Edmondo De Amicis: Raccolta di opere
Edmondo De Amicis
Speranze e glorie; Le tre capitali: Torino-Firenze-Roma

Speranze e Glorie.

VI. Per Gustavo Modena. (Inaugurandosi un suo busto in Torino.)

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VI.

Per Gustavo Modena.

(Inaugurandosi un suo busto in Torino.)

 

Ecco quale fu, nella maturità degli anni e del genio, effigiato mirabilmente, l'artista grande, il cittadino fortissimo. Per tutt'e due questa è un'ora di gloria. Come l'attore vedeva nel suo uditorio un popolo e di dal teatro l'Italia, noi vediamo nel suo simulacro l'apostolo e il soldato della libertà, e sopra la corona dell'artista, l'aureola del patriotta.

L'Italia e l'arte furono i suoi affetti supremi, alla redenzione d'entrambe consacrò ogni sua forza; ma non di pari affetto le amò: risolutamente, in ogni evento, antepose la Madre alla Dea.

Simbolo della doppia opera sua fu egli stesso quando in Roma assediata, confidente del Mazzini triumviro, recitò a beneficio dei feriti, mentre tuonava il cannone alle mura e nelle vie dintorno squillavano le trombe. Fra le ansie e i cimenti della guerra compiva un atto benefico, in pro della patria, col mezzo dell'arte: tale fu la sua vita. E così strettamente si congiunsero in lui l'ideale dell'artista e l'intento del cittadino, la potenza del genio e la fortezza dell'animo, che non può nessuno, senza offender la ragione e la giustizia, scindere virtù da virtù nell'ammirazione che gli tributa.

 

Nel Davide ventenne che esordisce superbamente a Venezia due anni dopo che è nata Adelaide Ristori, quattro anni prima che nasca Tommaso Salvini, palpita ancora l'intrepido studente di Padova che una santa indignazione avventa, inerme, contro le baionette tedesche da cui ha le carni lacerate. Nel Cittadino di Gand, spregiatore della morte, freme il patriotta del 1831 che vuol morire sotto le rovine d'Ancona e che nella difesa sanguinosa di Cesena arrischia fra i più temerari la vita. Vestito del lucco fiorentino, quando primo fra gli stranieri volto e voce alle ire magnanime di Sordello e Farinata, egli è l'esule doloroso che Dante perscruta «scendendo in stesso» e nelle calamità dell'Italia dei suoi giorni comprende lo spirito del poema sacro. Ed è ancora il difensore valoroso di Treviso e di Palmanova che ci appare sotto l'assisa del sergente Guglielmo; è il potente oratore dell'assemblea costituente toscana, propugnante l'unione immediata a Roma, che tuona nell'eloquenza infiammata di Caio Gracco; e nel diacono di Ravenna, che narra a re Carlo il passaggio ardimentoso delle Alpi, mentre l'autor dell'«Adelchi» ascolta ed ammira, parla il fuoruscito senz'asilo, che valica a piedi le montagne del Giura, lacero e digiuno, ma non prostrato dell'animo, divorato dalla febbre, ma sorridente d'amore alla sposa eroica e dolce che lo accompagna.

 

Dubbio è veramente sotto quale aspetto gli si debba oggi onoranza maggiore. Nobile, ammirabile è l'artista sommo che, offertagli la direzione della regia Compagnia sarda, ricusa per coscienza repubblicana il lucro e l'onore, e va di città in città, di villaggio in villaggio, principe ramingo e solitario dell'arte, non chiedendo all'arte che la vita, e trascinando la sua gloria come una croce. Ma ammirabile non men dell'artista è il ribelle che, minacciato dal capestro austriaco e dalla mannaia romana, tradotto in catene a Messina, scampato per miracolo in Francia, ritorna a sfidare il carnefice nella Romagna insorta, donde non porta in salvo la testa che per avventurarla un'altra volta tra i primi nell'insurrezione di Savoia. Ma ammirabile non men del ribelle è il cooperatore proscritto della «Giovine Italia» che, scacciato da Marsiglia a Berna, da Berna a Bruxelles, da Bruxelles a Londra, esercitando i commerci più umili, rifiutando i sussidi, stentando il pane, porta alta fra ogni gente la dignità della sua bandiera e della sua sventura. E più grande dell'attore trionfante, nel pieno splendore della sua fama, fra gli applausi frenetici di Milano redenta, è l'attore del 1848, al quale i primi annunzi del ridestarsi d'Italia confondono il cuore e troncano la parola alla ribalta; è il direttore di Compagnia che scrive al compagno d'arte e d'affari: - «Guerra e rivoluzione sciolgono ogni contratto» - e calpestando danaro e corone accorre per la quarta volta, soldato della patria, dove fuma la polvere e il sangue.

 

Cittadino e artista, ebbe due grandi intenti: innalzar l'arte ad apostolato di risorgimento nazionale, facendo del palco tribuna all'amor patrio, altare all'eroismo, gogna alla tirannide, e rigenerar l'arte stessa riconducendola al vero, senza deviarla da quell'ideale del bello e del grande, cha fu il sole dell'anima sua.

Ma convien ricordare quali fossero l'arte e il teatro quando, reduce dall'esilio, egli s'accinse all'opera, per comprendere qual cumulo di difficoltà gl'ingombrasse la via, quanto vigor di coraggio e di costanza gli occorresse a superarle, e come fosse da tanto egli solo che, già chiaro per ardimenti, dolori e invitta fede italiana, raccoglieva in il rispetto e la simpatia delle varie classi cittadine, nel sentimento della patria concordi, nel sentimento dell'arte divise.

Cadente il regno della tragedia classica e della commedia goldoniana e non ancor pregiate che dalla schiera colta le opere italiane dei nuovi ingegni e le poche buone che venivan d'oltralpe; appassionata la moltitudine per un bastardo romanticismo drammatico, nel quale ai pochi attori eletti che, pur piegando al falso, intendevano al vero, prevaleva un branco d'istrioni manierati e gonfi come il linguaggio dei loro eroi; miserrimo non per tanto lo stato della più parte delle compagnie comiche, preferendo l'aristocrazia il teatro francese e la borghesia la musica, a cui il teatro di prosa era anche peggio d'ora immolato; disparatissimi infine, senza confronto più che al presente, per essere smembrata l'Italia, i gusti delle varie cittadinanze, che dalla scena distraeva il presentimento, la preparazione, l'incalzarsi dei grandi avvenimenti politici: tali erano il teatro, l'arte, il pubblico quando Gustavo Modena sorse.

In così aspro campo, in contro a tante forze ebbe a combattere, e combattè tutta la vita. - Memorando ardimento! - come disse dell'Alfieri il Leopardi. Gli è strappato il frutto di otto anni di fatiche dalla confisca austriaca del suo podere di Treviso; da una città all'altra d'Italia è costretto a viaggiare con le cautele d'un fuggiasco per evitar gli Stati donde è bandito; è relegato da ultimo dentro ai confini del Piemonte e della Liguria dove gli è forza di scendere fino ai teatri più miseri, e dalla salute mal ferma è ricondotto ogni inverno al suo romitorio di Torre Pellice, donde lo ricaccia alla scena, e dalla scena al commercio, il bisogno; ma non si perde d'animo mai. Altero e indomabile, egli lotta con le censure dispotiche, coi municipii gretti, con gli appaltatori ingordi, con le compagnie privilegiate, con cittadinanze indifferenti o, per ragion di parte, malevole, che gli avvelenano la gioia dei trionfi, e, pure lottando e peregrinando senza tregua, lavora e crea senza posa. Crea personaggi, educa alunni, divina ingegni, incoraggia autori, propone e discute soggetti di dramma, ricorre tutte le letterature drammatiche, commenta e traduce, scrive di politica e d'arte, vagheggia fino agli ultimi giorni, per il risorgimento del teatro, il suo sogno d'una Compagnia libera, e soltanto sul letto di morte, e dopo aver provveduto alla sorte della moglie adorata che gli singhiozza sul cuore, trova finalmente riposo. Quanto fu tempestosa la sua vita, tanto la sua morte è serena; affranto da tante fatiche, egli s'addormenta senz'affanno, e sul suo viso tragico, ultimo riflesso della coscienza intemerata, resta un sorriso.

 

Quale fu l'arte sua? Audacia sarebbe il tentar di descriverla con ricordi vaghi dell'adolescenza. Ma chi lo potrebbe far degnamente?

Dicendo, come altri disse, che classico e realista ad un tempo, e novatore senza infrangere ogni tradizione della scuola antica, studiava i grandi personaggi nella storia, nella letteratura, nell'anima propria, e li coloriva giovandosi con sagacia acutissima della sua varia e profonda esperienza della vita, e dava loro con efficacia insuperabile il grido delle sue gagliarde passioni, si dice l'armonia e la profondità delle sue facoltà artistiche, non l'originalità stupenda della sua recitazione.

Dicendo che, maestro impareggiabile nell'arte di modulare il verso e il periodo e di dare allo studio faticoso l'apparenza dell'ispirazione spontanea, egli accoppiò a una mobilità maravigliosa del volto una voce a cui erano concessi i passaggi più ardui e le note più alte e terribili che possano erompere dal petto umano, che la sua persona poderosa si ergeva come la forma ideale della maestà e della forza e si piegava e immeschiniva fino all'aspetto più compassionevole dell'infermità e della miseria, e che il suo passo parlava e il suo gesto scolpiva e i suoi occhi fulminavano, si dice quello che d'altri grandi attori fu detto.

E chi anche lo descrivesse nella rappresentazione intera d'un personaggio, rammentando, come altri fece, le voci, i gesti, i passi, ogni idea sua propria, renderebbe pur sempre una sola delle cento facce del suo genio; il quale da Lindoro a Saul, da Luigi undecimo a Edipo, ascese tutta quanta, la scala smisurata del dramma, come nella dizione magistrale della «Divina Commedia» risalì da Vanni Fucci a San Pietro.

Potremmo accumulare immagini sopra immagini, e faremmo per chi non l'intese opera vana, come il definir con parole a chi non lo vide ciò che distingue dagli altri mille il viso d'un uomo. Non v'è giudizio di posteri per l'arte che rifà più vivamente la vita. Grida di dolore e di sdegno a cui sobbalzava la folla come alla voce stessa della patria e in cui pareva espandersi l'odio d'un'intera generazione contro la tirannide, scoppi di pianto disperato onde mille visi impallidivano, lampi della parola che illuminavano recessi ignorati dell'anima e altezze non prima vedute del pensiero ond'egli era interprete, e atteggiamenti nobili e superbi come forme statuarie di Michelangelo, voi non siete più che nella mente d'alcuni, nati nella prima metà del secolo, e sarete fra pochi anni scomparsi affatto anche dalla memoria degli uomini.

Scomparsi, ma non perduti.

Come non si perde l'acqua fecondatrice che la terra beve e rispande in umor vitale su per le fibre dell'erbe e degli alberi, tale è di tutto ciò, che fu la grande arte sua: gli accenti, gli atti, gli sguardi, tramutati in forza di passione e di idee nella generazione che li vide e li udì, operano ancora, eredità ignorata, nella generazione presente, e in mille echi e riverberi vivono tuttavia nell'arte d'oggi, e nell'arte avvenire perdureranno. L'arte si trasforma e procede, ma Gustavo Modena non muore. Sulla fronte dei novatori più arditi brilla ancora un raggio del suo spirito, e fin che nel teatro italiano avranno culto la verità e la grandezza, ad ogni rappresentazione dei capolavori ch'egli segnò del suggello del suo genio, si vedrà passare in fondo alla scena l'ombra enorme del suo capo.

 

Ma non nell'arte soltanto e nel nostro spirito: rimane gran parte dell'anima sua in quell'epistolario incomparabile, nel quale, più che l'arguzia inesausta e la cultura varia e l'agile vigore d'uno stile esuberante di vita, anche i suoi più fieri avversari politici son forzati ad ammirare la sincerità profonda e la saldezza incrollabile della sua fede.

Repubblicano fu, nel fondo dell'anima, dalla prima giovinezza alla morte, e propugnatore d'una politica audacemente rivoluzionaria, aborrente da ogni aiuto straniero, che non procedesse anch'esso da rivoluzione, intendendo a una confederazione europea di repubbliche. E certo è che quanto ei voleva sarebbe stato saggio e attuabile se tutti gli italiani avessero avuto mente e fibra pari alla sua. Questo appunto egli credè fermamente, come lo credè il suo maestro; onde gli parve verità afferrabile quell'ideale che, giusta la sentenza d'un grande, è la verità veduta di lontano; e lontana facevano allora la verità dalla sua fede le moltitudini immature a quella forma di reggimento liberissimo e impotenti a quell'azione indipendente, unanime, eroica, fuor della quale egli non vedeva salute. Il disinganno lo trafisse; ma da quello ch'ei stimò errore e sventura del suo popolo, non da misere ambizioni deluse, non da angusto risentimento d'orgoglio offeso, derivò l'amarezza iraconda che lo fece così fieramente severo coi suoi contemporanei e con l'opera loro. E però il suo dolore è nobile, l'ira generosa, e il grido che s'alza dalla sua coscienza spartana contro la servilità e la corruzione che dànno di i primi segni, è grido di profeta. E fa professione di scettico invano: egli infuria e impreca perchè soffre, e soffre perchè ama ancora; e nel suo riso di disprezzo trema un ruggito e il sarcasmo atroce che gli scatta dalle labbra stilla sangue del suo cuore.

Ah, quanto è diversa l'opera dell'uomo dalla parola della sua collera! Dice: - Disprezzo il mio prossimo, sono nauseato di tutti e d'ogni cosa; - ma, stanco e infermo, e bastante appena a provvedere a stesso, recita a beneficio di compagni d'arte e di Società operaie, soccorre emigrati e proscritti, e fino a pochi giorni prima di morire porge la sua povera borsa a quanti naufraghi del teatro gli tendon la mano. Scrive: - L'Italia è morta; stoltezza è sacrificare i moltissimi buoni alla rigenerazione dei molti vilissimi; - ma sottoscrive a prestiti per la causa italiana, sussidia giornali, fonda tiri a segno, il suo obolo e il suo consiglio per affrettare ogni moto in cui appaia un barlume di speranza, e la notizia dei supplizi di Mantova gli strappa dall'anima dilaniata lacrime di sangue. Afferma - che il nome della sua patria gli s'è fatto odioso e che vuol rifugiarsi e farsi seppellire in un angolo della Svizzera dove non ne giunga più il suono; - ma, invitato a recarsi in America, dove potrebbe assicurar l'agiatezza della sua vecchiaia, dalla patria non ha il coraggio di staccarsi e, indispettito contro medesimo, rifiuta, e resta nel suo eremo, dove si leva innanzi giorno per attinger l'acqua e accendere il fuoco. Grida in un impeto di rabbia: - Meglio la casa d'Absburgo che ci trattava a ragione come negri; - ma quando in nome dell'arciduca Massimiliano gli sono offerti salvacondotto, onori e guadagni perchè vada a recitare in Milano austriaca - No - risponde - piuttosto la fame.

 

Tale era in fondo questo povero grande cuore ferito che, a parole, malediceva la patria e rinnegava l'umanità; tale era quest'anima in stato di procella perpetua, quest'artista glorioso e sdegnoso che, se il teatro gli fosse stato precluso, sarebbe riuscito uno scrittore illustre, che, se a più alte prove lo avessero posto gli eventi, sarebbe stato un eroe, che se avesse sortito la ricchezza l'avrebbe usata come quei benefattori insigni che la storia ricorda e il popolo benedice.

Bello è che sorga un monumento in suo onore nella Capitale del Piemonte, che fu ultimo rifugio alla sua vita errante e campo dei suoi ultimi trionfi. Non meno di quello che sorgerà nella sua Venezia nativa sarà rispettato e amato questo dal popolo, che per trent'anni lo attese. E la gioventù verrà con reverenza a contemplare questa fronte che non piegò mai, questi occhi in cui rifulse il genio, questa bocca che non macchiò adulazione menzogna, questo petto nel quale fremettero tutti i dolori e tutte le ire della patria oppressa, e che con pari coraggio sfidò la tirannia, sopportò la povertà, lottò per l'ideale e affrontò la morte....

Resti qui dunque perpetuamente, o Maestro venerato, la tua immagine, fidata alla guardia amorosa di questa Torino che raccolse il tuo ultimo sospiro e custodisce le tue ossa; resti invulnerata dai secoli al bacio del sole e della gloria, e dalla bocca di pietra spiri ancora alle generazioni venture il soffio della libera e grande anima tua.

 

 

 


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