Eduardo Scarpetta
Nun la trovo a mmaretà

ATTO TERZO

SCENA QUINTA   Ciccillo, Michele, Gaetano, poi di nuovo Gaetano indi Eugenio.

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SCENA QUINTA

 

Ciccillo, Michele, Gaetano, poi di nuovo Gaetano indi Eugenio.

 

GAETANO (con buchè): Ciccillo, Michele. (Con tavola preparata.)

GAETANO: D. Felì, nce simme. (Via poi torna.)

FELICE: Bravo.

GAETANO (con sciampagna): Sciampagna première qualitè. D. Felì, la tavola come ve pare?

FELICE: Evviva Gaetano!

GAETANO: Lo buchè ve piace?

FELICE: Magnifico.

GAETANO: Sofiori proprio cogliute.

EUGENIO (di dentro): Gaetano, Gaetano.

GAETANO: D. Felì, chisto è D. Eugenio. Eccomi, eccomi.

EUGENIO (fuori): Gaetà, simme leste?

GAETANO: Prontissimo. Questo signore vorrebbe parlarvi. (Via poi torna con bistecche.)

EUGENIO: Chi è?

FELICE: D. Felice Sciosciammocca notaio a servirla.

EUGENIO: Ai suoi comandi.

GAETANO (con bistecche): (Votateve da llà, date n’uocchio a chilli frutte).

FELICE: (Bravo Gaetano).

EUGENIO: Qual’è stata la ragione che mi ha dato l’onore di conoscerla, signor Notaio?

FELICE: L’onore è tutto mio. S’accomodi, prego.

EUGENIO: Questa tavola l’ha fatta preparare lei forse?

FELICE: Mi scuserà l’ardire che mi son preso.

EUGENIO: Oh, troppo buono. (Chisto chi sarrà).

GAETANO: (Che frutte).

FELICE: (Bravo!).

EUGENIO: Quest’aria di Castellammare, è proprio un’aria sublime, dopo una mezz’ora che s’è mangiato, ritorna l’appetito.

FELICE: Lei sta da molto tempo a Castellammare?

EUGENIO: Da appena 15 giorni, penso però di restarci fino a tutto Luglio.

FELICE: Bravissimo.

EUGENIO: E lei?

FELICE: Per pochi giorni, perché ho gli affari in Napoli. Ma dico io, giacché è incominciata così bene la nostra amicizia, pregherei di levare il lei.

EUGENIO: è quello che io desidero.

FELICE: Beviamo. A la vostra salute.

EUGENIO: Ed anche alla vostra. (Bevono.)

FELICE: Dunque avete abbandonato per poco la professione?

EUGENIO: Sì, è vero, ma dopo la villeggiatura la riprenderò.

FELICE: Bravissimo.

EUGENIO: Voi però dovevate parlarmi, avete forse qualche causa?

FELICE: (Io a chisto che l’aggio da dicere). Sì, una causa, ma di poco conto.

EUGENIO: Ma di che si tratta?

FELICE: Io teneva una gatta, un giorno prendi la gatta, piglia ha gatta, non trovo più la gatta.

EUGENIO: Oh, e dove era andata?

FELICE: Un giorno l’inquilino del piano di sopra sloggiava, e incontro per le scale un ragazzo che portava un sacco, e dentro al sacco, sento la voce della gatta mia, questa è la gatta mia, il padrone di sopra diceva ch’era la sua, io diceva ch’era la mia, quello ha avuto l’audacia di citarmi.

EUGENIO: Ah, ah, ah, questa si ch’è bella. Dunque l’inquilino di sopra ve la rubò?

FELICE: No, fu essa che andiede sopra.

EUGENIO: E questo come lo sapete?

FELICE: Era il mese di Marzo.

EUGENIO: Ah, ah, ah, ma voi veramente mi fate ridere!

FELICE: Vedete dunque ch’è na causa de poco momento.

EUGENIO: Oh, sicuro. Farò ridere però, quando dirò l’affare del mese di Marzo.

FELICE: Quello è il solo mese che le gatte fanno l’amore, non così per gl’uomini, che possono innammorarsi sempre, anche nel mese di Luglio.

EUGENIO: Oh, questo è vero.

FELICE: E voi non fate l’amore?

EUGENIO: Io? No, perché ho avuto sempre in mente di non credere a le donne, e per conseguenza non ho preso mai una passione, e vi giuro, signore, che ne ringrazio il Cielo.

FELICE: Dunque odiate le donne?

EUGENIO: Odiarle no, mi piace di tenerle lontane.

FELICE: (Gaetà, leva lu buchè). Pare impossibile, voi così giovine la pensate di questa maniera.

EUGENIO: E pure è così. Ma ditemi voi, che cosa diventa l’uomo allorché è preso da una passione per una donna? Diventa un essere infelice, un essere perduto, egli non pensa, non crede, non ama che una sola cosa, e su quella cosa si fissa a tal punto che rende la sua vita un continuo soffrire. Invece senza questa passione, egli può godere, egli è libero, come lo sono io vedete.

FELICE: (Gaetà, leva li frutte).

EUGENIO: Io l’anno scorso, era tanto amico di un giovine, stavamo sempre insieme, lo credereste? Da che ho saputo che si è messo a far l’amore, non l’ho voluto più vedere.

FELICE: (Gaetà, leva lo sciampagne).

EUGENIO: (E che d’è, ccà a poco a poco se sfratta ha tavola). Io odio l’amor platonico, non mi piace d’amare a lungo, quando trovo la donna che mi piace, e che mi ama, la sposo subito.

FELICE: Dunque non odiate il matrimonio?

EUGENIO: Anzi, credo che sia una necessità per l’uomo.

FELICE: (Gaetà, piglia lo buchè). Non avete trovato ancora la donna che vi piace?

EUGENIO: La donna che mi piace l’aveva trovata, ma l’ho perduta e non so se mi ama.

FELICE: Scusate, io non capisco.

EUGENIO: Dovete sapere, che io ebbi il piacere di salvare una giovinetta, un angelo di bellezza, ch’era caduta sull’arena qui ai bagni, la trasportarono in questo luogo, dopo una mezzora, io venni per trovarla, non c’era più, era partita.

FELICE: Gaetà porta li frutte, lo sciampagne, porta tutte cose ccà, io moro da la consolazione. Dovete sapere che io sono il padrino di quella che voi salvaste, e posso assicurarvi che essa vi ama.

EUGENIO: Possibile!

FELICE: Eccola ccà.

 


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