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Un Torinese che volesse far da guida ad un Italiano d'un'altra provincia venuto qui per la prima volta, per metterlo in una disposizione d'animo favorevole alla città sconosciuta dovrebbe, prima di lasciarlo entrare in Torino, condurlo diritto a Superga. V'hanno spettacoli che sono per la vista degli occhi ciò che sono per la vista della mente quelle grandi intuizioni istantanee del genio, che abbracciano secoli di storia e regioni d'idee. Lo spettacolo che si gode da Superga è un di questi, ed è anche più grande e più bello della sua fama. Dalla sommità della cupola, con un solo giro degli occhi, in tre secondi, s'abbraccia tutto l'immenso cerchio dell'Appennino genovese e delle Alpi, dai gioghi di Diego e di Millesimo alla piramide superba del Monviso, dal Monviso alle porte della val di Susa, al Gran San Bernardo, al Sempione, al Monrosa, alle ultime montagne che fuggono verso levante di là del Lago Maggiore; sotto, tutti i colli di Torino, popolati di ville e di giardini; più in là i bei poggi del Monferrato, vestiti di vigneti e coronati di castella, e le colline ubertose della sinistra del Tanaro; e oltre a queste una successione di tappeti verdi sterminati, una campagna senza fine, che si perde nelle pianure vaporose della Lombardia, argentata dalle mille curve del Po, seminata di centinaia di villaggi, rigata di strade innumerevoli, coperta d'una vegetazione lussureggiante di boschi, di verzieri e di messi, nettamente visibile in tutti i suoi rilievi infiniti fino alle più grandi distanze, come se ogni sua parte ci s'avvicinasse al fissarvi sopra lo sguardo. Ed è una natura così fresca e così italiana di forme e di colori, così maestosamente serena nella immensità dei suoi orizzonti azzurrini, e così grande e terribile d'antiche e di nuove memorie, che dopo averla percorsa intera, quando si volgon gli occhi giù sulla città tutta piana e rosseggiante lungo le rive del Po e della Dora, chiusa in un vasto cerchio di verzura cupa, dominato dal bel monte conico dei Cappuccini, somigliante a uno smeraldo enorme, viene spontaneo sulle labbra il «Te beata» che gridò a Firenze Ugo Foscolo, e si resta maravigliati che tutta quella bellezza non abbia ancora avuto anch'essa da qualche grande poeta il tributo d'una lode immortale.
Ho cercato molte volte, curiosamente, con uno sforzo dell'immaginazione, di rendermi conto dell'effetto che può produrre la città di Torino in un Italiano che la veda per la prima volta....
Certo, un Italiano che arrivi qui coll'idea di trovare una città uggiosa, e un po' triste, come certi stranieri la definiscono - un villaggio ingrandito - un mucchio di conventi e di caserme - deve provare un disinganno piacevole, uscendo dalla stazione di Porta Nuova, in una bella mattinata di primavera. Alla vista di quel grande Corso, lungo quanto i Campi Elisi di Parigi, chiuso a sinistra dalle Alpi, a destra dalla collina, davanti a quell'infilata di piazze, a quelle fughe di portici, a quel verde rigoglioso, a quella vastità allegra, piena di luce e di lavoro, deve esclamare: - È bello - o tirare almeno uno di quei larghi respiri, che equivalgono ad una parola d'ammirazione. E andando su verso piazza Castello.... Ma un Italiano che venga a Torino per la prima volta, se appena ha una scintilla d'amor di patria nel sangue, è impossibile che, addentrandosi nel cuore della città, serbi tanta freddezza d'animo da non giudicarla che con l'occhio dell'artista. Egli deve sentirsi sollevato, travolto da un torrente di ricordi, sfolgorato da una miriade d'immagini care e gloriose, che trasfigurino la città ai suoi occhi e gli facciano parer bella ogni cosa. Deve veder Carlo Alberto, affacciato alla loggia del palazzo reale, in atto di bandire la guerra dell'indipendenza; incontrar sotto i portici il conte Cavour, che va al Ministero, dandosi la storica fregatina di mani; vedere i Commissari austriaci del 59 che portano l'«ultimatum» al Presidente del Consiglio; i corrieri che divorano la via Nuova recando le notizie delle battaglie di Goito, di Pastrengo e di Palestro; le deputazioni dell'Italia centrale che vanno a presentare i voti dei plebisciti; una legione di vecchi generali predestinati a morire sui campi di battaglia; a una cantonata Massimo d'Azeglio, in fondo a una strada Cesare Balbo, qui il Brofferio, là il Berchet, laggiù il Gioberti; visi tristi e gloriosi di prigionieri dei Piombi e di Castel dell'Uovo; giovani a cui brilla sulla fronte, come un raggio, il presentimento dell'epopea dei Mille; battaglioni abbronzati di bersaglieri della Crimea che passano di corsa e stormi di giovani emigrati che sbarrano la strada, agitando i cappelli, alla carrozza di Vittorio Emanuele; in ogni parte cento immagini di quella vita ardente e tumultuosa, piena di speranze e d'audacie, di grida di dolore, di canti di guerra e di fanfare trionfali, che s'agitò per quindici anni fra queste mura.
Il centro di Torino ha una bellezza sua propria, invisibile allo straniero indifferente, ma che deve affascinare l'Italiano nuovo arrivato. Ogni suo angolo, ogni sua casa parla, racconta, accenna, grida; ogni arco de' suoi portici è stato l'arco di trionfo d'un'idea vittoriosa; sopra ogni pietra del suo lastrico si sono incontrati e stretti la mano per la prima volta due italiani di provincie diverse, due esuli, due soldati della grande causa comune; tutto v'è ancora caldo del soffio immenso di amor di patria che vi passò, infiammando e travolgendo ogni cosa, come un uragano di fuoco. Quale Italiano può arrivar là senza sentirsi commosso? In poche città i luoghi e i monumenti più memorabili si trovano meglio disposti per colpire tutt'insieme lo sguardo e la mente: in un giro di pochi passi, intorno al Palazzo Madama, si vede e si ricorda tutto. Ed è anche bella per l'artista e per il poeta quella piazza vastissima, che arieggia il cortile d'un palazzo smisurato. Quella reggia severa e nuda, dietro a cui s'innalza la cupola grigia della vecchia cattedrale, il Palazzo Madama, grave come una fortezza, sorvolato da nuvoli di colombi, il tendone bianco delle Alpi che chiude via Dora Grossa, la cortina verde delle colline che chiude via di Po, quel contrasto di baracconi da fiera e di palazzi austeri, di folla e di strepito da un lato e di solitudine tranquilla dall'altro, danno a quella parte di Torino un aspetto misto così stranamente di città nuova e di città vecchia, di gaiezza meridionale e di gravità nordica, di maestà di metropoli e di semplicità provinciale, da far pensare a due città lontane che un prodigio abbia ravvicinate e congiunte.
Ma qui non può farsi un'idea di Torino il forestiero. Quietato il tumulto dei ricordi, bisogna ch'egli s'inoltri in quella parte della città che è compresa fra via di Po, via Roma, il Corso del Re e il fiume. S'egli non è mai uscito d'Italia, ne avrà senza dubbio un'impressione nuova. La città par fabbricata sopra un immenso scacchiere. Per quanto si giri, non si riesce che a descrivere una greca continua. Tutte le strade, a primo aspetto, si rassomigliano: tagliano tutte un lunghissimo rettangolo di cielo con due file di case di color uniforme, su cui lo sguardo scivola dal cornicione al marciapiede senza che nulla l'arresti, allineate a corda com'erano i vecchi reggimenti piemontesi, coi guidoni e le guide sulla linea, dopo un'ora di lavoro. Si va avanti, e par sempre di passare e di ripassare nei medesimi luoghi. Si può camminare a occhi chiusi: non c'è da sbagliare: ogni tanti passi, riaprendo gli occhi, si vedranno due interminabili vie diritte a destra e a sinistra, l'una chiusa dalle Alpi, l'altra chiusa dalle colline. Qualche somiglianza con altre città ci si trova: si ricorda via Toledo di Palermo, Livorno, certi quartieri di Marsiglia e di Barcellona. Ma qui c'è qualche cosa di particolare, difficile a definirsi: non so che di più rigido e di più corretto. Non son le case francesi, gabbioni con faccia di palazzi, parate di decorazioni posticce; bottegaie rinfronzolite. Sono file di «umiliate», schiere d'alunne di collegio-convitto, grosse massaie benestanti, tarchiate, in veste da camera, che si danno francamente per quello che sono, e spirano un'aria di bontà contegnosa, l'amor della vita regolare, l'abitudine delle passioni contenute. Il color giallo impera, con tutte le sue sfumature, dal calcare cupo all'oro pallido, misto d'innumerevoli tinte verdognole e grigie, che però si perdono in una tinta generale giallastra, un po' sbiadita, che dà alla città un certo aspetto tranquillo di decoro ufficiale. Qua e là spicca la nota ribelle d'una casa azzurra, in qualche punto scoppia il grido acuto d'un edifizio rosso che fa un po' di scandalo in quel silenzio di colori modesti; ma subito dopo si ristabilisce la disciplina in due lunghe file di case della solita tinta, un po' imbroncite, che han l'aria di disapprovare quelle pazzie. Percorse le prime strade, si comincia a notare qualche corrispondenza tra la forma della città e il carattere della popolazione. C'è espressa una certa ostinazione in quella uniformità, c'è un'idea di schiettezza in quello sdegno d'ogni ostentazione, un certo indizio di procedere aperto in quell'ampiezza di spazi, un'immagine di forza in quella tarchiatura di edifizi, una perseveranza che va dritta allo scopo in quella rettitudine di linee. Passando per quelle vie si ricorda involontariamente la disciplina dell'antico esercito sardo, le antiche abitudini militari della cittadinanza, la rigidezza della burocrazia, l'onnipotenza dei regolamenti, lo stile duro dell'Alfieri, la semplicità nuda di Silvio Pellico, la correttezza un po' pedantesca d'Alberto Nota, l'andamento cadenzato e simmetrico dei lunghi periodi oratorii di Angelo Brofferio, e la chiarezza ordinata degli articoli di don Margotti, di Giacomo Dina e del dottore Bottero. S'indovina la vita della città a primo aspetto. Non c'è, come a Firenze, il piccolo crocicchio, l'angoletto, la piazzetta, dove ognuno si pare a casa sua, dove è possibile il dialogo tra la strada e la finestra e la fermata d'un'ora con le spalle alla cantonata. Qui c'è per tutto la città aperta, larga, pubblica, che vede tutto, che non si presta al crocchio, che interrompe le conversazioni intime, che dice continuamente, come il poliziotto inglese: - Circolate, lasciate passare, andate pei vostri affari. - Si può essere usciti col miglior proposito di andare a zonzo: si finisce sempre con fissarsi una meta. A un certo punto si sente un po' di sazietà; l'artista si rivolta contro quella regolarità compassata. S'ha la testa così piena di angoli retti, di parallelismi, di simmetrie, di omologie, che, per dispetto, si vorrebbe poter scompigliare tutta quella geometria con un colpo di bacchetta fatata, che mettesse Torino sottosopra. Ma a poco a poco, come certi motivi monotoni, che, a furia di sentirli ripetere, ci si fissano nel capo irresistibilmente, così quella regolarità, a grado a grado, fa forza al gusto e soggioga la fantasia. Si prende amore a quell'uniformità che lascia la mente libera, a quella specie di dignità edilizia, non ancora offesa dall'insolenza ciarlatanesca della réclame colossale, a quelle corrispondenze di prospetti che s'indovinano prima di vederli, come le rime delle strofe metastasiane, a quella nettezza rigorosa, a quei grandi lembi rettangolari di cielo che ci si stendono sul capo, e a quelle vie lunghissime in cui insensibilmente il passo s'affretta, lo sguardo s'acumina, il petto si dilata, la mente si rischiara, e a quelle grandi piazze e a quei grandi giardini che fanno qua e là un largo squarcio improvviso, pieno d'aria e di verde, nella rete uggiosa delle strade gemelle. La città sonnecchia un poco tra via di Po e via San Lazzaro, dove grandi isolati di color cupo gettano come un'ombra di tristezza nelle vie larghe e solitarie, nelle quali non si sente strepito di lavoro, e la pedata di chi passa risuona sotto le vôlte dei portoni muti e nei cortili erbosi; ma si ravviva sui confini di Borgo Nuovo, dove per sei vie allegre e chiare, piene di popolo minuto, si vede il verde fitto del Corso del Re, e ringiovanisce all'estremità di tutte le strade che van da ponente a levante dove le colline del Po mettono un riflesso di serenità e di grazia campestre. E quanto più si va lontano dal centro, tanto più la città si fa varia e amena. Si trovano degli angoli ariosi, tranquilli e simpatici, che fanno pensare alla vita raccolta d'un buon capo-sezione giubilato, che vada ogni giorno a quell'ora a leggere il giornale al caffè vicino e a far la passeggiata igienica nel viale accanto, ed abbia la sua oretta fissa per la visita galante a una buona amica di quarant'anni; piccoli crocicchi puliti, d'aspetto giovanile, formati da alte case poderose, che dominano un vasto orizzonte, dentro alle quali par di vedere le camerette di tanti studenti di provincia, poveri, ma di buona razza piemontese, che martellino ostinatamente sui libri, menando una vita di sacrifizi, per prepararsi un avvenire onorato e lucroso; grandi case aperte ad angolo verso la strada con cinque ordini di terrazzini, che mostrano mille piccoli particolari intimi della vita torinese, dal servitore che innaffia i fiori della contessa al primo piano, su su, scendendo per la scala sociale via via che si sale per la scala della casa, fino all'impiegatuccio tirato che legge il giornale sotto i tetti e alla moglie dell'operaio che stende i suoi cenci fuori della soffitta. Le strade essendo lunghissime, presentano successivamente aspetti diversi: andando avanti diritto per una strada sola, si attraversa una piccola parte di Torino commerciale, una parte di Torino elegante, un quartiere povero, un quartiere affollato, un quartiere deserto; si vede la città in tutti i suoi aspetti, senza svoltare una volta sola. E non si trovan grandi contrasti. I palazzi schierati alla pari con le grandi case borghesi, alcuni anche dissimulati da una facciata comune, come il Palazzo dell'Università e il Palazzo dell'Accademia filarmonica, non servono a dar carattere alle strade. Non c'è il palazzo vistoso del gran signore, che schiaccia gli edifizi circostanti, e dà l'immagine d'una vita splendida e superba. L'architettura è democratica ed eguagliatrice. Le case possono chiamarsi fra loro: - Cittadina - e darsi del tu. La distribuzione delle classi sociali a strati sovrapposti, dal piano nobile ai tetti, toglie alla città quelle opposizioni visibili di magnificenza e di miseria che accendono nell'immaginazione il desiderio inquieto e triste delle grandi ricchezze. Girando per Torino, si prova piuttosto un desiderio di vita agiata senza sfarzo, d'eleganza discreta, di piccoli comodi e di piccoli piaceri, accompagnati da un'operosità regolare, confortata da un capitale modesto, ma solido come i pilastri dei suoi portici, che dia la sicurezza dell'avvenire.
Questo carattere apparente di Torino muta tutt'a un tratto all'entrare in quella parte della città che si stende fra via Santa Teresa e piazza Emanuele Filiberto. Qui la città invecchia all'improvviso di parecchi secoli, si oscura, si stringe, s'intrica, si fa povera e malinconica. Il forestiero che vi capita per la prima volta ne rimane stupito, come dalla trasformazione istantanea d'una scena teatrale. Appena v'è entrato, la città gli si chiude intorno, intercettandogli la vista da tutte le parti, ed egli vi resta preso come in un agguato. Le vie serpeggiano e si spezzano bizzarramente, fiancheggiate da case alte e lugubri, divise da una striscia sottile di cielo, nelle quali non s'aprono che portoni bassi e cavernosi, per cui si vedono cortili neri, scalette cupe, anditi bui, vicoli senz'uscita, sfondi umidi e tristi di chiostro e di prigione. Par di essere discesi in una Torino sotterranea, dove non scenda che una luce riflessa. E andando avanti verso il Palazzo Municipale, tutto si fa più stretto, più nero e più vecchio. Si riesce in crocicchi angusti che ricordano le scene del Goldoni, dove si spettegola tra la strada e le finestre, in angoli di viuzze raccolte e sinistre, in cui pare che tutte le famiglie che v'abitano debbano far vita comune, come una tribù di gitani: si vedono dei chiassuoli misteriosi, chiusi fra alti muri senza finestre, d'un grigio sudicio, coperti di grandi macchie diaboliche; e là immagini di madonne agli spigoli delle case, botteghe di barbiere col lume acceso di mezzogiorno, covi di rigattieri che paiono vani di cantine, albergucci di villaggio, con insegne grottesche, e cortiletti coperti di tettoie rustiche, ingombri di carri di mercanti di campagna, e caffè sepolcrali, che quattro avventori riempiscono. E si gira in mezzo a file di bottegucce che han tutto fuor dell'uscio fra odori di formaggi, di scarpe, d'olio, d'acciughe, in un puzzo di stantìo e di rinserrato, in una mezza luce di crepuscolo, fra un va e vieni fitto di gente affrettata che si stringe al muro per lasciar passare carri e carrette, che ingombrano tutta la strada, e si vedono fra quella gente certe figure che non si ritrovano che là: beghinette incartocciate a cui si domanderebbero i connotati di Carlo Emanuele III, droghieri vecchi come le strade, che han l'aria di aver militato contro la Spagna, mummie d'orefici secolari, a cui vien voglia di dare, passando, la notizia fresca dell'unificazione d'Italia. C'è in tutta quella parte di Torino un malumore d'antica cittaduzza fortificata, una tristezza di museo archeologico, un tal vecchiume di muri, di merci, di facce, d'esalazioni, di tinte, che vien fatto di guardarsi intorno coll'idea di veder ancora gl'Israeliti col nastro giallo al braccio o di tender l'orecchio per sentir se la campana dell'antica torre di Dora Grossa annunziasse per caso un'esecuzione capitale o la raccolta del Consiglio decurionale della città. E quest'illusione si fa più viva arrivando sulla piazza del Municipio. Davanti a quel palazzo giovine di due secoli, ma d'aspetto già antico, in quella piazzetta ombrosa affollata di gente della campagna, circondata di portici ingombri di banchi di merciaie, attraversata dalla folla che va al mercato di Porta Palazzo, in mezzo alle statue colossali di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele, fra il Duca di Genova che brandisce la spada e la figura atletica del Conte Verde che atterra i Saraceni, di fronte alla via stretta e austera per cui lo sguardo va diritto al palazzo silenzioso delle antiche Segreterie, si rimane presi così strettamente dalle memorie e dalle immagini d'un altro tempo che par di riviverci e di vedere e di capire fin nelle sue più intime cose l'antica capitale del Piemonte, quella piccola città rude, severa, soldatesca, cocciuta, che preparò ostinatamente, in silenzio, la grande lotta, e si cacciò per la prima, a capo basso, contro il colosso nemico, coll'impeto del toro da cui ha tolto lo stemma. E si scorda quasi, stando in quel punto, la bella Torino vasta, gaia, crescente, che le si allarga intorno da ogni parte, e par di fare un salto miracoloso, al rientrare improvvisamente in via Dora Grossa, che spande un torrente d'aria e di vita nuova a traverso a quel mondo invecchiato.
Come canzoni monotone e tristi che finiscano in una risata argentina, tutte quelle vecchie strade che corrono da levante a ponente, vanno a riuscire in istrade spaziose e chiare, sboccano in piazze e in giardini, conducono ad una nuova Torino giovanile, attraversata da larghi viali, piena di verde, ribelle all'antica disciplina architettonica, dove al grande isolato succede la casa geniale, al grosso pilastro la colonna snella, al terrazzino a ringhiera il terrazzo a balaustri, al giallo tedioso mille colori ridenti e leggieri, a una Torino simmetrica sempre, ma senza monotonia, che spalanca verso le Alpi la gran bocca di piazza dello Statuto, come per aspirare a grandi ondate l'aria sana e vivificante della montagna. Tutta questa parte di Torino riceve un riflesso particolare di bellezza dalla grande catena alpina che corona l'orizzonte delle sue smisurate piramidi bianche. Pare che le Alpi mettano nelle sue piazze e nelle sue strade tranquille il sentimento del silenzio immenso delle loro solitudini. Da ogni parte spuntano le loro cime; tutto si disegna sulla loro bianchezza; le ultime case della città sembrano fabbricate alle loro falde; in meno d'un'ora pare che si debba arrivare ai piedi delle prime montagne. Al levar del sole tutta la grande catena si tinge d'un colore di rosa leggerissimo, d'una grazia infinita, che impone quasi il silenzio all'ammirazione, come se la parola dovesse rompere l'incanto, e far svanire la visione. E durante il giorno lo spettacolo cangia ad ogni ora. A momenti si vedono appena dietro a un velo di nebbia, come una linea misteriosa, i contorni altissimi delle cime che paiono profili di nuvole enormi ed immobili. Poi la catena immensa passa, per tutte le sfumature più fresche e più pompose dell'azzurro, presentando tutta una tinta unita senz'ombre, che le dà l'apparenza d'una prodigiosa muraglia verticale e merlata che separi due mondi. Ora le montagne appariscono vicinissime, a traverso all'aria limpida, variate d'infiniti contrasti d'ombra e di luce, per cui si discernono nettamente tutte le creste, tutti i dorsi, tutte le gole, tutti gli scoscendimenti, i più piccoli rilievi e le più leggiere ondulazioni dei loro fianchi mostruosi, come si vedrebbero col telescopio; ora svaniscono quasi nel chiarore bianco del mezzogiorno, smisuratamente lontane, d'una tinta vaporosa che si confonde col cielo, e ingannano l'occhio che le cerca con profili fantastici d'altezza soprannaturale, che si dileguano quando si crede d'averli afferrati. Alle volte si mostrano qua e là a larghi tratti, come inquadrate negli squarci delle nuvole dopo un rovescio d'acqua, nette e fresche sul cielo terso e profondo; altre volte cinte di immensi viali bianchi, coronate d'aureole candide, impennacchiate di nuvolette luminose, che danno un aspetto più solenne, con quel sorriso di grazia passeggiera, alla maestà impassibile della loro grandezza.
Ma lo spettacolo, sempre bellissimo, è maraviglioso verso sera, quando la luce calda del tramonto retrocede di altura in altura, e tutte quelle vette superbe si disegnano a contorni bruni sul cielo purpureo, come le guglie d'una città favolosa sullo splendore d'un incendio, e quando tutto il grande cerchio delle montagne essendo già immerso nell'ombra, il monte Rosa solitario brilla ancora della sua bella luce rosata, come se vi battesse il raggio d'un altro sole, e le sue cime gloriose fossero privilegiate d'un'aurora eterna.
Il forestiero deve cogliere quel momento, quando è tutto compreso della bellezza formidabile delle Alpi, e di quel sentimento affettuoso e triste che si prova alla vista dei confini della patria, per andare a cercare il più piacevole degli effetti di contrasto di cui si possa godere a Torino. Deve salire in una carrozza, e farsi condurre rapidamente, per la via più dritta, sulla riva sinistra del Po. Là era il poema, qui è l'idillio, davanti al quale il pensiero, che già vagava di là delle Alpi, ritorna tutto in Italia. È un paesaggio tutto verde, pieno di grazia, e un po' teatrale, tanto ogni sua parte è in vista, si mostra, si porge quasi allo sguardo, e par che tradisca l'intenzione d'un artista, più che l'opera della natura. Le colline schierate sulla sponda opposta s'avanzano sul fiume, si ritraggono, si dispongono ad anfiteatro, si risospingono innanzi, s'innalzano le une sulle altre a curve leggiere e gentili, che si fanno accompagnare con uno sguardo carezzevole e con un atto di consenso del capo; e sono coperte di vigneti, ombreggiate di boschetti di pini, sparse di case e di ville, non tante fitte da toglier loro la grazia della solitudine campestre, simili qua e là nella vegetazione e nelle forme a certi tratti delle colline del Bosforo e del Reno. Una schiera di case da villaggio si stende lungo la riva; da una parte il Castello rosso del Valentino specchia nelle acque le sue mura severe e i suoi tetti acuti, e il fiume s'allunga fra due sponde romite, che si curvano in mille piccoli seni folti di salici e d'ontani; dalla parte opposta il paesaggio s'apre in una grande chiarezza, e s'alza in disparte, a grandi curve riposate e superbe, la collina di Superga, coronata della sua Basilica solitaria, accesa dal sole. Lo strepito d'un mulino, il mormorio di una cascatella del fiume e le voci delle lavandaie inginocchiate lungo le sponde, sono i soli rumori che turbino il silenzio di quel vasto giardino pieno di gentilezza e di pace, dinanzi al quale il più prosaico Prudhomme torinese si arresta, ammirando. E il vecchio Po, largo e lento, spande in mezzo a quella gentilezza la poesia guerriera dei suoi ricordi e delle sue glorie.
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Ma non ha visto Torino chi non ha visto i suoi sobborghi, ciascuno dei quali ha un carattere suo proprio, non abbastanza osservato, forse, neppure dagli stessi Torinesi. C'è da fare un giro curiosissimo, partendo da San Salvario, e andando su per l'antica piazza d'Armi e per il Borgo San Donato, fino a Borgo Dora. Il Borgo San Salvario è una specie di piccola «city» di Torino, dalle grandi case annerite, velato dai nuvoli di fumo della grande stazione della strada ferrata, che lo riempie tutto del suo respiro affannoso, del frastuono metallico della sua vita rude, affrettata e senza riposo; una piccola città a parte, giovane di trent'anni, operosa, formicolante di operai lordi di polvere di carbone e di impiegati accigliati, che attraversano le strade a passi frettolosi, fra lo scalpitìo dei cavalli colossali e lo strepito dei carri carichi di merci che fan tintinnare i vetri, barcollando fra gli omnibus, i tranvai e le carrette, sul ciottolato sonoro. L'aspetto del sobborgo è ancora torinese, ma arieggia la «barriera» di Parigi. I portici sono affollati di gente affaccendata, che si disputa lo spazio; le scale delle case risuonano di passi precipitosi; nei caffè si parla d'affari; tutto dà l'indizio di una vita più concitata che nelle altre parti di Torino. È una piccola Torino in «blouse», che si leva di buon'ora, e lavora coll'orologio alla mano, senza perdere tempo; che frequenta il teatro Balbo, passeggia sul Corso del Re e va a prendere la tazza al Caffè Ligure, allegra e chiassosa la sera, democratica, un po' rozza, piena di buone speranze, ariosa e pulita, e affaticata, ma che par contenta di sè, in mezzo alla verzura e ai larghi viali che le fanno corona, davanti alla stazione che l'assorda coi suoi fragori e i suoi sbuffi di gigantesca officina.
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Di là andando su per il Corso Vittorio Emanuele, si arriva alla vecchia piazza d'Armi, in mezzo a una cittadina nata ieri, a una specie di giardino architettonico, pittorescamente disordinato, dove ogni settimana sboccia una casa; dove si ritrova l'«hôtel» dei Campi Elisi, la palazzina del Viale dei Colli, la villetta genovese, il casino svizzero, un vero visibilio di capricci sfarzosi, ciascuno dei quali par la protesta d'una bella signora contro l'antica tirannia dell'architettura regolamentare. Le strade strette e discrete, dove il silenzio non è interrotto che raramente dal rumore di qualche carrozza privata, si biforcano e serpeggiano fra i muri variopinti e le cancellate eleganti dei giardini, girando intorno alle case mute in curve rispettose e cortesi, e formando crocicchi simpatici, da cui si vedono qua e là spicchi obliqui di villette lontane, terrazze a balaustri, piccoli portici, giardinetti d'inverno coperti di vetrate, padiglioncini e chioschetti coloriti; dietro ai quali appaiono e dispaiono livree di cocchieri e cuffiette bianche di governanti. Si dimenticherebbe di essere a Torino, se tutti quei tetti acuti, quei cornicioni frangiati, quei camini di forme graziose e bizzarre, non si disegnassero sulla bianchezza delle Alpi. È un quartiere ridente, misto di città e di campagna, pieno di fragranze d'erbe e di fiori, con un leggero color di mistero, un po' femmineo, che fa venir sulle labbra dei versi di Alfredo De Musset, e sveglia mille fantasie voluttuose di amori aristocratici, di scalette di seta e di duelli all'ultimo sangue nel silenzio dei giardinetti chiusi, al chiarore della luna. I giovani romanzieri di Torino si serviranno largamente, senza dubbio, nei loro romanzi avvenire, di questa piccola città pomposa e gentile; e intanto essa s'allarga rapidamente, e si popola da ogni parte, aspettando il Re gigantesco destinato a torreggiare sulle sue case.
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Poco lontano di là, girando a destra, tutto cambia: s'entra in una città militare. L'Arsenale, i Magazzini d'Artiglieria, il Laboratorio pirotecnico, l'Opificio militare meccanico, la Cittadella, la grande Caserma della Cernaia, si stendono in lunga catena da piazza Solferino a piazza San Martino, e danno a quella parte della città un aspetto tutto soldatesco, compiuto dai tre monumenti guerreschi del Duca di Genova, d'Alessandro Lamarmora e di Pietro Micca, che brandiscono le spade e la miccia. Qui a certe ore del giorno par d'essere in una città forte, in tempo di guerra. I coscritti fanno l'esercizio sui viali e sulla piazza Venezia, per le strade passano i picchetti di guardia, i carri di viveri e le vetture d'ambulanza, passano ordinanze del treno a cavallo e ordinanze di fanteria coi bimbi degli ufficiali per mano, escono frotte di carabinieri dalla Cittadella, stormi d'ufficiali dalla Scuola d'equitazione, sciami d'operaie dagli opifici militari; e qualche volta, mentre l'Arsenale d'Artiglieria riempie le strade vicine dei suoi rumori minacciosi, dal Laboratorio pirotecnico si sentono delle detonazioni, la Caserma della Cernaia echeggia di canti e di squilli di tromba, le bande dei reggimenti passano suonando, e le macchine a vapore del genio militare percorrono le strade, facendo tremare le case. Compiscono il quadro i vecchi ufficiali giubilati che leggono la gazzetta all'ombra dei platani, e le lunghe processioni di «figlie di militari», vestite di nero e d'azzurro, che passano sui viali, in doppia fila, per ordine di statura. Tutto quel quartiere di Torino piglia colore dall'esercito. Sotto i portici ci son le piccole trattorie che tengon pensione, affollate d'ufficiali verso l'imbrunire, camere mobiliate e libere ai mezzanini, gran quadri di fotografi, pieni di militari puliti e lustri, voltati tutti di prospetto, piccoli banchi di merciaiuoli, dove il soldato va a comprare lo specchietto, la pipa, il foglio di carta da lettera e la matassina di filo, e pilastri tappezzati di giornali popolari illustrati, per chi vuole ingannare il tempo nel corpo di guardia e nella stanza di picchetto. La popolazione ha pure il suo carattere speciale. La gente di bottega conosce i segnali delle trombe e gli orari, le erbivendole parlano di «traslocazioni di corpi» e di «campi d'istruzione», e i monelli fischiano le arie della ritirata. È una piccola Torino in armi, balda e allegra, nella quale s'incontra una sentinella a ogni passo, e si cammina, la notte, sotto la perpetua minaccia del «chi va là»; bella e pittoresca sopra tutto di notte; coi suoi lunghi muri silenziosi, coi suoi vasti cortili nascosti, quando la luna batte sui merli della grande caserma di Alfonso Lamarmora, e pende
sul carabiniere solitario, ritto davanti al suo casotto, sopra gli spalti deserti della Cittadella addormentata.
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Andando innanzi verso ponente, oltrepassato il Borgo di San Donato, che s'allunga sopra una strada sola, pigliando gradatamente l'aspetto di un villaggio grazioso, s'entra, per il Corso Principe Eugenio, in una parte di Torino stranissima, poco nota, nella quale la città si perde nella campagna, e dove son raccolti i principali istituti di beneficenza, fra cui il Ritiro del buon Pastore, l'Ospedale di San Luigi, il Manicomio, lo Stabilimento di don Bosco, l'Ospedale di Cottolengo; edifizi chiusi e muti, dall'aspetto di conventi e di carceri, colle persiane rovesciate, coi finestrini ingraticolati, con porte e porticine sbarrate, che danno al luogo l'aspetto misterioso d'un quartiere di città orientale. Qui vive un mondo invisibile d'infermi, di vecchi, di traviate, di «preservande», di ragazze abbandonate, di bimbi senza parenti, di giovinetti poveri, di maestre e di suore che pregano, soffrono, studiano, lavorano, si preparano alla vita e alla morte, separati dal mondo, nel raccoglimento severo della loro piccola città solitaria. Le strade sono quasi deserte. Passano carrozze colle tendine calate, s'incontran preti, qualche monaca, poveri, si sentono canti di bambini, echi lontani di litanie, rumori di porte interne aperte e chiuse cautamente, e tintinnii di campanelli di parlatorii, a cui succedono silenzi profondi. Tutto spira pace, rassegnazione e penitenza. Chi passa di là abbassa la voce senz'avvedersene; scorda la Torino rumorosa del lavoro e dei piaceri, e s'abbandona, rallentando il passo, alla meditazione dei dolori e delle miserie umane, punto da una curiosità triste di penetrare in quei recinti severi, d'interrogare quelle sventure, di scrutare quel mondo sconosciuto e nascosto, a cui tanta gente pietosa consacrò la vita e la fortuna. E alla tristezza di quel quartiere singolare, corrisponde la campagna circostante, piana e silenziosa, specialmente d'inverno, all'ora del tramonto, quando al di sopra delle case e dei campi coperti di neve, già immersi nell'ombra azzurrina della sera, scintilla ancora sotto l'ultimo raggio del sole l'alta statua dorata di Maria Ausiliatrice, ritta sulla cupola della sua chiesa solitaria, colle braccia tese verso le Alpi.
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Proseguendo di là per il Corso San Massimo s'arriva alla grande piazza ottagonale di Emanuele Filiberto. Ma per vederla in tutta la sua bellezza bisogna capitarvi una mattina di sabato, d'inverno, in pieno mercato. Uno Zola torinese potrebbe mettere lì la scena di un romanzo intitolato «Il ventre di Torino». Sotto le vaste tettoie, fra lunghe file di baracche di mercanti di stoffe, di botteghini di chincaglierie e d'esposizioni di terraglia all'aria aperta, in mezzo a monti di frutta, di legumi e di pollame, a mucchi di ceste e di sacchi, tra il va e vieni delle carrette che portan via la neve, tra il fumo delle castagne arrosto e delle pere cotte, gira e s'agita confusamente una folla fitta di contadini, di servitori, di sguatteri, di serve imbacuccate negli scialli, di signore massaie, di ordinanze colla cesta al braccio, di facchini carichi, di donne del popolo e di monelli intirizziti, che fanno nera la piazza. Intorno ai banchi innumerevoli è un alternarsi affollato e continuo di offerte e di rifiuti, di discussioni a frasi secche e tronche, di voci di maraviglia e di sdegno, d'apostrofi e di sacrati, che si confondono tutti insieme in un mormorìo sordo e diffuso, come d'una moltitudine malcontenta. Là bisogna andare per vedere le erbivendole famose, formidabili di tarchiatura, di pugni e di lingua, e per studiare la potenza insolente del vernacolo, la ferocia spietata dell'ingiuria plebea, il lazzo che schiaffeggia, il sarcasmo che leva la pelle, strazia la carne e incide le ossa. Da una parte c'è il mercato delle contadine, venute da tutte le parti del circondario, partite a mezzanotte dai loro villaggi per arrivare in tempo a pigliare un buon posto a destra e a sinistra d'un viale fiancheggiato di platani; e son là schierate, ritte o sedute, colle loro derrate esposte su mucchi di neve sudicia, strette le une alle altre come per tenersi calde, inzoccolate, imbottite, infagottate, fasciate di pezzuole e di scialli, con guanti di cenci e con fazzoletti attorcigliati intorno alla fronte, con cappelli da uomini sul capo, con vecchi mantelli da carrettiere sulle spalle, e lo scaldino fra le mani, coi nasi e i menti pavonazzi; e in mezzo a loro passa la processione accalcata e lenta dei compratori. Qui un pretucolo soffia tra le penne d'un pollo per scoprire le polpe, là una vecchia signora cogli occhiali spera le uova ad una ad una di contro alla luce, più in là un vecchio celibe, accompagnato dalla cuoca con la sporta, scruta un formaggio con la lente; da ogni parte si tasta, si palpa, si soppesa, si fiuta, si disputa, in un tuono di lamento stizzoso, gesticolando coi cavoli in mano, brandendo i cardi, scotendo le galline, gettando nelle orecchie di chi passa frammenti di dialoghi monosillabici, che fanno indovinare dei tira tira d'un'ora per un centesimo, delle economie disperate, delle avarizie rabbiose, delle pazienze da santi, delle miserie segrete di famiglie decorose, tutte le durezze e le angosce della gran lotta per la vita. Passano signorine eleganti, grossi borghesi buongustai, cuochi grassi e tronfi, cameriere padrone, curiosi allegri, una folla continuamente cangiante, fra cui si fanno largo ogni specie di rivenditori ambulanti, vecchi decrepiti, bambine, mostriciattoli col botteghino al collo, che offrono un almanacco, un tartufo, due limoni, una catenella d'acciaio, un pezzo di tela, facendo un vocìo assordante, dominato dalla voce stentorea del venditore della «Cronaca dei Tribunali» e dalla cantilena funebre del sacrestano che scuote un bossolo domandando l'elemosina per le anime del Purgatorio. Per tutta la piazza è un affaccendamento e un rimescolìo rumoroso, un farsi e un disfarsi continuo di crocchi intorno a carrozze di cavadenti, a venditori di specifici, a strimpellatori di violini, a banditori d'incanti, a ciarlatani cappelluti che raccontano storie di delitti davanti a grandi quadri rosseggianti di sangue, a teatrini da burattini, rizzati in mezzo alla neve, a grandi fiammate di paglia, accese dai fruttaiuoli infreddoliti per sgranchirsi le membra. E non si può dire quant'è pittoresca e bizzarra quella confusione di gente e di cose, di lavoro e di festa, di città e di campagna, vista a traverso la nebbia della mattina, che lotta ancora col sole, in mezzo a quei grandi alberi sfrondati, imperlati di brina.
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D'in fondo alla piazza, scendendo per una gradinata, si riesce in una larga strada ricurva, che va verso la Dora, davanti a un altro spettacolo curiosissimo. La strada è tutta da un capo all'altro una sola enorme bottega di rigattiere all'aria libera, un'esposizione grandiosa e compassionevole di miserie, di cui non è possibile farsi un'immagine fuorchè supponendo che un intero quartiere di Torino, invaso da un furore di distruzione, abbia rovesciato giù dalle finestre tutte le masserizie delle sue case, dai solai alle cantine, fino all'ultima carabattola dell'ultimo armadio. E tutto è ordinato, pulito, messo in vista, con una cura scrupolosa, come la merce più rara, e accanto a ciascuna delle cento rigatterie, che formano quell'interminabile bazar di cenci e di tritumi, siede il venditore meditabondo, appoggiato alla sua carretta, in atteggiamento filosofico, cogli occhi fissi sulle rovine da cui ricava la vita. La varietà e la stranezza degli oggetti è maravigliosa. È una confusione di cose e d'avanzi di cose da far impazzire il disgraziato che ne dovesse far l'inventario. La pianeta del prete, il cappello sfondato del bersagliere, la marionetta rotta del teatrino di San Martiniano, il vestito di seta lacerato al veglione del teatro Scribe, la serratura del cinquecento, il romanzo incompiuto di Eugenio Sue, il chiodo rotto, il basto dell'asino, il quadro a olio, il berretto piumato del tenore, denti finti, spille scapocchiate, padelle senza manico, elmi, mappamondi, gambe di tavola, spogli d'alcove, di salotti, di studi d'avvocato, di soffitte, d'officine, di taverne, muffiti, sbrindellati, rosicchiati dai topi, bucati dalle tignole, marciti dalla pioggia, smangiati dal fango, consunti dalla ruggine, senza colore, senza forma, senza nome, senza prezzo: c'è tutto quello che il mare agitato della vita umana rigetta da sè, tutto quello che la mente può immaginare di più miserabile, di più inutile, di più spregevole, di più rifinito e di più snaturato dal tempo, dall'uso e dalla violenza. In quello strano mercato comincia il lavoro nel cuor della notte, al lume delle lanterne, e il formicolìo della folla allo spuntare dell'alba. Là va la sartina, furtivamente, a cercare lo scialle smesso; ci va il padre di famiglia, corto a quattrini, a comprare il lume a petrolio; ci va l'artista a scovar l'abito per il modello; ci va l'antiquario, il bibliomane, l'attore spiantato, l'ebreo rigattiere, una processione di collettori di bagattelle e di curiosi d'ogni specie, impazienti tutti d'arrivare i primi a pescare in quel mare magno in cui si nascondono qualche volta tesori sconosciuti e piccole fortune insperate; e tutti girano e cercano avidamente fino a giorno alto, in mezzo a un via vai di contadini e di contadine che contrattano panni logori, di cenciaiuoli girovaghi, carichi di stivali sdrusciti e di pentole fesse, di facchini, di raccoglitori di cicche e di carte, di guardie municipali, di donne di servizio, di bottegai, di sensali, che fluttuano in due opposte correnti fra il mercato dell'erbe e il gran pandemonio della piazza vicina.
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Chi ha fatto questo giro, e s'è ancora spinto poi, per il corso San Maurizio, fino in faccia al Borgo Po, che chiude come uno scenario graziosissimo il grande palcoscenico della piazza Vittorio Emanuele, ha visto la città di Torino. Ma gli resta da studiare il movimento e l'aspetto della popolazione, che è pure curioso. Il più grosso torrente della vita scorre dalla stazione di Porta Nuova fino a Piazza Castello, dove arriva gonfiato dall'affluente di via Santa Teresa; e là si rispande per via di Po e per via Dora Grossa, e serpeggia in mille rigagnoli per le vie strette della vecchia Torino, fino al gran lago ondeggiante della piazza Emanuele Filiberto. La gente si perde nella vastità delle piazze, dove non si vedono che «rari nantes»; presenta un aspetto generale d'eleganza nell'ultimo tratto di via Roma e sotto i portici, e piglia gradatamente un colore modesto e popolano, via via che scende verso il fiume o risale verso i quartieri di settentrione e di ponente. L'ordine è nella folla come nell'architettura: passa una processione a destra e una processione a sinistra d'ogni strada, l'una opposta all'altra: da una parte non si vedono che nuche, dall'altra non si vedono che visi. Certi personaggi si succedono con una frequenza che si nota subito: il vecchio giubilato, sbarbato e pulito, che va rasente il muro; il giovane ufficiale d'artiglieria della Scuola d'applicazione; lo studente vestito con una certa sprezzatura d'artista; la sartina dal corpicino snello e asciutto, con quattro cenci addosso, messi con garbo signorile e aggraziati da un'andatura capricciosa insieme e composta; l'operaio di statura media, d'aspetto rude, di membra solide, di movimenti da soldato; l'uomo nuovo, l'industriale, il commerciante, l'agente d'affari, fra i trenta e i quarant'anni, trascurato nel vestire, di viso serio, grigio innanzi tempo, leggermente invermigliato dal Barolo vecchio, col sigaro di Cavour spento fra le dita della mano inquieta, e un pensiero fisso sulla fronte; il grosso padre di famiglia, borghese benestante, con un viso benevolo, che manifesta poche idee, ma quelle poche nette e salde, e inchiodate profondamente nel cervello, nella coscienza e nel cuore, e tratto tratto qualche signora alta, sottile e bianca, coll'occhio azzurro e il piede patrizio, che fa col suo mantello di velluto nero una macchietta vigorosa e pomposa nel grigio volgare della folla. Tutti camminano guardando diritto davanti a sè; si discorre senza rallentare il passo; poche conversazioni ad alta voce; nessuna apostrofe da un lato all'altro della strada; si parla a mezza voce, a frasi spedite, gesticolando in uno spazio circolare di non più di due palmi di raggio, e risalendo prontamente sul marciapiede, per forza d'abitudine, ogni volta che s'è stati costretti a discendere. E già, nelle strade frequentate, si vede, come nelle grandi città del nord, una gara ad arrivare i primi, a lasciarsi indietro chi ci cammina accanto, come se ogni vicino fosse un concorrente in affari. Tutte le scorciatoie sono utilizzate, si svolta rasente i muri, s'attraversa la strada di corsa, s'inseguono i tranvai, si fa folla agli incrociamenti delle carrozze e dei carri, e s'apostrofano carrettieri e cocchieri con voci e gesti impazienti di gente che ha i minuti contati. Ma una certa apparenza di gentilezza corregge il carattere un po' aspro di questa vita frettolosa di città industriale. I saluti sono premurosi, i cappelli s'abbassano profondamente, la gente si scansa con giri svelti e larghi, i bottegai riaccompagnano i compratori alla porta in atto cerimonioso, il cameriere si inchina all'avventore sulla soglia della trattoria, il fiaccheraio riverisce la «pratica», il venditore di giornali ringrazia del soldo con un buon augurio, le erbivendole si chiamano «madama», le due frasi spicciole del galateo torinese «ca fassa grassia» e «ca scusa» si sentono da ogni parte e ad ogni proposito come il «pardon» e il «s'il vous plait» a Parigi; la città fa i suoi affari alla lesta, ma con dignità, da signora educata, non da rozza merciaia. E come Parigi ha l'«ora dell'assenzio», Torino ha l'ora del vermut, l'ora in cui la sua faccia si colora e il suo sangue circola più rapido e più caldo. Allora le scuole riversano per le strade nuvoli di ragazzi, dagli opifici escono turbe di operai, i tranvai passano stipati di gente, gli equipaggi s'inseguono, le botteghe dei liquoristi s'affollano, un esercito d'ufficiali e di soldati d'ogni arma si spande in ogni parte e mette un soffio di gioventù per le vie, e nella mezza oscurità della sera par di vedere Torino come all'immaginazione piace di raffigurarsela in un avvenire lontano: una Torino di cinquecentomila abitanti, che riempia la sua cinta daziaria, con un nuovo centro e nuovi sobborghi, tutta sonante di lavoro e rigurgitante di vita.
Ma il più bello spettacolo vivo, e nello stesso tempo il più originale, che offra Torino, è la passeggiata sotto i portici di Po, le sere d'inverno. I portici sono i «boulevards» di Torino. L'albergo d'Europa può rappresentare il «Grand Hôtel»; la chiesa dell'Annunziata, la «Madeleine»; il caffè Fiorio, «Tortoni»; il Teatro Regio, il «Grand Opéra». Anche qui la folla maggiore, e il fiore dell'eleganza e del lusso passano a destra. La prima cosa che dà agli occhi è il contrasto della bottega splendida col baraccone da villaggio che le sorge in faccia, nello stesso tempo officina e negozio; il banco della fruttaiola di fronte alla trattoria aristocratica; il rivenditore d'almanacchi e di libri usati in faccia al grande libraio signorile. La contessa vestita in gala passa accanto ai banchi di legumi e di caci, la conversazione leccata dei dandy è interrotta dall'urlìo plebeo dei cavamacchie e dei venditori di fotografie; tutto il mondo elegante sfila in mezzo a quella lotta muta e continua del grande e del piccolo commercio, schierati l'uno di fronte all'altro, in atteggiamento ostile, come due catene di sentinelle avanzate dei due grossi eserciti nemici della borghesia e della plebe. Qui la folla è fitta e nera, divisa in due correnti, che si toccano, e spesso si confondono, e straripano fuori dei portici. In alcuni punti è un vero serra serra, come all'uscita da un teatro, tanto che nello spazio di tre braccia quadrate si ritrovano spesso un capitano d'artiglieria, una coppia matrimoniale, un prete, un accademista, una crestaia, un operaio, stretti in un mazzo, che paiono una famiglia sola. Qualche volta per pigliar spazio la folla è costretta a fermarsi, e tutti «segnano il passo» come una colonna di soldati. L'aspetto e il contegno generale è grave, come l'andatura, e come disse un professore arguto, sembra che tutti «meditino un regolamento». La gente gira tutt'intorno alla Galleria Subalpina, a passi lenti, processionalmente, come nella sala d'un museo, non facendo che un leggiero bisbiglio, che lascia sentire distintamente le note acute dei cantanti nella sala sotterranea del Caffè Romano. Sotto i portici non si sente che un mormorìo sordo ed eguale, fra cui risuonano forte, qua e là, le sciabole degli ufficiali e le risa argentine delle fioraie e delle sartine, che fanno una scappata a traverso al bel mondo, coll'involtino in mano, prima di tornare a casa, e i colpi secchi delle porte dei caffè aperte e richiuse bruscamente per timore del freddo. Par di essere in una galleria d'un palazzo grandissimo, dove i convitati sfilino rispettosamente al cospetto d'un principe. E siccome gl'incontri sono frequentissimi e si ripetono, così è un salutarsi continuo di militari, un continuo scappellarsi d'amici e di conoscenti, di studenti e di professori, di grossi e di piccoli impiegati, che si voltano obliquamente, passandosi accanto, per non urtarsi nel petto. Della gente non si vede che il viso e i fiati fumano. Ma i baracconi riparano dal freddo. Si sta bene in quella calca, così stretti, l'uno addosso all'altro, e pare che tutti provino piacere a pigiarsi, a sentirsi davanti, dietro e dai lati dei pesanti pastrani, dei grandi mantelli d'ufficiali, dei grossi borghesi ben pasciuti e caldi, usciti allora da una sala da desinare. Da tutte le strade laterali arriva gente, chiudendo l'ombrello, pestando i piedi, scuotendo i panni bianchi di neve, e tutti si ficcano in quella folla, con gusto, tirando un respiro, come se entrassero in casa. E la folla essendo così pigiata, si colgono a volo da tutte le parti, passando, brani di dialoghi sommessi, frammenti di discussioni scientifiche, giudizi letterari di studenti, notizie sullo stato dei fondi pubblici, qualche volta frasi staccate di confidenze di signorine, che un'ondata di gente ha separate dai parenti che vengon dietro, conversazioni francesi e tedesche, parole dolci vibrate a bruciapelo nei momenti di maggior confusione: specialmente allo svolto dei portici in faccia alla Galleria, dove accade spesso d'incontrarsi faccia a faccia con marito e moglie, e sentirsi ad un punto il fumo del sigaro del marito negli occhi, il manicotto della signora contro le mani e la testa del bimbo in un fianco. Chi non c'è abituato, può seccarsi sulle prime, e impazientarsi di quello strano modo di passeggiare; ma tutti, prima o poi, ci pigliano piacere. C'è non so che idea di intimità domestica in quel lento va e vieni di gente affollata sotto quegli archi, dinanzi a quelle vetrine splendide, che finiscono con lo stamparsi nella memoria, ad una ad una, come i mobili della casa propria; c'è un'apparenza come di affratellamento e di buon accordo universale, un'immagine viva di quell'unanimità di sentimenti e di propositi che fece forte e ammirato il popolo piemontese, qualche cosa di geniale e di benevolo, che non si sa ben dire, ma che mette un calor salutare nel petto, dalla parte sinistra.
Torino, però, si presenta in molti aspetti molto diversi, che un forestiero non può osservare in pochi giorni. Ci son poche città che cambino viso così stranamente col cambiare della stagione e del tempo. Ha una bellezza sua propria quando è coperta di neve, quando le Alpi son tutte bianche, le colline bianche, i giardini, gli alberi dei viali lunghissimi, i larghi corsi, le grandi piazze, tutto bianco; specialmente di notte, quando a traverso la neve fitta, che vela la luce delle file interminabili dei lampioni, non si riconoscono più le vie, si confondono i crocicchi, la città sembra immensa, e nei vasti spazi deserti regna un silenzio cupo di città disabitata, in cui fuggono e spariscono come ombre impaurite le carrozze e la gente, e vi par spenta la vita per sempre. È bella anche nelle mattinate d'inverno grigie e rigide, quando il cielo coperto piglia successivamente mille colori strani di viola, d'oro e di porpora, che paiono riflessi di grandi incendi lontani, e ogni strada è chiusa da una cortina di nebbia, come dal fumo del fuoco di fila d'una barricata, nel quale i monumenti si drizzano come larve, e le persone appariscono all'improvviso, come se sbucassero di terra, e tutta la popolazione affaccendata della mattina, morsa dal freddo, precipita il passo, batte i piedi, stropiccia le mani, soffia sulle dita, saltella e scantona ad un angolo retto, con le spalle ingobbite e il gomito al muro, come se fosse inseguita e sferzata da una legione d'aguzzini invisibili, e par che i raggi del sole s'arrestino intimiditi sui cornicioni delle case, e che la città sia condannata al gelo e alla mezza luce d'un'alba perpetua. Ma è bella sopra tutto di primavera, in quei giorni che da un inverno lungo e uggioso si salta improvvisamente nella bella stagione, e si sente la verità di quello che disse George Sand: la primavera dell'Italia settentrionale è la più bella del mondo. Allora Torino si riscuote tutta, e par che ringiovanisca in poche ore; la popolazione si spande per i giardini e per i viali, come a una festa; per le grandi strade passano torrenti di luce e d'aria; a ogni cantonata par che soffi una brezza nuova; si sentono ondate d'odor di campagna e di fragranze alpine, che dànno una scossa al sangue; il cielo, le montagne, le colline, gli sfondi lontani delle vie, tutto è terso, netto, fresco, allegro; Torino ha l'aria d'una città americana, venuta su da pochi anni, nel primo sboccio della sua verde adolescenza; ma dorata da un raggio di bellezza italiana.
Ma per veder Torino nel suo più bell'aspetto, bisogna vederla nell'occasione d'una di quelle grandi feste nazionali, in cui accorrono qui Italiani d'ogni provincia, vecchi ministri che vi passarono i più belli anni della loro età matura, deputati maturi che vi passarono gli anni più belli della gioventù, giornalisti che vi fecero le prime armi, ricchi che ci vissero nella strettezza, antichi emigrati, senatori, generali, tutti i superstiti di quella grande legione di uomini di Stato, di scrittori, di lottatori, di soldati, di tribuni, che preparò e iniziò qui la rivoluzione italiana, e se n'andò con la capitale. È bello e commovente quel ritorno. Tutti hanno qui mille memorie; sparpagliandosi per la città, ne ritrovano una ad ogni passo; riconoscono luoghi e persone, rivedono col pensiero gli amici e i compagni perduti, ricordano alla svolta d'ogni via, si può dire, un avvenimento e una commozione. Il popolo torinese è tutto in giro, e in quei giorni rivive anch'esso in quel bel tempo, che par già tanto lontano, in quei begli anni di speranze e d'entusiasmi; anch'esso riconosce a ogni passo un ospite antico, deputati incanutiti, generali incurvati, gravi pubblicisti di cui ha letto le prime appendici letterarie, ministri che vivevano in una cameretta al quarto piano in via Dora Grossa, visi, voci, gesti che ravvivano tutti i suoi più cari ricordi e gli fanno battere il cuore. Allora certi luoghi della città, certi angoli storici ripigliano per qualche ora l'aspetto antico; si rivedono nei vecchi caffè i personaggi e i crocchi d'una volta; da ogni parte si stringono mani d'amici, si alternano esclamazioni di stupore e di piacere, e conversazioni concitate, piene di domande, di date, di nomi, di parole tristi e affettuose, e di echi sonori delle antiche passioni giovanili; e piazza Castello si rianima, e sotto i portici ripassa un soffio del cinquantanove, e tutta la città si sente rifluire al cuore il suo vecchio sangue di guerriera e di regina, e apparisce più bella e più altiera in mezzo alla vasta cintura verde dei suoi platani e al grande anfiteatro azzurro delle sue Alpi.