì delle ceneri, in mezzo alla sua famiglia, sbriacato, ma ancor mascherato da re delle marionette. Quando riconobbi quanti bei pensieri avevo sciupati, quanti sentimenti gentili traditi, per quanto tempo avevo offeso la dignità dell’ufficio di scrittore scrivendo prosa di chincagliere e gettando negli occhi al pubblico crusca dorata, sentii tale vergogna e nausea di me stesso, da esser tentato di dar della fronte nel muro. T’auguro di guarire; ma la convalescenza ti sarà triste, povero amico.

Un amico d’infanzia (col viso afflitto, e un accento di rimprovero triste). – Ah, no, in quel modo non m’avresti dovuto scrivere in quella occasione dolorosa. Sapevi che avevo l’anima straziata da una grande sventura: mi dovevi [410] scrivere come ti dettava il cuore. Tu non puoi immaginare che pena fu per me il trovare nella tua lettera certe espressioni, quei tuoi soliti ornamenti e vezzi di lingua e di stile, che mi fecero dubitare della sincerità del tuo dolore, che mi parvero anzi segni manifesti d’indifferenza e di durezza d’animo. No; se tu avessi avuto pietà del tuo vecchio amico, se tu avessi pianto davvero sulla sventura terribile che lo colpiva, tu non avresti usato quelle parole per dirglielo, non avresti lisciato lo stile a quel modo, perdonami, per consolare il suo cuore. Mi facesti una gran pena, amico, una gran pena!

Il sognatore, che s’era andato agitando sempre più durante le varie apparizioni, vinto all’ultima da un impeto di vergogna, di dolore e di sdegno, si precipita dal letto (in sogno) e si mette a tirar pedate furiose contro il cassone; il quale si rovescia e si scoperchia, spandendo sul pavimento una strana variopinta luccicante mescolanza di vasetti, di piume, di ritagli di talco e di trina, di bubboli, di nastrini, di stelline, di prismetti di vetro, di scampoli di panno rosso e di frange argentate e dorate, ravvolto il tutto in un nuvolo di polvere d’oro e di riso. Furiosamente, a scarpate, egli caccia a mucchio ogni cosa verso la finestra e abbranca a piene mani e butta tutto fuori del davanzale, e poi scaraventa fuori anche il cassone. Il tonfo che fa questo battendo sul selciato della strada, lo risveglia. Si mette a sedere sul letto, si frega gli occhi e guarda intorno.

Non è ancora bene sveglio: gli cadono dagli occhi due lacrime.

Ahimè! Sono lacrime di rimpianto per il cassone!

 

[411]


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