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II.
Un campanello squillò, fortemente, e continuò a tinnire presso la finestrella della cucina: Carmela venne a sporgersi in quella stretta, oscura, umida tromba del cortiletto, dove si aprivano le finestrelle di tutte le altre cucine e scorse un volto di donna, giù, nel cortile, guardante in su:
— Donna Carmela, è ora? Posso salire? — disse una voce grossa femminile, dal basso.
— Sali, sali, Gaetanella, — rispose, di sopra, la ballerina.
Ella rientrò nella sua camera e riprese il suo lavoro, intorno al quale si erano esercitate lente e pazienti le sue mani, malgrado che fosse domenica. Era la sua buona maglia di seta, la quale già mostrava, qua e là, dei rallentamenti che facean sospirare di tristezza Carmela.
Ella ne possedeva tre, di maglie, e non le avea rinnovate, da molto tempo: una, la più vecchia, era così vecchia, così scolorita, che parea bianca, ai lumi della ribalta, e che ella conservava, cencio inutile, per spirito di economia: una seconda, che aveva serbato il color carnicino, ma consunta, molto rammendata, troppo rammendata, non poteva servire più, a San Carlo, in inverno, ed ella l’adoperava ancora, in estate, a Santa Maria di Capua, a Lecce, a Catanzaro, in quelle così incerte e così perigliose stagioni di ballo, in provincia, dove le povere ballerine vanno solo per avere il pane. Per San Carlo, dove l’impresario, il maestro concertatore del ballo, il direttore del palcoscenico, erano così esigenti, così duri, così brutali, sulla questione del basso vestiario, sulle scarpette di seta, sui coturni di pelle, sulle gonnelle di velo, spese che spettano tutte quante alle ballerine, ella doveva adoperare la sola buona maglia che avesse: e così Carmela ne sorvegliava il tessuto serico, leggiero, con cure quotidiane, tremando di doverne comperare una nuova, appena passabile, per ventotto lire! Sua madre le aveva insegnato il rammendo su maglie di seta, il suo povero mestiere: chi sa mai, per non crepare dalla fame.
Gaetanella, la pettinatrice, entrò senza bussare e avendo salutata la sua cliente, svolse d’attorno la sua cintura, dove era ravvolto un grembiule bianco. Carmela Minino si era seduta innanzi allo specchio piccolo e appannato di un’antica toilette di legno:
Gaetanella, dopo aver fatto un giro di ricerche, nella stanza, le aveva gittato sulle spalle un asciugamano, perché i capelli disciolti non le ungessero il vestito.
— Anche oggi, si balla, donna Carmela...
— Due volte, anzi, giorno e sera, Gaetanella mia.
— Come, anche quest’ultima domenica di Carnevale?
— Si sa, noi balliamo due volte al giorno, tutte le ultime quattro domeniche di carnevale. Per noi, non ci sono feste... — sospirò la ballerina.
— Domani pure? Pure dopodimani? — chiese la pettinatrice, mentre passava il pettine nei lunghi capelli disciolti.
— Sono i due ultimi giorni di carnevale. Doppio spettacolo — mormorò l’altra. — Certi giorni, moriamo di fatica.
Tacquero un istante. La pettinatrice era una giovane popolana, piccola, tarchiata, con un elmo di capelli oscuri alto sul capo, con uno scialletto di lana azzurro incrociato sul petto, con una veste di lana color granato e un paio di stivaletti dai tacchetti alti e rumoreggianti. Ella pettinava Carmela con una rapidità meccanica grandissima: le mani brune, magre, ossute, ornate di anelli grossolani, della pettinatrice avevano, in qualche momento, lo scatto burlesco delle mani scimmiesche.
— E stassera, tardi, a casa? — disse la pettinatrice, legando a metà testa, con un cordoncino, un forte mazzocchio di capelli.
— Verso l’una dopo mezzanotte.
— Sì... qualche volta.
Tutto il costante cruccio di quel ritorno a casa, di notte, sola, ad ora già alta, in un quartiere lontano da San Carlo, per vie poco frequentate, dove potea incontrare ladri, ubbriachi, malintenzionati, le si dipinse sul volto.
— Io mi farei accompagnare da qualche parente, — riprese Gaetanella, che si accorse di quella tristezza.
— Io non ho nessun parente. Forse... qualche amico mi accompagnerebbe... se volessi... ma non voglio.
— Fate bene, — ribatté subito Gaetanella, che comprese. — La Madonna vi mantenga in questa intenzione.
Conosceva, Gaetanella, che la ballerina si conservava ancora onesta: nel vicolo Paradiso, dove la pettinatrice anche abitava, tutti lo sapevano che Carmela Minino tornava a casa sempre sola, che non riceveva visite, che non riceveva lettere o fiori, che usciva soltanto per andare al teatro e alla chiesa, che era così povera perché non voleva aver protettore. Dalla fruttivendola, una orribile strega che strillava dalla mattina alla sera, con tutti quanti, alla carbonaia che con le mani sporche di carbone lavorava a una calzetta già nera sulla soglia della sua bottega nerissima di carbone, da don Santo il panettiere che vendeva anche la neve, in estate, al cantiniere, uno smargiasso, figliuolo della celebre venditrice di vino, la Sangiovannara, tutti i vicini di Carmela Minino ne elogiavano le virtù.
L’edificio della pettinatura di Carmela, sotto le agilissime, scarne mani di Gaetanella, cominciava a prendere quell’aspetto turrito come era la moda, in quella stagione.
— Rialzami la frangetta, te ne prego.
La frangetta era una sfioccatura di capelli, tagliata diritta sulla fronte e che ne copriva la metà. Era passata di moda, da qualche tempo, ma Carmela la usava sempre.
— Stareste male, senza frangetta, — disse Gaetanella fermandosi, guardando il viso di Carmela nella spera.
— Lo so! — esclamò la corifea, sospirando. — Ma in palcoscenico nessuna la porta più... mi burlano, perchè mi pettino all’antica...
— Non date retta: sono compagne invidiose.
— Anche il direttore del ballo mi ha sgridato. Provate a rialzarmela, — pregò ella, ancora.
Difatti, Gaetanella le rialzò, con le forcinelle invisibili, i capelli abbassati sulla fronte. La fronte, un po’ troppo alta, apparve nuda: ed il viso lungo di Carmela si allungò ancora.
— Quanto sono più brutta, così, — ella soggiunse, dopo essersi rimirata, con un accento pieno di sincerità e pieno di amarezza
— Sì, non state bene, così. Ora ve l’abbasso di nuovo, la frangetta.
— Non importa, — ribatté Carmela, rassegnatamente. — Preferisco non prendere delle sgridate.
Mentre Gaetanella, compita la pettinatura, vi ficcava certi spilloni di grezza chincaglieria, false perle, falsi smeraldi, strassi poco scintillanti, Carmela si sogguardò nuovamente e si trovò bruttissima, con quella fronte che le pareva enorme, Non aprì bocca. La pettinatrice aveva finito tirava i capelli caduti o strappati, dai denti del pettine, ne faceva un batuffoletto, deponendolo sul piano della toilette, si soffiava sulle mani, si riavvolgeva attorno alla cintura il suo grembiule bianco. Carmela cavò dalla tasca quattro soldi e glieli dette, in pagamento della sua pettinatura. In verità, Gaetanella si faceva sempre pagare a mese, da tutte le donnette del vicinato, tre o quattro lire il mese, il che riduceva la pettinatura a due soldi il giorno. Ma la ballerina si faceva pettinare da lei, solo nei giorni in cui ballava: e il contratto era diverso. Su per giù, con quindici rappresentazioni al mese, venivano le medesime tre lire al mese: ma la povera corifea preferiva pagare volta per volta, quei quattro soldi non le pesavano tanto. Furlai, il parrucchiere di San Carlo, voleva sei e spesso otto lire il mese: Carmela non poteva, non poteva, non aveva protettore vecchio o giovine.
— Domani, a che ora? — chiese Gaetanella, dalla soglia.
— Sempre alle due, mi raccomando.
— Non dubitate.
La porta si richiuse. Carmela andò a guardare l’ora a un vecchio orologio da tasca, di argento, che le aveva lasciato sua madre: erano le due e mezzo. — Doveva sbrigarsi. — Quando vi erano due spettacoli, l’impresario voleva che le ballerine si trovassero in teatro, alle tre, mentre appena cominciava la prima opera in musica sino alle tre e mezzo, una lira di multa; dopo le tre e mezzo, ritenuta di una giornata. Era una crudeltà tener lì, in quei grandi cameroni nudi, male odoranti, riscaldati dalla fiamma del gas, dove le corifee si vestivano e si spogliavano, a quattro, a otto, a dodici per camera, tre ore prima, tutte quelle che dovevano ballare; ma le proteste, i gridi, la collera erano inutili: col regolamento non si scherzava. Di domenica, si entrava in teatro alle tre del pomeriggio, si usciva all’una dopo mezzanotte, tredici ore di fatiche pesanti e di ozi anche più pesanti, chiuse dentro, con quella luce cruda, con tutti quei fiati, con quei pessimi profumi da una lira la boccetta e tanti altri odori più nauseanti. Molte profittavano di un’ora di libertà, fra uno spettacolo e l‘altro, e scappavano a casa: ma non era peggio, vestirsi, spogliarsi, correr via, ritornare? Una vita da cani, in carnevale, quando tutti si divertono.
Così, con quella monotonia di movimenti che indica una consuetudine oramai invincibile, Carmela mise in una scatola di cartone lunga e stretta le sue gonnellucce di velo tarlatan, bianche: erano nuove, leggiere, molto sbuffanti, come è sempre il tarlatan, quando si adopera la prima volta; ma alla terza, alla quarta, che appassimento! Vi mise anche le sue scarpette di raso rosa, ohimè, non più nuove, tutte sciupate, portabili solo per pochi giorni, ancora: e costavano quattro lire il paio! Vi unì due o tre vasetti dove restava un po’ di cold cream, un po’ di rossetto, un po’ di cipria: vi depose un piumino spelato e una spelata zampa di lepre. Guardò se dimenticasse qualche cosa. — Niente altro? No: niente. Il suo misero bagaglio di ballerina di terza fila, pagata a tre lire e cinquanta al giorno, era al completo, nella sua perfetta povertà. Ebbe un minuto di tristezza, così, improvviso. Pensava a Emilia Tromba che, malgrado fosse una semplice ballerina di prima fila, niente altro che una guida, sol perché era bella, sfrontata e insolente, portava in teatro un nécessaire di argento con le sue cifre, per la sua toilette: quei vasetti, quelle fialette erano ripiene dei più bei e dei più soavi cosmetici, che Emilia Tromba distendeva sul suo volto ridendo, strillando, bestemmiando, persino, con quella sua voce roca di donnaccia ubbriaca, che contrastava così forte con la beltà pura del suo volto: quel nécessaire, invidia di tutto il palcoscenico, non glielo aveva, forse, donato Ferdinando Terzi? Il gentiluomo dai glaciali occhi azzurri, limpidi e taglienti nel superbo sguardo, che su ogni cosa e ogni persona volgevasi con la medesima indifferenza, aveva fatto quel dono di mille lire, più di mille lire, si dicea, a Emilia nel giorno del suo onomastico, per fare schiattare le altre ballerine. Ma l’ora urgeva: Carmela chiamò il figliuolo dl portinaio, un ragazzetto di dieci anni, e gli confidò la scatola. Quel monello gliela portava ogni giorno, a San Carlo e gliela riportava a casa, il dì seguente, per qualche soldino che la ballerina gli donava. Ella si sarebbe vergognata di portare, per Toledo, quello scatolone lungo e leggiero, che indicava la sua professione e avrebbe fatto voltar la gente.
Quando il ragazzo fu partito, saltando gli scalini di quel quarto piano a quattro a quattro, Carmela pensando a quelle tredici ore di reclusione, mise in un giornale due fette di pane in cui stava stretto un pezzo del ragout domenicale, da lei stessa cucinato, vi unì una mela rossa e un coltellino, facendone un pacchettino decente; quello lo portava con sè, avrebbe mangiato un boccone, fra uno spettacolo e l’altro, senza uscire di teatro. Andò verso il letto e mentalmente disse un’Ave Maria alla Madonna di Pompei che aveva, a capo letto, tre Gloria Patri a sant’Antonio di cui era specialmente tenera, per le grazie che fa — tredici al giorno — e si mise in tasca il rosario, per abitudine. Andando a mettersi il cappello, innanzi alla spera, vide una carta, sul piano della toilette. L’aprì; rilesse quella lettera, scritta in uno stile amoroso fra il romantico e il brioso, da Roberto Gargiulo, il cassiere della casa Gutteridge. Il giovane, in quell’inverno, era stato varie, troppe volte a San Carlo, introdotto dall’amico giornalista: e sentendo che ognuno di quegli abbonati alle poltrone aveva la sua innamorata, la sua amante, fra quelle ballerine, udendo tutti quei discorsi di piccoli e grandi don Giovanni, vedendo Carmela danzare, ogni sera, sapendo che non aveva nessuno che la corteggiasse, sapendola molto restia, ma non totalmente restia, si era rimesso a farle dichiarazioni amorose, in prosa e in versi — i versi, li copiava qua e là — ad aspettarla, innanzi al teatro, quando esciva. Il suo sogno sarebbe stato di andare nelle quinte, come tanti gentiluomini in marsina, in cravatta bianca, col fiore all’occhiello: ma egli non era che un oscuro impiegato di commercio! Carmela diceva no, sempre, con quel diniego costante e disperato di chi si ostina ciecamente: ma le lettere non le dispiacevano. Ed obbedì a un senso di vanità, mettendosi in tasca la ultima lettera di Roberto Gargiulo, a cui non aveva risposto. Quando avevano un quarto d’ora di riposo, di libertà, le ballerine, nelle quinte, nei loro cameroni, dove si acconciavano, cavavano fuori subito le lettere dei corteggiatori. E alle tre meno venti, puntuale come un soldato, Carmela Minino avendo un po’ freddo, sotto la sua mantellina di panno nero, guarnita da una falsa pelliccia nera, tenendo nascosto il pacchetto della sua cena, col suo passo cauto, leggiero, misurato, uscì dal portoncino del Vico Paradiso, per andare a San Carlo.
Erano otto, in quel grande camerone oblungo: tutte le otto ballerine della terza fila. Checchina Cozzolino, una dal volto gonfio, scialbo, dai piccoli occhi cinesi che eran tirati verso le tempie, nera di capelli: figliuola di una portinaia, corteggiata dal giovane medico del teatro, piena di presunzione, ma senza una lira, mai, da comprarsi un pacchetto di cipria; Rosina Musto, una zitellona di quarant’anni, alquanto brutta, sufficientemente goffa, ma allegra, vivace, che ballava benissimo e che aveva per amante un negoziante di coloniali, Sambrini, con bottega a via Baglivo Uries; Carlotta Musto, la sorella più giovane, almeno di dieci anni, maritata con un capo meccanico all’Arsenale, divisa da lui, che aveva un amante misterioso, geloso, di cui parlava in termini vaghi, senza precisare, temendo che glielo rubassero; Marietta Sanges, una biondona così alta che faceva sfigurare tutta la fila e sfigurava lei stessa, con quella enorme statura, con certi piedi e certe mani da carrettiere, amante di un notaio, che le dava generosamente centocinquanta lire al mese, su cui ella, prevedendo l’abbandono, faceva delle economie; Giuseppina Mastracchio, figliuola di un secondo ballerino di San Carlo, magra, piccola, sempre di cattivo umore, scontrosa, che aveva già fatto due figliuoli, di qua e di là, bestemmiando contro l’ignoto genitore, tentando dei ricatti coi suoi antichi amanti, non riuscendo che a strappar qualche diecina di lire, a furia di urli; Margherita De Santis, una creatura carina, fine, sottile, elegante, dalle labbra bianche di anemizzata, sempre malata, con le tasche sempre piene di pillole, di cartine con polverine, del resto, fortunata, perchè mantenuta da un ricco negoziante di cuoi, al ponte della Maddalena; e infine l’altra zitella, l’altra ballerina ancora onesta, come Carmela Minino, una ragazzona di diciotto anni, bianca, rossa, tonda, stupida, Filomena Scoppa, che voleva assolutamente maritarsi e bene, per non correre i rischi delle sue compagne con quegli amanti gelosi, noiosi, spesso avari, spesso volubili, che piantavano le donne da un giorno all’altro. Le prime sei, tutte più o meno bene provviste di amanti, affettavano un profondo disprezzo per Carmela Minino e per Filomena Scoppa, le due zitelle, zitelle perchè nessuno voleva sapere della prima, brutta e timida come era e nessuno voleva sposare la seconda, che aveva la rozza beltà del diavolo e niente altro, sporca e trascurata, del resto: mentre le due zitelle, le due oneste, erano armate di una superbia, silenziosa in Carmela Minino, chiacchierona e impertinente, in Filomena Scoppa. Tutte queste altre donne, vestendosi per il ballo Excelsior, facevano un chiasso enorme, soffocato dalle pareti di legno, nel loro camerone, mentre nelle altre camere si chiassava egualmente, fra risate, strilli, urli, cadute di sedie e tanti altri rumori di donne che si vestono in uno stretto spazio. Per lo più, le voci erano rudi, alcune velate da una ostinata raucedine, altre stridule e mal sonanti, tutte volgari: nel dialetto napoletano, accentuatissimo, che formava il fondo di quelle conversazioni, di quelle dispute, qualche accento lombardo o piemontese si frammischiava, di qualche ballerina venuta da Milano, da Torino. Delle bestemmie, delle parole oscene si mescolavano in quegli strilli di femmine affaccendate e nervose: mentre le più prudenti, le più bigotte, fingevano di scandalizzarsi a ogni parolaccia delle più sfacciate.
Lo stanzone era piuttosto un lungo corridoio, con l’impiantito di legno abbastanza sconnesso e dove, spesso, pigliavano delle storte i tacchetti di legno delle ballerine, che venivano da casa loro, correndo per l’ora tarda: mentre le scarpette di raso carnicino della danza, dalla soletta leggiera, sugherigna vi si rovinavano: ma, all’impresario che poteva ciò importare, quando le scarpette erano a conto delle ballerine? Le mura di quello stanzone erano appena imbiancate e qua e là mostravano delle macchie di umido, oscure, verdastre, come le traccie di una ignobile lebbra del muro: tre fiammelle di gas sporgevano da una lunghezza del muro e divampavano, riscaldando l’ambiente come una fornace: ma la loro luce piombava sopra un lungo tavolone di legno che formava una toilette comune alle otto ballerine e dove erano appoggiati degli specchi, delle catinelle, i vasetti del rossetto, le spazzole, i pettini, le forcinelle, un tavolone lungo quanto la parete dello stanzone e dinanzi al quale stavano le ballerine seminude, semivestite, dandosi il rosso, ungendosi le braccia di cold-cream, provandosi qualche fiore artificiale, qualche fibbia di strassi nei capelli, stringendosi il bustino sino alla mancanza del respiro, per fare la vita piccina. E tutto vi si faceva in una promiscuità bizzarra, fra le smorfie delle più modeste o delle più mal fatte, che si vergognavano di spogliarsi innanzi alle altre, fra le audacie di quelle che restavano in camicia, un’ora, non avendo punto freddo in quel forno, con quel gas, con tutti quei profumi più o meno violenti dei cosmetici. Delle sedie sgangherate su cui erano gittati i costumi dell’Excelsior, alla rinfusa: lungo il muro vuoto, degli appiccapanni a cui erano sospesi i vestiti di città delle ballerine, per lo più assai poveri, alcune perchè non volevano sciupare la loro buona roba in quella stanzaccia, altre perchè non avevano nulla di decente per vestirsi, tormentate dalla misera paga, dal peso di famiglia, dagli amanti che non davano loro un soldo. Fra le otto ballerine della terza fila, solo Carlotta Musto e Marietta Sanges, che avevano degli amanti serii e relativamente generosi, avevano delle sottanine di seta e dei busti di colore: le altre sei avevano deposta della biancheria grossolana, delle calzette di cotone, dei busti da tre lire e cinquanta. Filomena Scoppa, già famosa per la sua onestà e per la sua sudiceria, aveva una sottana tutta infangata sospesa al chiodo e, per terra, delle calze, che facevano schifo:
— Ma tu, ti lavi la faccia? — le gridava Checchina Cozzolino, tutta nauseata di quel suo viso gonfio e biancastro, simile a una vescica.
— Pensa alle tue sudicerie! — le rispondeva insolentemente Filomena Scoppa.
Erano tutte più o meno nervose, più o meno furiose, in quella giornata di carnevale, quando tutti si divertivano, o, almeno, tutti si riposavano ed esse erano costrette a ballare due volte, di giorno e di sera, non mangiando che un boccone, disperatamente, fra le due rappresentazioni o restando digiune sino alla una dopo mezzanotte, avendo dovuto lasciare gli amanti, la casa per venire a saltellare in cadenza: quelle rappresentazioni di giorno, fatte per i ragazzi condotti dalle loro bambinaie, fatte per le famiglie della piccola borghesia, per un pubblico odioso, che esse odiavano. Meno male, la sera, coi loro corteggiatori in poltrona, con tutti quei gentiluomini più o meno ricchi che ognuna di loro sperava di conquistare, di strappare alle ballerine fortunate delle prime file, di strappare alle duchesse, alle contesse, alle marchese della grande società: meno male! Varie, intanto, dalle prime file mancavano, erano restate a casa, facendosi multare, infischiandosene dell’impresa, sostenute da innamorati ricchi e superbi: l’Excelsior, di giorno, sarebbe stato irriconoscibile.
— Concetta Giura non vi è, — disse Carlotta Musto, rispondendo a una domanda di sua sorella Rosina. — Beata lei, che può farlo.
— E tu non potresti farlo? Che te ne importa di ballare?
— Me ne importa... me ne importa, — rispose, con aria di segretezza, Rosina, che non voleva mai narrare i fatti suoi.
— Intanto quella è a Sorrento col duca di Sanframondi... non ritorneranno che stassera.
— Ci spende molto, Sanframondi?
— Molto: ma non come una volta, — replicò Carlotta che era sempre la meglio informata.
Due o tre di esse sospirarono: Checchina Cozzolino, che non aveva mai due soldi in tasca, mormorò:
— Malann’aggia la mia brutta sorte!
Si bussò violentemente alla porta del camerone: era ora di uscire in scena, pel primo quadro. Vi fu un clamore, nessuna era pronta, tutte si affannavano, scappavano una dietro le altre, verso il palcoscenico, sollevando un’acre polvere, raggiustando le spalline del bustino con quel moto familiare delle ballerine, dandosi dei colpetti sulle gonnelline di velo troppo sbuffanti, assicurandosi le forcinelle nei capelli. Carmela Minino era stata una delle prime: taciturna, con la sua aria apatica, ella era sempre pronta, sempre al suo posto.
Rientrarono tutte, in gran fretta, per cambiarsi di vestito: quel dannato Excelsior porta sei cambiamenti di vestiti per tutto il corpo di ballo, una cosa da dannarsi: con la recita della sera, facevan dodici mutamenti! Avevano ballato assai male, trascuratamente, sapendo che tutto era buono, per il pubblico diurno, di festa, di carnevale. Ma il direttore del ballo, nelle quinte, le aveva strapazzate con ingiurie brutali, come faceva sempre, del resto, per ogni piccola cosa. Esse si lagnavano, strillavano:
— È una cosa da crepare!
— Quando finisce, quando?
— Vorrei andare a spazzare le vie e non fare la ballerina!
— Felice chi può non farla!
Carmela Minino taceva: ma il suo povero cuore soffocava i sospiri della tristezza, di una vana e vaga tristezza, in quel giorno festivo, in quel camerone ardente, fra quegli odori e quelle puzze, fra quei gridi, quelle voci roche, quelle parole talvolta laide, spesso oscene.
Ella sentiva, sì, profondamente l’umiltà, la miseria, la limitazione gretta, la mancanza d’avvenire migliore della sua professione: ne sentiva tutta la gaiezza apparente e tutta la malinconia interiore: ne sentiva tutta la immancabile corruzione in cui la virtù, l’onore, il decoro, il pudore dovevano, un giorno più vicino o più lontano, necessariamente naufragare: ma non vedeva via di scampo; che altro avrebbe ella mai fatto, se non ballonzolare, in una delle ultime file della grande danza, vestita da giapponese, da almea, da paggio? Che altro sapeva ella mai fare, se non questa sola cosa e neanche benissimo, ma tanto da averne il pane e il tetto? Tutte sognavano o un gran matrimonio o un terno al lotto o più praticamente un amante dovizioso e largo: ma ella, Carmela Minino, nulla di nulla.
— Neppure Emilia Tromba vi è! — esclamò Margherita de Santis, la sottilissima, sempre malata, che pareva sempre dovesse spezzarsi in due.
— È a Sorrento, anche lei, con Concetta Giura, — rispose subito Carlotta Musto, che era la cronista meglio informata.
— Con Ferdinando Terzi, naturalmente, — mormorò Marietta Sanges, la biondona enorme, che odiava il suo mantenitore, un notaio sessantenne.
Le palpebre di Carmela Minino batterono due o tre volte, vivamente: le mani che allacciavano il giubbetto di fattorino telegrafico, del quadro dell’Ufficio telegrafico, tremarono e si fecero molli.
— Che ti pare! — proruppe Checchina Cozzolino, la poverissima, la invidiosissima. — Quello non la lascia mai; Emilia se lo mangia vivo.
— Perchè lui vuol farsi mangiare, — soggiunse Carlotta Musto, che aveva una vecchia esperienza di uomini e a cui tutte chiedevano consiglio — ma non le vuol bene.
— Ma non le vuol bene, vi dico. Vuol bene a una signora, maritata... con un marito geloso... un guaio...
Carmela Minino si sedette un momento. Tutte queste cose ella le sapeva: le aveva intese dire, varie volte, sul palcoscenico: le aveva udite sempre avidamente, ricevendone sempre una grande emozione. Ma, ora, esse erano dette più spesso, con insistenza.
— Con questo marito geloso, Ferdinando Terzi può anche avere qualche disgrazia... — soggiunse Carlotta Musto assicurandosi il berretto da fattorino sui capelli e pigliando il telegramma che doveva tenere in mano.
— Ed Emilia Tromba resta sul lastrico, — gridò trionfalmente Checchina Cozzolino.
— Dio sia lodato! — strillarono due o tre altre.
Non avevano bussato, per andare in scena? Così parve a Carmela Minino che aprì la porta del camerone ed uscì: affogava, si sentiva svenire in quel caldo. Non avevano picchiato: si era ingannata. Respirò un po’ meglio, sola, appoggiata a uno stipite, stringendo al petto il suo falso dispaccio, come se fosse una lettera amorosa. Del resto, bisognava correre di nuovo, dopo due o tre minuti, per ballare un grande galoppo furioso, insieme alla prima ballerina, Antonietta Bella, che aveva una stella elettrica nei capelli neri e che faceva sprigionare delle scintille elettriche dalla sua cintura: ma le gambe di Carmela Minino sempre poco svelte, in quel galoppo furono così deboli! Per poco, spinta dalla Mastracchio frettolosa, non cadde contro una quinta: si graffiò una mano, contro un chiodo.
Erano le otto. Lo spettacolo diurno era terminato dieci minuti prima e nella sala la illuminazione era abbassata. Sul palcoscenico, un po’ fiaccamente, lavoravano i macchinisti per preparare la prima scena del Lohengrin, il gran campo sulle rive della Schelda, dove viene a render giustizia Enrico l’Uccellatore. Fra le quinte, nei corridoi, su per le scale che conducevano ai cameroni delle coriste, dei coristi, delle comparse, era un andare e venire, un salire e scendere, affrettatamente per quelli che scappavano a godere un’ora di libertà, pian piano per quelli che restavano in teatro, quelli che abitavano lontano, che non avevano soldi per andare al caffè o alla cantina. Varie ballerine si erano rivestite in fretta ed erano fuggite da quella porta a sinistra, innanzi alla quale tanti uomini hanno atteso, da che San Carlo è stato costruito e delle donne vi hanno cantato e ballato. Altre erano restate in teatro, avendo accomodato diversamente la loro giornata, non valendo la pena di uscire dal teatro, per così poco tempo: e passeggiavano, chiacchierando fra loro. Alcune altre si eran gittate sopra una sedia, come estenuate e guardavano il soffitto altissimo, fra le quinte, come aspettandone Dio sa che cosa: alcune mangiavano.
Le due sorelle Musto si erano fatte portare un po’ di pranzo dalla casa: della lasagna con sugo di carne, il piatto carnevalesco, imbottita di ricotta, di salsiccia, di formaggio, e delle fette di polpettone nuotanti nella salsa rosso-brunastra del ragù: mangiavano in un cantuccio del loro camerone, sovra un angolo della tavolata che serviva da toilette alle otto ballerine, fra i vasetti del rossetto, le catinelle piene di acqua sporca, e le forcinelle unte, e i batuffoletti dei capelli di quelle che si erano pettinate in teatro, dal parrucchiere Furlai. Esse mangiavano lentamente, in silenzio, il il loro grasso pranzo napoletano; avevano invitata Checchina Cozzolino, che non aveva portato nulla, seco, a cui nessuno aveva portato niente e che, per superbia, per nascondere la sua orribile povertà, aveva dichiarato seccamente di non aver fame; avevano invitata Filomena Scoppa, ma ella aveva rinunziato ridendo, ed era discesa in istrada, da un piccolo trattore del Vico Rotto San Carlo, dove aveva comperato tre soldi di alici fritte e due soldi di pane. Ora, aperta la carta unta delle alici, sulle ginocchia, la sudiciona che era, le mangiava con le mani tutte lucide di olio, gittando le spine per terra. Le sorelle Musto, molto gentilmente, avevano invitato Carmela Minino che anche era restata, ad assaggiare almeno una lasagna: la madre delle Musto era famosa per questo piatto e lei non doveva dire di no! Pure Carmela Minino disse no, sempre cortesemente, sostenendo che aveva lo stomaco chiuso: un’altra volta, sì, ma quella sera, proprio, non poteva accettare quella gentilezza. Anzi, per evitare le insistenze delle due sorelle Musto, ella uscì, a passeggiare un poco, sola nella penombra di quella viottola che divide i cameroni e i camerini, a diritta e a sinistra. Vi restò un poco: quando rientrò, le due sorelle finivano di mangiare il largo piatto di lasagne e si servivano due fette di polpettone, della carne pesta infarcita di mollica di pane, di uova dure, di pinoli, di uva passa. Cautamente, da dietro il suo cappello, ella prese il pacchetto dove il pane e la carne erano pulitamente avvolti in un giornale, insieme ad una mela rossa, e senza schiuderlo, andò via, novellamente, a mangiucchiare lontano, verso la porta che conduceva al palcoscenico per timidità, per segreta fierezza, non aveva accettato l’invito delle Musto, anche perché non poteva mai render loro una simile amabilità, ma qualche cosa, per non basire di fame, sin dopo mezzanotte, ella doveva pur mangiare. Passavano delle coriste, delle comparse, dei facchini, di scena, sogguardandola con quella famigliarità del lavoro comune, del destino comune, con quella impertinenza che danno il palcoscenico e le quinte: ella abbassava gli occhi e si fermava dal masticare, vergognandosi. Divorò a grossi bocconi la mela, non sapendo ove gittarne il cuore, senza che niuno la vedesse: circolava sempre gente. Risalì verso il fondo oscuro del palcoscenico, gittò anche il giornale, in un cantoncello. Ridiscese: aveva sete. Giusto, Maria Amen, una piemontese di prima fila, aveva chiesto al caffettiere del teatro un Vermouth con l’acqua di Seltz: il garzone se ne andava via, quando Carmela Minino gli chiese, per piacere, un bicchier d’acqua: egli si fermò e gliela versò. Gli diede un soldo: il garzone glielo restituì, galante dichiarando:
Quanto era lunga, l’ora! Almeno, per l’ora e mezzo che dura l’Excelsior, quel vestirsi e svestirsi, quel correre sul palcoscenico, quei valtzer, quei galoppi, quel ritornare al camerone, la fretta continua, l’affanno invincibile sebbene monotono, occupavano il tempo: ma l’attesa, fra uno spettacolo e l’altro, ma l’attesa, durante lo spettacolo musicale, in quegli androni di legno, polverosi, la cui polvere non è mai vinta dall’acqua che vi si getta, sempre, la cui polvere attacca e dissecca la gola e le fauci, quegli stanzoni così caldi, pieni di pulci, esalanti ogni specie di profumo ed ogni specie di nauseante puzzo, l’attesa inutile, quel perdere il tempo così, gittavano Carmela Minino in un crescente ebetimento. Talvolta, aspettando, seduta in un cantuccio del teatro, ella aveva portato seco un lavoro all’uncinetto, delle stelline di cotone bianco che dovevano, unite, in un numero strabocchevole, formare una grande coperta, per letto a due posti. — Non aveva ella, qualche volta, vanamente sognato di maritarsi, con qualche umile, oscuro lavoratore? — e le sue dita si erano mosse alacremente, intorno a quella fatica di ragazze del popolo: ma ella aveva avuto le beffe delle amiche e delle compagne:
— Perché non porti addirittura la calzetta, a teatro? — le gridavano, sogghignando sulla sua miseria onesta, sulle sue occupazioni di popolana.
Aveva smesso. Altre volte, quando il suo spirito era più tranquillo, in quelle ore di aspettativa che la direzione del teatro le infliggeva quando la sua schietta anima non aveva turbamenti strani, ella mentalmente, tenendosi la mano nella tasca del suo vestito dove portava sempre il rosario, ne recitava le Ave Maria, i pater noster e i Gloria Patri: anzi, ella recitava il rosario, doppio, quello di quindici decine, per cui si libera un’anima dal Purgatorio, pronunziando con molto fervore, sempre fra sè, i misteri gloriosi e i misteri dolorosi, a ogni decina. Ah, ora, no! Ella era profondamente distratta, da qualche tempo, e non ritrovava più la bella calma, la bella attenzione degli anni trascorsi: la preghiera le usciva monca, fredda dallo spirito, come un vacuo esercizio. Una profonda amarezza era in lei. Aveva gà ventiquattro anni; fra scuola di ballo, e ballo in teatro, stava già sulle scene da dodici anni, senza che mai nulla di bello, di dolce, di soddisfacente fosse venuto a consolare, prima, la sua adolescenza, poi, la sua giovinezza. Anzi, in quel periodo, due dolori l’avevano colpita: la morte di sua madre e la morte di Amina Boschetti. Certo, per una singolarità incomprensibile, ell’aveva sofferto assai più per la morte della sua protettrice, della sua fata, che per quella della madre; ma, infine, aveva perduto tutto quello che amava. Ventiquattro anni, di già, fra tre o quattro mesi: niente che accennasse a un miglioramento, a un sorriso della vita, a un riposo dell’anima e del corpo. Come, come si sentiva stanca, in alcuni momenti, che bisogno fisico di dormire molto, di mangiare un po’ meglio, quietamente, senza strozzarsi, di vestirsi come una persona per bene, di aver caldo sotto una buona giacchetta, sotto una buona mantellina, che bisogno di vivere, di vivere umanamente, come una giovane donna che fa una professione d’arte e non come una serva dal grossolano lavoro! Queste idee di tentazione, questi desideri corruttori costantemente ella li respingeva: costantemente, essi ritornavano ad assalirla, ricondotti dall’età che era quella dei godimenti materiali, ricondotti dalle lunghe e ostinate privazioni, ricondotti, ogni giorno, ogni sera, dai contatti col teatro, con le altre ballerine, specie con le belle, graziose, fortunate delle prime file, che avevano dei banchieri, dei conti, dei marchesi che si rovinavano per loro. Come dire devotamente il rosario, in quell’ambiente di vizio oramai ingenito, costituzionale, su quel palcoscenico che era, ingenuamente e turpemente, un mercato di bellezza e di gioventù? Una volta, quando ella aveva diciotto, venti anni, con quel grande timor di Dio che le veniva dal suo cuore popolano, dalle chiese intorno alla Pignasecca che l’avevano assidua frequentatrice, dal suo confessore, don Giovanni Parascandolo, il rettore della chiesa dello Spirito Santo, un piissimo e rigoroso sacerdote, dall’ambiente del Vicolo Paradiso, in cui ella abitava da piccina, Carmela Minino poteva dire le orazioni del rosario, anche fra una recita e l’altra della Norma e del Faust, fra una riproduzione e l’altra del ballo la Devadacy. Una volta! Adesso, quando, macchinalmente, in quei giorni di gaudio carnevalesco, ella portava la mano in tasca per toccare i grani del suo rosario, quando le sue labbra aduggiate principiavano le consuete preghiere, non giungeva più ad immergersi in questa tenera e familiare occupazione dello spirito: subito, la sua fantasia si distraeva in pensieri completamente profani e le sue labbra sibilanti le parole sacre in una quasi mentale ripetizione, s’ammutolivano. Ella pensava a cose assai profane: alle lettere amorose di Roberto Gargiulo a cui non rispondeva, ma che leggeva con una certa compiacenza, come tutte le donne che sono sempre lusingate di ricevere un biglietto d’amore, anche da persone che non amano e che non vorrebbero mai amare: alle sottane di seta di Carlotta Musto e di Marietta Sanges sospese al chiodo del camerone e messe in mostra con ostentazione: al suo busto di traliccio bianco, comperato da Carsana a due lire e settantacinque e che tutto consunto, spezzato nelle balene dei fianchi, le faceva una vita enorme, non potendolo troppo stringere, perchè le balene spezzate le sarebbero entrate nella carne: a quel pranzo di Concetta Giura col duca di Sanframondi, di Emilia Tromba con Ferdinando Terzi di Torregrande, a quel pranzo di Sorrento dove, certo, i due gentiluomini avevano trattato le due ballerine con la loro signorilità e la loro generosità abituale, riempiendole di buoni cibi, di vini forestieri, di dolci, innanzi a una candida mensa, coperta di fiori, innanzi al mare sorrentino che Carmela Minino conosceva bene, essendovi andata un giorno, con un’altra ballerina, scritturata come lei allo Stabia Hall di Castellammare, in un giorno di estate, ma vi erano andate sole e avevano rosicchiato alcune gallette di Castellammare, che costano tre un soldo; ed anche ad Amina Boschetti, ella pensava, che era vissuta fra i più grandi splendori di lusso, che era stata imbalsamata come una regina e che aveva portato nella tomba di Poggioreale, intorno al suo bianco collo, una collana di grosse perle, a sette fili; un dono di Otto Schulte, il tedesco innamorato, un dono di cinquantamila lire.
Già, nelle quinte, si udiva il clangore delle trombe con cui gli araldi di Enrico, re di Germania, chiamano, dai quattro punti cardinali, i cavalieri che vogliono scendere in campo, per l’onore di Elsa di Brabante, accusata di maleficio dal traditore Telramondo. Carmela Minino si levò, con un sospiro, dal cantuccio dell’androne, ove si era seduta e si avvicinò alle quinte. Erano le nove di sera: la seconda edizione dell’Excelsior non sarebbe incominciata se non alle undici. Ella portava il suo vestitino di panno azzurro cupo, il migliore che possedeva, il primo che si era fatto, smesso il lutto di sua madre; al collo aveva una sciarpa di merletto crema con un grosso fiocco, su cui aveva fermato lo spillo d’oro, uno spillo formante due cuori legati da una catenella, un dono antico della Boschetti, gittatole in grembo, un giorno, molti anni prima, quando la divina danzatrice la incontrava nella sua anticamera e innanzi ai grandi occhi sgranati nell’ammirazione istupidita della bimba, la leggiadrissima donna sorrideva; dono conservato con cure specialissime, strofinato sempre con un vecchio guanto, per far uscire il lucido dell’oro e che all’immaginazione della povera corifea simboleggiava il legame per la vita e oltre la tomba, fra la Boschetti e lei. Le guance di Carmela Minino erano cariche di rossetto, quella sera; ella ne metteva sempre molto, perché era molto bruna, molto pallida, di carnagione opaca; anzi se ne era fatto prestare un poco da Margherita De Santis, la malatina che ne portava sempre molto, anche lei pallidissima, non per temperamento, ma per l’anemia che le divorava la vita. Appoggiata a una quinta, essendosi gittato sulle spalle il suo scialletto di lana bianca, lo scialletto caratteristico di tutte le ballerine napoletane, che esse lasciano sempre in teatro, in cui esse si avvolgono, nelle quinte, fra una danza e l’altra, sempre sudate, sempre scalmanate, per garentirsi dalle orribili correnti d’aria di quel palcoscenico. E, quasi senza udirle, le arrivavano all’orecchio le note wagneriane eccelse, con cui si annunzia il miracolo, l’arrivo inaspettato e stupefacente del Cigno, del Cigno che porta il cavaliere del San Graal, chiuso in un’armatura di argento luccicante.
Era così assorta, quando uno scoppio di risate la colse alle spalle: risate femminili forti e sguaiate. Dalla porticina che mena, dopo il gran corridoio di pietra, prima a larghi scaglioni, poi con un piano ascensivo, dalla porta di entrata, sino sul palcoscenico, erano giunte in teatro le due mancatrici della rappresentazione diurna, le due gitanti di Sorrento, Concetta Giura ed Emilia Tromba. Arrivavano, un po’ ansanti, accaldate, con le guance rosse assai, con un balenio negli occhi e rispondevano, schiattando dalle risa, al direttore del palcoscenico, che erano state malate, tutto il giorno, col medico accanto al letto, poiché avevano uno spaventoso male... e ridevano, ridevano, come matte, stringendo dei fiori freschi sul petto.
— Sì, sì, lo so io il vostro male, care ragazze, — gridò il direttore. —. Ora vi applico io il rimedio! Un bel cataplasma vi voglio applicare, una multa di cinque lire, eh, per ciascuna!
— Ma noi avevamo il male di ndì ndo! — finse di piagnucolare Concetta Giura.
— Cinque lire di multa, belle figliuole, cinque lire! — gridò ancora lui, che si seccava di essere burlato da loro.
— Io le do in elemosina cinque lire, — disse Emilia Tromba, annusando i suoi fiori.
Il direttore crollò le spalle, allontanandosi, per non dire delle ingiurie più forti alle due insolenti. Concetta ed Emilia scoppiarono di nuovo a ridere, con quel clamore bestiale del riso muliebre sforzato e laido. Concetta Giura era veramente una bella creatura, bianchissima, coi capelli color rame, alta e snella, ma pure rotonda in tutte le sue linee, con un paio di occhi grigio-acciaio, assai vivi, scintillanti; di giorno, certo le macchie di lentiggini onde era cosparso il volto si vedevano molto; le sue mani ed i suoi piedi non erano fini, malgrado che vi adoperasse cure quotidiane, ma che importa, ella era bella, giovane, freschissima! Vestiva quasi sempre di nero, molto riccamente, coperta di merletti e di fais, in estate, portando il velluto e il raso, d’inverno, volendo assolutamente avere un aspetto distinto, volendo imitare le grandi dame che incontrava nelle vie, di cui vedeva i profili nei palchi di San Carlo e specialmente la duchessa di Sanframondi, la moglie del suo amante, un angelo di virtù; quando taceva, talvolta, con la rossa bocca composta e chiusa sul volto bianco, con le palpebre socchiuse nell’atto della indifferenza, arrivava, quasi quasi, per un momento, ad aver l’aria per bene. Ma se apriva la bocca, la sua voce gutturale, canagliesca, le sue inflessioni e le sue parole in dialetto napoletano, non nel dialetto pretenzioso borghese mescolato di storpiate frasi Italiane ma il dialetto del trivio, le espressioni volgari e spesso francamente oscene, facevano fuggire ogni illusione. Eppure Sanframondi, dicevano, se ne era innamorato e l’amava appunto perché ella parlava così e diceva quelle cosacce. Quando il suo angelo di moglie lo aveva troppo seccato con la sua virtù, con la sua castità, con la sua rassegnazione serena di vittima cristiana, egli andava a trovare Concetta e la pregava di dirgli quattro buffonate, come sapeva dir lei, nel gergo più corrotto di Basso Porto. Ella fingeva di offendersi; protestava; pretendeva di esser chiamata Tina, diminutivo elegante di Concettina, e non Concetta; ma conoscendo che il solo segreto di seduzione, oltre la sua persona, sul duca di Sanframondi, era la sua canaglieria, si lasciava andare. Sanframondi si sganasciava dalle risa, l’abbracciava, la sbaciucchiava, felicissimo, obliando la duchessa, il duchino e la duchessina, le perdite al giuoco e i debiti di cui si copriva. Giusto quella sera, Concetta Giura aveva un sontuoso vestito di raso nero e un grande spillo al collo, un fermaglio a foggia di ferro di cavallo, tempestato di brillanti e zaffiri che, quella mattina, Sanframondi le aveva appuntato al collo, aiutandola a vestirsi. Emilia Tromba era un altro tipo, molto bianca, con capelli nerissimi e folti, con certi stupendi occhi neri tagliati a mandorla, con una bocca espressiva nel sorriso e con un gran naso adunco che le guastava il viso, ma di cui ella si teneva molto, dicendo che era un naso nobile; sua madre, la fruttivendola del Cavone, doveva aver peccato con un gran signore. Grassotta, non alta, aveva delle spalle e delle braccia magnifiche, non portava mai busto e lasciava a posta che nella danza, talvolta, si scomponessero i suoi capelli stupendi. Portava, quel giorno, un elegantissimo vestito di velluto grigio, guarnito di rara e ricca pelliccia chinchilla; vi aveva messo su un mantello identico, tutto foderato di pelliccia e aveva un gran cappello nero piumato ed era coperta di braccialetti, di anelli, di spilli, di spilloni, di fibbie, un mondo di gioielli. Però tutta questa roba le stava male addosso, come tutti i vestiti che ella portava, alla carlona, trascurata, coi merletti delle balayeuses lacerati; il suo bel vestito era macchiato di champagne, innanzi, ed ella aveva schiacciato un dolce, un cioccolatino sotto il suo gomito. Col cappello storto, odorando i fiori, la rozza, tumultuosa, screanzata amante del corretto, fine e taciturno Ferdinando Terzi, interpellò la povera Carmela Minino, che si stringeva addosso il suo scialletto di lana bianca, già lavato tre volte e che era gialliccio, oramai:
— A che ne stiamo, Minino?
— Finisce il primo atto dell’opera, donna Emilia, — mormorò l’altra, a occhi bassi.
— Siamo venute troppo presto, Concettì! — esclamò Emilia, — potevamo restare fuori ancora.
— Hai ragione Che peccato! Ce ne andiamo?
— Ma che! Con chi? Dove? Ferdinando e Luigi sono andati via! Non torneranno che a prenderci. Tu sei venuta, oggi, Minino? — chiese Emilia Tromba.
— Sissignora.
— E perché? Non potevi far festa? Far festa con qualcuno che ti volesse bene?
— Io non posso far festa: cinque lire di multa mi rovinerebbero, — rispose Carmela, che era diventata mortalmente pallida, sotto il suo rossetto.
— E chi ti vuol bene non le potrebbe pagare? — soggiunse Emilia, che amava perder tempo in quella, conversazione fra le quinte.
— Chi mi vuol bene, donna Emilia? Chi volete che mi voglia bene? — e un accento di dolore scoppiò nelle sue parole.
— Eh, qualcuno lo avrai! Proprio nessuno?
E tutta la poca vanità femminile che era in Carmela Minino, ebbe come una frustata.
— Qualcuno... forse... — sussurrò. — Vi sarebbe qualcuno...
— E deciditi, va, figliuola mia — esclamò maternamente la corruttrice. — Buttala via questa zitellanza! Che ti serve? Che ne fai? Per Gesù Cristo! A tempo e ora, ti penti dei peccati, e muori in santità, come farò io. Per il mondo? Il mondo si ride di te, perchè sei zitella. Se non ti decidi adesso, quando aspetti? Bella non sei, già è inutile dir bugie, tu lo sai; se non profitti di un poco di gioventù, nessuno ti vorrà più; quando è passato questo tempo...
Invano rattenute, delle grosse lacrime cominciarono a scorrere sulle guance di Carmela Minino, singulti le soffocavano la gola.
— E perchè piangi, adesso? Che ti è successo? — strillò Emilia Tromba.
— Niente… niente, — arrivò a balbettare Carmela, fra i singhiozzi.
— Prendi, prendi, per consolarti un poco. Me li ha dati, oggi, a Sorrento, Ferdinando Terzi, il mio innamorato.
Emilia Tromba aprì un sacchetto di dolci, mezzo vuoto, ne fece cadere sulla mano dei cioccolattini, ne diede un pugno a Carmela, dicendole:
— Mangia, mangia, e non pensare a guai.
Allontanandosi, verso il camerone, a capo basso Carmela Minino teneva preziosamente distesi sulla mano aperta, i cioccolattini che Ferdinando Terzi aveva donati alla sua amante Emilia Tromba, quel giorno a Sorrento, e che Emilia aveva dati a Carmela per pietà delle sue misteriose lacrime. Carmela non mangiò quei dolci. Trovò un pezzetto di carta e ve li ravvolse cautamente, per non romperli, per conservarli intatti. Ancora qualche lacrima le guastava il belletto.
Il ballo finì a mezzanotte e tre quarti. Le otto ballerine si rivestivano in silenzio, frettolose, vinte dalla noia, dalla stanchezza, dal sonno, annodandosi busti e sottane con certe mani rapide, coi volti bianchi di chi dorme di già. Uscivano di lì, ad una ad una, salutandosi brevemente, con un saluto secco; alcune, sollevando i colletti delle giacchette e delle mantelline, altre annodandosi delle sciarpe al collo, quasi tutte portando una borsetta dove tenevano i pochi gioielli d’oro, d’argento dorato, di cui si erano adornate. Attraversavano in silenzio i corridoi delle quinte. sogguardando appena il palcoscenico dove si aggiravano delle ombre di scenografi, di macchinisti, di facchini, urtandosi, nell’andar via, con tramagnini, con comparse del ballo che, tutti, si affrettavano alla porta, per correre a casa. Carmela Minino usciva anche lei, affranta, con le gambe spezzate da quelle tredici ore di permanenza in teatro, crucciata dall’idea del cammino che doveva fare a piedi, sola, nella notte d’inverno, per giungere sino alla Pignasecca e quasi quasi, rallentava il passo. Nell’androne, dove vagolava la luce di un solo becco a gas, fra tutti quelli che escivano, vide, ferme in un cantone, presso al muro, Emilia Tromba e Concetta Giura. Avevano dato uno sguardo di fuori e avevano visto, le due, che i loro amanti non erano giunti ancora. Sanframondi non doveva accompagnare a casa quella sua eterna moglie? Ferdinando Terzi non aveva altri doveri di società, un altro legame amoroso con una dama, cosa di cui Emilia Tromba, per prudenza, non parlava mai? Le due ballerine aspettavano, anch’esse un po’ stanche. Carmela Minino si trattenne un poco, anche lei, a chiacchierare con la Mastracchio che, essendo la figliuola di un ballerino, aspettava che suo padre fosse disceso per andarsene insieme a casa.
in questo, un rotolìo di carrozza si udì fuori la porta, e due gentiluomini ne discesero, chiusi nelle lunghe pellicce. Erano Sanframondi e Terzi. Il primo aveva l’aria annoiatissima il secondo conservava quel suo contegno glaciale, che veniva dal volto aristocraticamente affilato, dai baffi fini e biondi che covrivano una bocca fine e mai sorridente, simili a un cielo terso e freddo, senza sole. Subito, le due ballerine si misero a far gran rumore, protestando perchè avevano aspettato.
— Andiamo, andiamo, — mormorò Sanframondi, infastidito, col viso tutto storto, sotto la lente a un sol occhio.
Quella coppia partì per la prima, dopo aver salutata l’altra, parlando di un convegno per l’ultimo di carnevale. Emilia Tromba e Ferdinando Terzi si attardavano, Emilia verificava se nella sua borsetta vi fossero tutti i suoi gioielli, ne trovava uno mancante... Terzi, impassibile, fumava la sigaretta.
— Minino, avevo stasera il mio trifoglio di brillanti, sul petto? — strillò Emilia a Carmela Minino che, non sapeva neppur ella il perchè si tratteneva ancora là.
— No, non lo avevate, donna Emilia, — disse Carmela, avvicinandosi.
— Ah! Va bene, grazie, mi hai rassicurata. Questa è Carmela Minino, una compagna, Ferdinando.
Il conte di Torregrande si degnò appena di fissare uno sguardo fuggevole sulla ballerina che stava lì, tremante, muta, in una grande angoscia indefinita.
— Senti, Ferdinando. — disse Emilia Tromba, avvicinandosi all’orecchio dell’amante, mormorandogli una cosa e sganasciandosi dalle risa.
Carmela Minino aveva udito perfettamente che Emilia Tromba gli aveva soggiunto, fra le risate scomposte: «è ancora zitella». E, distintamente, Ferdinando Terzi, guardandola un minuto secondo con quei suoi occhi taglienti, acuti, sprezzanti, disse:
— Che sciocca!
Carmela Minino sentì mancarsi la terra sotto i piedi. Emilia Tromba prese il braccio di Ferdinando Terzi, poichè ella affettava sempre, per posa, una grande familiarità col conte di Torregrande e uscì nel peristilio del teatro. Carmela Minino li seguì, a tre passi di distanza, e vide che Ferdinando Terzi, galantemente, con una galanteria altiera e taciturna, apriva lo sportello del suo coupé per farvi salire Emilia. Lo sportello si richiuse dolcemente, il cristallo si sollevò, il cavallo scalpitò in cadenza, con quel passo dei cavalli di sangue, il bell’equipaggio sparve, nella notte mentre una nebbia scendeva sugli occhi di Carmela Minino. Ferma, sulla porta, ella guardava la notte oscura, senza veder nulla.
— Donna Carmela, donna Carmela — le disse una voce maschile, innanzi alla porta.
Era Roberto Gargiulo che l’aveva attesa, colà, fra tanti altri amanti, innamorati, corteggiatori, che si affollavano innanzi a quell’uscio, famoso nella galanteria napoletana.
— Che volete… che volete, don Roberto?... — balbettò ella, senza fiato, senza forza, piena d’un dolore ignoto.
— Volevo una risposta... perchè non mi rispondete?
— Che vi debbo rispondere?... Buona notte, don Roberto, — disse, a voce fioca, Carmela Minino, cercando strapparsi di là.
— No, no, fatevi almeno accompagnare sino a casa... è così tardi... siete sola... non ho coraggio di lasciarvi andar sola, a quest’ora, — replicò Roberto Gargiulo, che pareva ed era commosso.
— Non istà bene… non istà proprio bene... — aggiunse, con un’ultima resistenza, Carmela Minino.
— Siete così stanca! Prendiamo una carrozzella, donna Carmela andiamo, via, in carrozzella si arriva presto vi lascio alla porta.
— Andiamo, — disse Carmela Minino, decisa.