Eduardo Scarpetta
'Nu turco napulitano

ATTO SECONDO

SCENA OTTAVA   Peppino e detto, poi Lisetta.

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SCENA OTTAVA

 

Peppino e detto, poi Lisetta.

 

PEPPINO (gentilmente): Buonasera.

FELICE: Felicenotte.

PEPPINO: Con quest’abito state proprio bene.

FELICE: Sicuro, me pare no pupo!...

PEPPINO: Voi non potete credere che piacere abbiamo avuto tutti gl’impiegati che siete venuto voi, siete simpatico a tutti quanti.

FELICE: Veramente? che piacere teh.

PEPPINO: In me specialmente non troverete un amico, ma un fratello, un fratello affezionato.

FELICE: Grazie tanto.

PEPPINO: Solamente, voleva chiedervi un gran favore.

FELICE: Non me cercate denare, pecché non tengo manco no soldo, m’hanno promesse 1000 lire, ma non aggio avuto niente ancora.

PEPPINO: Nonsignore, pe carità, che denaro... quanto siete curioso!...

FELICE: chi parla!...

PEPPINO: Dovete sapere che io ho composto un coro da cantarlo in occasione di questo sposarizio verso mezzanotte, l’una, sotto le finestre di questa casa. è tutto pronto, vi assicuro che è bello assai. Però ci stanno due rispostine per soprano, se no il coro perde d’effetto... fino a questo momento non sono stato buono di trovare una voce di donna.

FELICE: E che vulite da me?

PEPPINO: Fatemi voi questa gentilezza.

FELICE: Frato mio, è impossibile, io non vi posso servire e che tengo la voce de soprano? Io ho cantato sempre da baritono.

PEPPINO: Uh! Non dite sciocchezze. (Carezzandolo.)

FELICE: (Neh, ma chisto pecché lo farenella!).

PEPPINO: Dite piuttosto che non mi volete fare questo favoreguardate, quelle so’ due piccole risposte (caccia la carta di musica) la prima volta «Oh, che piacer» e la seconda risposta « è una stella mattutina» questo è tutto.

FELICE: Ma io non posso.

PEPPINO: Va bene, voi potete, non vi fate più pregare fatemi questa gentilezza.

FELICE: Vuje vedite che guajo che aggio passato!

PASQUALE: Poi il motivo è facilissimo, un paio di volte che lo facciamo subito ve lo imparate. A un altro poco mentre tutti quanti si prendono i gelati, noi andiamo in una stanza di questa, e lo concertiamo due tre volte... che ne dite? Io, se mi fate questo pacere, senz’offesa, vi regalo 5 lire.

FELICE: 5 lire?

PEPPINO: Sissignore.

FELICE: Anticipate?

PEPPINO: Anticipate! tenete. (Gliele .)

FELICE: (M’aggia mangià cinche lire de chisto!) Va bene, lasciatemi la carta.

PEPPINO: Eccola qua. ( la .) Grazie tante. Vedete, noi ce ne andiamo dentro quella stanza . (Indica seconda a destra) cuiete, cuiete...

FELICE: Va bene. (Vede uscire Lisetta.) Signorina, che cos’è?

LISETTA: Niente, mi sono intesa girare un poco la testa.

FELICE: Accomodatevi qua. (Lisetta siede.)

PEPPINO: Dunque, a rivederci tra poco?

FELICE: A rivederci. (Peppino via a sinistra.) Ma adesso come vi sentite?

LISETTA: Me sento, meglio, grazie tanto. Ah! Ma pecché aggio da essere accussì disgraziata io! Sarria meglio si muresse!

FELICE: E perché volete morire, signorina, voi così giovane, così bella, e poi questa sera dovete stare allegramente, fra poco verrà il notaio, si firmerà il contratto.

LISETTA: Non me lo ricordate, per carità!...

FELICE: Ma perché, signorina? Confidatevi con me, forse lo sposo non vi piace?

LISETTA: Non mi piace! Non l’amo! E non l’amerò mai!

FELICE: Possibile!

LISETTA: è antipatico, pesante, rustico quanto mai, poi con certi modi...

FELICE: Avete ragione, signorina, avete ragione, io non come vostro padre l’ha potuto scegliere per vostro marito... Oh, che sbaglio, che sbaglio!... Ma vostro padre non voi chi siete, non ha saputo apprezzare la vostra bellezza, tiene una perla e non la conosce! Egli con questo matrimonio, non fa altro che prendere un grosso brillante e farlo ligare in ottone, prende una rosa di Maggio e la mette in bocca ad un cane!

LISETTA: (Che bello paragone!).

FELICE: (Ma che belli paragoni che tengo io!). Voi però siete ancora libera, dite a papà che assolutamente non lo volete!

LISETTA: Non lo pozzo cchiù chesto, pecché l’aggio fatto tre bote.

FELICE: Meglio allora, chille nce soabituate! Sentite a me, non ve lo sposate, non firmate, ve ne prego, sparambiatemi questo dolore!

LISETTA: Ma comme! Se io firmo, vuje n’avite dispiacere?

FELICE: Assaj, si assaj! Perché dovete sapere, signorina, che dal momento che v’aggio vista, io me sontiso sbattere mpietto aggio ditto fra me e me: quanto è bella, chesta sarria na figliola che io volarria bene cchiù de la vita mia, le starria sempe vicino e le diciarria sempe: sciasciona, zucchero, simpaticona mia!

LISETTA: Pe ccarità, v’avisseve da sentì quaccheduno?

FELICE: No, non me sente nisciuno... E vuje diciteme la verità, me spusarrisseve co piacere?

LISETTA: A buje?... Oh, sicuro!

FELICE: Allora jate addò papà e dicitencello, bello, risoluta: papà, io a chillo non lo voglio bene, e non lo voglio no, no, e no... sento rummore. (Va a guardare in fondo.) Ah, è D. Ignazio, jatevenne, vuje avite capito?

LISETTA: Va bene, io a n’auto poco me lo chiammo e, ce lo dico, a chello che ne vene!...

FELICE: Bella, simpatica, aggraziatona mia!...

LISETTA: Zucchero, tesoro, scisciunciello mio, io te volarraggio bene assai, assai... tu soo core mio, tu s

FELICE: Va signori, ve n’avita j !... (La fa entrare a sinistra.)

 


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