IntraText Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
VII.
Per Felice Cavallotti.
Sono trascorsi sette giorni; alla prima oppressione dello sgomento e del dolore, che ci oscurarono lo spirito e ci strapparono il pianto dal cuore, è succeduta la tristezza profonda e lucida, che ricorda, medita e lamenta: eppure non possiamo ancor pronunziare senza un fremito d'angoscia ribelle a ogni rassegnazione, senza una ripugnanza del cuore incredulo e delle labbra tremanti - come se fossero un'orribile menzogna, queste tre sciagurate parole: - Felice Cavallotti non è più! - Noi non possiamo rassegnarci a pensare: - Altre ingiustizie pubbliche, altre violazioni della libertà, altri conati della reazione si succederanno, - ed egli le ignorerà; la patria patirà nuovi dolori, correrà nuovi pericoli, subirà forse altre vergogne - e le sue labbra taceranno; altri frodatori del comune avere, altri corruttori delle istituzioni patrie e profanatori del santo nome d'Italia compiranno le loro imprese, e la sua mano vindice - smascheratrice implacabile di tutti i mercanti del patriottismo - rimarrà inerte; supremi interessi nazionali si discuteranno, si combatteranno grandi battaglie politiche, care feste della patria, anniversari di giornate gloriose, conquiste e trionfi della libertà e del diritto si celebreranno in adunanze fraterne e solenni, - ed egli non v'assisterà. Felice Cavallotti che voleva dir forza, moto, azione, speranza inestinguibile, giovinezza perpetua - Felice Cavallotti che per noi teneva luogo d'una legione, del quale sentivamo anche da lontano l'alito possente e la voce che echeggiava sul paese come uno squillo di tromba - Felice Cavallotti che la nostra immaginazione, precorrendo il tempo, godeva a rappresentarsi ancora operoso e combattente nella più tarda vecchiaia, circondato dalla reveranza e dalla gratitudine pubblica.... bisogna pur che ci rassegniamo a profferire, a ripetere, a configgerci nel cervello e nel cuore queste tre terribili e quasi incredibili parole: - Felice Cavallotti e morto!
Commemorarlo? A che pro, se da tanti giorni non si parla che di lui? se la sua vita intera è presente al pensiero di tutti? E com'è possibile, mentre dura intenso ancora il dolore, aver libera la facoltà che ordina i fatti, collega i particolari, chiarisce e giudica i moventi e gl'intenti delle passioni e degli atti? Altri farà questo un giorno, forse molti lo faranno, e faranno opera utile e bella. Lo prenderanno fanciullo, crescente nel seno d'una famiglia amorosa, ma più vicina alla povertà che all'agiatezza, esercitato fin dai primi anni a sopportar con animo forte le privazioni, educato agli studi severi dal padre, dotto filologo, ch'egli aiuta nei suoi lavori; spiegheranno come nella furia delle sue prime letture di libri cavallereschi abbia avuto origine quello spirito generoso, avventuroso, battagliero, irrequieto che agitò tutta la sua vita; lo seguiranno a passo a passo, da quando, poco più che fanciullo, si mette a capo d'una dimostrazione patriottica e vaticina in un opuscolo l'unificazione della Germania, via via, per le varie tappe, soldato dì Garibaldi a Milazzo e al Volturno, collaboratore dell'«Indipendente» del Dumas a Napoli, poi a Milano, studente di legge, poeta e giornalista ad un tempo, faticante per guadagnarsi il pane; poi soldato un'altra volta nel '66, combattente a Vezza, in Val Camonica; poi da capo giornalista, nella capitale lombarda, polemista baldanzoso e indomabile, che smette a ogni tratto la penna per impugnare la sciabola; tradotto di processo in processo, fuggiasco all'estero, nascosto in Milano, poetante nella prigionia, e dopo ogni processo e ogni prigionia più infiammato e più audace di prima.
E pervenuto a questo punto il biografo non sarà ancora che al principio. Egli dovrà accompagnarlo nella sua vita parlamentare per un quarto di secolo, deputato di Corteolona, di Pavia, di Milano, di Piacenza; saldo sempre nella sua fede repubblicana, ma, com'egli disse - «italiano prima, repubblicano poi»; - lottante, salvo rare e brevi tregue, contro tutti i ministeri; paladino dell'Italia irredenta, nemico dell'alleanza austriaca, oppugnatore degli armamenti rovinosi, avversario della politica affricana, denunciatore di tutte le violazioni della legge, di tutti gli abusi del potere, di tutti gli sperperi dell'amministrazione; fiero, infaticabile rivendicatore della moralità pubblica, fu istigatore di tutti i prevaricatori e corrotti e complici loro, potenti ed oscuri, nel parlamento, nella stampa, nei tribunali, nei comizi, in tutte le regioni e da tutte le tribune d'Italia. Ma dovrà aggiungere il biografo come a questa lunga e guerresca vita parlamentare, segnata di discorsi e di tempeste memorabili, egli intrecciasse ancora, quasi senza interruzione per molti anni, l'opera poetica e drammatica, alternata di dure lotte e di vittorie sudate, e come all'opera della creazione artistica accompagnasse l'opera erudita, critica e polemica, condotta con lunghi e pazienti studi, nel campo del teatro, della storia, della nuova poesia: opera interrotta alla sua volta da nuovi processi, da nuovi duelli, da nuove tempeste, da commemorazioni ispirate e memorande di grandi fatti e di grandi morti, e da faticose e ardimentose campagne elettorali; e come infine in mezzo alle lotte, alle cadute e ai trionfi, inteso sempre e soprattutto alla grande voce del paese, egli abbandonasse ogni cosa sua quando suonava il grido d'una sventura pubblica, e accorresse a Napoli e a Palermo a soccorrere e a confortar le vittime dell'epidemia col coraggio d'un eroe e con l'amor d'un fratello. Sì, ammirabile vita, nella quale i venturi, secondo i principii politici e l'indole loro, potranno trovare errori, violenze, temerità, disarmonie; ma non disconoscere una grande forza diretta da una coscienza onesta, da un profondo amore della patria, da un'ardente passione per la verità, per la giustizia, per il bene; - ma non rifiutarsi ad ammirare una maravigliosa cospirazione di virtù della mente e dell'animo, rarissime a trovarsi riunite, quali son l'impeto dell'entusiasmo e la tenacia ferrea della volontà, la vigoria infaticabile del pensiero e dell'azione, e con una nobile ambizione di gloria, col sentimento e il culto della bellezza, con la vivacità degli affetti, con tutto quello che fa bella e cara la vita, la forza d'un cuore sempre pronto ad affrontar le persecuzioni, gli odii, il dolore, la povertà, a rinunziare senza titubanza e senza rammarico a ogni bene della vita e alla vita stessa, come se per lui la pace, gli affetti, la gloria, l'esistenza non avessero valore alcuno se accettate a prezzo di una transazione con la propria coscienza a d'una violenza fatta alla propria ragione. Sì, ammirabile vita, che si può simboleggiare in questa bella figura: un soldato con la camicia rossa, con una corona di poeta sulla fronte, ritto sopra una tribuna; il quale mostra le mani alla patria per cui ha combattuto per quarant'anni con la spada, con la penna e con la parola, e le dice: - Guardate, sono pure! Non le ho macchiate mai che del mio sangue.
Vediamo ora, rapidamente, il poeta lirico, il drammatico, l'oratore, il polemista, il cittadino, l'uomo.
Poeta fu, nel più profondo dell'anima. Di poeta ebbe - per usar le parole d'un suo illustre avversario - il soffio, l'essenza alata, l'anima lirica. Non cercò nuove forme: fece sue quelle della poesia patriottica che palpitava in tutti i cuori quand'egli s'affacciò alia vita, le forme del Rossetti, del Berchet, del Manzoni. Dice egli stesso all'autore della «battaglia di Maclodio»: - «quest'umile cetra apprese le forme da te, e il mio canto modula alla tua scuola gli accenti d'una speranza che non è più la tua». - L'impeto della passione soverchiante non gli poteva consentire le sottili e pazienti industrie di stile e d'armonia, che più tardi vennero in onore. La sua poesia fu propriamente un canto sgorgante dall'anima, poesia di battaglia, piena dì strepito d'armi, di schianti di fulmine, di fremiti di popolo, di grida d'ira e di dolore. La successione delle sue strofe di decasillabi somiglia all'incalzarsi di manipoli di combattenti che corrono all'assalto; nelle quali le rime sono punte di spada e i tronchi finali urrà di vittoria. Ma nell'uniformità dei metri facili e sonori, quanta varietà d'ispirazioni, dall'inno alla satira, alla romanza, all'elegia, all'epigramma, ed anche quanta sincerità e freschezza giovanile di passione! L'anima affaticata dagli urti e dalle procelle, ferita qualche volta dal taglio del sarcasmo di qui si fa arma, si rifugia in sè stessa, cerca conforto negli affetti gentili e pace in fantasie e sogni di solitudine e di oblìo, e allora un nuovo poeta vi appare, d'una dolcezza e d'una delicatezza squisita, che vi tocca le più intime fibre del cuore. Ma già questo poeta voi lo indovinate anche nelle poesie di battaglia, dove a ogni tratto spunta un fiore, brilla una goccia di pianto, suona una nota di mestizia soavissima. Vi ricordate quando dice al Manzoni morto: - «dormi, o vecchio, e sopra la tua zolla ti conforti i placidi sonni la rosa che ti donò Garibaldi»? - e quando dice a Adelaide Cairoli, rammentandole il giorno che pregava alla tomba del suo primo figliuolo caduto: - «Ma allora, dopo la preghiera, ti rialzavi più forte, perchè ti rimanevano, ti baciavano ancora in viso quattro figli; e t'era così dolce il cercare su quei quattro volti il sorriso del tuo morto!» - E quando al poeta che impreca, infuriando, al cadavere della donna amata che lo fece soffrire, dice quella dolce e sapiente parola: - «Ah no, non insultarla! Ah non nelle maledizioni e nello scherno troverai il refrigerio che vai cercando, povero poeta! Tu non sarai guarito se non il giorno che perdonerai!»
E vorrei proseguire: vorrei imitar l'esempio di Emilio Augier, che all'Accademia francese, dovendo tesser l'elogio d'un poeta illustre, disse: - Quale omaggio migliore gli si può rendere che quello di recitare i suoi versi? e conchiuse: - Non aggiungiamo nulla: portiamo con noi intera la nostra commozione, e che il poeta tramonti nella sua gloria. - Ma recitar quei versi che furono la più schietta e calda espressione dell'anima sua, e darmi così l'illusione di riudir quella voce che non udrò mai più, non potrei: la commozione me li soffocherebbe nel cuore. Evochiamo una sola, la più bella forse delle sue creazioni, quella in cui più mirabilmente s'accordano l'altezza del concetto, la grandezza del disegno e l'andamento grave e solenne del ritmo che par che segni il passo di Leonida armato nel silenzio della notte. Alla mente di tutti, senza dubbio, è presente la figura augusta dell'eroe che, al raggio delle stelle, risorto dalla tomba d'Antelo, con la grande asta nel pugno, discende, circonvolato dall'aquile, per andar a cercare se sia sorta nel mondo una nuova gloria pari a quella delle Termopili, e riposar là, in mezzo ai fratelli degni, dei suoi trecento. Si sofferma, ma non si arresta a Clierniea. No, - dice ai Tebani morti che lo chiamano:
No, no, dormite in pace! Vano fu il sangue, eroi!
Periste e non salvaste l'ellenia libertà!
Giunge a Maratona; ma non s'arresta. - No, - grida ai caduti che lo invocano - qui non rimango. -
Tutto, voi, tutto aveste! la gloria e la vittoria
Pei lari! È troppo dolce, morti, dormir così!
Giunge alle isole Arginuse, sulle onde sparse di triremi infrante e di salme insanguinate; ma non cede all'invito di Callicràtida: «No» - dice - «foste prodi, cinque contro venti; ma foste Elleni contro Elleni - e fu una squallida lotta».
Giunge al campo di battaglia d'Isso; ma procede, dicendo ai soldati di Alessandro, vincitori dei Persiani:
... Salvete, o morti! Leonida non dorme
Dove a un tiranno i lauri il greco acciar donò.
E non s'arresta a Gerusalemme dove l'invocano i crociati spenti, perchè, dice, «io non pugnai per espiar peccati nè mossi in cerca d'avventure e di ricchezza». E non s'arresta alle Piramidi, alla voce dei soldati di Buonaparte, perchè, grida:
Io non guidai sul colle i miei Trecento a Dite,
La libertà sul labbro e la conquista in cor!
E non s'arresta a Zama, dove gridano il suo nome i soldati di Scipione, sgominatore d'Annibale:
E voi giacete! Io passo! Troppi eravate in campo!
E i numidi elefanti v'apersero il sentier.
E trascorre oltre il campo di Munda, sordo alle voci dei legionari di Cesare, ai quali rinfaccia il motto del capitano:
Sul colle io per la patria pugnai, non per la vita:
Vincitori di Munda, lasciatemi passar!
E attraversa fiumi e monti, passa il Pirene, giunge in Provenza, si sofferma sul Rodano dove Mario distrasse i Teutoni; ma non s'arresta alla voce dei soldati di Mario, perchè sul sacro colle egli non attese, scrutando le stelle, l'ora in cui potesse combattere con la certezza della vittoria.
E varca le Alpi e scende in Lombardia; ma, sospinto dal ricordo della pace di Costanza, neppure a Legnano si arresta, perché
Se non dà frutti il sangue che val gloria d'allori?
Se libertà non germina, che val d'armi virtù?
Morti feconde io cerco, non vinti o vincitori;
Morti feconde e libere, tra quei che non son più.
E giunge finalmente sulla riva del Tevere, in vista di San Pietro, davanti a un'ara modesta, donde cento voci fioche lo salutano:
Noi pur, noi pur pugnammo in cinque contro venti,
E non fu indarno, o patria, nè il sangue, nè il morir!
A noi non la vittoria, ma dei fiacchi lo scherno:
Non i felici oròscopi, ma il pallido dover:
Non fratricidi allori, ma l'abbandon fraterno:
Non di tiranni il soldo, ma il raggio d'un pensier.
L'alme donammo al fato, non bugiarde parole,
Dall'ombra degli avelli guardando all'avvenir!... -
L'Ombra, inchinando l'asta, grida: - Stanotte vuole
Coi morti di Mentana Leonida dormir!
E così ora «tramonti il poeta nella sua gloria» accanto al suo Leonida, egli che alle Termopili sarebbe morto tra i primi, e che in difesa della libertà e della giustizia combattè per trecento.
L'autor drammatico. Nessuno, certo, attende qui un'analisi ragionata di quell'opera complessa e varia, coronata di successi clamorosi, provocatrice di aspre battaglie, feconda di tante vive discussioni storiche e artistiche, nella quale dal dramma storico in versi, i «Pezzenti», il «Guido», l'«Agnese», - dove la poesia e la fantasia predominavano e la storia non era che fondamento e facciata, - Felice Cavallotti passò al grande dramma storico in prosa - l'«Alcibiade» e i «Messenj» - poggiato sopra una più minuta indagine del tempo e sopra un più profondo studio del vero, per trascorrere poi, con la «Sposa di Menecle», alla commedia intima di soggetto antico, e infine al moderno dramma psicologico, spingendosi fino all'idillio e al proverbio. Il cuore e la ragione insieme si ribellano oggi anche a una critica riverente. A noi basta rammentare che se neppur nel teatro non cercò nuove forme, attenendosi, come voleva la natura del suo ingegno, alla tradizione romantica, sulle traccie di Victor Hugo e dello Schiller, anche nel teatro portò il soffio della sua anima lirica, che tutto riscalda e vivifica, la santa fiamma dell'amor di patria e di libertà, una forza grande di sincerità giovanile e di virile coscienza, un continuo, amoroso, poderoso conato verso la bellezza e la grandezza, che ci leva in alto lo spirito e ci move il cuore anche quando non arriva dove fende. Chi potrebbe oggi esaminare, ponderare, discutere, mentre le creature della sua mente ci si affollano intorno velate di nero come la sua immagine, a cui fanno un corteo dolente e glorioso, come figli intorno al simulacro funerario del padre? Altro non possiamo fare che rammentarle e salutarle. E sfolgorante Raul che, levando la spada in cospetto al cadavere di Maria, grida al duca d'Alba: «Troppo tardi. Oggi saremo in molti ai funerali. A me, pezzenti!» - È tragico il vecchio padre traditore del suo sangue che svela al figliuolo adorato la propria infamia, mentre suonano i rintocchi della campana che lo chiamano a combattere, con quelle semplici e terribili parole: - «Ferma! Io son Guido!» - È bello e generoso il giovine Scandiano che al duca di Mantova, ebbro di piacere e d'orgoglio, narra tra gli splendori della festa la fame e la disperazione del popolo di Mantova. È splendido il vecchio re di Messenia che, ritto sulle rupi, strappa la bandiera tirannica di Sparta e chiama alla rivolta il suo popolo col superbo grido: - «dove passa Aristomene, Sparta non ha bandiera!» - E pietoso e venerando è il vecchio Menecle che riprende dalle pareti lo scudo e la spada antica per chiedere alla morte per la patria l'oblio della dolce illusione perduta. E più alto di tatti, come una statua d'oro e di bronzo, segnata di mille colpì, ma salda e trionfante ancora sul suo piedistallo di marmo pario, ci sorge davanti il greco gigantesco e multiforme, che riunì in sè Cesare e Coriolano, Sardanapalo ed Antonio, - «tutte le faccie del polièdro umano» - e mentre passano dietro di lui, come visioni, i giardini e le piazze, le sale d'Atene, la spiaggia di Sicilia, il lido di Sparta, le acque dell'Ellesponto, le montagne di Frigia, e quella fuga maravigliosa d'assemblee, di eserciti, di campi di battaglia, di feste trionfali e di solitudini, che pare il giro di un mondo intorno ad un uomo, - noi non salutiamo in lui l'Alcibiade antico, vincitor di Bisanzio e di Calcedonia, ma la creazione più grande, più fortunata, più cara del poeta perduto; la salutiamo con la certezza che, quando pure dovessero le altre andar travolte dal tempo, quella resterà, splendida e palpitante di vita immortale. E se anche tanti pregi di pensiero e d'ispirazione non risplendessero nelle sue tanto applaudite e combattute opere drammatiche, sarebbero queste ancora amate e riverite da noi per il tesoro di studi amorosi e di dotti commenti che egli vi profuse intorno, per le tempestose ansie giovanili che gli costarono, per le ebbrezze ardenti che gli diedero, per i profondi e dolci conforti che recarono ai suoi grandi dolori e alle sue affannose fatiche di soldato della libertà e di tribuno della patria.
Eppure la più alta e potente manifestazione del suo ingegno e dell'animo suo egli la diede, a nostro credere, nell'oratoria. Oratore grande, insuperabile forse, se la natura non gli avesse negato qualcuna di quelle piccole doti sussidiarie, puramente fisiche, onde il grande oratore s'integra. Due oratori erano in lui, potenti del pari. L'oratore popolare e improvviso, che stentatamente incominciava, che vi faceva assistere al lavorìo, alla lotta laboriosa e violenta del sentimento e del pensiero con la parola, e che poi, infervorato dal suo sforzo medesimo, trascinato dalla passione, sprigionava un torrente di idee e d'immagini, dalle onde irruenti e sonore, e travolgeva ogni forza restìa dell'uditorio; - e l'oratore parlamentare delle grandi occasioni, che del discorso ordiva avanti la trama, nel quale le idee si svolgevano ordinate e concatenate, col corso largo e pieno d'un grande fiume, e logica, sentimento, precisione quasi scientifica di forma, tutti gli accorgimenti più fini dell'arte s'univano con l'ardore d'un'alta ispirazione, che tutto levava in alto. L'oratore nato, sussidiato dall'artista letterario, si rivelava nell'architettura ardita e grandiosa del periodo, sorreggente una grande quantità di idee accessorie, aggruppate armonicamente intorno all'idea principale, intarsiato di parentesi e d'incisi che, senza fare ingombro, illuminavano il concetto come di tanti raggi successivi, e condotto vittoriosamente, fra ogni sorta di pericoli, ad una frase geniale che superava tutte le altre in efficacia, e che nello stesso tempo giungeva inaspettata e pareva necessaria.
Maraviglioso era veramente come un uomo di natura così impetuosa sapesse, quando occorreva, trovar le parole gravi, misurate, guardinghe che facevan passare senza contrasti le idee più audaci, quasi rispettate per la dignità dell'abito; come qualche volta, nell'infuriare d'una tempesta, quasi per effetto d'una illuminazione improvvisa dell'intelletto e dell'animo, egli lanciasse, in luogo delle parole eccessive che tutti aspettavano, una così sincera e nobile invocazione alla concordia per l'interesse supremo della patria, che n'eran tutti gli animi disarmati e placati; come da quella bocca, donde erompevano tanti tuoni e tante fiamme, potesse sgorgare, al bisogno, un rivo d'eloquenza così mite e così serena. Vi ricordate di quel mirabile parallelo tra il generale della Lunigiana e il generale di Sicilia, che, fatto da tutt'altri, avrebbe scatenato un uragano? Vi ricordate della difesa ch'egli fece del «fiore baciato dalla sventura», quando dal banco dei ministri era lanciato un oltraggio a una giovinetta, mentre sul capo di suo padre, accusato politico, pendeva una condanna tremenda? Vi ricordate con che dignità di sentimento e di parola egli diceva nel Parlamento l'elogio d'un avversario morto, e riconosceva d'un avversario vivo la bontà e la rettitudine, e come qualche volta, sfuggitagli una frase offensiva, la temperasse come voleva la giustizia, in modo che non era la sua una ritrattazione del pensiero, ma del sentimento, non un atto di semplice convenienza, una gentilezza sentita e squisita di cavaliere e di galantuomo? Vi ricordate l'orazione in onore di Garibaldi morto, pronunciata il 3 giugno dell'83, al «Castelli» di Milano, la quale strappò il pianto da tremila cuori, e la grande commemorazione epica dei caduti a Domokos, e le belle, austere, fraterne parole ch'egli disse nella prima riunione dei partiti estremi, discordi fino a quel giorno, per la fondazione della Lega della libertà? - Era l'eloquenza d'un poeta e d'un, sapiente - era una così alta e commovente ispirazione che quasi riusciva dolce agli altri oratori di non poterla raggiungere - erano la ragione, l'entusiasmo e la fede parlanti il più eletto linguaggio che possa uscire dall'animo d'un cittadino. Quante volte Vittorio Alfieri gli avrebbe posto la mano sul capo, ripetendogli i versi di Eschilo a Timoleone:
Ah! no, più caldi mai, nè mai più veri
Forti divini detti in cor mortale
Mai non spirò di libertade il nume!
E non di meno, non si potrebbe affermare con certezza che fosse l'oratoria, non invece la facoltà puramente ragionatrice, non la forza analitica e polemica la sua virtù intellettuale preminente. Di lui si può dire quello che dell'autore dell'«Emilio» disse Enrico Taine. Non c'è loico più serrato. La sua dimostrazione s'annoda in fili d'acciaio, maglia a maglia, per lunghe pagine, come una enorme rete senza uscita, in cui, volenti o no, si rimane avvinti. Non un filo gli sfugge o gli si rompe, ed egli ha costantemente sotto gli occhi e dentro la mano la rete intera. Dagl'infiniti e bene ordinati compartimenti della sua salda memoria escono prontamente, a un richiamo, nomi, date, parole, fatti, circostanze di fatti, che a vicenda si rischiarano e si rincalzano, disponendosi e collegandosi logicamente come le formule successive d'un'operazione matematica, che non possa esser condotta in altra forma nè riuscire ad altro risultato da quello a cui egli tende. La punta della sua idea v'è già penetrata nella mente, credete che non vi si possa addentrare di più, ed egli ve la configge ancora più addentro con un martellamento fitto e preciso, che vince anche le ultime resistenze inconscie dell'animo vostro. Nessuna maraviglia che chi possedeva una così potente arte dialettica l'adoperasse anche quando ad altri poteva parere superflua, o inopportuna, o senza speranza di effetto utile. Ma maraviglioso è che egli vi ricorresse e l'esercitasse magistralmente anche nei momenti di maggior concitazione dell'animo, che egli ragionasse in quel modo con la penna alla mano un'ora prima d'andare a rischiar la vita con l'arma nel pugno, che neanche il presentimento della morte, che qualche volta lo assalì in quei momenti, potesse turbare in lui quella facoltà delicatissima a cui pare indispensabile la quiete serena dell'animo e la libertà assoluta della mente. E questo prova quanta sincerità, quanta pensata fermezza ci fosse anche nelle sue determinazioni che potevano parer più violente, come la sua passione fosse mossa sempre da una idea e sorretta e vigilata, dalla coscienza, come fosse in lui convinzione vigorosa e tenace ciò che non era creduto da molti che ira, odio, sete di rappresaglia e di vendetta, come la sua spada, anche nelle quistioni che parevan più strettamente personali, fosse quasi sempre la spada d'un'idea.
No, non si battè per impeto d'ira o per febbre di vanità chi, venti volte, prima di venire alla prova, scrisse di proprio pugno la sua difesa e il suo testamento, con l'espressione precisa delle sue ultime volontà, con la previdenza chiara e minuta di tutte le conseguenze possibili della sua morte. Certo, spuntava un sorriso sulle labbra a chi gli udiva dire: - Io sono un uomo pacifico.... furono le circostanze che mi forzarono.... E la natura delle questioni in cui mi trovai impegnato.... - Eppure, nella sua coscienza, questo era vero. Ma ci perdoni la cara memoria se noi lamentiamo il concetto da cui la sua ragione partiva, e se esprimiamo la speranza che la sua fine lacrimata e funesta serva almeno di ammonimento alla generazione che sorge. Ma come! Un passato di trent'anni di fecondo lavoro intellettuale, di nobili lotte, di servizi resi alla patria, un avvenire di forse altri trent'anni di vita egualmente benefica, un tesoro inestimabile di entusiasmo, d'eloquenza e di forza, una mente privilegiata, da cui mille quistioni altissime d'interesse pubblico attendono luce ed impulso, in cui milioni d'uomini fondano speranze di protezione e d'aiuto, - tutto questo, per una parola, deve esser messo a un cimento, nel quale un passo falso, il tradimento d'un muscolo, la svista d'un istante possono distrugger tutto in un nulla? Ah! è una follìa, un errore, una vergogna! Ed è appunto questo pensiero che oggi ci aggiunge angoscia ad angoscia: è il dover riconoscere che ci troviamo ancora a questo segno di barbarie, è il dover confessare che, pure riconoscendo l'assurdità di quest'idea dell'onore che, in un tempo di vantata eguaglianza, si circoscrive in una sola classe sociale, non s'abbia ancora il coraggio civile di uscirne, e che la società culta, che pure la condanna nella sua coscienza, tolleri, incoraggi, accarezzi, con la cospirazione d'una legge ipocrita, il pregiudizio stolto, la tradizione dell'usanza stupida e feroce che la insanguina e la disonora.
Era fors'anche suo pensiero che nelle lotte politiche avesse il duello questa giustificazione: che molte volte esso racqueta e riconcilia due avversari che si stimano; fra i quali, altrimenti, sarebbe impossibile o più difficile assai la riconciliazione. Questa e ogni altra ragione possiamo ammettere, per ispiegarci la sua condotta, fuorchè la mancanza di bontà d'animo, di cui dai nemici fu accusato. Ah! dell'accusa sorride - sorride amaramente chi sentì il suo abbraccio fraterno dopo una lunga separazione, e sa quante calde e devote amicizie egli ebbe anche fra i suoi più appassionati avversari, - chi si ricorda quanto fosse buono e amabile il sorriso su quel volto coperto di cicatrici, quand'egli espandeva l'animo con gli amici intimi, sorridenti alla volta loro di tante ingenuità giovanili del suo cuore e della sua parola, - chi si rammenta con quanta gentilezza, nelle famiglie che l'ospitavano, la sua mano gagliarda si posasse sul capo dei bambini e la sua bocca usata a soffiar la tempesta esortasse i giovinetti allo studio, all'amor del bene, al culto della verità e dell'ideale. - Gli mancava la bontà dell'animo. - A Felice Cavallotti! Ah non lo pensa chi ha visto la sua fronte superba chinata al capezzale degli infermi, chi ha sentito i suoi singhiozzi disperati accanto al cadavere della sua figliuola, chi ha assistito una volta sola all'espansione della sua gioia e della sua tenerezza di fanciullo fra le braccia della vecchia madre adorata, che gli ripeteva con tanta dolcezza: - Felice, Felice mio, sii più prudente.... - come se presentisse il destino. Buono era, e n'è una grande prova il fatto che molte volte, candidamente, egli si rimproverasse, si dolesse di non potere esser più buono di quello che era. Povero Cavallotti! Non è molto tempo che, rispondendo ai consigli d'un amico, egli diceva a questo con un sorriso ingenuo: - Già, tu sei più buono di me. - Ma il giudizio fu coscienziosamente respinto. - No, Cavallotti - gli fu risposto. - Io non son più buono di te; non lo sono quanto te. Facile è la bontà a chi, lontano dalla lotta, non s'espone all'offesa che lacera e avvelena l'anima e non sente in faccia l'alito violento dei nemici che, non dandoti tregua alla guerra e negandoti ogni virtù gentile, ti scoraggiano dalla gentilezza e dal perdono. Ah no! Io so ben discernere quello che è in te violenza necessaria e durezza acquisita di lottatore da quello che è prima e schietta natura. Di questa, che è tutta d'oro, tu hai salvato fra le battaglie quanto era umanamente possibile, e quello che ti resta è ancora un tesoro che t'invidio. - Ah, gli mancava la bontà dell'animo! - A Felice Cavallotti! Ma se contro a mille prove dell'asserto, non possibile che a chi non lo conobbe, stesse quella sola indimenticabile poesia, quello straziante e divino grido d'amore e d'angoscia che dal treno di Gallarate egli lancia all'angolo del cimitero dove dorme la sua figliuola, se egli non avesse pronunciato in tutta la sua vita altre dolci parole che quelle con cui s'illude che la sua creatura senta passare il suo dolore e possa rispondere alla disperata invocazione del suo cuore trafitto, se in cinquantacinque anni non gli fosse scoppiato dall'animo che quell'unico grido, basterebbe quello per farci credere, affermare, giurare che egli fu buono.
L'accusa, di mancanza di bontà e di gentilezza gli fu più spesso ripetuta nell'ultimo periodo della sua vita. E qui m'occorre di fare una dichiarazione. Io mi son proposto, com'era mio stretto dovere, di commemorare il compianto cittadino al di fuori d'ogni idea e d'ogni sentimento di parte politica; ma a rischio d'esser accusato d'infrangere il proposito debbo accennare all'ultima grande lotta ch'egli combattè in nome della giustizia e della moralità pubblica, poichè il rifiutare, per non dar ombra ai vivi, un onore dovuto a un morto, non mi parrebbe generosità, ma codardia. Dal più profondo della mia coscienza, non velata in questo momento da ombra d'odio e di rancore, esce la voce che m'impone un tributo d'ammirazione e di plauso al lottatore dell'ultima ora. Giorno verrà, senza dubbio, in cui si riconoscerà universalmente che sarebbe stata una vergogna incancellabile per il nostro paese se almeno una voce d'accusa e di sdegno non si fosse levata, e che se quella voce non fosse rimasta senz'eco, che se la giustizia ch'ella chiedeva avesse avuto corso e compimento, non sarebbe forse stata spinta fino agli estremi la forsennata impresa dell'Africa, sarebbe forse almeno stato evitato il macello miserando che la chiuse. «Opera negativa» fu detta la sua con la stessa logica con cui si direbbe negativa l'opera del magistrato che, accusando e condannando, toglie e non dà dei cittadini al paese, o l'opera del soldato che, difendendo la patria sul campo, uccide e non crea. - Ha varcato il segno - da altri si disse - non doveva ostinarsi e incrudelire; si deve rispetto anche ai caduti per propria colpa. - E, certo, la parola è generosa, è l'espressione d'un sacro dovere di tutti verso i caduti che si pentono e si confessano, o cedon l'armi e rimangon muti. Ma quando i caduti rialzan la fronte minacciando, si ribellano alla giustizia e alla sorte, provocano la coscienza pubblica e tentano d'ingannare o d'imbavagliare la storia, l'ostinarsi nella lotta è dover di coscienza e necessità di vita. E poichè tanti sacerdoti della stampa che mentre egli combatteva solo quell'aspra battaglia, bersagliato di mille colpi e coperto di mille vituperi, l'applaudivano nella loro coscienza e copertamente l'incoraggiavano e gli desideravano la vittoria, pensando forse in cuor proprio che se avessero avuto la sua indipendenza, il suo ingegno e il suo coraggio, non per amor della giustizia, ma per sgombrar la via ad altre ambizioni, avrebbero condotta la stessa lotta con pertinacia anche più implacabile, poichè si videro tanti di costoro lamentare la sua morte e inneggiare alla sua vita senza arrischiar neppure una timida lode a quell'ultima opera sua, compiamo noi più risolutamente il debito nostro, affermando a voce alta, e con tutta la forza del nostro cuore, che quella fu la più forte, la più onorata, la più ammirabile pagina della sua vita.
E se anche qualche volta, se anche molte volte, nel flagellare i trafficatori della propria coscienza e i depredatori del danaro pubblico, egli fosse trasceso - supposto che in questo si possa trascendere - molto, tutto si dovrebbe condonare a chi per questo riguardo era uno dei pochi invulnerabili e puri, e dei pochissimi in cui la purità fu merito vero. In tutta la sua vita non v'è traccia nè indizio d'un atto compiuto per iscopo d'interesse materiale. Alla patria diede tutto e non chiese nulla. Dandosi alla politica, sposò la povertà. E non si diede alla politica, come altri, per esser fallito all'arte e alle lettere; le si diede nel colmo dei suoi trionfi d'artista. Ebbe offerte di cattedre e le rifiutò; avrebbe potuto trarre guadagni dalla sua penna feconda di pubblicista, e se ne astenne per dignità di tribuno; avrebbe potuto trarne dal teatro, solo che avesse rallentato alquanto la sua opera politica, e non lo fece per sentimento altissimo del suo dovere di cittadino. Quelle prolungate polemiche, che si dicevan mosse da spirito di ambizione e d'orgoglio, non erano soltanto per lui uno sforzo doloroso dell'animo, ma un dispendio enorme di tempo e di lavoro, ch'egli scontava poi in privazioni d'agiatezza, di libri, di svaghi desiderati. La sua spesa quotidiana era quella d'uno degli impiegati più modesti, la sua abitazione a Roma una camera di studente, la sua villa di Dagnente una povera bicocca; e al vestire non si sarebbe distinto quasi mai da un operaio di buon salario. Eppure mai, mai non si sentì dalla sua bocca una parola di rammarico, mai nemmeno un'espressione vaga di aspirazione a una vita più agiata e più signorile. Una cosa sola rimpiangeva di quando in quando: l'arte da cui s'era dovuto separare. Ma per quanto dicesse, fra le due dive nemiche, l'arte e la politica - l'una bella, splendida, sorridente, che lo chiamava - l'altra austera, dura, gelosa, che lo teneva - era questa quella ch'egli amava di più ardente amore - era la tiranna ingrata e spietata, che lo torturò e che l'uccise.
Quale esistenza! Ricorriamola ancora con uno sguardo. Quale miracolo continuo di moto; di passione, di lavoro! V'è una frase d'una sua lettera che definisce la sua vita. - Son qui - scrive a un amico - in mezzo a una tempesta di cose, che mi porta via la testa. - E questa tempesta durò quanto egli visse; nè può immaginare quanto turbinosa ella fosse chi non gli stette per qualche tempo vicino. Non conoscono i più che la sua assiduità operosa al Parlamento, la sua attività insuperabile nei periodi di lotta elettorale, i suoi viaggi faticosi in provincie lontane a scopo di propaganda e d'inchiesta, e la sua produzione straordinaria di pubblicista. Ma di pari passo con l'opera pubblica egli ne mandava un'altra che pochi soltanto conoscevano, ed era il patrocinio generoso di cause oscure e di oppressi sconosciuti, era una corrispondenza cortese e pronta con innumerevoli amici, sollecitatori e postulanti ignoti, d'ogni classe e d'ogni natura, erano visite e corse da per tutto ov'egli fosse richiesto per consolare un dolore, per comporre un dissidio, per profferire una parola utile. E tra l'una e l'altra di queste infinite cure pubbliche e private egli trovava il tempo di nutrir di nuovi studi lo spirito, di raccoglier documenti intorno alle quistioni del giorno, di gittare nella forma poetica le sue gioie, le sue tristezze, i suoi sogni. Bene qualche volta si rifugiava nel suo romitorio di Dagnente per prender respiro; ma lo raggiungevano là pure, da ogni parte, i telegrammi, le lettere, le sollecitazioni d'ogni forma, e vi facevano in pochi giorni una piena che lo travolgeva e lo risospingeva al lavoro. Una voce inesorabile, appena egli chiudesse gli occhi, gli gridava: - Dèstati, scrivi, parla, combatti, va! - Ma io sono stanco - rispondeva. - Fa uno sforzo. - Ma io son malato. - Non importa. - Ma io m'accorcio la vita. - È il tuo destino. - Ed egli si destava, scriveva, parlava, combatteva. - Diceva ultimamente, a Torino, passandosi una mano sulla fronte con un suo gesto abituale: - Ah! se potessi riposare per un anno.... per qualche mese.... Ma non posso. - E pareva rassegnato. Un solo pensiero lo turbava: il pensiero di una vecchiezza inferma, in cui non avrebbe più potuto lavorare nè combattere, e sarebbe rimasto in un canto, inutile come una spada arrugginita. E soggiungeva: - Vorrei morir prima! - Fu pago il suo desiderio, sventuratamente. La nobile spada non s'arrugginì - s'infranse - e passerà lungo tempo, pur troppo, prima che sul campo di battaglia dove egli cadde ne baleni un'altra così prode, così tersa, così gloriosa.
Ma egli fu ben altro, e ben di più che la spada d'un partito. Più alto fu il suo destino, più alto l'ufficio ch'egli compì. A dritto fu chiamato il continuatore del pensiero di Garibaldi, non circoscritto in una formola precisa, ma vasto tanto da comprendere tutte le aspirazioni dei tempi nuovi. Sopravvisse e parlò in lui la giovinezza ardente della rivoluzione italiana, con tutti i suoi più santi entusiasmi, con tutte le sue più luminose speranze. In ogni manifestazione del suo pensiero e del suo cuore è un accenno vago, ma caldo a qualche cosa di più grande che non sia il concetto astratto della libertà o una data forma di governo. Si sciolgono a ogni tratto il suo spirito e la sua parola dai vincoli angusti del programma politico del presente, e si slanciano verso l'avvenire. Disse egli un giorno: - Non sento il bisogno di cambiar l'ideale - e spiegò tutto sè stesso in quelle parole. Il suo ideale abbracciava vagamente tutti i bisogni e tutte le rivendicazioni popolari dell'età nostra. S'egli non combattè che per la libertà e per la giustizia è perchè comprendeva che eran queste le prime battaglie da vincere, e reputava saggezza il non disperdere in un più largo campo le sue forze, che gli occorrevan tutte a tener alta la sua bandiera. Ma nell'anima sua si raccoglievano e fiammeggiavano in una sola, invitta passione lo sdegno di tutte le miserie, il sentimento di tutti i diritti, l'amore di tutti i popoli. Comprese, sentì, previde più che non disse; ma ciò che non disse fu compreso. E però la sua voce, benchè non pronunciasse il nuovo verbo delle moltitudini, suonò nel loro cuore come la voce d'un fratello, e la sua morte fu lutto e pianto del popolo, e si posò sul suo feretro, con gli omaggi dei parlamenti e coi fiori della gioventù studiosa, con le corone dell'Italia irredenta e con la palma del martirio di Cuba, il saluto amoroso e triste di tutti i lavoratori del mondo.
Sì, convien risalire fino ai grandi fattori dell'unità della patria per ritrovare una morte così universalmente, così sinceramente compianta, e che abbia lasciato fra noi il sentimento d'un vuoto così vasto e così doloroso. E nessuno certo se ne allieta, neanche fra i suoi più acerbi nemici, nessuno che abbia senso di gentilezza e di carità di patria, perchè sentono tutti che è caduta una forza, che s'è spento un raggio, che è sparito un vanto vivente della patria. E questo solo ci conforta; che ciò ch'egli ci lasciò - l'esempio - nè tempo nè fortuna ci possono togliere. Esso sarà raccolto e sarà fecondo. La gioventù d'ogni parte e d'ogni fede ha qualche cosa da imparare e da imitare da lui. Egli fu soldato, tribuno, poeta, maestro; disprezzò la ricchezza, non ambì il potere, non adulò la fortuna, non s'infinse, non vendette, non mercanteggiò la sua forza, - fu buono, aperto e intrepido - fortissimo fu contro ogni forma di dolore e di pericolo, e fu potente e povero, illustre e incorrotto. Sì, tale egli fu, e le generazioni venture lo sapranno; tale tu fosti, o Felice Cavallotti, e te lo ridirà ogni anno, il giorno della tua morte, la tua patria, come te lo gridò nel primo schianto del dolore, mandando un bacio di madre alla tua bella fronte inanimata. E così sia seguito il tuo esempio come sarà venerata la tua tomba e glorificato il tuo nome. Nel nome di quanti ti amarono e ti piangono, Felice Cavallotti, sia benedetta la tua memoria!