Eduardo Scarpetta
'Na società 'e marite

ATTO PRIMO

SCENA OTTAVA   1°, 2°, 3°, 4° E 5° Socio, Giulietta e detti, poi esce Giulietta a tre sonate di campanello.

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SCENA OTTAVA

 

, , , E Socio, Giulietta e detti, poi esce Giulietta a tre sonate di campanello.

 

SOCIO (di d.): E permesso?

ANTONIO: Avanti, avanti.

SOCIO: Signori. (Gli altri socii salutano senza parlare. Giulietta mette il tavolino in mezzo con sopra campanello, carta e calamaio. Antonio siede in mezzo, ai due lati del tavolino vi saranno Errico e Gaetano, Salvatore sederà vicino a Gaetano. Carlino vicino a Felice, tutti gli altri seggono. Antonio suona il campanello.)

GIULIETTA (che dopo aver messo il tavolino è andata via, esce in questo momento): Comandate.

ANTONIO: Nun chiammo a te, vattenne fore. (Giulietta via.) Dunque vi ho incomodati questa mattina, nobili signori, per presentarvi due nuovi socii, ai quali bisogna far ben comprendere lo scopo e i regolamenti di questa nostra società; tutti e due, abbenché scapoli, sono stati per ora dai noi accettati secondo il regolamento dello statuto. Il primo di chiama Salvatore Milza qui presente...

SALVATORE: Nonsignore, io me chiammo Turillo Meuza.

ANTONIO: Va buono, Meuza. Il secondo Felice Sciosciammocca qui presente, giovine istruito e di gran talento. (Felice si alza e ringrazio.) Nobili signori, fra tante e tante società che si sono fondate, mancava la più bella, la più nobile, la più necessaria, quella cioè dei mariti e dei giovanotti scapoli che hanno l’intenzione di ammogliarsi presto. Tutti stretti, tutti uniti come tanti fratelli, l’uno garantisce l’altro. Se c’è qualcheduno che cerca turbare la pace del socio ammogliato, l’altro socio deve studiare tutti i mezzi per fare allontanare il traditore e far comprendere alla povera cieca il precipizio nel quale stava per cadere.

SALVATORE (a Gaetano): Vuje addò state de casa?

GAETANO: Pecché lo vulite sapé?

SALVATORE: Vuje lo vino addò lo pigliate?

GAETANO: A lo canteniere dirimpetto a me.

SALVATORE: Lassatelo, tengo cierto vino de Lecce che s’azzecca lo musso de coppa e lo musso de sotto.

GAETANO: Nun voglio azzeccà niente.

ANTONIO: Prego signori il silenzio. (Suona il campanello.)

GIULIETTA (usendo): Comandate.

ANTONIO: Dalle , nun chiammo a te, vattenne fore. (Giulietta via.) Nobili signori.

FELICE: (Ma sta nobiltà addò stà).

ANTONIO: Se qualche socio gli venisse qualche sospetto se incominciasse a travedere qualche cosa, qualche piccolo indizio di tradimento della moglie, deve subito farlo sapere al suo compagno, per fare in modo che si trovasse immediatamente il mezzo per impedire una disgrazia. Se il compagno socio si negasse, sarà messo subito fuori dalla società.

SALVATORE: Tengo nu bicchiere de vino paesano, ma scicco.

GAETANO: Va bene, vi terrò pregato.

ANTONIO: Quei socii scapoli che volessero prender moglie la società è nell’obbligo di visitare, di osservare la sposa, e vedere se la sua morale, l’educazione, l’indole, è tale da formare la felicità di un marito.

CARLO (a Felice): Scusate, abbiate pazienza, vedete se tengo la febbre.

FELICE (tastando il polso): Mamma mia, vuje jate pe llaria, pecché non ve jate a curcà.

CARLO: Presidente, scusate, col permesso di questi signori, me vularria j a curcà.

ANTONIO: Nu momento, scusate.

GAETANO: Abbreviammo Totò, si no chillo more.

FELICE (a Carlo): Scusate, voi siete ammogliato?

CARLO: Sissignore, da otto giorni.

FELICE: Ah, ho capito.

ANTONIO: Se c’è qualche socio che deve parlare, che parlasse.

ERRICO: Io avrei dovuto mettere in chiaro parecchie cose, ma siccome il collega D. Carlo sta poco bene, restringo il mio discorso in tre parole: energia, spirito, coraggio.

FELICE: (Chillo ch’ha ditto).

ALESSIO (alzandosi): Presidente, una parola.

ANTONIO: Parlate.

ALESSIO: Nobili signori, qui stiamo nella stanza dell’amicizia, e si può parlare senza soggezione. Vedete voi questa sfrittola che tengo in fronte? Questa me l’ha fatta mia moglie. (Tutti ridono.) Eh, e si ccà esce a risate lo fatto, avimmo fenuto. Bisogna trovà nu mezzo come fare in modo che la moglie non aizasse li mmane ncuollo lo marito.

ANTONIO: Va bene, su questo ci penseremo. (A Errico:) Segretario leggete gli articoli più interessanti del nostro statuto, quelli cioè che si fanno sentire ai candidati. Poi daremo una copia dello statuto che costa 10 lire.

ERRICO: Pregherei un poco di silenzio. (Antonio suona il campanello.)

GIULIETTA: Comandate.

ANTONIO: Mannaggia l’arma de mammeta! Nun chiammo a te, quanno siente lo campaniello, nun venì.

GIULIETTA: Va bene. (Via.)

FELICE: (Guè, ma chella è seccante overo ).

ERRICO (leggendo): «Art. 1. Si è costituita fra alcuni mariti una società d’assicurazione contro la infedeltà delle mogli. La sede è in Napoli, strada Anticaglia n. 40. Articolo 14. La tassa d’entrata è fissata a lire 20. Ogni anno poi si pagheranno lire 10. Il tutto si verserà nella cassa sociale».

FELICE: Scusi, il cassiere chi è?

ANTONIO: Io per ora, perché il posto è vacante.

FELICE: Questo è un posto sempre difficile a trovarsi.

ERRICO: «Art. 15. L’assemblea generale si terrà una volta l’anno il giorno primo gennaio».

FELICE: Io dico che sarebbe meglio l’11 novembre.

ANTONIO: E perché?

FELICE: E un giorno più adatto per la circostanza.

ANTONIO: Nun pazzià.

ERRICO (legge): «Art. 16. Nelle deliberazioni in caso di parità, il voto del Presidente è preponderante. Art. 17. L’assemblea conferisce ampii poteri agli onorevoli signori Antonio Gambino Presidente, Gaetano Cascetta Vice Presidente ed Errico Torre Segretario».

ANTONIO: Ora alla votazione per vedere se si accettano i candidati... comme vulimmo votà co li palle?

FELICE: E ch’avimma jucà a lo bigliardo?

GAETANO: Ma che palle e palle, chi accetta resta seduto. Questi signori accettano tutti, è vero? (Tutti abbassano la testa, qualcheduno dice: accettiamo, e si alzano.)

FELICE: Io ringrazio a tutti. (Stringe la mano a tutti.)

ANTONIO: Dunque signori, ricordatevi di fare quello che avete l’obbligo di fare, e cerchiamo di non scomparire con le altre società. (I cinque socii si salutano e viano.)

SALVATORE: Ve voglio vedé che saccio . Signori mieje. (Via.)

GAETANO (a Carlo, Alessio ed Errico): Noi rimaniamo coll’appuntamento che domani essendo la mia nascita, venite a pranzo da me, viene pure l’amico Totonno e D. Felice.

FELICE: Oh, vi ringrazio tanto.

ERRICO: Io verrò senz’altro.

CARLO: Se mi sento meglio verrò.

ALESSIO: Io vengo, basta che nun me sose cchiù nturzato.

GAETANO: Questa è cosa da niente, noi vi aspettiamo.

ALESSIO: Va bene. A rivederci. (Lazzo, bacio.)

ERRICO: Signori. (Alessio ed Errico si mettono in mezzo sotto al braccio a Carlo e viano pel fondo.)

FELICE: Chillo nun arriva fino a casa e more.

ANTONIO: Oh, Felì, agge pacienza , l’amicizia è na cosa, e la società n’è n’ata, tu haje da caccià de vinte lire d’entrata.

GAETANO: E dovete darle a me.

FELICE: La quistione è che io nun me li trovo ncuollo, D. Antò, faciteme lo piacere, prestatemmelle vuje.

ANTONIO: A pecché no, tiene. (Prende il portafoglio e gli le 20 lire.)

FELICE (dandole a Gaetano): Ecco le venti lire.

GAETANO (dandole ad Antonio): Ecco l’entrata.

ANTONIO (le prende e le mette nel portafoglio): In cassa.

FELICE: (Se l’ha pigliate n’ata vota). Oh, diciteme na cosa, io come socio ch’aggia ?

ANTONIO: E nun haje ntiso, sorvegliare tutte le mogli dei socii, chi sa facessero qualche cosa.

GAETANO: E specialmente li mugliere noste, voi che state quasi sempre vicino a noi, appena trapelate qualche piccola cosa, nce lo facite sapé.

FELICE: Ah! io chesto aggia ? E non dubitate, che vi servo a dovere. Una cosa però, quando voi me vedete vicino a li mugliere voste, vuje jatevenne... pecché... Mi spiego? Così è meglio, si hanna dicere quacche cosa, lo dicono senza paura, pecché stanno sole.

GAETANO: Bravo. Accussì avita .

FELICE: E va bene, non dubitate.

 


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