Edmondo De Amicis: Raccolta di opere
Edmondo De Amicis
L'idioma gentile

PARTE TERZA.

UNA PAGINA DI MUSICA.

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

UNA PAGINA DI MUSICA.

È tendenza naturale in noi il dare un ritmo al linguaggio scritto, come lo diamo al linguaggio parlato, perchè il nostro orecchio cerca naturalmente l’armonia, e anche delle parole scritte sentiamo il suono nella mente. Gl’imitatori dànno alla prosa l’onda armonica, che hanno nella memoria, dello stile del loro scrittore prediletto; quelli che non imitano, le dànno un ritmo loro proprio, che è come la musica intima del loro pensiero; e anche gli scrittori che paiono più noncuranti dell’armonia, si sente qua e che non resistono alla tentazione di dare al periodo un suono largo e gradevole, o, se non altro, di terminarlo con una clausola sonora. La nostra lingua così ricca e varia di suoni, nella quale facciamo anche in prosa, senz’avvedercene, una quantità di versi d’ogni metro, ci tenta continuamente a cantare. E qui sta il pericolo: di far cantare la prosa per forza, aggiungendo parole superflue al periodo per dargli quella data sonorità, sforzando il pensiero stesso per ridurlo a quella data forma che all’orecchio piace, [412] facendo servire l’idea al numero, in somma, invece di far obbedire il numero all’idea. E quando s’è su questa china, facilmente si precipita al peggio: si va dalle armonie delicate e sommesse a una musica sempre più risonante, fino ad accompagnare la sfilata delle frasi a colpi di piatti turchi, e a chiudere con colpi di gran cassa e squilli di tromba.

Come si può sfuggire a questo pericolo?

Il mio umile parere (come si suol dire quando si crede il parere proprio migliore degli altri) è questo: che ci dovremmo proporre non di cercare l’armonia, ma soltanto d’evitar le asprezze e le stonature. E paiono le due cose una sola; ma sono negli effetti assai diverse, perchè, cercando l’armonia, si finisce col cercare una data armonia, la quale non si può ottener sempre senza artifici; ciò che non accade a chi si studia solamente di non ferir l’orecchio. Per questo non c’è bisogno di forzare il pensiero, d’aggiungere, di riempire, d’arrotondare, perchè ciò che fa suonare sgradevolmente il periodo non sono quasi mai altro che uno o pochi vocaboli messi di posto, e qualche volta uno o due o pochi monosillabi; e basta per ripararvi il collocare gli uni e gli altri in quelli che il Leopardi, facendo esercizio di lingua, chiamòcantucci, spigoli, spazietti, passaggetti, rivolte, giratine, tortuosità, angustie, stretture del discorso e del periodo„ nelle quali quei vocaboli e monosillabi possono entrare senza violenza e stare senza stridere. Non è certo questa l’unica norma che dobbiamo seguire perchè la prosa non riesca disarmonica; ma è la principale, e a te può bastare per ora. Un ritmo, un andamento musicale tuo proprio [413] ti verrà con lo stile, del quale sarà un elemento inseparabile; e quanto più il tuo stile sarà spontaneo, logico, fedelmente consentaneo al movimento del tuo pensiero, tanto meno t’accorgerai d’avere quel ritmo; per modo che, rileggendo dopo qualche tempo le cose tue, ti parrà di sentirvi una musica sconosciuta, o di cui tu abbia appena una vaga reminiscenza. Bada ora sopra tutto a non mandar avanti la tua prosa a suon di tamburi e di pifferi, a non far del periodo una cabaletta, sempre chiusa con quelle certe battute, che il lettore presènte e solfeggia prima che tu vi giunga; perchè è questa una consuetudine che inceppa la ragione e l’ispirazione, circoscrive la libertà del pensiero, vizia l’espressione, gonfia lo stile, e avvilisce la dignità dello scrittore riducendolo un sonatore d’organetto.

Una voce nell’aria:Benissimo!

O che c’è un grammofono qui? Chi è che parla?

La stessa voce, in tono leggermente ironico: – “Ma devi anche dire all’alunno che ci sono i sonatori del periodo, i tenori dello stile dissimulati, certi astuti che abbassano la voce, invece d’alzarla, che non vanno mai negli acuti, che modulano il discorso come per cantare senza farsi scorgere; ma che in realtà cantano anch’essi. Il canto non si sente periodo per periodo; ma quando voi avete letto dieci loro pagine senz’aver mai colto proprio sull’atto il cantante, sentite non di meno che non hanno parlato col tono di chi parla naturalmente, non cercando ritmo risonanza. È una specie di musica morbida e liscia, dov’essi fondono i propri pensieri e smorzano le tinte dello stile; ma che, appunto per questo, finisce col ristuccare essa [414] pure, come il mormorìo d’un rigagnolo, facendoci desiderare qualche asprezza, qualche schianto qua e , in cui salti su il pensiero o l’immagine, e magari anche qualche stonatura selvaggia, che ne rompa la dolce monotonia, dalla quale ci sentiamo conciliare il sonno come dal rullìo d’una barchetta o dal cullamento d’una sedia a dondolo. E per ottener questo bell’effetto forzano spesso anche costoro il proprio pensiero, appiccicando delle brave code ai periodi, dicendo cose che non dovrebbero o come non vorrebbero, esercitando come gli altri la non nobile industria dei pleonasmi, delle zeppe, delle imbottiture e delle vescichette, con certa discrezione, quasi di sotterfugio, e con aria innocente; ma che non inganna chi ha fine l’occhio e l’orecchio. Questo essi non imitano certamente dal loro maestro Alessandro Manzoni, che non n’ha ombra. E anche dall’esempio di questi signori convien mettere in guardia gli alunni. Rifuggano dagli uni e dagli altri: dai suonatori di gran cassa e da quelli che fanno il verso degli uccelli.„

Pare che abbia finito.

Mi domandi se ha detto giusto?

Eh sì, non c’è a ridire, pur troppo.

Mi domandi ancora s’io so a chi abbia fatto allusione?

Lo so, sicuro; ma a dirtelo.... mi vergognerei un poco.

 

[415]


«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2010. Content in this page is licensed under a Creative Commons License