Edmondo De Amicis: Raccolta di opere
Edmondo De Amicis
Ricordi di Parigi

VITTOR HUGO

II.

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II.

 

Io credo, esprimendo quello che penso di Vittor Hugo, d'esprimere presso a poco quello che ne pensano tutti i giovani del mio tempo. Non c'è nessuno di noi, certamente, che non si ricordi dei giorni in cui divorò, giovanetto, i primi volumi dell'Hugo che gli caddero fra le mani. È stata senza dubbio per tutti una emozione nuova, profonda, confusa, indimenticabile. Tutti ci siamo, domandati tratto tratto, interrompendo la lettura: - Che uomo è costui? - Nello stesso tempo dolce e tremendo, fantastico e profondo, insensato e sublime, egli mette accanto a una stramberia rettorica che rivolta, la rivelazione d'una grande verità che fa dare un grido di stupore. Colla stessa potenza ci fa sentire la dolcezza del bacio di due amanti e l'orrore di un delitto. È ingenuo come un fanciullo, è truce come un uomo di sangue, è affettuoso come una donna, è mistico come un profeta, è violento come un oratore della Convenzione, è triste come un uomo senz'affetti e senza speranze. In cento pagine ci mostra cento faccie. Egli sa esprimere tutto: sensazioni vaghe dell'infanzia, su cui s'era mille volte tormentato invano il nostro pensiero; i primi inesplicabili turbamenti amorosi della pubertà, le lotte più intime del cuore della fanciulla e della coscienza dell'assassino; profondità segrete dell'anima, che sentivamo in noi, ma in cui l'occhio della nostra mente non era mai penetrato; sfumature di sentimenti che credevamo ribelli al linguaggio umano. Egli abbraccia colla mente tutto l'universo. Ha, se si può dire, due anime che spaziano contemporaneamente in due mondi, e ogni opera sua porta l'impronta di questa sua doppia natura. Chi non ha fatto mille volte quest'osservazione? In alto v'è quel suo eterno ciel bleu che ricorre ad ogni pagina, i firmamenti mille volte percorsi, gli astri continuamente invocati, gli angeli, le aurore, gli oceani di luce, mille sogni e mille visioni della vita futura, un mondo tutto ideale, in cui egli si sprofonda come un estatico, trasportando con il lettore abbarbagliato e stordito; e sotto, dei mari neri e tempestosi, tenebre su tenebre, la sua eterna ombre, i suoi abîmes, i suoi gouffres, il bagno, la cloaca, la corte dei miracoli, il carnefice, il rospo, la putredine, la deformità, la miseria, tutto quanto v'ha di più orribile e di più immondo sopra la terra. Il campo della sua creazione non ha confini. Ravvicinate Cosetta e Lucrezia Borgia, Rolando della Leggenda dei secoli e Quasimodo, Dea e Maria Tudor, Gavroche e Carlo V, le sue vergini morte a quindici anni, i suoi galeotti, i suoi sultani, le sue guardie imperiali, i suoi pezzenti, i suoi frati, e vi parrà d'aver dinanzi l'opera non d'un solo, ma d'una legione di poeti. Riandate rapidamente tutte le sue creazioni: esse lasciano l'impressione d'un'enorme epopea di frammenti, che risale da Caino a Napoleone il grande, e una memoria confusa di amori divini, di lotte titaniche, di miserie inaudite, di morti orrende, viste come a traverso a una bruma paurosa, rotta qua e da torrenti di luce, in cui formicola una miriade di personaggi metà creature reali e metà fantasmi, che sconvolgono l'immaginazione, Tutte le opere sue son come colorate dal riflesso d'una vita arcana ch'egli abbia vissuta, altre volte, in un mondo arcano, al quale par che alluda vagamente ad ogni pagina, e alle cui porte s'affaccia continuamente, impaziente dei confini che gli sono assegnati sulla terra, Una fantasmagoria immensa di cose ignote all'umanità par che lo tormenti di continuo, come una visione febbrile. Tutto quello che v'è di più strano e di più oscuro sul limite che separa il mondo reale dal mondo dei sogni, egli lo cerca, lo studia e lo fa suo. I re favolosi dell'Asia, le superstizioni di tutti i secoli, le leggende più bizzarre di tutti i paesi, i paesaggi più tetri della terra, i mostri più orribili del mare, i fenomeni più spaventosi della natura, le agonie più tragiche, tutte le stregonerie, tutti i delirii, tutte le allucinazioni della mente umana sono passate per la sua penna. Egli vede tutto per non so che prisma meraviglioso; a traverso il quale, per contro, il lettore vede sempre lui. In fondo a tutte le sue scene e dietro tutti i suoi personaggi spunta la sua testa enorme e superba. Quasi tutte le sue creature portano l'impronta colossale del suo suggello, e parlano il linguaggio del genio; sono, come lui, grandi poeti o grandi sognatori; statue, a cui ha stampato sulla fronte il suo nome; larve dai contorni più che umani, che si vedono ingigantite come a traverso le nebbie dei mari polari, o accese della luce d'una glorificazione teatrale che le trasfigura, Così Javert, Gymplaine, Triboulet, Simoudain, Gilliat, Giosiana, Ursus, Quasimodo, Jean Valjean. Così il suo Napoleone III, rappresentato come un volgare malfattore, tutto d'un pezzo, liricamente. Pochi i personaggi d'ossa e di carne, che abbiano la nostra statura e la nostra voce. E così la sua cattedrale di Notre Dame, convertita da lui in un monumento enorme e formidabile come una montagna delle Alpi. Tutte le sue creazioni sono, com'egli dice delle onde di un oceano in tempesta, mélanges de montagne et de songe. Solo nel primo momento della concezione è osservatore tranquillo e fedele; poi la sua natura invincibilmente lirica irrompe, ed egli afferra colla mano poderosa la sua creatura, e la trasporta al di sopra della terra. Dalla prima all'ultima pagina è sempre presente, despota orgoglioso e violento, e ci fa della lettura una lotta. Ci caccia innanzi a spintoni, ci solleva, ci stramazza, ci rialza, ci scrolla, ci umilia, ci travolge nella sua fuga precipitosa, senza dar segno d'avvedersi che noi esistiamo. Balziamo rapidissimamente fra i più opposti sentimenti che può suscitar la lettura, dalla noia irritata all'entusiasmo ardente, come palleggiati dalla sua mano. Eterne pagine si succedono in cui l'Hugo non è più lui, Egli travia, erra a tentoni nelle tenebre, e delira. Non sentiamo più la parola dell'uomo; ma l'urlo o il balbettio del forsennato. E i periodi enormi cascano sui periodi enormi, a valanghe, oscuri e pesanti, o i piccoli incisi sui piccoli incisi, fitti e rabbiosi come la grandine, e s'incalzano e s'affollano confusamente le assurdità, le vacuità, le iperboli pazze e le pedanterie. Vittor Hugo pedante! Eppure sì; quando ci esprime cento volte l'idea che abbiamo afferrata alla prima, quando ci mostra lentamente e ostinatamente, una per una, le mille faccette d'una pietra ch'egli crede un tesoro e ch'è un diamante falso. E in quel frattempo, mentre sonnecchiamo o fremiamo, ci si affacciano alla menti; le analisi spietate dei critici, lo ire dei classicisti, gli anatemi dei pedanti, gli scherni dei suoi infiniti avversarii, e stiamo per dir: - Han ragione! - Ma che! Arrivati in fondo alla pagina, v'è un pensiero che ci fa balzare in piedi e gridare: - No, per Dio! Hanno torto! - ; una frase che ci s'inchioda nel cervello e nel cuore per tutta la vita; una parola sublime, che ci compensa di tutto. E l'Hugo è di nuovo ritto e gigante sul piedestallo che vacillava. Questa è la sua grande potenza: lo scatto improvviso, la parola impreveduta che ci rimescola, il lampo inaspettato che illumina la vasta regione sconosciuta, la porta bruscamente aperta e richiusa per la quale intravvediamo il prodigio, un gran coup dans la poitrine, come direbbe lo Zola, che ci toglie per un momento il respiro, e ci lascia rotti e sgomenti. Non è l'aquila che si libra sull'ali; è il masso che erompe dal vulcano, tocca le nubi e ricasca. La sua arte è quasi tutta qui: un lungo lavorìo paziente che prepara un effetto inatteso. Egli non ha riguardi per noi mentre prepara; ci strapazza e ci provoca; è un lavoratore sprezzante e brutale; non bada alle nostre impazienze, alle nostre censure. I suoi difetti sono grandi come il suo genio; non nèi, ma gobbe colossali, che ci fan torcere il viso. L'architettura della più parte dei suoi romanzi è deforme. Sono episodi spropositati, spedienti brutali, inverosimiglianze sfrontatamente accumulate, fili di racconti pazzamente spezzati e riannodati; divagazioni, o piuttosto corse furiose, di cui non si vede la meta, e che fanno presentire a ogni passo un precipizio. Ma egli vuol condurvi , dove vuole, e vi trascina, renitenti, barcollando ed ansando, calpestando la ragione, il buon gusto, il buon senso, la verità. E a un certo punto vi svincolate gridando: - No, Hugo, non ti seguo! - e lo lasciate fuggir solo. Dov'è andato? È caduto? Ah! eccolo , sull'altura, colla fronte dorata dal sole. Ha vinto e ha ragione. Ma egli ha tutto per combattere e per vincere: ha l'audacia, la forza e le armi; ha il genio e la pazienza; è nato poeta e s'è fatto; ha scavato dentro a stesso, con mano pertinace, la vena più profonda dei suoi tesori; ogni opera sua è un immenso, lavoro di scavazione, a cui si assiste leggendo, e si sente il formidabile affanno del suo respiro. È una strana cosa veramente l'arte sua. Egli non ci presenta il lavoro fatto, il risultamento netto ed ultimo dei suoi sforzi, l'ultima idea a cui è arrivato per una successione d'idee; ma ci fa seguire tutto il processo intimo del suo pensiero, ci fa contare e toccare prima tutte le pietre con cui innalzerà l'edifizio, ci fa assistere a tutti i suoi tentativi inutili, a tutti i crollamenti successivi delle parti mal fabbricate, e vediamo poi l'edifizio compiuto, ma circondato e ingombro dei ruderi, ch'egli disdegna di spazzare. Il suo lavoro è uno strano accoppiamento di pazienza da musicista e di furia da pittore ispirato. Egli scrive come il Goya dipingeva. Ora minia, liscia, accarezza l'opera propria, lento, quasi sonnolento, minuto, scrupoloso; si diverte a stendere elenchi accurati di nomi e di cose, a spiegare il proprio concetto con similitudini interminabili diligentemente condotte; procede colle seste, cerca le simmetrie, dice, corregge, aggiunge, modifica, rettifica, sfuma, cesella, brunisce. A un tratto il soffio della grande ispirazione lo investe, e allora butta via il pennello delicato, e, come il Goya faceva, dipinge a furia con quello che gli casca fra le mani, spande i colori colle spugne, getta le grandi macchie cogli strofinacci e le scope, i tocchi di sentimento a colpi furiosi di pollice che sfondan la tela. Il suo stile è tutto rilievi acuti, rialti di granito, punte di ferro e vene d'oro, pieno d'asprezze e d'affondamenti oscuri, rotto qua e in grandi squarci, da cui si vedono prospetti confusi e lontani; ora semplice fino all'ingenuità scolaresca, ora architettato coll'arte sapiente d'un pensatore; a volta a volta acqua limpida e mare in burrasca, su cui errano nuvole rosee che riflettono il sole o nuvole nere da cui si sprigiona la folgore. Le immagini nuove e potenti pullulano a miriadi sotto la sua penna, e le idee gli erompono dal capo armate, impennacchiate, sfolgoranti; e sonanti, qualche volta offuscate dalla ricchezza e schiacciate dal peso dell'armatura. Egli non spende, profonde a piene mani, sperpera i tesori inesauribili della sua potenza espressiva col furore d'un giuocatore forsennato. La lingua sua non gli basta. Egli toglie ad imprestito il gergo della plebe, la lingua furfantina delle galere, il balbettio informe ed illogico dei bambini; tempesta la sua prosa di parole straniere di cento popoli e di traslati proprii di tutte le letterature; e si fabbrica superbamente un linguaggio suo, tutto colori e scintille, pieno d'enimmi e di licenze, di laconismi potenti e di delicatezze inimitabili; secondo il bisogno, triviale, tecnico, accademico, vaporoso, brutale, solenne; così che lette le sue opere, non par d'aver sentito parlare la lingua di un solo popolo e d'un solo secolo, ma una vasta e confusa lingua d'un tempo avvenire, per la quale non ci sia nulla d'inesprimibile e di straniero. Di questa potenza espressiva, come del coraggio del suo genio, egli abusa, e allora s'impiglia e si ravvolge nel proprio pensiero, e vi s'aggira come in un labirinto, senza trovarne l'uscita. Ma anche nei suoi smarrimenti è grande. Anche in quelle pagine affaticate, tormentate, astruse, in cui volendo esprimere l'inesprimibile, tenta da tutte le parti il proprio concetto, e accumula metafore su metafore, paragoni su paragoni, e ricorre inutilmente al suo misterioso linguaggio di tenebre e di luce, d'ombre e d'abissi, di inconnu e di insondable, e tutta la sua fortissima e ricchissima lingua non basta a render nemmeno una pallida idea di quel non so che di immane e di mostruoso che ha nel capo; in quelle pagine i freddi pedanti trovano con gioia una presa assai facile alla critica che distrugge e deride; ma l'anima dell'artista vi sente l'anelito del titano che lotta con una potenza sovrumana, e assiste a quegli sforzi poderosi con un sentimento di stupore e di rispetto, come a uno di quegli spettacoli in cui un uomo rischia la vita. Eppure si, leggendo le opere sue, accade qualche volta che, arrivati a un certo punto, lo squilibrio delle facoltà, la continua prevalenza della fantasia sfrenata sulla ragione, la eccessiva frequenza delle aberrazioni e delle cadute, vi stanca; i lampi di genio non bastano più a compensarvi dei continui sacrifizii che deve fare il vostro buon senso; siete sazii, sdegnati, qualche volta nauseati; sentite il bisogno di riposarvi da quella tortura; ritornate con piacere ai vostri scrittori sensati, rigorosi, sempre eguali; respirate, vi ritrovate nel mondo reale, benedite la logica, riacquistate la vostra dignità d'uomini e di lettori. E lasciate in un canto l'Hugo per mesi, e qualche volta per anni, e vi pare d'esservene staccati per sempre. Ma che! Egli v'aspetta. Un giorno arriva finalmente in cui, tutt'a un tratto, un entusiasmo a cui volete un'eco, un dolore che domanda un conforto, un bisogno istintivo di strano o di terribile, vi risospinge verso quei libri. E allora tutti gli entusiasmi sopiti si ridestano tumultuosamente. Egli v'afferra di nuovo, vi soggioga, siete suoi, rivivete in lui per un altro periodo della vostra vita. È perchè le somme linee delle opere sue sono veramente d'un genio. L'abuso ch'egli fa d'un concetto sublime, alla lettura, v'offende; ma spariti dalla memoria i particolari errati o eccessivi, il concetto vi resta incancellabile, e più s'appura col tempo, più vi pare che ingrandisca, e ingrandisce davvero. Le sue grandi idee e i suoi grandi sentimenti son grandi tanto che sovrastano ai difetti infiniti dell'arte sua, come le colonne d'un tempio antico ai rottami ammucchiati ai suoi piedi. E di qui nasce il fatto strano ch'egli ha più ammiratori ardenti delle sue creazioni che lettori fedeli dei suoi volumi, e che moltissimi ammiratori suoi non lo conoscono che nei frammenti delle sue opere, o nelle ispirazioni che v'hanno attinte le altre arti. Chi strapperà più dalla memoria umana Ernani, Triboulet, il campanaro di Nôtre Dame, l'amore di Ruy Blas, la disperazione di Fantina? E chi può scordare i brividi di terrore ch'egli ci ha fatto correre per le vene, e le lacrime che ci ha fatto sgorgare dagli occhi? Poichè egli può tutto, ed è grande nella tragedia e insuperabile nell'idillio. Noi tutti abbiamo sentito scricchiolare le ossa d'Esmeralda nel letto della tortura, e abbiamo visto faccia a faccia la morte, quando ce la presenta orrenda come in Claudio Frollo appeso al cornicione della cattedrale, o furiosa come sulla barricata di via Saint-Denis, o epica come sul campo di Waterloo, o infinitamente triste come nelle nevi della Russia, o solennemente lugubre, come nel naufragio dei Comprachicos. Ed è lo stess'uomo che fa vibrare sovrumanamente le corde più delicate dell'anima; l'autore del Revenant su cui milioni di madri singhiozzarono, l'autore di quel celeste Idillio di Rue Plumet, di quella santa agonia di Jean Valjean, che strazia l'anima, e di quei versi meravigliosi, in cui Triboulet spande piangendo l'immensa ed umile tenerezza del suo amore di padre. No, mai parole più dolci, preghiere più soavi, grida d'amore più appassionate, slanci d'affetto e di generosità più nobili e più potenti, sono usciti da un cuore di poeta. E allora Vittor Hugo è grande, buono, venerabile, augusto, e non c'è anima umana che in quelle pagine non l'abbia benedetto ed amato. In momenti solenni della vita, accanto al letto d'un moribondo, durante una grande battaglia della coscienza, i suoi versi ripassano per la mente, come lampi, e risuonano all'orecchio consigli d'un amico affettuoso e severo che ci dica: - Sii uomo! - Poichè egli ha tutto sentito, tutto compreso e tutto detto; ha le disperazioni tremende e le rassegnazioni sublimi; non v'è dolore umano a cui non abbia detto una parola di conforto; non c'è sventura al mondo su cui non abbia fatto versare delle lagrime. Egli è il patrocinatore amoroso e terribile di tutte le miserie, dei diseredati dalla natura e degli abbandonati dal mondo, di chi non ha pane, di chi non ha patria, di chi non ha libertà, di chi non ha speranze, di chi non ha luce. Questa è la sua grandezza vera e incontestabile. Non c'è altro scrittore moderno che abbia esercitato con una maggior quantità d'opere e con una più intrepida ostinazione questo glorioso apostolato; che abbia maneggiato un pennello più potente per dipingere le miserie, un coltello anatomico più affilato per aprire i cuori straziati, uno scalpello più magistrale per scolpire gli eroi della sventura, un ferro più rovente per segnare la fronte di chi fa soffrire, una mano più delicata per accarezzare la fronte di chi soffre. Egli è il grande assalitore e il grande difensore; ha combattuto su tutte le arene; è salito su tutte le sommità ed è sceso in tutte le bassure. E questo è ammirabile in lui, che per quanto sia disceso, non s'è mai abbassato. La sua mano è rimasta incontaminata fra tutte le sozzure in cui sguazzò la sua penna. Egli non ha mai prostituito l'arte sua. È austero e superbo. Non s'inflette e non ride. Il suo riso non è che una maschera, dietro la quale s'intravvede sempre il suo volto pallido e accigliato. Una specie di tristezza fatale pesa su tutte le opere sue. Anche nella sua grande e costante aspirazione alla virtù, alla concordia, alla pace, alla redenzione degli oppressi e degli infelici, v'è qualcosa di malinconico e di tetro, come se le mancasse l'alimento della speranza. Tutti i suoi libri terminano con un grido straziante. Tutte le voci che escono dalle sue opere formano, riunite, un lamento solenne, misto di preghiera e di minaccia. La sua stessa credenza in Dio, quella ch'egli chiama la suprema certezza della sua ragione, è forse piuttosto un'aspirazione potentissima del suo cuore e un pascolo immenso della sua immaginazione smisurata, che una fede ferma, in cui la sua anima si riposi: la fede è una sorgente, a lui necessaria, di torrenti di poesia, e Dio è un personaggio dei suoi romanzi e dei suoi canti. Da qualunque lato si guardi, apparisce in lui qualcosa di strano e di non chiaramente esplicabile. L'uomo non emerge netto dallo scrittore. Si stende la mano a toccarlo, e invece della carne umana, si sente una sostanza nuova al tatto, che fa rimanere perplessi. La sua figura, velata, s'innalza, s'abbassa, s'avvicina, s'allontana, e non presenta mai per tanto tempo i contorni fermi e precisi, da poterseli fissare immutabilmente nel pensiero. E così v'affaticate per anni intorno alle sue opere senza riuscir mai a formarvene un giudizio che non abbiate di tratto in tratto a mutare. Esse offrono mille parti scoperte alla critica d'un fanciullo, e presentano mille aspetti irresistibili all'ammirazione dell'uomo. C'è poco da obbiettare a chi le lacera senza remissione, non si sa che cosa opporre a chi n'è entusiasta appassionato. Distruggetele col ragionamento: esse si rialzano da , a poco a poco, nella vostra mente, più maestose e più salde. Disponetevi invece ad adorarle ciecamente, e sarete ogni momento costretti a soffocare mille voci di protesta che usciranno dal vostro cuore e dalla vostra ragione. Una sola cosa è fuor di dubbio, ed è che non si può rifiutare a quest'uomo il titolo augusto e solenne di Genio. Il più ostinato avversario suo sente, in fondo a stesso, chè la qualificazione di «ingegno», da qualunque attributo accompagnata, non basta per lui. Potete preferirgli una legione d'altri ingegni viventi; ma siete costretti a riconoscere che alle mille teste di quella legione sovrasta la sua. Potete voltargli le spalle, ma non potete fare un passo senza mettere il piede sulla sua ombra. Ma è difficile credere che la ripugnanza dell'indole, o la disparità del gusto e delle idee, o l'odio di parte possano tanto in un uomo da fargli negare la grandezza che presentano insieme le creazioni, le lotte, i trionfi, gli errori e gli ardimenti di questo vecchio formidabile. Per me, penso ai suoi cinquanta volumi, pieni d'ispirazioni e di fatiche, in cui si rivela col genio prepotente una volontà indomabile o una tempra fisica d'acciaio; penso ai torrenti di vita che uscirono dal suo petto, all'amore immenso che profuse, alle ire selvaggie e agli odii implacabili che provocò e che gli infuriarono nell'anima; ricorro la sua vita da quando giocava, ragazzo, sotto gli occhi di sua madre, noi giardino delle Feuillantines; lo vedo, sedicenne, quando scriveva in quindici giorni, per guadagnare una scommessa, le pagine ardenti di Bug-Jargal; penso a quando comprò il primo scialle a sua moglie coi denari dell'Han d'Islanda; me lo raffiguro, fiero e impassibile, in mezzo alle tempeste delle assemblee scatenate dalla sua parola temeraria; lo vedo servire umilmente i quaranta bambini poveri seduti alla sua mensa a Hauteville-house; me lo rappresento grave e triste, in mezzo alla folla, dinanzi ai cento sepolcri illustri su cui fece sentire la sua parola piena di maestà e di dolcezza; lo vedo per le vie di Parigi, in mezzo alla moltitudine riverente, costernato e invecchiato, seguire i feretri dei suoi figli; lo vedo in quelle sue veglie febbrili, ch'egli descrisse così potentemente, quando di lontano, nel silenzio della notte, sentiva squillare il corno di Silva ed echeggiare il grido di Gennaro; lo vedo assistere nel Teatro francese, dopo mezzo secolo dalla prima rappresentazione, al trionfo clamoroso dell'Hernani, salutato dai primi scrittori e dai primi artisti della Francia, come il loro Principe rieletto e riconsacrato; penso al suo Oriente splendido, al suo Medio evo tremendo, alla Preghiera per tutti, all'infanta che perde la rosa mentre Filippo II perde l'Armada, alla carica dei corazzieri della guardia contro i quadrati del Wellington, alla scarpetta d'Esmeralda, all'agonia d'Eponina, a tutte le creature del mondo arcano, sfolgorante, immenso che uscì dal suo capo; al suo esilio, alle sue sventure, ai suoi settantasette anni, - e sento una mano che mi fa curvare la fronte.

 

 

 


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