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ROMA.
L'ENTRATA DELL'ESERCITO ITALIANO IN ROMA.
Le cose che ho da dire sono tante e tali che mi sarà impossibile di scriverle con ordine e chiaramente. È già gran cosa aver la voglia di scrivere, mentre per le vie di Roma risuonano ancora le grida del primo entusiasmo e della prima gioia. Tutto quello che ho veduto ieri mi sembra ancora un sogno; sono ancora stanco della commozione; non sono ancora ben certo di essere veramente qui, di aver visto quello che vidi, di aver sentito quello che sentii.
Vi dirò subito che l'accoglienza fatta da Roma all'esercito italiano è stata degna di Roma, degna della capitale d'Italia, degna d'una grande città sovranamente patriottica. Tutto ha superato non solo l'aspettazione, ma la immaginazione. Bisogna aver veduto per credere. Dubiterete della mia sincerità, lo prevedo; ma non voglio spender parole per prevenirvi, perché capisco che non posso aspirare ad esser creduto. Eppure sento che non vi darò che una pallida immagine della realtà! Son cose che non si possono ridire.
Ieri mattina alle quattro fummo svegliati a Monterotondo, io e i miei compagni, dal lontano rimbombo del cannone. Partimmo subito. Appena fummo in vista della città, a cinque o sei miglia, argomentammo dai nuvoli del fumo che le operazioni militari erano state dirette su vari punti. Così era infatti. Il 4.° corpo d'esercito operava contro la parte di cinta compresa tra porta San Lorenzo e porta Salara, la divisione Angioletti contro porta San Giovanni, la divisione Bixio contro porta, San Pancrazio. Il generale Mazè de la Roche, con la 12.a divisione del 4.° corpo, doveva impadronirsi di Porta Pia.
Via via che ci avviciniamo (a piedi s'intende) vediamo tutte le terrazze delle ville affollate di gente che guarda verso le mura. Presso la villa Casalini incontriamo i sei battaglioni bersaglieri della riserva che stanno aspettando l'ordine di avanzarci contro Porta Pia. Nessun corpo di fanteria aveva ancora assalito. L'artiglieria stava ancora bersagliando le porte e le mura per aprire le breccie. Non ricordo bene che ora fosse quando ci fu annunziato che una larga breccia era stata aperta vicino a Porta Pia, e che i cannoni dei pontifici appostati là erano stati smontati. Si parlava di qualcuno dei nostri artiglieri ferito. Ne interrogammo parecchi che tornavano dai siti avanzati, e tutti ci dissero che i pontifici davano saggio d'una maravigliosa imperizia nel tiro, che i varchi già erano aperti, che l'assalto della fanteria era imminente. Salimmo sulla terrazza d'una villa e vedemmo distintamente le mura sfracellate e la Porta Pia malconcia. Tutti i poderi vicini alle mura brulicavano di soldati; si vedevano in mezzo agli alberi lunghe colonne di artiglieria; lampeggiavano fucili tra 'l verde dei giardini; scintillavano lancie al di sopra dei muri; ufficiali di Stato maggiore e staffette correvano di carriera in tutte le direzioni.
È impossibile ch'io vi dia notizie particolari di quello che fecero le altre divisioni. Vi dirò della divisione Mazè de la Roche, che è quella ch'io seguii.
La strada che conduce a Porta Pia è fiancheggiata ai due lati dai muri di cinta dei poderi. Ci avanzammo verso la porta. La strada è dritta e la porta si vedeva benissimo a una grande lontananza; si vedevano le materasse legate al muro dai pontifici, e già per metà arse dai nostri fuochi; si vedevano le colonne della porta, le statue, i sacchi di terra ammonticchiati sulla barricata costrutta dinanzi; tutto si vedeva nettamente. Il fuoco dei cannoni pontifici, da quella parte, era già cessato: ma i soldati si preparavano a difendersi dalle mura. A poche centinaia di metri dalla barricata due grossi pezzi della nostra artiglieria traevano contro la porta e il muro. Il contegno di quegli artiglieri era ammirabile. Non si può dire con che tranquilla disinvoltura facessero le loro manovre, a così breve distanza dal nemico. Gli ufficiali erano tutti presenti. Il generale Mazè, col suo Stato maggiore, stava dietro i due cannoni. Ad ogni colpo si vedeva un pezzo del muro o della porta staccarsi e rovinare. Alcune granate, lanciate, parve, da un'altra porta, passarono non molto al disopra dello Stato maggiore. Gli zuavi tiravano fittissimo dalle mura del Castro Pretorio, e uno dei nostri reggimenti ne pativa molto danno.
Quando la Porta Pia fu affatto libera, e la breccia vicina aperta sino a terra, due colonne di fanteria furono lanciate all'assalto. Non vi posso dar particolari. Vidi passare il 40.° a passo di carica; vidi tutti i soldati, presso alla porta, gettarsi a terra in ginocchio, per aspettare il momento d'entrare. Udii un fuoco di moschetteria assai vivo; poi un lungo grido «Savoia!» poi uno strepito confuso; poi una voce lontana che gridò: - Sono entrati! - Arrivarono allora a passi concitati i sei battaglioni dei bersaglieri della riserva; sopraggiunsero altre batterie di artiglieria; s'avanzarono altri reggimenti: vennero oltre, in mezzo alle colonne, le lettighe pei feriti. Corsi con gli altri verso la Porta. I soldati erano tutti accalcati intorno alla barricata; non si sentiva più rumore di colpi; le colonne a mano a mano entravano. Da una parte della strada si prestavano i primi soccorsi a due ufficiali di fanteria feriti: uno dei quali, seduto in terra, pallidissimo, si premeva una mano sul fianco: gli altri erano stati portati via. Ci fu detto che era morto valorosamente sulla breccia il maggiore dei bersaglieri Pagliari, comandante del 35.°. Vedemmo parecchi ufficiali dei bersaglieri con le mani fasciate. Sapemmo che il generale Angolino s'era slanciato innanzi dei primi con la sciabola nel pugno come un soldato. Da tutte le parti accorrevano emigrati gridando. Tutti si arrestavano un istante, a guardare il sangue sparso qua e là per la strada: sospiravano, e ripigliavan la corsa.
La Porta Pia era tutta sfracellata; la sola immagine enorme della Madonna, che le sorge dietro, era rimasta intatta; le statue a destra e a sinistra non avevano più testa; il suolo intorno era sparso di mucchi di terra, di materasse fumanti, di berretti di zuavi, d'armi, di travi, di sassi.
Per la breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti.
In quel momento uscì da Porta Pia tutto il Corpo diplomatico in grande uniforme, e mosse verso il quartier generale.
Entrammo in città. Le prime strade erano già piene di soldati. È impossibile esprimere la commozione che provammo in quel momento; vedevamo tutto in confuso, come dietro una nebbia. Alcune case arse la mattina fumavano, parecchi zuavi prigionieri passavano in mezzo alle file dei nostri, il popolo romano ci correva incontro. Salutammo, passando, il colonnello dei bersaglieri Pinelli; il popolo gli si serrò intorno gridando. A misura che procediamo nuove carrozze, con entro ministri ed altri personaggi di Stato, sopraggiungono. Il popolo ingrossa. Giungiamo in piazza di Termini: è piena di zuavi e di soldati indigeni che aspettano l'ordine di ritirarsi. Giungiamo in piazza del Quirinale. Arrivano di corsa i nostri reggimenti, i bersaglieri, la cavalleria. Le case si coprono di bandiere. Il popolo si getta fra i soldati gridando e plaudendo. Passano drappelli di cittadini con le armi tolte agli zuavi. Giungono i prigionieri pontifici. I sei battaglioni dei bersaglieri della riserva, preceduti dalla folla, si dirigono rapidamente, al suono della fanfara, verso piazza Colonna. Da tutte le finestre sporgono bandiere, s'agitano fazzoletti bianchi, s'odono grida ed applausi. Il popolo accompagna col canto la musica delle fanfare. Sui terrazzini s'affacciano famiglie intere che batton le mani. S'arriva a piazza di Trevi. I soldati prorompono in esclamazioni di maraviglia alla vista della grande roccia coronata di statue, donde precipita un fiume; gli ufficiali debbono sospingerli innanzi.
S'entra in piazza Colonna: un altro grido di maraviglia s'alza dalle file. La moltitudine si versa nella piazza da tutte le parti, centinaia di bandiere sventolano, l'entusiasmo divampa: non v'è parola umana che valga ad esprimerlo. I soldati sono commossi fino a piangerne. Non vedo altro, non reggo alla piena di tanta gioia, mi spingo fuori della folla, incontro operai, donne del popolo, vecchi, ragazzi: tutti hanno la coccarda tricolore, tutti accorrono gridando: - I nostri soldati! - I nostri fratelli!
È commovente; è l'affetto compresso da tanti anni che prorompe tutto in un punto ora; è il grido della libertà di Roma che si sprigiona da centomila petti; è il primo giorno d'una nuova vita; è sublime.
E altre grida da lontano: - I nostri fratelli!
*
Il Campidoglio è ancora occupato dagli squadriglieri e dagli zuavi.
Una folla di popolo accorsa per invaderlo è stata ricevuta a fucilate. Parecchi feriti furono ricoverati nelle case; fra gli altri un giovanetto che marciò quindici giorni coi soldati. Il popolo è furente. Si corre a chiamare i bersaglieri. Due battaglioni arrivano sulla piazza, ai piedi della scala. I pontifici, al primo vederli, cessano di tirare; ma restano in atto di resistere. Una specie di barricata di materasse è stata costrutta in alto. L'assalirla di viva forza potrebbe costar molte vittime; s'indugia, forse gli zuavi s'arrenderanno, si dice che hanno paura dell'ira popolare. Tutte le strade che circondano il Campidoglio sono piene di gente armata che sventola bandiere tricolori e canta inni patriottici. Intanto ai bersaglieri che attendono sulla piazza son portati in gran copia vini, liquori, sigari, biscotti. La moltitudine va crescendo, cresce lo strepito. Qualcuno, forse un parlamentario, è salito sul Campidoglio. Parecchi ufficiali lo seguono. La folla, dal basso, guarda con grande ansietà. Ad un tratto cadono le materasse della barricata e appaiono le uniformi dei nostri ufficiali che agitano la sciabola e chiamano il popolo gridando: Il Campidoglio è libero. - La moltitudine getta un altissimo grido e si slancia con grande impeto su per la vasta scala, passa fra le due enormi statue di Castore e Polluce, circonda il cavallo di Marc'Aurelio, invade i corpi di guardia degli zuavi e rovescia, spezza e disperde tutto quanto vi trova di soldatesco. In pochi minuti tutto il Campidoglio è imbandierato. Il cavallo dell'imperatore romano è carico di popolani; l'imperatore tiene fra le mani una bandiera italiana. Un reggimento di fanteria occupa la piazza. È accolto con grida di entusiasmo. La banda suona la marcia reale, migliaia di voci l'accompagnano. All'improvviso tutte le faccie si alzano verso la torre. Il popolo e i soldati ne hanno sfondata la porta, son saliti sulla cima, hanno imbandierato il parapetto. Un pompiere sale per mezzo d'una scala sulle spalle della statua e lega una bandiera alla croce. Un fragoroso applauso e lunghissime grida risuonano nella piazza. La grande campana del Campidoglio fa sentire i suoi rintocchi solenni. Da tutte le parti di Roma accorre il popolo a ondate. Gli ufficiali che si trovano sul Campidoglio sono circondati e salutati con incredibile affetto. Si grida: - Viva Roma libera! - Viva i nostri soldati! - Le donne si mettono le coccarde tricolori sul petto. Da tutte le finestre dei palazzi vicini si agitano le mani e si sventolano i fazzoletti. Molti piangono. Il movimento della folla è vertiginoso; il rumore delle grida copre il suono della grande campana.
I conventi vicini, dove si crede che siansi rifugiati gli zuavi e gli squadriglieri, sono circondati dai bersaglieri e dalla fanteria.
*
Si ritorna in fretta verso il Corso. Tutte le strade sono percorse da grandi turbe di popolo che agitano armi e bandiere. I soldati pontifici che s'avventurano imprudentemente a passare per la città a due, a tre, o soli, sono circondati, disarmati e inseguiti. Giungiamo in piazza Colonna. In mezzo alla piazza vi sono circa trecento zuavi disarmati, seduti sugli zaini, col capo basso, abbattuti e tristi. Intorno stanno schierati tre battaglioni di bersaglieri. Il colonnello Pinelli e molti ufficiali guardano giù dalla loggia del palazzo che chiude il lato destro della piazza. Popolani, signori, signore, donne del popolo, vecchi, bambini, tutti fregiati di coccarde tricolori, si stringono intorno ai soldati, li pigliano per le mani, li abbracciano, li festeggiano.
Nel Corso non possono più passare le carrozze. I caffè di piazza Colonna sono tutti stipati di gente; ad ogni tavolino si vedono signore, cittadini e bersaglieri alla rinfusa. Una parte dei bersaglieri accompagna via gli zuavi in mezzo ai fischi del popolo; tutti gli altri sono lasciati in libertà. Allora il popolo si precipita in mezzo alle loro file. Ogni cittadino ne vuole uno, se lo piglia a braccetto e lo conduce con sè. Molti si lamentano che non ce n'è abbastanza, famiglie intere li circondano, se li disputano, li tirano di qua e di là, affollandoli di preghiere e d'istanze. I soldati prendono in collo i bambini vestiti da guardie nazionali. Le signore domandano in regalo le penne.
Numerosissime frotte di cittadini continuano a passare l'una dopo l'altra pel Corso con grandi bandiere; alcuni drappelli ne hanno quattro, sei, dieci; alcune bandiere sono alte più del primo piano delle case e vengono portate da due o tre persone. Tutta questa gente trae con sè soldati di fanteria e bersaglieri. Le canzoni popolari dei nostri reggimenti sono già diventate comuni: tutti cantano. Passano carrozze piene di cittadini che agitano in alto il cappello; i soldati, rispondono alzando il cheppì; le braccia si tendono dall'una parte e dall'altra, e le mani si stringono. Passano signore vestite dei tre colori della bandiera nazionale. Tutti gli ufficiali che passano in carrozza, a piedi, a gruppi, scompagnati, sono salutati con alte grida. Si festeggiano i medici, i soldati del treno, gli ufficiali dell'intendenza. Passano i generali e tutte le teste si scoprono. - Viva gli ufficiali italiani!-è il grido che risuona da un capo all'altro del Corso. In piazza San Carlo un maresciallo dei carabinieri a cavallo, scambiato per un generale, è ricevuto da una dimostrazione clamorosa, che gli cagiona un grande stupore. Da tutte le strade laterali al Corso continuamente affluisce popolo. Non v'è gruppo di cittadini che non abbia con sè un soldato, e ciascun gruppo osserva il suo da capo a piedi, gli toglie di mano le armi, gli parla tenendogli le mani sulle spalle, stringendogli le braccia, guardandolo negli occhi cogli occhi scintillanti di gioia. - Viva i nostri liberatori! - si grida. Davanti al caffè di Roma alcuni giovinetti gettano le braccia al collo di due robusti artiglieri e li coprono di baci disperati. A quella vista tutti gli altri intorno fanno lo stesso; cercano correndo altri soldati, li abbracciano, li soffocano a furia di baci. - Viva il nostro esercito nazionale! - gridano cento e cento voci insieme. - Viva i soldati italiani! - Viva la libertà! - E i soldati rispondono: - Viva Roma! - Viva la capitale d'Italia! - In molti, specialmente nei giovani, l'entusiasmo sembra delirio; non hanno più voce per gridare, si agitano, pestano i piedi, accennano le bandiere e fanno atto di benedire, di ringraziare, di stringersi qualche cosa sul cuore.
Non vidi mai, ve lo giuro, uno spettacolo simile; è impossibile immaginare nulla di più solenne e di più maraviglioso. Queste grandi piazze, queste fontane enormi, questi monumenti augusti, queste rovine, queste memorie, questa terra, questo nome di Roma, i bersaglieri, le bandiere tricolori, i prigionieri, il popolo, le grida, le musiche, quella secolare maestà, questa nuova gioia, questo ravvicinamento che ci fa la memoria di tempi, di casi, di trionfi antichissimi e nuovi, tutto questo insieme è qualche cosa che affascina, che percuote qui, in mezzo alla fronte, e pare che faccia vacillare la ragione; si direbbe che è un sogno; non si può quasi credere agli occhi; è una felicità che soverchia le forze del cuore. - Roma! - si esclama. - Siamo a Roma? Quando ci siam venuti? Come? Che è accaduto? - Il ricordo di quello che è accaduto è già confuso come se fosse d'un tempo remoto. È una commozione che opprime. Ad ogni strada, ad ogni piazza in cui s'entri, l'occhio gira intorno maravigliato, e il sangue dà un tuffo. Avanti, di maraviglia in maraviglia, di palpito in palpito, via via che si procede, la fronte si solleva, il cuore si dilata, e sente più gagliardamente la vita. Ecco la piazza del Popolo. Si corre all'obelisco, ci si volta indietro, si vedono davanti le tre grandi strade di Roma, si vede a sinistra il Pincio delizioso, laggiù in fondo la cima del Campidoglio, tutto intorno prodigiose bellezze di natura e d'arte, antiche, nuove, auguste, gaie, gigantesche, gentili; la mente sopraffatta si turba, ci prende un tremito, e bisogna sedersi ai piedi dell'obelisco, pigliarsi la testa, fra le mani e aspettare che la lena ritorni.
Intanto imbrunisce. Il Corso s'è illuminato come per incanto. Il Corso, illuminato, ha veramente un aspetto fantastico. Candellieri, doppieri, lumi d'ogni forma e d'ogni grandezza risplendono sulle ringhiere dei terrazzini e sui davanzali delle finestre. A percorrere la strada in carrozza non si vede più terra, è tutto un fiume, a cui la strada non basta, e che straripa nei caffè, nelle piazze, nelle botteghe, negli atrii, nei vicoli. Questa immensa folla è rischiarata da migliaia di fiaccole. Drappelli di signore a due a due passano tenendo in mano dei cerini accesi, che rischiarano il loro petto coperto di coccarde, di sciarpe, di nastri tricolori. Sopra questo fiume di gente nuotano, sbattuti di qua e di là, cappelli di bersaglieri, cheppì, berretti, canne di fucile a centinaia. Le signore gettano giù dalle finestre fiori e confetti ai gruppi dei soldati che tendono le mani. Da un capo all'altro della lunghissima strada, a ogni passo, si sentono dieci voci che cantano insieme. I soldati non sono più condotti, sono travolti. I cittadini, non più paghi di tenerli a braccetto, camminano tenendo loro un braccio intorno al collo. Passano donne con un pennacchio di bersagliere nelle treccie. Famiglie ferme sui marciapiedi arrestano i soldati per mettere nelle loro braccia i bambini. Il gridìo nel Corso è oramai giunto a segno che chi è stanco dalle fatiche della mattina non ci può più reggere.
Salgo in una carrozza, e mi lascio condurre al Colosseo. Attraverso la stupenda piazza della Colonna Traiana, piena di gente anch'essa e illuminata; passo per parecchie piccole strade; dappertutto lumi. Guardo nei caffè, nelle osterie: dappertutto soldati e popolani insieme, dappertutto grida di viva Roma e viva il nostro esercito, dappertutto canti, amplessi, grida di gioia, bandiere. Eccoci nel Campo Vaccino. È notte fitta, e il classico lume di luna sul Colosseo non risplende ancora. Non importa; il cielo è stellato, e vedrò del momento sublime almeno i contorni. Da tanti anni ardevo di vederlo! Il cuore mi batte a precipizio. Ormai sono in un luogo deserto, non sento più una voce, non un passo; tutto è queto ed oscuro. Eccoci, mi dice il cocchiere. Io balzo in piedi, guardo, veggo un'immensa macchia nera sul cielo, e tanto è l'impeto e la dolcezza con cui i ricordi e le immagini della memoranda giornata mi assalgono tutti in un punto, che non s'arresta il mio sguardo sui meravigliosi contorni, nè vi si può arrestare il pensiero. Sguardo e pensiero si levano più in alto, e dal profondo del cuore, col più ardente palpito che possa destare in un cuore umano la gratitudine, saluto e ringrazio i padri e i fratelli che non son più, quelli che languirono negli esigli e nelle carceri, e quelli che spirarono sui patiboli e sui campi di battaglia per darci questa grande patria, la quale, dopo cinquant'anni di dolore e di sangue, oggi s'integra e s'incorona al cospetto del mondo. O benedetti morti che ci avete preparato questo santo giorno! O poveri morti che non l'avete potuto vedere con noi! Siate amati, onorati, benedetti in eterno!
Per quanto si sia parlato, e scritto della basilica di San Pietro, qualcosa da dire resta sempre; e poi, questa volta, sotto la cupola di San Pietro c'è una grande novità: i bersaglieri, dei quali non è fatto cenno, credo, nè dalle guide, nè dai libri archeologici, nè dalle opere artistiche; e spero che la mia penna d'oca, con l'aiuto delle loro penne di cappone, riuscirà se non altro a rallegrarvi.
Andai là con un mio amico ch'era già stato a Roma. Passando sul ponte Sant'Angelo, incontrammo un ufficiale che ci consigliò di tornar indietro.
- Adesso ci troverete una processione di soldati, - disse; - ne sono piene tutte le scale, pare una caserma, bisogna tornarci più tardi.
Più tardi? Con questa po' di febbre che ho addosso? Dopo aver veduto quella benedetta cupola per cinque giorni a otto miglia di lontananza, grande, netta e spiccata, che mi pareva a due passi, e mi faceva soffrire le pene di Tantalo? È impossibile; fin che non ci sono sopra, mi par di sentirmela sul petto. Andiamo a vedere questa maraviglia. A San Pietro!
La carrozza era già di là dal ponte Sant'Angelo, quando il mio compagno mi consigliò di chiuder gli occhi e di non aprirli prima che me lo dicesse: li chiusi.
A un tratto la carrozza si fermò e l'amico disse: - Guarda.
Guardo: siamo in mezzo alla piazza. Ecco le colonne, le fontane, la gradinata, la cupola, ogni cosa come si vede nei quadri: nulla di nuovo, nessuna maraviglia.
- Dunque? - domanda l'amico, - non ti scuoti? che impressione ti fa? non ti par bello, grande, sublime?
Io son mortificato, non trovo parola. Questa è la famosa basilica? Questa la cupola che si vede di lontano quaranta miglia? Questo il gran colosso di San Pietro?
- Dunque?
- Dunque.... senti, amico, vuoi ch'io ti dica la verità?
- Quale?
- Che cosa?
- Tutto: la piazza, la chiesa, la facciata, la cupola, tutto quello che vedo.
L'amico diede in uno scroscio di risa.
- Sarà ridicolo; ma è vero. Mi par piccolo, mi par piccolo, mi par piccolo. Son disilluso.
- Quale?
- Quello seduto ai piedi d'una delle colonne di mezzo della facciata.
Guardo l'uomo, misuro con l'occhio tutta l'altezza della colonna, misuro la larghezza, poi l'uomo di nuovo, confronto, riguardo ed esclamo:
- È immenso!
- Ah! qui ti volevo! Bisogna confrontare, caro mio. Come ti puoi accorgere che qualcosa è gigantesco dove tutto è gigantesco? A prima giunta, tutti guardano in su, e tutti dicono come te. Scendiamo.
Si scende di carrozza, si sale la gradinata: non finisce mai. Si guardano le colonne della facciata: ingigantiscono a ogni passo. V'arriviamo davanti: sono larghe come case. Guardiamo in su: sono alte come campanili. Ci voltiamo indietro: quanta strada s'è fatta! Le fontane, pur ora così grandi, son diventate piccine che non paiono più quelle. Un soldato vicino a noi esprime benissimo questo stesso effetto; guarda la facciata e dice: - «Gonfia».
Entriamo. Guardo.... - Amico, questa volta te lo dico sul serio: sono deluso.
- Aspetta. Vedi quella colomba in bassorilievo, di marmo bianco, qui nell'angolo?
- Vedo.
- A che altezza ti par che giunga della tua persona?
- Al collo.
- Vediamo.
Si va innanzi.... Diavolo, non ci siamo ancora? Pareva a due passi. Eccoci. Oh questa è curiosa! Stendo il braccio in alto, mi alzo sulle punte dei piedi, e non ci arrivo.
- Guarda le lettere di quell'iscrizione lassù; quanto ti paiono alte?
- Quattro palmi.
- Sono più alte di te. Guarda quelle finte colonne; come ti paiono larghe?
- Un braccio.
- Tre metri.
Comincio a capire. In mezzo alla chiesa si vede un gruppo di ragazzi intorno a una cosa che sembra una statua. Andiamo innanzi, innanzi, innanzi: oh cospetto! i ragazzi sono soldati d'artiglieria grandi e grossi come Ciclopi; la cosa è la statua di San Pietro; i soldati le baciano il piede; un pretino poco distante guarda e sorride con un'aria di stupore e di compiacenza; pare che dica: - Son cristiane queste bestie feroci! Meno male!
C'è una lunga fila di soldati in ginocchio intorno all'altar maggiore. Altri, negli angoli lontani, stanno ammirando le statue, e per persuadersi che sono di marmo metton loro le mani sulle spalle, sulle braccia, sulle ginocchia, come fanno i ciechi per riconoscere. Un gruppo di bersaglieri è estatico davanti a San Longino. Parlano tra di loro. Mi avvicino e colgo la sentenza finale d'uno di essi, che mi ha l'aria di un monferrino: «A j'è nen a dije; a l'è un bel travaj» (non c'è che dire; è un bel lavoro).
Siamo sotto la cupola. Su la testa. Ah! qui l'effetto è veramente prodigioso! È bello il vedere il mutamento che si fa in tutti i visi appena si voltano in su. Molti, appena guardato, chinano la testa e chiudono gli occhi, come se avessero intraveduto l'abisso. In altri il viso e l'occhio s'illuminano come a una visione di cielo. È una maraviglia che ha dell'estasi. È il solo punto della chiesa in cui collo sguardo si sollevi al cielo il pensiero. Nelle altre parti è enormità che stupisce e splendore che abbaglia, non grandezza che ispira; ci si sente il teatro; si pensa più alle fatiche e ai milioni che vi si profusero, che all'Idea cui furono consacrati; più ai pittori e agli scultori, che agli angeli e ai santi. L'anima è così tenacemente legata alla terra dalle maraviglie dell'arte, che a sprigionarla e a levarla in alto occorre assai maggior forza e più difficile lotta che non a farla uscir vittoriosa dalle tentazioni esterne della vita, contro cui la chiesa dovrebbe servir di rifugio.
Si va innanzi, indietro, a destra, a sinistra, e man mano che si procede la testa si fa pesante e la vista s'intorbida. A ogni passo cento nuove cose, l'una più straordinaria e mirabile dell'altra, s'affacciano confusamente allo sguardo, vicine, fitte, ammontate. L'attenzione non basta a tutte insieme, sopra una sola non può fissarsi, che le altre la tirano, e così tremola e si stanca senza nulla abbracciare. Colonne enormi, statue colossali, bassorilievi, dipinti, mosaici, ori, ricchezze e bellezze d'ogni forma e d'ogni natura: vi si passa accanto senza neanco guardare; si vedono e si dimenticano le une nelle altre.
Si vede in fondo alla chiesa qualcosa di nero che brulica intorno alla porta: è una compagnia di soldati che entra. Quei colossi di angeli che reggono la pila dell'acqua benedetta sembrano due giocattoli da ragazzi. In vari punti ci sono dei soldati che si chinano a guardare sul pavimento: guardano le indicazioni della lunghezza delle più grandi basiliche del mondo. Quale arriva a metà, quale a due terzi, quale a un terzo: chiesuole. «Mamma mia!» esclamano i soldati napolitani. Quante moltiplicazioni dovranno fare, tornati ai loro villaggi, per dare un'idea di San Pietro col confronto della chiesa parrocchiale! Alcuni notano sul taccuino le dimensioni. Altri fanno il conto di quanti soldati ci starebbero. - Ci stanno tutti i soldati del 4.° corpo d'esercito? - Sì.... e forse anche tutte le maledizioni che mandarono al servizio delle sussistenze.
Ecco la porta per salire alla cupola. Coraggio e su, chè sarà una sudata memorabile. Si sale per una scala a chiocciola; gli scalini sono larghissimi e appena rilevati; si va su a grandi giri, agevolmente, senza avvertir la salita. Il muro è coperto di lastre di marmo dove son segnati i nomi di tutti i principi del mondo che salirono alla cupola. C'è l'iscrizione di Ferdinando II di Napoli. Sotto, appoggiate al muro, ci stanno otto daghe da bersagliere. Più su, a ogni passo, cappelli coi pennacchi, cheppì, sciabole di cavalleria, cinturini, giberne. Sopra la testa e sotto i piedi, un fracasso da stordire. Sono squadre intiere di soldati che scendono, salgono, s'incontrano, si salutano, si esprimono l'un l'altro lo stupore e l'allegria. Già si leggono pei muri le loro iscrizioni, poichè il soldato, per dove passa, lascia sempre traccia di sè. Sotto quella del Borbone che dice: «Re del regno delle due Sicilie, salì nella cupola ed entrò nella palla», si legge: «Tale dei tali, allora caporale del genio, ha avuto l'onore di salutarlo a Gaeta».
Oh, ecco una finestra, guardiamo giù. E non si canzona! Siamo già oltre il tetto dei più alti palazzi. Si ripiglia la salita, si cammina altri dieci minuti, ecco una porta: si esce al cielo aperto. Eccoci sul tetto della chiesa: è una piazza d'armi. Si vede da una parte un edifizio rotondo, alto quanto una chiesa ordinaria: non è altro che una delle cupolette minori che fanno da stato maggiore alla principale. È grande e stupenda, ma nessuno la guarda; non s'ha tempo per guardare tutte le minuzie. Si corre al parapetto, si guarda nella piazza: è un formicaio. Si guardano le statue che sorgono in fila sul sommo della facciata: che moli! Piedi che non istanno sul tavolino dove scrivete; pieghe dei panni in cui si può nascondere un uomo; dita che paiono clave. V'è una chiave di San Pietro che a prima giunta si piglia per un'ancora di bastimento. I soldati scorrazzano da tutte le parti, chiamandosi e salutandosi dalla piazza al tetto, dal tetto alla cupola, ed esprimendosi la maraviglia con quel ridere allegro e quelle esclamazioni scherzose: - Che bagattella! - E chi vuol andare di qua, chi di là; si tirano, si spingono, si aggruppano, si sparpagliano, correndo, ridendo e chiacchierando, come i ragazzi nel cortile di un collegio. - Bisogna farsi coraggio, - dice uno, - e salire, perchè se non si va in paradiso questa volta, non ci si va più. - Ma questa cupola par piccola, - ripeto al mio amico. E lui: - guarda in cima. - L'ultimo terrazzino sotto la palla è pieno di soldati; o come mai si vedono così piccoli se son così vicini?
Su, alla cupola. Sali e gira e rigira, ecco un uscio che dà sur una galleria; la galleria dà nell'interno della chiesa; mi affaccio; ma mi tiro subito indietro, preso dalla vertigine. - Guarda la sala del Concilio, laggiù in quella nave della chiesa, - mi dice il compagno. Guardo. - Ma come! là dentro stavano tutti quei vescovi? Ma se è grande come una scatola da tabacco! - Che cosa paiono gli uomini laggiù? Mi ricordo il detto del Guerrazzi: «quello che sono, insetti». Intorno a quell'altarino di mezzo ce n'è uno sciame: sembrano una macchia nera che si muova. Guardo dietro di me, nel muro, e m'accorgo che quelle testine d'angiolo a mosaico, ch'io vedeva di giù, starebbero bene sopra un paio di spalle di titano.
Si risale. Scale lunghe e diritte di cui si vede appena la sommità, scale a chiocciola dove per salire bisogna afferrarsi a una fune, scale di legno a zig zag, scale comprese fra due pareti curve dove bisogna camminare rotolandosi sulla parete più bassa; e da capo scale dritte, e da capo scale a chiocciola, e avanti, sudando, ansando e soffiando: ecco finalmente un raggio di luce, una porta, eccoci sulla sommità, ecco tutta Roma: oh che aria viva e leggiera!
La prima esclamazione che mi colpisce, arrivato là, è d'un artigliere lombardo. - «Madona!» - esclama giungendo le mani - «alter ch'el domm de Milan!»
Si guarda giù, sul tetto della chiesa, dove si era poc'anzi: si vede una processione di formiche. La gente che passeggia per la piazza si discerne appena; le due grandi fontane sembrano due pennacchietti bianchi agitati; le cupole minori della basilica, campanelle di quelle piccine, che si mettono sulle statuette dei santi. Tutta la città si abbraccia con uno sguardo. Subito danno nell'occhio le mura del Colosseo e delle Terme, nere e gigantesche. Le statue in cima alle colonne, le punte degli obelischi, le sponde curve del Tevere, il Pincio, la villa Borghese, il Quirinale, San Giovanni Laterano, il Gianicolo, che sembra una collinetta di giardino, tutto si vede distintamente. Il giardino del Vaticano pare un'aiuola; il Vaticano, un edifizio comune, coi cortiletti: è tutto chiuso e deserto. Ecco Monte Mario. Ecco laggiù la campagna romana, nuda e sinistra; di qui debbono aver veduto il passaggio delle divisioni del Cadorna, compagnia per compagnia, cannone per cannone. Ecco Monterotondo, Tivoli, Frascati, Albano, e più a destra, lontano, quella sottile striscia luminosa, il mare. Roma! Roma! Benedetto nome che non s'è mai stanchi di dirlo; c'è qualche segreto in questo suono: Roma! Pare che sempre ce lo ripeta l'eco nell'orecchio: Roma! Eccola qui tutta....
Un soldato accanto a me guarda anch'egli Roma con aria pensierosa; pare che voglia dire qualche cosa, sorride, alza una mano, la batte sul parapetto: - «Finalment»....
Senti come l'ha detto con gusto! E tutti gli altri soldati, sul punto di scendere, agitando una mano: - «Addio, addio Roma!»
E giù per le lunghe scale tortuose echeggia il suono dei passi precipitosi e delle voci allegre.
Nelle caserme pontificie si trovarono molte copie d'un inno di guerra, dettato in francese, che par che dovessero cantare gli zuavi andando a combattere. Ha molti punti di somiglianza colla «Marsigliese». Ha un ritornello che comincia: «Catholiques, debout!» Ha una strofa che arieggia quella dell'inno francese: «Entendez-vous dans ces campagnes», con la differenza che ai «féroces soldats» sono sostituiti «les barbares». Ha un verso che dice: «Viendront-ils nous prendre (ci dev'essere un verbo più feroce, ma non lo ricordo) nos églises, nos prêtres?» E il verso dopo: «Non, non, on n'y touchera pas». E altre amenità poetiche su quest'andare.
Ma dal verso in cui è detto che gli Italiani vanno a Roma per far man bassa sulle chiese e sui preti, si capisce che dovette esser quella la finzione di cui si servirono principalmente i fautori del governo papale per suscitare e tener vivo il fanatismo nei soldati, per destar nel popolo l'avversione al governo italiano, e per alimentare la diffidenza di quei molti che, pure essendo cattolici in buona fede, manifestavano o lasciavano trapelare sentimenti italiani.
Questo fatto spiegherebbe pure l'astensione d'una parte del popolo dalle dimostrazioni entusiastiche così nella città di Roma come nei villaggi della provincia.
A Monterotondo, discorrendo con un cittadino dei più noti, e in voce di liberale, gli domandammo come fosse contento del nuovo stato di cose:
- Per me sono contentissimo; - rispose, e lo diceva sinceramente: - tutto va bene, non si potrebbe desiderare di meglio. - E poi a bassa voce: - Hanno rispettato le chiese, hanno lasciato stare i preti; messe, vespri, funzioni, ogni cosa come prima.
- Oh curiosa! Ma credeva che si venisse qui per far man bassa su tutto questo, lei?
Certo che lo credeva, e con lui chi sa quanti, che all'entrare dei nostri soldati si saranno chiusi in casa e fatti dar del codino. Ma ora che si son disingannati e rassicurati, non credo che saranno meno sinceramente italiani degli altri.
Non ricordo in che villaggio, una donna del popolo fermò il primo ufficiale che vide, e gli disse con voce affannosa e supplichevole: - È una buona persona il nostro curato, glie l'assicuro; è un galantuomo; non gli dispiace mica che vengano i soldati italiani; non gli facciano nessun male, lo raccomandi lei ai soldati, ci faccia questa carità....
Quella donna credeva fermamente che il «mandato» dell'esercito italiano fosse di far la festa ai preti, come diceva don Abbondio. Ora lamentatevi, se vi pare, ch'essa non abbia messo fuori dalla finestra la bandiera tricolore.
Passava un drappello di seminaristi, per una via di Nepi, poco dopo che v'erano passati i soldati. Un popolano, accennandoli, disse in tuono burlesco: - Ora.... quelli là.... è finita.... - E mi guardava.
- Perchè finita? - gli domandai.
- Ma che lumi di luna! I seminari e i seminaristi seguiterete ad averli; ce li abbiamo anche noi, e ce li avremo sempre.
Fece un atto di stupore, e poi domandò: - In Italia? Ce li avete anche voi in Italia?
- Anche noi in Italia.
- E passeggiano per le strade?
- Passeggiano per le strade.
- E nessuno gli dice nulla?
- E che volete che gli dicano?
C'era da perdere la pazienza; mi ripugnava quasi di credere a tanta ignoranza.
In una via remota di Roma, poco dopo l'entrata dell'esercito, si vide un vecchietto che, all'aria, doveva aver avuto un tale spago delle cannonate da perdere il lume della ragione. Alla paura delle cannonate gli era poi sottentrata la paura delle dimostrazioni. Passavano alcuni giovani cantando e sventolando bandiere. Non avendo più tempo di fuggire, credette di dover far l'italiano per non essere accoppato. Cominciò con sforzarsi a sorridere, e poi, raccolto tutto il suo coraggio, gridò con una voce da moribondo: - Accidenti ai preti!
Le bricconate fatte per viltà sono più rivoltanti di quelle fatte per nequizia. Uno dei giovani del drappello lesse nel viso al vecchio e gli disse con piglio severo: - Per essere Italiano non c'è mica bisogno di mandare accidenti ai preti, sapete!
- Non ce n'è proprio bisogno, - soggiunse il giovane allontanandosi e continuando a guardarlo. Il povero Italiano fallito non profferì più parola. Anche a lui, certo, era stato dato a credere il «viendront-ils» degli zuavi.
Un oste, all'apparir dei soldati, s'affrettava a nascondere certi palloncini da luminaria su cui era scritto: «W. Pio IX». Un ufficiale lo sorprese, e gli disse:
- Lasciate quella roba dove si trova.
- Ma io....
- Lasciatela.
- Ma io non son mica per il papa; io son per lor signori.
- Ma per essere per noi, non c'è mica bisogno che rinneghiate il papa.
- Ma questa roba....
- Ma questa roba vi potrà ancora servire, e tira poco, speriamo, perchè le cose s'aggiusteranno.
- E voi facevate male.
Del resto, i preti mostrarono di non aver le paure che s'adoperavano a metter negli altri. Mentre nelle vie dei villaggi la buona gente tremava per la loro vita, essi, dalla finestra, assistevano tranquillamente al passaggio dei reggimenti, e molti non abborrivano dall'onorare d'un cortese saluto gli ufficiali a cavallo.
Un solo frate mostrò d'aver paura dei soldati, e fu vicino a Civita. Veniva innanzi con un somarello verso un battaglione di bersaglieri, pallido e tremante, e giunto a pochi passi dai primi soldati, si fermò e giunse le mani in atto di chieder grazia. - «Fa nen 'l farçeur» - gli disse un caporale. Gli altri gli domandarono notizie del Santo Padre. Qualcuno gli offrì del pane. Rassicuratosi, pareva matto dalla contentezza.
E non mancarono i preti che accolsero festevolmente i soldati. A Baccano un prete ed un frate stettero a veder sfilare sei battaglioni di bersaglieri sulla porta del convento, sereni e ridenti ch'era un piacere a vederli. Tutti i soldati, passando, dicevano qualche cosa all'uno o all'altro.
- Dio v'accompagni!
- Senti! È dei nostri!
Il prete si mise una mano sul cuore.
- Viva! viva! - si gridò dalle file. E il frate e il prete ringraziarono.
Non intesi mai, nè altri può affermare d'aver mai inteso un soldato dire una parola sconveniente ad un prete. Scherzi, sì; ma urbanissimi, e condonabili sempre alla gaiezza soldatesca, Se l'«Unità Cattolica» osservasse che è inurbanità il dirigere la parola a chi non si conosce, le si potrebbe rispondere che nessuno obbligava i preti a mettersi alle finestre o a piantarsi sull'uscio della casa parrocchiale quando i reggimenti passavano. Se vi stavano, vuol dire che ci si divertivano. Non so se ci sarebbero stati quando fossero passati gli zuavi.
Nei primi due giorni non si videro in Roma nè preti nè frati, o soltanto pochissimi. Ma non si può dire che stessero nascosti per timore: qual ragione avrebbero avuto di temere i nostri soldati a Roma più che nella provincia? Stavan chiusi, si capisce, per non aver a prendere parte, neanco come spettatori, alle dimostrazioni del popolo. Tuttavia, ripeto, alcuni se ne videro anche il primo giorno, e passavano in mezzo alle bandiere e alle grida, sicurissimamente, come in casa propria, senza esser nemmeno guardati. E sì che le vie di Roma, stando a quello che scrisse don Margotti, eran piene di «facinorosi», di «tigri assetate di sangue» e di «donne di mala vita», tutta gente, come diceva l'oste milanese della «Luna piena», latina di bocca e latina di mano.
La mattina dopo il 20, venendo dal Campo Vaccino al Campidoglio, la prima cosa che vedo, in cima a una delle grandi scale che dànno sulla piazza, è un gruppo di bersaglieri e di frati che se la discorrono fraternamente, seduti sugli scalini. I bersaglieri mangiavano; due o tre frati rivolgevano tra le mani una gamella, guardandola di sopra e di sotto; altri tenevano in mano un pane di munizione; altri osservavano con molta curiosità i cappelli piumati appesi al muro. Ci fosse stato un fotografo! Parevano amici vecchi. A un bersagliere che scendeva domandai: - Che cosa dicono i frati? - «So' chiù etaliani de noautri», - mi rispose ridendo.
La sera, per le strade, se ne videro molti. Ce n'era di tutti i colori: bianchi, neri, bigi, cacao. Alcuni erano accompagnati da soldati. La gente guardava e rideva. Era infatti una mescolanza così nuova e strana, che pareva di sognare. E il modo con cui andavano assieme! Come fosse la cosa più naturale del mondo, come fossero stati insieme sempre. Discorrevano di politica.
Passando in certe strade appartate, i soldati vedevano qua e là sparire delle tonache e chiudersi degli usci. Da certe finestre spuntavano visi di reverendi rannuvolati, guardavano intorno come per consultare il tempo, e, sentito grida o musiche lontane, richiudevano le imposte. Altri uscivano in fretta da una porticina, si arrestavano a un tratto, come le lucertole, a spiare in giro, e poi via rasente il muro a lunghi passi. Per certe strade quiete e deserte pareva di sentire dei fruscii misteriosi, come di notte per gli anditi delle chiese e delle sagrestie.
Qualche prete, attraversando in fretta via del Corso e vedendo di sfuggita qualche nuova uniforme, si fermava in un canto, fuori della folla, per vedere che bestia fosse. Ne vidi due che sbirciavano da lontano due carabinieri in tenuta di parata. Li guardarono dalla testa ai piedi, dai piedi alla testa, e poi si consultarono l'un l'altro tacitamente, stringendo le labbra coll'aria di dire: - Che roba è?
Curiosità n'avevano, certo; ma non guardavano mai diritto. Passando accanto ai soldati, lanciavano occhiate di traverso, rasente il cappello, al di sopra della spalla, tra le dita della mano, o facevano scorrere due dita intorno al collo come per allargarsi il collare, tanto per aver agio di voltare la faccia senza parer di guardare.
Lasciamo gli scherzi; debbono aver detto in cuor loro: - Qual differenza dai nostri zuavi!
Chi avesse visto in viso quei due cardinali, di cui non ricordo il nome, che passarono in carrozza dinanzi ai bersaglieri, presso Castel Sant'Angelo, poco dopo ch'era stato ordinato alle truppe di render loro gli onori come ai principi del sangue; chi avesse visto il sorriso che fecero quando si videro presentare le armi, lo sguardo benigno e gentile che girarono sui soldati, e l'atto di ringraziamento con cui accompagnarono lo sguardo, e la serena e lieta dignità con cui si ricomposero dopo quell'atto; chi li avesse visti avrebbe giurato che un sorriso, uno sguardo, un atto così quei due cardinali non lo avevano mai fatto ai loro bene amati campioni.
E cardinali, e preti, e frati se v'era fra loro chi credesse a quello che le femminucce di Civita e di Nepi credevano, e quanti Romani cattolici trepidavano per le chiese e pei sacerdoti, debbono essersi tutti solennemente e irrevocabilmente ricreduti. Sentivano dire che i soldati italiani erano barbari, e non li hanno visti torcere un capello a un reverendo; ch'erano empi, e li hanno veduti affollarsi nelle chiese a baciare i piedi dei santi; ch'erano vandali, e li hanno visti pagare ogni cosa a soldi sonanti, e regalare le pagnotte ai frati; ch'erano licenziosi e insolenti, e hanno sentito dire dai popolani: - Che rarità di soldati son questi che non dicon nulla alle donne! - Volere, o non volere, un grande edifizio di menzogne è caduto e, per Iddio, si potrà raccoglierne i ruderi, ma non si rifabbrica più.
Quante conversioni politiche debbono aver fatto i nostri soldati!
Quanto poi ai preti e ai frati, io avrei voluto leggere nel loro cuore la sera del 20 settembre. Se è vero che la maravigliosa dimostrazione di Roma, tanto superiore a ogni previsione e a ogni speranza, abbia più che commosso, sopraffatto e sbalordito nella corte pontificia i più fieri e ostinati nemici d'Italia, che non avrà potuto di più sul cuore dei molti in cui la convinzione era fiacca e la nimicizia determinata solamente dall'interesse? Quelle poche fibre italiane, che il conte di Cavour non voleva credere morte neanche nel cuore del Papa, debbono essersi scosse nel loro cuore la sera di quel giorno. Le grida e i canti del popolo debbono essere risonati nelle celle silenziose dei monasteri, come un avvertimento, come un consiglio, come un rimprovero. Molti debbono aver invidiato dal più profondo dell'anima quella gioia; debbono aver rimpianto di essersi ridotti in condizione da non poterla godere; alcuni, forse, tendendo l'orecchio alle musiche lontane, debbono aver provato un sentimento di tenerezza mesta ed amara, debbono essersi ricordati di aver una patria, debbono aver sentito che l'amavano, debbono aver profferito in segreto il suo nome, debbono averla invocata, debbono aver domandato con sincere lacrime a Dio che ispirasse nel cuore del pontefice il bisogno di riconciliarsi con lei, di riconoscerla, di benedirla, di troncare con una parola generosa la guerra insensata che in mezzo a tanta gioia e a tanto affetto li condannava alla solitudine e all'abbandono come rinnegati o stranieri.
- Andiamo alle terme di Caracalla.
- Andiamo; si può passare vicino al Circo Massimo.
- E attraversare il Campo Scellerato.
Niente di meno! Ponete d'essere due amici a far questo dialogo, e ditemi se non c'è da sentirsi gonfiare, e mettersi a parlar latino, anche a rischio di far fremere di sdegno grammaticale il sacro suolo e le venerande rovine.
Per andare alle terme di Caracalla si passò accanto a tutti quei monumenti; ma in fretta, e senza molto badarvi, che tanto c'era stato detto e ridetto delle terme, da toglierci pel momento ogni altra curiosità e ogni altro pensiero.
- Vi faranno più impressione del Colosseo, - ci avevano detto molti; ma noi non lo credevamo possibile, e perchè il Colosseo ce n'aveva fatto una grande, e perchè l'idea, prosaica che in fin dei conti le terme erano uno «stabilimento di bagni», come si diceva scherzando, ci teneva in freno l'immaginazione.
Per istrada, si celiava confrontando la prima austerità dei costumi romani, quand'era proibito al genero di fare il bagno in presenza del suocero, con la licenza degli ultimi tempi, allorchè si vedevano sorgere dall'acqua alla rinfusa teste di patrizi e di matrone, e i consoli spruzzare i senatori, e l'imperatore tuffarsi nella «natatoria» in mezzo ai popolani, e le schiave aspettar le padrone nelle celle per ricomporre sui capi stillanti i «crines suppositi», e ungere le membra d'unguento.
- Le terme, signori, - dice a un tratto il cocchiere.
Una gran muraglia nera e una gran porta son tutto quello che mi ricordo della parte esterna. Il primo momento in cui ci si trova davanti a qualche cosa, di straordinario e di grande non resta mai distinto nella memoria. La porta s'apre, entriamo in una specie di vestibolo, e udiamo una voce che dice: - Qui v'erano le celle pei signori romani che non volevano bagnarsi in pubblico. - Non si guarda, si va innanzi altri pochi passi: ci siamo.
Guardiamo un pezzo in silenzio.
Siamo in mezzo a un campo cinto da quattro muri altissimi. Nel muro dirimpetto a noi v'è una gran porta per cui si vede un altro campo. In fondo a questo una seconda porta, in dirittura della prima, per cui si vede un altro campo ancora, e via via, fino a un muro lontanissimo che sembra chiudere l'edifizio. Alla nostra sinistra una porta come le prime, e altri campi, e altri muri, e altre porte; e tutto deserto e silenzioso come una città abbandonata.. Guardiamo in terra: v'è ancora in un angolo un pezzo di pavimento di mosaico uguale e intatto come fatto ieri. In alcuni punti il terreno s'alza, in altri s'abbassa. Vicino al muro v'è un tronco di statua; accanto alla porta alcune nicchie vuote.
- Qui c'era un grandioso porticato, - dice uno. Non ve n'è più traccia, andiamo innanzi. È una solitudine che fa quasi paura. Eccoci nel secondo recinto. Muri, porte e mucchi di terra come nel primo, e deserto, e silenzio. Oh! eccoci nel centro dell'edifizio. Di qui si capisce qualcosa. Vediamo.
Guardo intorno: che triste e grande spettacolo! Mura altissime, nere, scalcinate, che serpeggiano dalla sommità al suolo, lasciando in qualche punto veder la campagna. Vôlte alte e leggiere, somiglianti a cupole di chiese, rotte a mezzo della loro grande curva, e terminanti in punte, in lingue, in tronchi d'arco prolungati e sottili, che minacciano rovina. Qua e là enormi pilastri monchi, spezzati a mezzo come da un urto violento, o man mano digradanti in grossezza dal basso all'alto, fino a disegnarsi nel cielo smilzi e snelli come obelischi; porte e finestre sformate, squarciate agli spigoli come dall'uscita forzata di un corpo più grande e dentellate in giro, e dentro buie come bocche di mostri; scale coi gradini divelti, spaccati, corrosi, in mille modi scemati e guasti, come dall'opera di mille mani rabbiose. E via pei muri fori d'ogni forma, e incavature larghe e cupe, di cui non si scerne il fondo, e vestigia interrotte della commessura dei piani, e tracce di porte, di nicchie, di pareti, di canali, di vasche. E in terra, in mezzo a queste rovine gigantesche, larghi pezzi di pavimento, simili a macigni franati, sostenuti da pali, coperti ancora dall'antico mosaico; massi di marmo bianco, rottami di colonne di porfido, pietre di sedili, frammenti di statue, ornati di capitelli, lastre e sassi; ogni cosa alla rinfusa, sossopra, come crollato pur ora. E fra masso e masso, fra rudero e rudero, le erbe e i fiori silvestri, con cui la terra, ultima trionfatrice, apertosi il varco a traverso i pavimenti marmorei, risaluta, dopo un giro di secoli, il sole.
Si guarda e si pensa. È triste, è penoso lo sforzo che si fa per ricostrurre nella mente nostra l'intero edifizio. Quegli avanzi non bastano: sono troppo rotti e sformati. Si segue coll'occhio la curva d'un arco, e si dimentica il contorno della colonna; si va oltre nella direzione d'un andito, e il profilo d'un pilastro ci sfugge; ci sfuggono, via via che si disegnano, le linee, e con le linee le proporzioni, e con le proporzioni l'effetto, che sarebbe immenso, del tutto. Quegli avanzi son come le note interrotte d'una musica lontana, di cui s'indovina, più che non si sente, la melodia. - Se ci fosse qualcosa di più, - si pensa; - se per esempio quella parete fosse finita, se qui non ci fosse questo vuoto, se là rimanesse ancora quell'atrio, quante cose se ne potrebbe argomentare e capire! Che peccato! - E più e più volte si ricomincia, con mesto desiderio, questa ricostruzione mentale. Si vedono di sbieco, per una porta, i primi gradini di una scala; chi sa dove mena? Si corre con grande curiosità, si guarda: che stizza! La scala è troncata a metà. Si vede l'imboccatura d'un andito: o dove riesce? Si corre a vedere: oh delusione! riesce nei campi. Si stanca l'occhio sulle vôlte e sulle pareti che dovevano essere dipinte, caso mai ci restasse un po' di colore, qualche linea, una traccia qualsiasi: nulla. Nulla delle vaste gallerie dove si facevano i giuochi, nulla dei portici stupendi che cingevano l'edifizio centrale, nulla delle enormi colonne che sostenevano il piano di mezzo. Ebbene, ci si attacca a quel poco che resta, si combina, si congettura, si fantastica. Le sale del centro si può supporre che cosa fossero. Qui si capisce che si nuotava, là si dovevano vestire, sopra ci dovevano essere le biblioteche, di qui doveva scendere l'acqua. Si seguono attentamente le ondulazioni del terreno, si tien l'occhio fisso nelle nicchie vuote, come se ci fossero ancora le statue, si entra nelle celle dove l'immaginazione è più raccolta, e si guarda a lungo in terra e sulle pareti, che cosa? Nulla; ma si guarda, nè ci si può allontanare prima d'aver molto guardato.
E il pensiero s'immerge nel passato.
Animo, rifacciamo queste mura e su di esse i grandi dipinti fantastici, e lungo le pareti i duemila sedili marmorei, e nelle nicchie i capolavori dello scalpello antico, l'Ercole, la Flora colossale, la Venere Callipigia; e lungo i portici e in giro per le sale le colonne di porfido; e lassù, in alto, le celle dorate e inghirlandate; e laggiù, in fondo, i giardini ombrosi e le fontane dai cento zampilli. E duemila Romani in preda all'ebbrezza dei piaceri. L'aria è profumata. Cadono nelle celle le bianche stole delle matrone, e le schiave affannate sciolgono i calzari purpurei e le treccie brillanti di perle. Dall'acque, infuse di balsami, emergono i volti accesi di voluttà. Sull'orlo delle vasche si affollano i servi colle striglie argentee e i vasi degli unguenti. Al rumore delle acque cascanti si mescono le musiche e i canti dei cenacoli, le grida del popolo plaudente ai giuocatori risonano dalle gallerie, e s'odon le voci dei poeti che declaman i versi, e via per gli anditi e per le scale e pei recessi dell'edifizio enorme echeggiano accenti allegri, e trasvolano veli candidi, e passano, salgono, scendono, s'incontrano senatori canuti e dame chiomate, e giovinetti, e ancelle, e schiavi; e si confondono in un vocìo continuo tutte le lingue ed in uno splender diffuso tutte le ricchezze del mondo.
Ed ora muri diroccati, mucchi di sassi, un po' d'erba selvatica, e silenzio.
Oh! poter rivivere un minuto quella vita, o vederla vivere un istante, con uno sguardo solo, come si vede una cosa fuggente!
Ora tutto è mutato. Invece delle vaste sale cinte di colonne, quei gabbiotti soffocanti degli stabilimenti di bagni, coll'avviso: - È proibito di fumare. - In luogo delle grandi piscine, la tinozza dove si sta rattrappiti e immobili, come i feti nei vasi; e in cambio delle musiche dei cenacoli, il campanello per la biancheria!
Eravamo nell'ultima sala, o campo (chè non v'è più tetto), quando il silenzio profondo che regnava intorno fu rotto improvvisamente da una voce: - «Veni cà».
Guardammo in su: era un soldato di fanteria che dal sommo d'un muro altissimo chiamava i suoi compagni rimasti giù, e accennava alla bella veduta che gli si offriva dintorno.
Alcuni soldati vicino a noi raccoglievano le pietruzze dei mosaici. Altri esperimentavano l'eco gridando dei comandi militari. Più in là v'era una signora con un ufficiale.
Salimmo anche noi dov'era il soldato. La scala è aperta, se ben mi ricordo, in un pilastro. È una scala larga e comoda; ma interminabile. Giungemmo senza fiato sur un piano, credendo che fosse l'ultimo; ma guardando intorno, ci accorgemmo che non eravamo nemmeno a mezz'altezza. Da ogni parte ci sovrastavano archi e mura, che pareva s'inalzassero man mano che salivamo. Guardammo giù, e ci meravigliammo d'esser tanto saliti. Da quel punto, abbracciando con lo sguardo una gran parte dell'edifizio, potevamo formarci un concetto più adeguato della sua grandezza. Ci trovavamo sopra una lingua di vôlta sottilissima, che pareva stare in aria per miracolo. A guardar giù per le fessure girava la testa. Da un lato si vedeva una lunga fila di porte. Ci avanzammo; ma fatti pochi passi, ed accortici che la vôlta mancava, si dovette tornare addietro. Si vedeva di là il monte Testaccio, i deserti «prati del popolo romano», la basilica di San Giovanni Lateranense, e la fuga sterminata degli archi d'un acquedotto a traverso la campagna romana, nuda, triste, infinita come un oceano immobile e morto....
Si scende, si torna verso l'uscita, di sala in sala, di rovina in rovina, sempre fra mura gigantesche e grandi porte, per cui si vedono altre mura e altre porte lontane. A un tratto, voltandoci a sinistra, vediamo un grande portico oscuro, e uno spazio di terreno senz'erba, sparso di marmi. Ci avviciniamo: son pezzi di statue. Ci son teste enormi con la fronte e con gli occhi levati in alto, che dovevano sorreggere degli architravi; torsi di guerrieri atletici senza capo; in un canto un mucchio di teste di dèi, di soldati, d'imperatori, di vergini, tutte mutilate, e col viso rivolto verso chi guarda; rottami di colonne che tre uomini non possono abbracciare, e mucchi di figurine e di pezzi d'ornato staccati dai capitelli, e pietre di mosaico sparse. Tutti questi marmi lasciati così in terra, e disposti in un cert'ordine, dànno a quel luogo qualcosa dello aspetto d'un camposanto; quelle teste paiono crani; al primo vederle si dà un tremito, come se guardassero. V'è, fra le altre cose, una manina di donna colle dita tronche e un po' di braccio piccino e gentile, abbandonata in terra, mezzo nascosta e lontana da tutti gli altri rottami, che desta un senso di pietà, come se fosse di carne....
Uscimmo senza parlare. Tale è l'effetto che fanno le terme: la gente entra, guarda, gira, e nessuno parla; si passano accanto e non si badano: tutti pensano; si entra allegri, si esce tristi. Ritornando in città ci parve d'entrare in un mondo nuovo. Pensavo alla strana impressione che m'aveva fatto fra quelle mura il suono di certe parole piemontesi e come a Giacomo Leopardi sull'«ermo colle» sovveniva a me pure
l'eterno
e le morte stagioni e la presente
la quale un giorno sarebbe parsa ad altri altrettanto remota quanto pareva a me quella dello splendore delle Terme.
Ahimè! Che poca cosa ci paiono anche i nostri trionfi e le nostre gioie nazionali davanti a questi cimiteri di secoli!
UN'ADUNANZA POPOLARE NEL COLOSSEO.
Erano le tre dopo mezzogiorno. Il popolo romano si recava al Campidoglio per eleggere la Giunta provvisoria. Tutte le strade che conducono al Campo Vaccino erano percorse da folti drappelli di cittadini con bande musicali e bandiere. Arrivati al Campo, i drappelli si confusero in tre o quattro lunghissime colonne, e mossero insieme verso il Colosseo. Andavano a otto a otto, a dieci a dieci, allineati e stretti come soldati, levando tratto tratto altissime grida e lunghi applausi.
Le gallerie del Colosseo erano già affollate. Centinaia di fazzoletti e di bandiere sventolavano fra gli archi altissimi, e dentro suonava un gridìo continuo e diffuso come il muggito del mare in tempesta. Si vedeva una colonna dopo l'altra versarsi nel vasto recinto, e rimpicciolire subitamente come se ne sparisse per incanto una gran parte. Turbe di popolo, che tenevan tutta la strada, si vedevano ristringersi e quasi perdersi, come piccoli drappelli, in un cantuccio dell'arena. Continuamente affluiva popolo, e la folla dentro non pareva crescere. Una parte della prima galleria era piena zeppa di gente; ma così lontana, benchè solo, a mezz'altezza del muro, da non riconoscerne i visi a occhio nudo. Dalla galleria in giù, su tutti i gradini, su tutti i macigni, su tutti i rialti del terreno v'era popolo: donne, bambini, signori, poveri, tutti vestiti a festa, con nastri tricolori e coccarde. Da una parte dell'arena s'alzava un palco, e sul palco un pulpito; intorno molte grandi bandiere tenute in pugno da cittadini. Sul cielo del pulpito un gruppo di pompieri. Intorno al palco, sul tetto dei tabernacoli e sui macigni della gradinata, una fitta di gente che presentava allo sguardo una vasta e continua distesa di visi e di «sì» attaccati ai cappelli. Davanti al pulpito il grosso della folla. Da ogni parte braccia alzate di gente che si accennavano gli uni agli altri il cerchio maestoso dell'anfiteatro; sulle più alte punte dei muri gente e bandiere. Le bande suonavano, le grida andavano al cielo, un sereno purissimo e una splendida luce di sole faceano la festa più bella e più solenne.
Un fragoroso applauso prorompe dalla folla e un lungo e altissimo evviva.
Il vecchio patriotta romano, accompagnato dagli amici, avvolto e nascosto quasi dalle bandiere, sale sul pulpito a capo scoperto, e preso appena fiato comincia con voce commossa:
- Popolo romano, rivendicato alla libertà e restituito per sempre alla comune patria....
S'interrompe un istante, e poi con irresistibile slancio.
-....Io ti saluto!
L'ultima sua parola muore in un singhiozzo; egli si copre gli occhi col fazzoletto e ricade sulla seggiola.
La folla manda un grido d'entusiasmo, tendendo le braccia e agitando le bandiere.
Il Montecchi ricomincia a parlare, a voce bassa, interrompendosi tratto tratto. La folla, ondeggiando e rimescolandosi, si stringe intorno al pulpito. Le parole dell'oratore non giungono fino a me. Mi faccio innanzi per intendere qualcosa.
-....Il potere temporale del Papa, - egli esclama, - è caduto!
- È caduto nella polvere! - grida una voce tra la folla, e un braccio convulso si solleva, e si agita, al disopra delle teste.
- È caduto per sempre! - ripete il Montecchi.
- Nella polvere! - ripete con accento imperioso la voce di prima.
- La caduta del potere temporale dei papi, - prosegue il Montecchi, - è uno dei più grandi fatti registrati dalla storia!
Un giovane accanto a me alza una mano e grida con tutta la forza dei suoi polmoni: - Dalla storia della civiltà!
Il Montecchi si volta e guarda come per chiedere che cosa fu detto, e soggiunge: - Uno dei più grandi fatti registrati dalla storia.
- Della civiltà! - ripete il giovane.
- Della civiltà, - aggiunge il Montecchi in atto di condiscendenza. - Ora tocca a noi di mostrarci degni della nostra fortuna. Roma non può restare, nemmeno per pochi giorni, senza governo....
-....I nostri nemici potrebbero trarne argomento a dire che il popolo romano non è ancora maturo alla libertà....
- Viva la libertà! Abbasso i nemici di Roma! Viva Vittorio Emanuele in Campidoglio!
- Viva! Ma prego.... lasciatemi continuare.
- Vi ringrazio.... fate un po' di silenzio.... Bisognava eleggere una Giunta.... Noi avremmo voluto che il popolo facesse l'elezione in modo regolare, per mezzo delle schede, coi voti.... Ma non c'era più tempo.... Abbiamo dunque pensato di rivolgerci direttamente al popolo romano....
-....Al popolo romano, e di facilitargli l'opera preparando un elenco di cittadini appartenenti a tutte le classi della società e a tutti i partiti politici....
- Benissimo! - Viva Montecchi! - Viva Roma! - Viva....
- Un momento.... Ora, vedete anche voi che sarebbe impossibile aprire una discussione sopra ciascuno dei nomi, che sono quarantaquattro, Bisognerà dunque ristringersi ad approvare o disapprovare l'elenco nel suo complesso. Ci sarà qualche nome che ad alcuni non piacerà; ma capirete che non è possibile fare un elenco di quaranta persone che riescano a tutti ugualmente accette. Ad ogni modo qualche nome si potrà cambiare. Terminata la lettura, io darò la parola a uno di voi, il quale esponga il suo parere, e dica le ragioni che può aver da dire, in generale, contro le proposte della Commissione che raccolse i nomi. Dopo che quest'uno avrà parlato, state bene attenti....
- Viva Vittorio Emanue.... - grida all'improvviso una voce acuta.
- Silenzio! Smetti! Non è il momento! - si mormora da ogni parte.
- Guardalo lì quello che non vuole che si dica Viva il Re! - grida l'interruttore importuno ad uno dei suoi censori.
- Ma chi ti dice ch'io non voglio che si grida viva il Re? Dico che non è il momento.
- Già, non è il momento adesso che ci ha liberati!
- Ma guarda....
- Silenzio, - grida il Montecchi; - accordatemi ancora qualche minuto di attenzione. Sentite. Dopo che uno di voi avrà parlato, io metterò a' voti l'elenco, nella sua totalità, s'intende; e allora, ricordatevene bene, chi intenderà di approvarlo leverà in alto il cappello....
Tre o quattrocento persone si scoprono il capo.
- No! non ancora! - grida il Montecchi; - ve lo leverete poi; come volete approvare l'elenco se non v'ho ancora letto i nomi?
Risa generali; caldi diverbi fra coloro che si tolsero il cappello e coloro che risero; bisbiglio prolungato.
Il Montecchi: - Vi prego.... un po' di silenzio.... pochi momenti ancora.... Chi intenderà di approvare l'elenco alzerà il cappello, chi non vorrà approvarlo terrà il cappello in capo. Se ci sarà qualche nome da cambiare, quello di voi che verrà qui a parlare lo dirà, e i nomi saranno cambiati. Ma mi raccomando; lasciate leggere tutti i nomi di seguito senza interrompere. Parlerete dopo. Vedete, è l'unica maniera di far presto e bene. Se, per leggieri dissensi su questo o su quel nome, dovessimo restare un altro giorno ancora senza governo, forniremmo pretesto ai nostri nemici di calunniare il popolo di Roma.
Vivi applausi. - Viva la Giunta! Viva Montecchi! Viva Vittorio Emanuele in Campidoglio!
- Viva!... Ora vi prego per l'ultima volta.... un po' di silenzio.
Uno di quei che sono intorno al pulpito alza tanto la bandiera che quasi la dà negli occhi al Montecchi.
- Tien giù quella bandiera! - gli grida il vicino.
- Ma è la bandiera nazionale, sai! - risponde l'altro sdegnato.
- Vedo; ma perchè è la bandiera nazionale devi cavar gli occhi alla gente?
- A me prete?
- Silenzio, - si grida all'intorno.
- Leggerò i nomi, - ripiglia il Montecchi; - state attenti; ma ve ne riprego, non m'interrompete, se no si va troppo per le lunghe; abbiate un po' di pazienza....
Si fa in tutta la folla un silenzio profondo.
Il Montecchi legge: - Tale dei tali.
Passa senza contrasto; un momentaneo bisbiglio e silenzio.
- Tale dei tali.
Vivi applausi; il popolo è ben disposto, l'affare va bene.
- Tale dei tali.
Uno scoppio d'urli e di fischi, un agitar di mani, un pestar di piedi, un rimescolamento, un fracasso d'inferno si leva e si prolunga per cinque minuti da ogni parte dell'affollato uditorio. Il Montecchi incrocia le braccia sul petto e sta aspettando in atto rassegnato e dimesso che la tempesta si queti.
- Silenzio! Silenzio! - si grida dalla folla.
- Signori!... - comincia il Montecchi con un filo di voce; - vi prego; le cose sono andate così bene finora, continuiamo come abbiamo cominciato, non discutiamo i nomi, non perdiamo tempo, parlerà uno per tutti, tutti insieme non si conclude nulla, lasciatemi leggere tutto l'elenco, abbiate un po' di pazienza ancora....
- Bravo! Bene! Legga! Legga! Non si discute! Silenzio! Legga! Lasciatelo leggere!
Il Montecchi legge: - Tale dei tali.
Un altro e più violento scoppio di grida e fischi e pestar di piedi e agitare di mani. E di nuovo il Montecchi incrocia le braccia in atto di rassegnazione.
- Abbasso! Abbasso! - grida la folla.
- No, viva! viva! - alcuni rispondono.
- Chi viva? Abbasso! Chi sono quei paolotti laggiù? Fuori! È passato il tempo! Abbasso! Abbasso!
- Abbasso i mercanti di campagna!
Il Montecchi, con voce semispenta:
- Prego, non discutano i nomi....
- Non si discute! Non si discute! «Se dice per di' che so' mercanti de campagna!»
- «Hanno fatto massacrare il popolo romano!»
-....Ma prego....
-....Un po' di silenzio....
Cento voci assieme: - Parliamo uno alla volta, perdio!
Il fracasso è assordante, la folla agitatissima; alcuni apostrofano con calde parole il Montecchi, altri apostrofano la folla dalle gallerie, si sventolano le bandiere, si formano dei capannelli, si batton le mani, si strepita, è un casa del diavolo infinito.
A poco a poco ritorna la quiete. Il Montecchi continua a leggere. Il primo nome passa. Il terzo è accolto da lunghi applausi. Otto o dieci altri non incontrano opposizione. Qualcheduno solleva un po' di mormorio.... Sia lodato il cielo, l'elenco è finito!
Si applaude.
Il Montecchi ricade sulla sua seggiola e si asciuga la fronte.
Allo strepito succede nella folla un vivissimo bisbiglio.
- Ora chi parla? - Chi vuol parlare? - Parla tu. - Il tale ha detto che parlerà. - No, parla quell'altro. - Parliamo noi. - Parlino loro. - Zitti! Parlano.
A piedi del pulpito, poco al disopra della folla, si alza una testa e si stende una mano.
Si fa un grande silenzio e si ode una voce incerta e sottile:
- Io piglio la parola in un momento solenne....
Un rumore improvviso da una parte dell'anfiteatro copre la voce dell'oratore.
-....Io piglio la parola in un momento solenne....
Un tale accanto al pulpito lo interrompe; l'oratore si volta bruscamente: - In nome di chi parla lei? In nome del deputato Checchetelli?
Segue un diverbio, il Montecchi si intromette, l'oratore ricomincia a parlare.
- Forte! Forte! - grida la folla.
- Salga su! - gridano i membri della Commissione. - Venga qui sul pulpito! Si farà sentir meglio!
E tutti insieme pigliano l'oratore per le braccia e lo tirano su. Tutta la persona di lui sovrasta alla folla. È un giovane sui venticinque anni, alto, pallido. Ha il capo fasciato. È stato ferito dagli zuavi salendo in Campidoglio. La folla prorompe in applausi.
- Silenzio!
Egli parla.
Sulle prime non si sente; ma la sua voce man mano si innalza e si rafforza, e la parola esce vibrata e distinta.
-....Ben fecero gli egregi uomini della Commissione a radunarsi in questo antico ed angusto recinto. Essi dimostrarono con ciò che d'ora innanzi gl'interessi del popolo non saranno più abbandonati agl'intrighi delle consorterie, ma discussi e propugnati alla luce del sole, in mezzo al popolo e col popolo!
- Non si scherza, - bisbiglia il popolo. - Le canta chiare. - Non ha paura di nessuno.
L'oratore prosegue: -....In questo recinto che il tempo corrose, ma non distrusse; fra queste mura annerite dai secoli....
Violente interruzioni: - Alla questione!
L'oratore, levando al cielo lo sguardo e la mano: - Io veggo gli archi del Colosseo popolarsi di arcani fantasmi....
Nuovo e più violento scoppio di disapprovazione e di protesta: - Alla questione! - «Non volemo» prediche! - Le prediche «so'» finite! - Non abbiamo bisogno di lezione!
L'oratore continua a parlare; ma la sua voce è soffocata dallo strepito della moltitudine.
Una voce stentorea si alza al disopra di tutte le voci e fa voltare tutte le facce:
- La cosa è chiara! L'elenco «nun ce» piace! «Nun volemo» liberali del momento, «nun volemo» liberali d'occasione....
- «Volemo» gente provata, patriotti schietti, che «ce se veda chiaro» nella vita loro!
Un'esplosione d'applausi.
E la voce di prima, con nuovo e formidabile sforzo: - «Nun volemo mercanti de campagna!»
- Va' a parlar tu! - Va' sul pulpito! - Fa' valere le nostre ragioni! Va'! - Presto! - Su!
Il fortunato interruttore, sollecitato e spinto da tutte le parti, chiamato dal Montecchi, eccitato dalle grida della gente lontana, si apre un varco tra la folla e si slancia verso la tribuna. Sbalzato da un suo spintone cinque o sei passi indietro, mi trovo in una corrente che move verso l'uscita, mi ci abbandono, e in pochi minuti, pesto, sudante e spossato, mi trovo fuori del Colosseo.
Ecco tutto quello ch'io vidi.
Stetti un momento là incerto tra il tornar dentro e l'andarmene, e poi presi un partito fra i due: salii sur un rialto del terreno accanto all'arco di Costantino, e come soleva dirmi il mio amico Arbib, «mi misi a fare della poesia inutile», guardando il Colosseo. - Le solite grida, - pensavo, - la solita confusione, la commedia solita delle radunanze popolari; ma che importa quello che vi si faccia e quello che vi si concluda? Sono grida di libertà, e basta perchè, a sentirle di qui e a sentirle uscire dal Colosseo, mi destino nell'anima una gioia nuova, ineffabile, superiore a tutte le gioie che mi sian mai venute finora dall'amor di patria. - Viva l'Italia - viva la libertà - viva Roma redenta -....nel Colosseo! In questo campo! In mezzo a questi archi!
E giravo l'occhio intorno come per assicurarmi del luogo dov'ero.
-....Il Bonghi dice che qui ci sentiremo piccoli. Perchè? Piccolo si sentirà chi si vorrà misurare con chi fu grande. Noi qui non veniamo a misurarci; ma ad ispirarci, ad attingere forza e coraggio, a meditare e ad ammirare. Il Colosseo! - ho inteso dire; - che vi potrà dire il Colosseo? Vi narrerà le glorie dei gladiatori e i supplizi dei cristiani? Ed io vi rispondo: - Sì....
In quel punto uscì dall'anfiteatro un altissimo evviva e un allegro suono di banda.
- Sì.... ecco che cosa mi dice il Colosseo. Mi dice che dove gli uomini schiavi si sgozzavano per ricreare un tiranno, ora convengono i cittadini a salutare l'aurora d'una vita nuova; mi dice che dove perirono sotto le scuri o in mezzo alle fiamme gli apostoli della libertà e dell'uguaglianza, ora convengono cittadini liberi ed eguali a esercitare i loro diritti e a compiere i loro doveri, coll'anima lieta e serena; e questo vi par poco? E vi par che si possa dire che il Colosseo è muto?
Un altro scoppio di grida misto a suono di trombe mi giunse all'orecchio.
E poi una voce distinta: - Viva la libertà!
- Ah! - esclamai, rivolto al Colosseo, come se mi potesse intendere; - consolati, vecchio gigante; così monco e sfracellato come ti trovi, tu non fosti mai tanto bello nè tanto grande ai tempi degl'Imperatori!
Non so se sia stato più vivo il piacere che provai entrando in Roma il 20 settembre, o quello che ebbi la mattina dopo, svegliandomi nella cameretta dell'albergo, appena rinvenni dall'illusione solita di credermi ancora dove avevo dormito la notte prima. Appena aperti gli occhi, il mio primo pensiero fu quello che m'era venuto a Monterotondo la mattina del 20: - Dunque quest'oggi «s'attacca!» - E stetti un momento perplesso. A un tratto mi parve di sentirmi nell'orecchio una potentissima voce: - Roma! - e mi scossi da capo a piedi, e balzai d'un salto alla finestra. Apersi le imposte, e visto appena le bandiere e udito le grida del popolo, m'entrò nel cuore tanta gioia che mi diedi a ridere come un pazzo. Poi chiamai il cameriere, senza sapere perchè. Venne subito, allegro anche lui ch'era un piacere.
- Che mi comanda?
- È un romano, - dissi tra me, guardandolo; - un romano cameriere! Mi fa pena; avrà forse un lontanissimo antenato console, senatore, pontefice massimo....
- Come vi chiamate di nome di battesimo?
- Caio.
-....Caio Flaminio, - pensai, - Caio Gracco, Caio Sicinio, Caio Curzio....
- Qual'è il vostro cognome?
- Tittoni
- Caio Tittonio, andatemi a chiamare un barbiere.
- Vado subito.
- Guardi che caso! Il barbiere dell'albergo è lombardo. - Non lo voglio; andate a cercarmi un barbiere «romano de Roma»; fate anche mezzo miglio, se occorre, vi ricompenserò della corsa; ma portatemi un barbiere romano.
- Sarà servito.
Non era senza perchè la mia pretensione: volevo scrutare lo spirito politico delle classi inferiori, e tutti sanno che quando s'è parlato con un barbiere si può contare d'aver parlato con mezzo mondo.
Il barbiere venne. Era un barbiere dello stampo dei nostri: un vecchietto azzimato, pulito, gaio, con le mani fredde e i rasoi cattivi.
Mentre cominciava l'operazione, io studiavo la maniera d'entrare in discorso.
Egli mi prevenne domandandomi con molta gentilezza:
- No.
- Italiano?
- Sì.
- Giornalista?
Diedi un balzo sulla seggiola e mi voltai a guardarlo negli occhi. Come mai poteva già sapere che insieme con l'esercito s'erano rovesciate su Roma le cavallette della stampa?
- Non sono giornalista.
- Dicevo, sa.... perchè ho visto il tavolino coperto di giornali e di carte.... Che gliene pare di Roma?
- È superba.
-....Noia, c'è male.... E poi, ora, è tutt'altra vita che «ce se vive»!
- Siete contento del cambiamento?
- Se sono contento? «Me pare da diventà matto, me pare». L'Italia una, per Dio.... Ora speriamo che «ce» sarà fatta giustìzia.
- Di che?
- Eh signore, «ce so» molte cose da mettere a posto a Roma.
- Me lo immagino....
-....Prima di tutto, sa che cosa dovrebbe fare Sua Maestà il re Vittorio Emanuele Secondo, appena entrato in Roma?
- Dovrebbe.... - e qui stese un braccio e alzò la voce, - dovrebbe mettere a posto «li macellari», dovrebbe; che «so na razza de cani», glielo dico io, e fanno pagare tutto il doppio, e «so» screanzati che «nemmanco se ponno guardare in der grugnaccio, se ponno», capisce?
- Oh cospetto! È proprio questa la prima cosa che deve fare il re?
- Questa.... e un'altra. Fare una legge con la quale dica che d'ora in avanti è fatta facoltà «a li barbieri de» metter la bottega dove «je» pare, senza quella «prepotenza» che c'è adesso che le botteghe debbono essere a quella data distanza l'una dall'altra. Per cagion di questo, vede, a me m'è toccato di fare «er giovanaccio de bottega» cinqu'anni di più, chè il locale vicino ce l'avevo, e li baiocchi pure, ma la bottega non la potevo mettere per via di quella legge «'nfame». Accidenti ai governi dispotici e viva Vittorio Emanuele! Quant'ho benedetto sto giorno io!... E poi un'altra cosa.
- Dite.
Qui abbassò la voce e mi disse nell'orecchio:
- Dei barbieri che tengono dal Papa, qui, in Roma, ce n'è la su' parte, glielo assicuro io.
- Ebbene?
- Accopparli.
- Siete severo.
- Sì, accopparli, senza misericordia «co' sta razza de cani»; se no «er» governo italiano se ne accorgerà, stia pur sicuro.
- Speriamo che faranno la barba con la dovuta prudenza.
- Non ci speri; bisogna far man bassa.
- E altro?
- Altro.... ci son tante cose; ma dica un po', «ce» porteranno delle buone leggi, «se» spera?
- Meglio di quelle che avevate, lo crederei.
- Bene; e dica.... Sento che «ci» hanno una grande severità pei ladri, è vero?
Accennai di sì, voltandomi a guardarlo.
- È giusto.... Poi c'è la leva militare.... Eh già.... quella alle donne «sarà un po' difficile de fajela entra'».
- Lo penso anch'io.
- «Gran disciplina co' sti soldati eh»?
- Quanta n'occorre, certamente. Avrete però osservato che gli ufficiali hanno buone maniere e che i soldati son buoni ragazzi.
- Già.... e scusi, sa, se son curioso.... si parlava giusto ieri sera.... che cos'è la «ricchezza mobile»?
- Già.
-....Provate l'altro rasoio, questo mi fa male.
- Questo mi va.... Avete visto la luminaria di ieri sera?
- La luminaria, sì.... ma che «ce» porteranno tutte «ste imposte che se dice»?
- Eh già, le imposte, vedete.... in Italia.... relativamente a quello che potrebbero essere, tenuto anche conto delle condizioni agricole e industriali del paese, e considerata la proporzione delle forze produttive in relazione con le esigenze, dirò così, che sono molte e gravi, d'una grande amministrazione.... Capirete che la finanza è finanza, i bisogni, bisogni, i doveri, doveri, e per quanto si faccia e dica dai contribuenti, è pur sempre certo che i carichi dei cittadini sono in certo qual modo, e fino ad un certo punto, regolati sui principii d'un sistema economico senza del quale s'è sempre visto che gli Stati non si reggono e tutte le proprietà pubbliche e private ne vengono a soffrire gravemente....
- È chiaro.
- Lo capite anche voi.
- Diavolo!
- Picchiano: fatemi il favore d'aprire. Entrò il calzolaio: un gobbetto coi capelli grigi e il naso a becco.
- Scusate, - dissi al barbiere, - non posso rimandarlo indietro; bisogna ch'io mi misuri un paio di stivaletti; mi spiccio in un momento.
Gli stivaletti andavano.
- Quanto volete? - domandai.
-....Son carini.
- Non è vero? Paiono fatti apposta per il suo piede.
- Eh no, voglio dire che sono un po' salati. A Firenze li pago sedici.
-....A Firenze è un altro par di maniche, caro signore; qui si paga tutto più caro. Ma io non sto sul tirato. A lei ch'è italiano glieli do per diciassette.
Il barbiere fu preso da un accesso di tosse.
- Ohè, dico! - gridò il calzolaio fissandolo fieramente; - che ci avete da fare delle osservazioni voi?
- «Gnente, gnente»; dicevo che l'Italia è un bel paese.
- E io vi dico che v'impicciate negli affari vostri, che già.... noi altri.... «armanco».... agl'italiani la gola «nun je la tajamo».
- E «manco» noi «nun je stroppiamo li piedi». - Potrest'essere più educato, «me pare».
- Più educato? - (accendendosi).... Io già, se ve l'ho a dire chiara e netta, la corte agli zuavi non glie l'ho mai fatta.
- E io neppure!
- «Se conoscemo».
- «Er regno» dei preti è finito.
- Me ne rallegro.
- Non «de» core.
- Più «de» voi.
- Ci ho i miei dubbi.
- Via, via, - dissi, mettendomi in mezzo, - lasciamo queste quistioni; non son giorni questi da bisticciarsi fra amici; bisogna andar tutti d'accordo, e gli uni dimenticare i torti degli altri, se ce ne sono. Stringetevi la mano subito, in presenza mia, o non do il becco d'un quattrino a nessun dei due.
Si porsero la mano, ma senza toccarsela.
- Animo, stringetevela, - dissi.
- Lui ha da dir prima viva l'Italia! - disse il barbiere.
- E io «nu je vojo dà» questa soddisfazione, - risponde l'altro.
- Animo, ditelo per far piacere a me.
Ma il calzolaio subito con un rincalzo di passione: - E io lo «so» stato sempre italiano, capite!
- Sì, sì, lo credo, - gli dissi, - vi si vede in viso, eccovi i denari, andatevene pure.
- E io non glie l'ho fatta mai la corte agli zuavi, sapete, non glie l'ho fatta mai.
- E non è questa la maniera «de» screditar la gente....
- Via....
- E «se» rivedremo....
- Chetatevi, ve ne prego, vien gente....
Entrò la stiratora, una donnicciuola sui cinquant'anni, con un'aria di vittima, col cappellino e lo scialle messi per traverso: il calzolaio si fermò sull'uscio.
- È lei, signore, - mi domandò la donna con voce tremante, - che mi ha da dar della biancheria?
- Io; ma bisogna che me la riportiate domani.
- Si farà.... quello.... che.... si.... potrà.
- Che cos'avete?
La stiratora scoppiò in pianto.
- Che v'è accaduto? - domandai, avvicinandomele.
- Ah! signore.... mio fratello e mio cognato....
- Son morti?
- No.... sono impiegati alla Revisione.
- Ebbene?
- Chi?
- Gl'Italiani.
- Ma, che! Rimarranno nel loro impiego, statene sicura; il governo italiano non toglierà il pane a nessuno; datevi pace, buona donna.
- Ah! no.... no.... è inutile.... glielo hanno già detto....
- L'avranno voluto loro, - esce a dire il calzolaio, - e se lo son meritati.
- Che cosa? - domanda sdegnosamente la donna, sollevando il viso bagnato di lacrime.
- «Ah! credete che nun se sappia er perchè? Ci avemo er nostro giuramento (giungendo le mani e modulando la voce); no se pole, ci avemo er nostro giuramento de mantenecce fedeli ar Papa»!
- Non è vero!
- Andiamo via, chè «so» i soliti mezzi «de» cercar gl'impieghi....
- «Eh, stateve zitto», - gli ribatte il barbiere, - «nun me» state a far tanto l'italiano «co' sta» povera donna, che tanto ve se vede sotto la coda!
- A chi?
- A voi!
- Ve do questa scarpa sulla faccia!
- E io «ve faccio attastà sto» rasoio.
- Fuori di casa tutti quanti!
- Ma dica lei che è emigrato....
- Non sono emigrato.
- Senta lei che è giornalista....
- Non sono giornalista; lasciatemi stare, uscite subito tutti di qui, sono stanco dei vostri piati, andate a gridar in piazza e non mi seccate più in casa mia!
Ciò dicendo li spingo l'un dopo l'altro verso l'uscio, ed escono vociando tutti insieme fin giù per le scale.
- «Er regno de preti è finito»! - Non è la maniera «de» metter la gente in mala vista dei forestieri! - Non è vero.... il giuramento.... si resta senza pane.... - È finito! - Ci rivedremo! - Giù le code! - Non è vero!
- Andate! Andate, che il diavolo vi porti!
E chiusa in furia la porta mi gettai sul seggiolone esclamando: - Pace! Pace,
/# O esacerbati spiriti fraterni! #/
Ah, buon Dio! Anche il 20 Settembre, visto dietro le quinte....
(Venticinque anni dopo).
Ci andava innanzi lentamente, portando un cerino acceso e strascicando i sandali, un piccolo frate tarchiato, che in alcuni punti teneva quasi con le spalle tutta la larghezza del corridoio, e ci copriva con la sua ombra.
È violenta e triste la prima impressione che si risente discendendo dalla grande Roma piena di luce e di vita in quel freddo cimitero sotterraneo, dove sulla morte è anche ora passata la devastazione, e dove si vedon congiunti tutti i più tetri aspetti d'una cava, d'una grotta e d'una carcere. E si va innanzi a malincuore, nell'odore umido della terra, diffidando del suolo ineguale, e pensando con inquietudine che, se il frate sparisse, si perderebbe la lena alla corsa, e forse il lume della ragione, prima di ritrovare l'uscita. Ma, a poco a poco, quel labirinto di anditi angusti, quelle fughe di buche sepolcrali nereggianti nelle pareti come grandi bocche semiaperte, quei piccoli vani per gli uffizi del culto, dove i fedeli stavan raggruppati e stretti, come quando aspettavan nei circhi l'irruzione delle belve, attirano e soggiogano tutti i vostri pensieri. Se vi resta ancora un pensiero profano, cede anche questo alla vista della prima ampolla incastrata nel tufo, nella quale siete spinti a cercare le tracce del sangue che vi fu racchiuso, e quasi un ultimo fremito della vita che fuggì con esso dalle vene del martire, o svanisce alla prima lettura di una di quelle iscrizioni semplici e rozze: «Pax tecum», con accanto un nome di battesimo, che non vi par di leggere, ma d'udir profferire intorno a voi dalla voce sommessa di chi ha amato e sepolto chi lo portava. Il frate si soffermava a quando a quando per rischiarare la cripta di una famiglia, di cui è scomparso ogni avanzo, o nomi di pellegrini d'altri secoli incisi nelle pietre, o una grata sottile, dietro la quale, fra poche ossa biancheggianti, ci fissavano due occhiaie profonde, con quello sguardo immobile da mille e ottocento anni, che par che aspetti con fede invincibile l'adempimento d'una promessa. Ma più che altro ci arrestavamo a quelle buche mortuarie dei bambini, così strette, da parere che neanche un piccolo cadavere potesse entrarvi, se non spinto dentro a forza come un corpo ancora vivente e ribelle alla sepoltura. Ah, lì pure sono i bambini quelli che vi prendono al cuore, quei poveri piccoli cristiani messi a dormire l'un sull'altro, ammucchiati, quasi schiacciati, oppressi anche nella morte dalla terra, come eran stati nella vita dal terrore, e così lontani dalla luce del giorno e dal verde dei campi, rimpiattati, più che sepolti, come carne maledetta. E col sorgere della pietà vi cade ogni ribrezzo del luogo: una curiosità grave e reverente vi spinge innanzi per quel labirinto tenebroso; voi cercate con gli occhi gli epitaffi e i sepolcri come se non tutti vi dovessero essere ignoti; sentite a poco a poco come una stretta del vincolo che v'unisce ai morti che là riposarono, e il nome che essi ebbero comune con voi vi risuona nell'animo con un novo suono, dolce e solenne; vi guida sotto a quelle vôlte, infine, quasi un ricordo lontano di ricordi lontani, soavi e misteriosi, che vi passan per la mente affollati, senza forma di parola, come una melodia appena intesa. Quanto vi par lontana la capitale d'Italia! Ma più lontane di ogni cosa, quasi monumenti e mostre d'un'altra religione, le superbe basiliche dorate e le sfarzose carrozze pontificali, che avete visto poc'anzi, lassù, in quel mondo dove splende il sole.
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Si discese a un altro piano di gallerie, e si riprese a andare, nell'ombra del frate. Il lumicino rischiarava di sfuggita anditi laterali, dove entra a stento una persona, e che svoltano nell'oscurità a pochi passi dall'imboccatura, altri anditi riempiti da frane di sabbia, ed altri incominciati a scavare, e lasciati lì; i quali s'allacciano forse a una rete di sotterranei più vasta. Si passa sotto a vôlte che vi fanno curvare la fronte; si discende per brevi tratti, come verso l'orlo d'un precipizio; poi si risale lentamente, si torna a discendere, si svolta e si risvolta, e par di tornare sui proprii passi e di riconoscere crocicchi, cubiculi, sfondi già visti; quando in realtà si procede. A volte, il suono dei vostri passi v'illude: vi par di sentir camminare altra gente davanti e dietro di voi, dei passi che s'avvicinano e s'allontanano, nei corridoi accanto, al piano di sopra, al piano di sotto, come di gente sorpresa che si sparpagli da tutte le parti, in punta di piedi. In altri momenti, quando il frate svolta un breve tratto prima di voi e rimane per poco invisibile, il fruscìo della sua tonaca e dei suoi sandali non vi par più il suo; suona come se invece d'andar oltre, si riavvicinasse, e vi balena alla fantasia un incontro miracoloso, l'apparizione di uno spettro di quella necropoli che v'aspetti alla svoltata, immobile e muto, e vi chiude il passo come a un miscredente sacrilego. E allora continuate a sognare, e vedete passar vagamente, lungo le pareti nere, al chiarore danzante della fiammella, uomini pallidi e austeri, capi curvati, visi estatici, occhi accesi di pianto e di speranza, che si fissano nei vostri con un'espressione di bontà ineffabile, gruppi furtivi di gente povera e umile, una confusione silenziosa di fanciulle, di vecchi, di servi, di gladiatori, di coloni, di patrizi, che vanno a passo lento, con le lampade d'argilla a la mano, e dileguano per gli ambulacri, come ombre; e pei lunghi anditi vi giungono all'orecchio salmodie di una dolcezza infinita, e dalle porte dei cubiculi singhiozzi di madri che adagian nella fossa i corpicini, dicendo con accento di sovrumana certezza: - Ti rivedrò! Aspettami in pace, figlio mio! - e sentite alle spalle i passi gravi e gli aneliti dei fedeli che portano i corpi lacerati dalle fiere, stillanti di sangue. Come dovevano amarsi! E come dovevano amare il loro Dio vilipeso, beffato, effigiato sui muri con un capo animalesco, pendente da un patibolo infame, quelli che davan la carne al fuoco e ai flagelli piuttosto di dire che non l'amavano! E intorno alle immagini loro si dilata e si rischiara al vostro pensiero quel labirinto funereo che vide tanti addii supremi, tanta rassegnazione, tanto dolore, tanto coraggio; sentite nella stessa riverenza amorosa, che la memoria di quei morti v'ispira, d'esser loro eredi e loro figli; ma con un senso acuto di rammarico, - col rammarico di non poter dare al servigio della vostra fede il santo amore della povertà e l'eroico disprezzo della vita con cui essi professarono la propria. L'immaginazione, frattanto, vi fa un singolare inganno in quel pellegrinaggio: il vostro pensiero, di là sotto, non risale già alla Roma attuale; quella che sentite sul vostro capo è l'antica; sentite e pensate come se, risalendo all'aria aperta, vi doveste ritrovare fra gli splendori e gli orrori del regno dei Cesari; e quando vi s'affaccia improvvisa l'immagine dell'aula di Montecitorio, che avete fissato di visitar tra un'ora coi vostri compagni di viaggio, vi produce un senso così vivo di stupore, che del vostro stupore medesimo rimanete maravigliati, come d'un caso non mai provato di «doppia coscienza».
Si discende ancora a un altro piano, e da questo a un altro, in un'aria che vi par sempre più fredda, in un buio che vi par sempre più denso, in un nuovo labirinto di gallerie strettissime, che discendono e risalgono, e s'aprono in bivii e in crocicchi, e s'allargano in ambulacri e in oratori, fiancheggiate di loculi, di bisomi, di cripte, dove al raggio del lumicino vi appaiono altre ampolle di sangue, altri nomi di morbi, altri ossami ammucchiati, e altri occhi di teschi che vi fissano, con quello sguardo profondo che domanda ed aspetta. In alcuni punti i corridoi si restringono, le vôlte s'abbassano, tutti i vani s'impiccoliscono, e par che la terra stia per chiudersi su di voi da ogni parte e seppellirvi vivente; e allora vi prende un senso d'oppressione, e quasi un brivido di sgomento al pensiero di tutta quella solitudine oscura, di tutti quei cimiteri che vaneggiano l'un sull'altro al disopra del vostro capo, di tutti quegli anditi intricati, di tutte quelle fughe di sepolcri, di tutte quelle ombre informi che avete visto allungarsi sulle pareti, di tutti quei passi misteriosi che v'è parso d'udire, di tutte quelle occhiaie vuote che v'hanno guardato. Ma basta anche allora il nome di una fanciulla sconosciuta, con una rozza palma disegnata accanto, e quella semplice aggiunta: - Martire - scolpita a caratteri ineguali nel sasso, a rimettervi nello stato d'animo di poco prima, a ridestarvi tutto quanto di più dolce e di più luminoso avete sentito e sognato nei giorni più puri della fanciullezza davanti alla immagine grande e candida di Cristo. La vostra mente trascorre da quella in cui v'aggirate alle altre necropoli, - alle altre quaranta già dissepolte, - a quelle innumerevoli non ancora esplorate, - spazia per tutta la distesa e a tutte le profondità della enorme città sotterranea che ospitò milioni di morti e abbracciò la cinta di Roma, e sentite la potenza prodigiosa del soffio che di là sotto ha sollevato il mondo, e vi conforta un nuovo e grande pensiero. - Sì, v'è ancora nel mondo un amore immenso e una immensa speranza, nata da quella che raggiò nelle catacombe; la forza maravigliosa che si sprigionò da queste tenebre non è morta negli uomini: essa è solamente sparsa, o inconscia di sè, o compressa; ma si raccoglierà, e saprà, e si espanderà vittoriosa un'altra volta sulla faccia della terra, e rovescierà altri idoli bugiardi, e spezzerà altre catene scellerate, e innalzerà essa pure dei monumenti che sfideranno i secoli, e inneggierà ai suoi martiri nelle lingue di tutti i popoli, e celebrerà le sue vittorie con le feste più poetiche e più solenni che possa concepire la mente umana. Sì, la storia ricomincia, e gli anatemi ai nuovi credenti lo annunziano, perchè non son che un'eco affievolita e paurosa degli oltraggi antichi. «Exitiabilis superstitio rursus erumpit».
Questo pensavo, quando un soffio di aria viva mi percosse in viso, il lumicino del frate si spense e sfolgorò il sole....
FINE.