Edmondo De Amicis: Raccolta di opere
Edmondo De Amicis
L'idioma gentile

PARTE TERZA.

CORREGGI E LÀSCIATI CORREGGERE.

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CORREGGI E LÀSCIATI CORREGGERE.

Abbiamo veduto da principio quello che s’ha da fare prima di scrivere; dobbiamo vedere ora quello che è da farsi dopo aver scritto.

Tu hai già capito: rivedere, correggere.

Lascia passare un po’ di tempo, chè si quieti l’eccitamento intellettuale, e tu possa giudicare a mente serena e ad animo riposato l’opera tua, e questa apparisca come a una certa distanza all’occhio indagatore della tua mente. Poi rileggi, mettendoti con l’immaginazione, per quanto t’è possibile, nell’animo d’un lettore non solo non indulgente, ma malevolo, il quale cerchi nel tuo lavoro i difetti col desiderio di trovarne, o svogliato o male attento, che non regga ad alcuna ripetizione e lungaggine, e smetta di leggere al primo senso di noia che lo prenda.

Leggi, e apri nella mente dieci occhi per veder dieci cose ad un punto: le improprietà, le superfluità, le lacune, le disarmonie, i luoghi oscuri, i costrutti contorti, i legami forzati, le slegature, gli errori d’ordine e le offese al buon gusto. Vedi se in qualche luogo non hai espresso con due [416] o tre periodi brevi un pensiero o una serie di pensieri che si potevano raccogliere in uno, non però così lungo da non potersi abbracciare, come dice un maestro, con un’occhiata; se, alleggerendo tutti e due o tutti e tre quei periodi, non li puoi fondere insieme, affinchè il lettore legga d’un fiato solo quello che dovrebbe leggere con tre riprese di respiro. Vedi se dove hai creduto di esprimere una gradazione di pensiero non hai fatto altro invece che una gradazione di frase; se non hai ripetuto nessun pensiero sotto altra forma, o presentato l’una dopo l’altra delle immagini che dovevi presentare tutte a un tratto di fronte, o interposto una distanza fra due concetti che dovevano stare vicini o connessi. Dove puoi mandare innanzi d’un salto il pensiero, che ha fatto un passo a destra e uno a sinistra, correggi; dove la svoltata del pensiero è troppo larga, ristringila; dove puoi accorciare una frase, serrare più forte un nodo sintattico, sostituire una parola breve a una parola lunga, accorcia, serra, sostituisci. Cerca bene se hai avuto qualche momento di o di stanchezza, dove hai commesso un peccato di vanità letteraria, dove hai lasciato sul tuo pensiero un velo di nebbia.

Se farai questo lavoro con attenzione viva, ne ricaverai altrettanto diletto quanto dal lavoro facile e caldo dell’ispirazione. Proverai che piacere squisito è lo sfrondare il superfluo quando se ne vede balzar fuori più chiara e lucida l’idea; che maraviglia gradevole è il veder tutto un periodo mutar aspetto e suono per la trasposizione d’una frase o d’una parola ch’era fuor di posto. In questo lavoro comprenderai tutta [417] la delicatezza dell’arte dello scrivere, vedendo come un ritocco leggerissimo metta alle volte la forza dov’era la fiacchezza, come la cancellatura o l’aggiunta d’un solo vocabolo assodi un pensiero che era campato in aria, o ne saldi due l’uno all’altro, che non parevano collegabili; come un nuovo aggettivo, non prima trovato, getti quasi un raggio di sole sopra un’idea che stava nell’ombra. Sentirai come questo lavoro del correggere, quando è fatto bene, non sia lavoro di pedante, quale molti lo dicono; ma di critico e d’artista ad un tempo; lavoro fine e profondo, che eccita anch’esso la mente e l’animo come una seconda creazione, e che si può far con amore, e che quando è fatto in tal modo, lascia nella coscienza una sodisfazione e una quiete, che sono il più dolce premio della fatica.

Ma correggere non è sempre migliorare, bada bene. Bisogna, correggendo, tener sempre presente che nello scrivere di primo getto la mente eccitata e come dilatata e sveltita dall’eccitazione faceva rapidamente il giro d’un largo spazio, vedeva in una volta molte cose e molte relazioni fra le cose, e abbracciava con occhio pronto e mobilissimo ragioni, proporzioni e convenienze. Correggendo a mente fredda, noi tendiamo a esaminare invece idea per idea, frase per frase, parola per parola; e quindi facilmente prendiamo abbaglio sul valore di ciascuna idea, frase o parola, che non vediamo più in relazione con l’altre; e facilmente per questo correggiamo male; e spesso togliamo forza a un concetto del quale non abbiamo più vivo il sentimento, credendo [418] di perfezionarne l’espressione, e ci lasciamo andare ad arrotondar dei periodi perchè non ci suonano più nella mente insieme con l’armonia generale dello scritto, per dar loro una sonorità più piena, con danno di quell’armonia generale. Convien dunque guardarsi, correggendo, dal corregger troppo, e per guardarsene bisogna rimettersi a quando a quando, con uno sforzo dell’immaginazione, nello stato di mente e d’animo in cui ci trovavamo nel far la prima stesura del lavoro, e riscontrare così la nostra correzione col criterio che in quei momenti ci guidava: criterio meno guardingo e men minuzioso, ma più largo, più agile, più istintivamente sicuro di quello della critica lenta e tranquilla.

Ma quello che sopra tutto occorre nella correzione è la sincerità.

– La sincerità con stessi? – domanderai. O come si può non esser sinceri?

Si può in questo modo. Quando nel nostro scritto troviamo un errore o un difetto, a cui sia difficile riparare, diamo ascolto alla voce della pigrizia che ci dice: – Lascia com’è; forse t’inganni; quello che pare a te un errore di proprietà o di gusto, o altro che sia, non parrà forse tale a chi legge, o questi vi passerà su senz’avvertirlo. – Persiste la nostra coscienza ad avvertirci che quello è un errore o un difetto; ma, illudendo noi stessi di proposito, noi diamo retta alla pigrizia, e tralasciamo di correggere. Ed è una illusione insensata, perchè il lettore, anche incolto, non avvertirà certe bellezze che noi crediamo ch’egli noti, ma vede per contro molti difetti leggerissimi, che a noi pare gli [419] debbano sfuggire. E infatti, chi si provi a leggere scritti propri a persone senza cultura, ma sincere, riman meravigliato spesso dell’acutezza delle osservazioni critiche che quegli uditori gli fanno; e la ragione del fatto è che la gente incolta, non avendo il criterio viziato o velato da concetti letterari convenzionali o dall’assuefazione della mente a certi artifizi e vizi comuni dello scrivere, riceve dagli scritti un’impressione immediata e schietta, e non badando, o non dando pregio a certe forme della lingua e dello stile, raccoglie meglio l’attenzione su cert’altre, e le vede con occhio più chiaro. Sarà una leggiera oscurità, sarà una parola fuor di luogo, sarà una frase dubbia, che può esser presa in doppio senso; ma qualche menda noterà, qualche osservazione utile farà sempre anche l’uomo ignorante, se dice schiettamente quello che pensa d’uno scritto che gli si legga.

Per questo ti consiglio di sottoporre qualche volta quello che scrivi anche alla critica delle persone, delle quali è generalmente disprezzato il giudizio in materia letteraria. Le loro osservazioni, lo so, feriscono più di quelle d’ogni altro l’amor proprio, o per dir meglio, l’orgoglio dello scrittore. Ma in ogni campo intellettuale una delle condizioni essenzialissime per imparare è quella di vincere l’orgoglio. Non s’impara veramente se non si ha la ferma persuasione, in qualunque età, e a qualsiasi altezza si sia pervenuti nell’arte o nella scienza, d’avere ancora e sempre da imparare moltissimo. E a che serve tener alto l’orgoglio di fronte agli altri, se siamo di continuo costretti a mortificarlo dentro noi [420] stessi? Procedendo negli studi e nell’arte dello scrivere, tu dovrai ogni giorno, ogni momento, fare atto d’umiltà davanti all’immensità del campo che ti s’allargherà man mano dintorno, alle sempre nuove difficoltà che ti sorgeranno dinanzi dopo che n’avrai superate altre molte che ti saranno parse le ultime; atti infiniti di rassegnazione dovrai fare, dolorosamente, disperando di poter raggiungere l’ideale della tua mente. L’arte è grande e divina per questo. S’ama per tutta la vita perchè non appaga mai pienamente, e sono quasi sovrumane le gioie ch’ella perchè sono frutto e ci compensano d’infiniti sforzi e amarezze. E tu, se sei chiamato all’arte, va’ incontro alla lotta nobilissima con l’anima serena e piena di fede. Ti sorrida o no la vittoria, sarai contento d’aver combattuto. Se non salirà in alto il tuo nome, salirà il tuo spirito, e per questo solo benefizio che dall’arte avrai ricevuto, anche nella tristezza d’una nobile ambizione delusa, tu l’amerai ancora come un’amica dolcissima, la benedirai sempre come una consolatrice celeste.

 

[421]

AL MIO LETTORE IDEALE.

E ora addio, giovinetto, mio lettore ideale, ch’io mi vidi sempre dinanzi durante il mio lavoro, nell’aspetto d’un figliuolo più che d’un alunno. T’avesse dato il mio libro anche solo una minima parte del piacere con cui lo scrissi! E non fu un piacere che nascesse dall’illusione di mettere in atto degnamente un concetto che mi pareva buono, chè non fui contento un giorno di quanto facevo: nasceva dai mille ricordi che mi si ravvivavano, dalle mille immaginazioni che mi si destavano lungo il cammino; perchè non c’è studio che risvegli e rimescoli la memoria, quando si fa con amore, che affolli tanto la mente d’immagini quanto lo studio della lingua; e tu ne farai esperienza, spero. Fu come un viaggio di vari anni per il mio paese e a traverso la sua letteratura, dove quasi ad ogni parola mi s’alzava davanti la reminiscenza d’una lettura, la visione d’un fatto, il fantasma d’uno scrittore.

Pensa un po’: dai primi monaci del Duecento, divulgatori di leggende miracolose, fino agli [422] scrittori ancor viventi, quante diverse apparizioni, che sfilata maravigliosa di notari, di mercanti, di cardinali, di principi, d’ambasciatori, d’artefici, di capitani vestiti di ferro e di professori con la toga accademica o col cappello a cilindro! E tutti quanti si disegnavano sul mare ondeggiante delle trenta generazioni che fucinarono la lingua per tutti. In mezzo a quei personaggi saltavano su bambini di Firenze, dai quali avevo inteso la prima volta certe parole, assistendo ai loro giochi sul Viale dei Colli, e contadini con cui m’ero accompagnato per lunghi tratti nei miei viaggi a piedi per la campagna toscana; e fra i loro discorsi mi ritornavano in mente correzioni fatte ai miei lavori di scuola da antichi maestri, discussioni linguistiche avute con amici di trent’anni addietro, e casi e scene della vita, il cui ricordo m’era rimasto legato in capo con quel tal vocabolo o quella tal frase, senza una ragione ch’io percepissi. La lingua mi faceva rivivere il passato, come fa la musica, che riporta tutta l’anima nostra a grandi distanze di tempo e di spazio. E mi sentivo ringiovanire nel rimetter le mani, dopo molti anni, nei miei vecchi scartafacci d’appunti, ingialliti e polverosi, scritti in caratteri che non mi parevan più miei, e nel ricorrere certi vecchi libri sottolineati e annotati nei margini, che mi ricordavano letture notturne e care speranze della bella età ch’è ora la tua. Ringiovanendo nel pensiero, mi sentivo più vicino a te, e mi pareva che lavorassimo insieme.

Non tutti i miei pensieri erano lieti, peraltro. Riscontrando il significato proprio di certi modi, [423] m’accadeva qualche volta di riconoscere che li avevo usati sempre a sproposito; d’altri mi vergognavo di non averli imparati che poco prima di citarli a te con l’aria di saperli da un pezzo; e così di certi precetti e consigli ch’io ti davo, mentre la coscienza mi rinfacciava d’averli quasi sempre trasgrediti. Spesso anche mi sorgeva dinanzi il professor Pataracchi, gridando: – Ah, barbaro! E hai la faccia d’impancarti a far la lezione? Concerò io la tua carta stampata per il delle feste! – Oppure pensavo a questo o a quello scrittore morto o vivente, e dicevo: – Chi sa come avrebbe fatto o farebbe meglio di me questo libro! –, e mi tormentava la coscienza di mancare della facoltà e della dottrina che in quelli riconoscevo. E a volte mi prendeva un senso di sgomento, ed ero tentato di buttar la penna.

Ma in questi casi eri sempre tu, mio lettore ideale, indulgente come s’è all’età tua, che mi facevi animo a proseguire; era la tua immagine che mi veniva a dir la mattina: – Al lavoro! Qualche cosa n’uscirà, e anche quel poco mi potrà giovare.

E poi mi dava cuore un sentimento sempre più forte, ravvivato a quando a quando da un ricordo lontano, come una fiamma da un soffio di vento. Mi ricordavo d’un povero ragazzo italiano, che un giorno udii cantare una canzone malinconica in una strada d’una città d’oltralpe, e certi stranieri villani, da un terrazzino, lo beffeggiavano, ripetendo sformate le sue dolci parole, e rifacendogli il verso sguaiatamente. E a quel ricordo risentivo per la mia lingua, [424] scrivendo, quello che avevo sentito quel giorno all’udirla vilipendere con versacci di scherno: un amore ardente e altero, pieno di venerazione e di tenerezza, che mi faceva formar più saldo il proposito di servirla e d’onorarla nel miglior modo ch’io potessi, con tutta l’anima e per tutta la vita. E dicevo in cuor mio: – Se riuscissi a trasfondere questo sentimento nel mio lettore ideale! – E questa speranza mi dava un fremito di gioia e un nuovo impulso al lavoro.

E ora ti dirò ancora una bella cosa, come dice un trecentista. Credo che nella mente d’ogni scrittore, quando scrive un libro, si formi a poco a poco e finisca con l’essergli quasi sempre presente un’immagine, la quale gli rappresenta in forma simbolica il suo pensiero assiduo. Ed ecco quale fu per me quest’immagine, confusa da principio, poi da un giorno all’altro più netta. Io vedevo un palazzo smisurato, che sorgeva fra rovine colossali di monumenti romani, e nascondeva la sommità fra le nuvole. Presentava sovrapposte di piano in piano le architetture di vari secoli: dove semplici e severe, tutte grandi bozze di granito greggio, o marmi nudi nitidissimi; dove sopraccariche di sculture, coperte d’affreschi, messe a oro e a musaici di gemme, risplendenti come un seminìo di stelle. A tutte le altezze, sopra le cornici e nei fregi ricorrevano in lunghe file le effigie di mille scrittori coronati, che balenavano dagli occhi, come volti viventi; a somiglianza dei quali anche i fiori delle pitture, i fogliami dei capitelli, le figure delle colonne storiate, le cariatidi simboleggianti ogni forma della letteratura, tutto si moveva e viveva. E [425] dalle logge aeree, dagli ampi intercolonnii, da tutte le aperture dell’edifizio enorme e gentile, maestoso come una montagna e leggero come una cosa di sogno, uscivano canti di poeti, grida d’oratori, armonie gravi e soavissime di voci innumerevoli, che parevano venire da una lontananza sterminata. Ma non era la bellezza multiforme e magnifica la maggior maraviglia: era che tutte le linee e gli aspetti diversi dell’edifizio offrivano insieme, non l’effigie propria, ma l’espressione vaga e prodigiosa d’un volto, sul quale era diffusa la luce d’un sorriso ineffabile, misto d’alterezza regale e di dolcezza materna, e che a quando a quando le voci infinite si confondevano in una, immensa come la voce d’un mare che parlasse, ripetendo quanto di più grande e di più dolce ha detto al mondo l’Italia nello spazio di settecentanni....

Era l’edifizio della lingua italiana. E man mano che andavo innanzi, ingrandiva nella mente eccitata dal lavoro, e mi pareva sempre più bello e splendido, e che spandesse armonie più soavi e più solenni, e mi penetrava più profondamente nell’animo quel sorriso misterioso, come d’un volto sovrumano, che brillava nella maestà del suo aspetto.

Ma sempre, quando mi trattenevo ad ammirarlo, pensavo che a visitarne i tesori nascosti e le bellezze intime più maravigliose non t’avrei potuto guidare io stesso; e questo pensiero era un rammarico.

Ma che importa? Tu le visiterai con la scorta d’altri, o anche solo, più tardi. Ebbene, se il mio povero libro non t’ha annoiato, e se t’ha giovato [426] un poco, io ti chiedo questa ricompensa alla mia fatica: che quando t’aggirerai fra le meraviglie del palazzo incantato, ti ricordi qualche volta di me, che ti lascio sulla soglia, con tristezza, benedicendo i buoni propositi che porti nel cuore e le belle speranze che ti splendono in fronte.

 

Fine.

 

[427]

 

Per esser breve il più possibile ho fatto parecchie citazioni senza accennare i nomi e le opere degli scrittori, restringendomi a chiudere le frasi fra due virgole doppie; il che può bastare per gli scrittori morti, essendo quasi tutti notissimi i giudizi loro che ho citati; ma non basta per gli scrittori viventi. Accenno dunque, per debito di gratitudine e per utilità dei giovani lettori: – La lingua dei Promessi Sposi, di Francesco d’Ovidio, che tutti gli studiosi della lingua dovrebbero leggere. – L’arte del periodo nelle opere volgari di Dante Alighieri e del secolo XIII, ottimo studio critico di Giuseppe Lisio. – Storia della letteratura italiana, di Vittorio Rossi. – La formazione della prosa moderna, prolusione di Dino Mantovani. – La filosofia delle parole, di Federico Garlanda. – Abruzzesismi, Calabresismi, Sardismi, di Fedele Romani. – Grammatica italiana dell’uso moderno, di Raffaello Fornaciari. – L’Italia dialettale, di G. I. Ascoli. – Manuale della Letteratura italiana, di Alessandro d’Ancona e Orazio Bacci. Quelli ch’io posso aver dimenticati, mi perdonino. E mi perdonino anche i miei carissimi amici Guido Mazzoni e Cesario Testa l’indiscrezione che commetto esprimendo loro pubblicamente la mia gratitudine per l’aiuto validissimo che mi diedero nella revisione del libro.

 

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