Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
La ballerina
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III

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III

 

— Ti conduco a cena questa sera — le disse Roberto Gargiulo, quando furono giunti in piazza San Ferdinando.

Ella si fermò un minuto, interdetta. Segretamente, non amava quelle cene notturne, dopo la fatica del ballo, in qualche trattoria di Toledo, dove si trovavano i lumi abbassati e i camerieri sonnacchiosi, dove si incontravano altre ballerine, con gli amanti, altre donnette di genere equivoco con nottambuli ostinati, coppie formate da una lunga e già stanca consuetudine o formate dal caso, in una serata, destinate, queste ultime, a non vedersi più, forse a non ritrovarsi mai più. D’altronde più la gente la vedeva con Roberto Gargiulo, in quella relazione che egli ostentava con tanta ampiezza, più ella, assai intimamente, ne soffriva di un dolore sottile, penetrante, continuo: faceva la bocca da ridere, la sua fronte restava serena ma pativa mille trafitture interiori.

Dove vuoi andare? — ella chiese, senza dimostrare per nulla la sua tristezza.

— Alla Regina d’Italia rispose Roberto, mentre seguitavano il loro cammino a piedi, su per Toledo.

Restiamo poco, è vero? — ripigliò lei, con accento affettuoso.

Perchè? Hai sonno?

— … Anche per te; non devi essere presto, domani, al magazzino?

Dimentichi che domani è domenica, Lina?

— Ah sì! Hai ragione.

E sospirò. Quello che le piaceva, nel suo istinto sentimentale, era di andar a pranzo fuori Napoli, la domenica, in una di quelle piccole osterie di Posillipo, insieme a Roberto: innanzi a quel bel mare napoletano che ella vedeva così di rado, abitando in un quartiere interno e lontano, uscendo solo per andare alla prova, in teatro, o alla rappresentazione istessa. Piccole osterie piene di gente borghese e popolana, ignota a lei, essa ignota a loro: nessuno che la notasse, che la riconoscesse che mormorasse qualche cosa, vedendola passare. Assai meglio le osterie modeste, umili, delle colline napoletane, sul Vomero, sulla collina di Villanova, sul Campo di Marte, dove, addirittura, era un pranzar rustico, fra popolani. Ma Roberto Gargiulo non era un sentimentale ed era, sovra tutto, desideroso di compagnie eleganti, o quasi eleganti, desideroso di farsi vedere da coloro che fanno la vita, la notte, giusto per le trattorie di Toledo, dopo i teatri. Ora, con questa cena della sera, la gita dell’indomani sfumava. Gargiulo non aveva molti denari e Carmela Minino si doleva anche di quei pochi che egli spendeva. Per lui, erano molti e a lei sembravano moltissimi.

— Hai fame? — le domandò Roberto, con premura.

— Sì, sì, abbastanzarispose lei, per non essere sgarbata

— Ci vogliamo far fare un magnifico arrosto di mozzarelle, Lina alla Regina d’Italia lo cucinano splendidamentesoggiunse lui, con quel tono importante ed enfatico, con cui qualunque napoletano parla di culinaria.

— Già, è vero. Vi sarà la mozzarella?

— Vi è sempre. È una specialità. Ieri sera, quando ti lasciai, vi salii un momento, per vedere se vi erano amici... don Gabriele Scognamiglio se ne faceva dare una seconda portata.

— Stava , eh?

Sicuro. Con una donnetta, una francese. È un vecchio impenitente.

— Ha denari… è scapolo... allora... — cercò di spiegare lei, nella sua indulgenza.

— Ti ha sempre fatto un po’ la corte, non è vero? — disse, ridendo, Roberto Gargiulo.

— Oh — esclamò lei e arrossì sotto il belletto, — Come a tutte le altre…

— E tu non gli hai dato retta, come le altre

— No, no — rispose lei, in fretta. — Te lo giurosoggiunse poi, guardandolo in viso, con una certa umiltà.

— Non giurare. Ti credo. Lo so che sei una buona ragazza. Se no, non ti vorrei bene —. concluse lui, fattosi un momento pensieroso.

Ella guardò in cielo, mentre continuavano a camminare, in silenzio, verso la trattoria. Una notte stellata di aprile, già tiepidissima: molta gente circolava per le vie, gli uomini con i soprabiti aperti, le donne, avendo allentato le loro giacchette, le loro mantelline, al collo. Erano le ultime sere di spettacolo, al San Carlo: la stagione si era prolungata molto, quell’anno, e il ballo LAvventura di carnevale aveva preso il posto dell’Excelsior, dato in febbraio. Presto Carmela Minino avrebbe avuto del riposo. Ella lo desiderava e lo temeva, anche, questo riposo giacché se rappresentava una vita più tranquilla, era la cessazione di quelle tre lire e cinquanta al giorno. Si parlava di una grande stagione di ballo, al teatro estivo delle Varietà, per giugno, luglio, e agosto; qualche cosa avevano detto pure a lei, ma erano state parole in aria.

— Fa caldo, stanottedisse Roberto, mentre arrivavano,

— Fa caldoapprovò lei.

La loro conversazione, persino nei momenti di amore, si manteneva su questo tono modesto e monotono. Roberto Gargiulo, dotato di quel grossolano e falso brio di certi meridionali, non ne faceva mostra che fra amici, al caffè, al teatro, nella vita di notte: con Carmela Minino egli ridiventava il borghese placido, dall’ingegno lento e torpido: tanto più che la ragazza, piena di buon senso, incapace di dire una cosa scorretta, non aveva nessuno spirito. Ciò, in fondo, faceva piacere a Roberto Gargiulo e lo seccava: privatamente, era contento che Carmela fosse una creatura semplice e buona, ma in pubblico, quando vi erano amici presenti, specie altre coppie di amanti, egli si annoiava che ella non facesse del chiasso, parlando forte, ridendo clamorosamente, dando del tu agli uomini, facendo saltare qualche bicchiere. Per lui, era, certo, un gran vanto e se ne ringalluzziva, di essere stato il primo amante di quella ragazza; avrebbe voluto, però, insegnarle il rumoroso gergo delle ballerine, delle chanteuses, delle altre donnette, quando sono in pubblico. Viceversa, Carmela Minino ammutoliva innanzi alle persone e si contentava di sorridere, cortesemente, dolcemente. Meno male che aveva un bel sorriso!

La trattoria della Regina d’Italia è oltre la metà di Toledo, verso su: è a un primo piano alto, abbastanza alto, quello che si chiama pomposamente primo piano nobile, qui ma l’entrata è da un portoncino, nel vicolo Speranzella, che sale verso i quartieri di Montecalvario, borghesissimi quartieri napoletani. È una trattoria di second’ordine, di molto second’ordine, quasi di terzo: essa è frequentata da studenti, quelli, però, che possono disporre di qualche lira, da impiegati, da viaggiatori di commercio, da provinciali di dimora breve o lunga, qui. Vi si paga una lira e cinquanta la colazione, due lire il pranzo: ma, per quel prezzo, dovuto alla concorrenza, vi si mangia bene, relativamente, con abbondanza, i signori studenti, impiegati, viaggiatori di commercio e provinciali essendo molto esigenti. La Regina d’italia, dunque, è molto popolare e mentre altre trattorie allogate meglio, più nel centro della città, con gli stessi prezzi, languiscono e falliscono, essa mantiene la sua posizione, brillantemente. Giova molto alla sua popolarità l’essere aperta sino ad ora avanzata della notte, cosa che è rara, a Napoli: così che tutti i nottambuli, tutti quelli che hanno una ragazza da condurre a cena, tutti i vitaiuoli, giuocatori che hanno vuotato le loro scarselle, giornalisti e reporters dei giornali notturni, delegati di pubblica sicurezza e agenti segreti, affiliati eleganti della mala vita, camorristi di qualità più fine, in soprabito e guanti chiari, tutti, nella sera, nella notte, dànno una capatina alla Regina d’Italia. Spesso, a ora tarda, vi si trova anche qualche gentiluomo elegantissimo, con qualche compagna molto chic: forse è per desiderio d’incanagliarsi un poco; forse è per cambiare; forse è per un celato criterio di economia; o forse, perché i grandi caffè, i grandi restaurants sono già chiusi.

Carmela Minino e Roberto Gargiulo salirono per la scaletta di marmo, non assolutamente pulita, ma passabile, adorna di una striscia di tappeto, in cocco, che si era assai scolorita e sciupata,

sotto i piedi degli avventori. Sulla soglia, un grosso e alto uomo si presentò loro:

Ostricaro Ostricaro! Volete ostriche?

— Vuoi una dozzina d’ostriche, Lina? — chiese, magnificamente, Roberto Gargiulo, con un fare da ricco viveur.

— No, no — diss’ella, subito, passando avanti.

— Quattro fasolari, signorina; una dozzina di ancini... diceva ancora, monotonamente, l’ostricaro.

Nella prima stanzetta di entrata, che aveva una porta sulla cucina, erano esposte le vettovaglie, sovra una grande credenza di marmo bianco: delle costolette crude, in un piatto enorme; dei polli spiumati e già legati per essere arrostiti; in un grande piatto ovale dei pesci morti, crudi, una spinola, delle triglie, dei calamaretti. E, insieme, dei piatti contenenti un prosciutto cotto, roseo, tagliato a metà e delle salsicce da cuocersi, dei latticini, cioè mozzarelle, formaggi freschi e secchi, frutta fresche e secche: una torta alla romana, cui mancava la metà, faceva mostra di , carica di zucchero, gocciolante di crema. Tutta quella roba cruda e cotta doveva eccitare la fame: ma Carmela Minino abbassò gli occhi, passandovi innanzi.

— Hai visto, Linuccia? vi erano certe triglie grosse così, un amore. Ce le ordiniamo col pomodoro, eh?

Costeranno... — osò dire lei.

— Questo non ti deve importarereplicò lui, subito, un po’ sdegnato. — Questa sera si fa festa.

— E sì, sì, ordina puresoggiunse presto, lei, che non voleva contraddirlo.

Le sale della Regina d’Italia sono come un budello, una dopo l’altra, quattro o cinque sino all’ultima, più grande, che sbuca su Toledo. Roberto Gargiulo lasciava andare avanti, per galanteria, la sua amante e la seguiva, col suo passo elastico di uomo abituato a quei posti, a quelle compagnie, a quelle cene: attraverso quelle sale, tutte stuccate di bianco, mobigliate di reps rosso, con certi divani, lungo il muro, innanzi ai quali erano collocate le tavole, divani lunghi e stretti, molto duri e, insieme, molto sfiancati per le migliaia di persone che vi si erano sedute da anni, con certi specchi dalle sbiadite cornici di oro, Gargiulo sogguardava, qua e , se vi fossero altri vitaiuoli, sue conoscenze, se la gente lo guardasse e lo ammirasse, con la sua aria di finto gran signore, il suo panciotto bianco sotto il thait, la sua catena di oro, e la catenella di argento, dalla tasca del panciotto in quella dei pantaloni, per sostenere le chiavi e il lapis, ultima moda inglese. Nella prima sala, non vi era alcuno. Nella seconda, un solo tavolino occupato da un marito e una moglie certo, di provincia, che dovevano aver assistito a uno spettacolo teatrale; il marito aveva condotto la moglie colà, per darle un’idea delle ebbrezze cittadine; nella seconda, due tavolini, occupati da un giovanotto biondo e fine, venticinquenne, con una ragazza vestita vistosamente, la gonna di un colore, il busto di un altro, un fiocco di un terzo colore al collo, un cappello bizzarro, e le mani rosse e nude, una sartina, o una modista, certo, di quelle che si acconciano coi ritagli delle stoffe che rubacchiano alle clienti — l’altro tavolino da Rosina Musto, la zitellona quarantenne, brutta ma simpatica, goffa ma ballerina provetta, col suo antico e costante amatore, don Pasquale Sambrini, il negoziante di generi coloniali. Mentre Carmela passava, Rosina Musto le fece un cenno affettuoso di saluto.

— Sta sempre con Sambrinimormorò Roberto Gargiulo.

— Si dice... si dice che siano sposati in chiesaosservò Carmela Minino.

— Oh! — esclamò lui, diventato freddissimo.

Eran fermi, nel salone, l’ultimo, il più vasto, che formava angolo, avendo una finestra sul vicolo Speranzella e due balconi sulla via Toledo. Roberto non cenava che . Egli cercava. con gli occhi, quale tavola dovesse prescegliere. Si decise per una, situata giustamente nell’angolo, fra la finestra e il balcone. Mentre si sedevano, il cameriere rianimò i becchi del gas. Carmela, macchinalmente, si tolse la giacchetta di panno, a taglio maschile: apparve con un vestito di casimiro lilla, guarnito di velluto lilla alla cintura, al collo e alle maniche; un dono di Roberto, stoffa, guarnizione, fodera; ella avendone pagato solo la manifattura, giacché non accettava mai un soldo, in denaro, da lui. Anzi, quelle dodici lire di manifattura le erano pesate abbastanza ma non aveva detto nulla, poichè egli era stato così gentile e generoso!

Perchè non hai messo il cappello nuovo? — chiese lui, che la esaminava attentamente.

— Si sciupa tutto, in quel teatro... ella rispose, vagamente.

— Qui non siamo in teatroosservò l’amante.

— Non sapevo... non sapevo che saremmo venuti.

Ella era alquanto cambiata, nell’aspetto. Anzi tutto, un tempo, prima di uscire da teatro, ella si strofinava sempre il volto per toglierne le tracce del rossetto e dei cold cream; ora, per desiderio di Roberto, espresso più volte, ella si rifaceva il viso, prima di venir via, giacché egli odiava le facce pallide e opache come la sua; pure gli occhi erano sottolineati dal kohl, sebbene non ne avessero bisogno e le labbra erano vivificate dal lapis di carminio. A lui piaceva, perversamente, di mostrarsi con una giovane molto imbellettata, sempre tendendo a far prendere la povera, semplice, timida corifea di terza fila, per qualche donna di grande vita di piacere, carica di cosmetici: ed egli stesso le portava tutte quelle pomate, quegli unguenti, quelle polveri. Ella aveva un paio di guanti portabili, una catenina d’oro con la crocetta al collo, un paio di orecchini, falsi — ma ben imitati — di brillanti, alle orecchie. Tutto lui, le aveva dato, man mano, dispiacendosi di vederla con le mani nude, senza un ornamento al collo, senza orecchini: erano guanti di fondo di bottega, a una e cinquanta il paio, la crocetta con la catenina era di argento dorato, gli orecchini costavano quindici lire: ma egli se ne teneva, come se accompagnasse una donna coperta da mezzo milione di diamanti. E al lume del gas, Carmela Minino si mostrava sotto il suo nuovo aspetto: bizzarramente imbellettata, meno brutta, un po’ più piacente, conservando di sincero solo i suoi ricchi capelli neri e un sorriso dolce, assai dolce; e mani, malgrado la glicerina, erano restate brunastre, magre, con le tracce delle fatiche materiali che ella compiva, da anni, in casa sua. Roberto l’aveva pregata di togliersi i guanti meno che poteva tanto più che non aveva potuto regalarle nessun anello.

Erano appena seduti, che entrò un’altra coppia, nel salone: era un giovane signore dell’aristocrazia napoletana, un transfuga e un degenerato, veramente, che aveva mangiato al giuoco e con le donne tutta la sua proprietà; egli aveva dato l’ultimo colpo alla sua fortuna con Lodoiska, una chanteuse che portava un nome russo, ma che era genovese; ora, senza un soldo, egli viveva sempre con Lodoiska, alle spalle di lei, anzi si annunziava, dappertutto, il loro matrimonio. I suoi parenti lontani, poiché Placido Massamormile non aveva parenti vicini, facevan di tutto, perché egli lasciasse Napoli, non potendo sopportare tanto obbrobrio. Placido Massamormile era piccolo, asciutto, molto ben fatto, bruno, con capelli e baffi nerissimi, una fisonomia orientale, ma senza mollezze di linee: Lodoiska era alta, bionda, formosa, rosea, con certi begli occhi celesti, ma di cui uno, disgraziatamente, era storto. Ella vestiva di rosso, con un gran cappello bianco, coperto di piume bianche, sulla testa, e aveva un paio di orecchini, almeno di duemila lire, alle orecchie. Roberto Gargiulo e Massamormile si salutarono; Roberto arrossì dal piacere, tanto teneva al saluto delle persone nobili, anche se fossero corrotte e perdute come Placido Massamormile.

Carmela e Roberto mangiavano in silenzio un piccolo antipasto banale, di sottaceti, burro e alici: Lodoiska, al solito, con voce bassa, sorda e roca, si disputava con Placido. Ella lo sopportava, adesso, anche povero in canna, anche squalificato, messo al bando da tutte le persone per bene, lo sopportava perchè Placido Massamormile era sempre una buona insegna per una donna come lei, perchè non aveva altri in vista, in quel momento, e perché, forse, lo amava un poco. Ma sì litigavano sempre, irritati ognuno dalla propria condizione, non sapendo come uscirne, Placido col suo fare beffardo e sprezzante, sprezzante anche di stesso, Lodoiska con la sua trivialità di chan-teuse grottesca, abituata alle smorfie, agli urli, ai salti. Si vedeva che Placido Massamormile, sotto quella bella maschera di arabo smarrito in Italia, sotto quell’aria ironica e superba, soffriva di quel contatto, di quei litigi, di quelle scene e lei ne godeva, invece più rotonda, più rosea che mai, col suo terribile occhio azzurro che guardava da una parte, mentre l’altr’occhio guardava dall’altra. Invero, Roberto Gargiulo invidiava Placido: che era mai quella piccola pecora taciturna di Carmela Minino, innanzi a quella chanteuse che possedea, dicevano, trecentomila lire non guadagnate col canto e che, forse, si sarebbe fatta sposare da un nobile? La meschinità, la grettezza della sua conquista amorosa, ogni tanto, umiliavano profondamente Roberto Gargiulo e gli facevano gittare degli sguardi indifferenti, talvolta astiosi, su Carmela Minino.

Comprendeva ella? Forse. Da che Lodoiska era entrata, ella aveva curvato il capo, teneva gli occhi abbassati sul piatto, faceva meccanicamente delle pallottole di mollica: giungendo, così, a irritare sempre più il suo amante che avrebbe voluto vederla tutta lieta, scintillante negli occhi, brillante nella voce e nella parola.

— Che hai? Che ti è successo? — le domandò, duramente

— Niente... niente — ella disse, levando gli occhi, un poco sgomenta

— Tu mi sembri un convoglio funebresoggiunse lui, anche più annoiato dal vederle gli occhi pieni di lacrime. — Era meglio che ti avessi condotta a casa.

— Io... io non volevo venire, balbettò lei, soffocando un singulto che le rompeva il petto.

— Ci penserò bene, un’altra volta, — concluse lui, con secchezza, dandosi accuratamente a liberare la triglia dalle sue spine.

Tacquero. Per frenare le lacrime, le palpebre di Carmela batterono, due o tre volte: ella giunse a comporre il suo viso: finse di mangiare, disinvoltamente. Del resto, altra gente entrava. Era Carlo Altamura, un usuraio a giorni, a ore, che esercitava il suo ufficio strozzatorio nelle case da giuoco, dove faceva firmare delle cambiali di ventiquattr’ore ai giuocatori, facendo mettere firme false, facendo firmare delle implicite dichiarazioni di truffa, di furto, tendendo, infine, ogni tranello ai poveri giocatori disperati e appassionati: era Gaetano d’Amora, un grosso e grasso reporter di giornale notturno, una figura di monaco sfratato; era, infine, tutto solo, senza compagnia di donne, don Gabriele Scognamiglio, il galante, ricco e popolare farmacista di via Pignasecca. Questi tre erano giunti insieme: Altamura, perchè i suoi tetri lavori notturni erano compiuti, per quella notte:

Gaetano d’Amora, fra una gita e l’altra alla questura e al giornale e don Gabriele per abitudine, per vizio, non potendo andare a dormire senza cena, senza veder donnette a cenare, magari non con lui, preferendo reggere il moccolo alle coppie degli innamorati, anzi che non avere lo spettacolo dell’amore. Con la sua barbetta bianca bene tagliata e profumata, con le sue guance colorite e i suoi occhietti maliziosi, elegantemente vestito, col fiore all’occhiello, con due fulgidi anelli di brillanti alle dita, con un bastone dal manico d’argento cesellato, col suo passo ancora fermo malgrado i cinquantacinque anni molto suonati, egli godeva, nei teatri, nei caffè, nei ritrovi notturni, presso donne giovani e vecchie, attrici, ballerine, chanteuses, creature dallo stato civile impreciso una popolarità invincibile. Appena entrato, egli aveva salutato affettuosamente Roberto Gargiulo e Carmela Minimo, inviando loro quasi un cenno di benedizione. Poi, vi fu un cambio. Gaetano d’Amora aveva chiamato un minuto, in disparte, Roberto Gargiulo e man mano lo aveva condotto fuori il secondo balcone di Toledo, a parlottare cortesemente, don Gabriele Scognamiglio si era subito avvicinato a Carmela Minino, per non lasciarla sola.

— Oh, donna Carmelina nostra, voi diventate sempre più bella, — le disse a voce bassa con un sorriso sulle labbra.

— Sono belli gli occhi vostri, — rispose, con la frase consuetudinaria simbolica napoletana, Carmela.

— Oh, io son vecchio, son vecchio, donna Carmelina nessuno vuole più saperne di me.

— Non dite questo… non è vero, cavaliere.

— E voi, forse, mi volete? Non mi avete sempre detto no? E invece, come tutte le altre, avete preferito il giovanotto.

Egli sogguardava verso il balcone, cautamente, con finezza, parlando piano, con un amabile sorriso. Ella lo guardava, arrossendo, impallidendo, non avendo il coraggio d’interromperlo, poichè quel vecchio ricco, generoso, bene educato, dalle avventure fantastiche, le faceva soggezione.

— Che ci trovate, in quel giovanotto? Gli volete molto bene, proprio molto? — chiese don Gabriele, sempre più aggressivo.

— Oh! — esclamò lei senz’altro, turbatissima.

— Vi molto denaro, forse? E dove lo piglia?

— Niente danaro, niente — replicò lei, subito, con un moto d’ira e di fierezza.

— Non vi offendete, perdonatemi, donna Carmelina. Allora vi fa morir di fame? Per i suoi belli occhi? Qualche regaluccio, null’altro, ho capito. E voi ci rimettete anche qualche soldo. -

Ella tremava di sgomento, poichè tutto quello che don Gabriele diceva era crudele, ma vero, poichè le sembrava un delitto non difendere Roberto Gargiulo, poiché le pareva brutale che le si potesse parlare così, da quel peccatore che non si voleva pentire; tutto era vero e tutto era così doloroso, per lei, che ella si appoggiò alla sedia, come se mancasse.

— Non vi affliggete, donna Carmelina, non vi voglio vedere così triste, — soggiunse il farmacista. — Ma ve lo dico da vero amico, quale vi sono, perché vi ho conosciuta da bambina e perchè siete una brava ragazza...

Ella gli rivolse uno sguardo supplichevole. Don Gabriele ebbe l’aria di non notarlo e proseguì:

— Ve lo dico schietto: un giorno o l’altro, Roberto Gargiulo vi lascia. Forse, il giorno non è lontano...

— Forse, il giorno non è lontano... — ripeté lei, macchinalmente, come se ciò rispondesse a un suo intimo pensiero.

— E che fate, allora? Chi vi trovate? Chi chiamate, donna Carinelina?

— Chi trovo? Chi chiamo? — replicò lei, smarrita.

— Vi trovate il vostro vecchio amico Gabriele, che non ha ventotto anni, che non ha i baffetti in aria e la scrima all’imperatore, ma è una persona seria, donna Carmelina. Chiamate don Gabriele e don Gabriele vi risponde col saluto militare: presente!

E coronò con una bella risata il suo discorso, poichè Roberto Gargiulo si riavvicinava, con la sua aria d’importanza. Anzi, osservando che Carmela era scomposta nel viso, evidentemente commossa, don Gabriele si lanciò in un discorso, frammezzato da risate

Caro, caro Gargiulo, giacché scortesemente avevate lasciata sola questa bella ragazza, io, da fedel cavaliere sono venuto a tenerle compagnia...

— E le avete fatto la corte? — disse briosamente Roberto, ricominciando a cenare.

— Già, gliela faccio sempre. Stasera più che mai.

— E con che risultato, cavaliere?

— A mia vergogna, lo confesso, con nessun risultato, — disse, sghignazzando, l’antico peccatore.

— Voi mi mortificate, cavaliere... — mormorò Carmela che era già rimessa dall’emozione, ma restava imbarazzata.

Tenetevela cara, questa donnetta, Gargiulo: vi vuol bene: vi adora: è un mostro di fedeltà. Nulla ha potuto smuoverla. Io sono un vecchio birbante, ma lei è un angelo!

E malgrado il leggiero tono d’ironia che era in queste parole, malgrado la loro esagerazione, Roberto Gargiulo se ne ringalluzzì. Quando don Gabriele Scognamiglio si fu allontanato per andare a cenare, soddisfatto di quel che era riescito a dire a Carmela, Roberto le stese la mano sulla tavola e le toccò, con una carezza, la nano.

— Ti chiedo scusa se sono stato maleducato, poco fa.

— Non importa, non importa, — diss'ella, di nuovo molto commossa.

Quando salì le scale di casa sua, di quel quarto piano nel vicolo Paradiso, — sola sola, la ballerina abbassava il capo, ansando per una pena fisica e morale — e il fiato le sibilava fra i denti stretti. Sotto il portoncino di casa sua, come ogni volta che l’accompagnava, dopo cena, Roberto Gargiulo le aveva domandato di lasciarlo salir sopra, un poco, non per tutta la notte, per una mezz’ora. E lei, ostinatamente, aveva rifiutato. In casa, no! Da che si era data a Roberto Gargiulo e la gente, pur troppo lo aveva saputo, ella si vergognava immensamente dei suoi vicini, dalla fruttivendola rabbiosa che aggrottava le ciglia, vedendola passare, e faceva esclamazioni apertamente maligne alla carbonaia, che seguitando a sferruzzare sulla sua calzetta, crollava la testa malinconicamente, da don Santo il panettiere, che dava grandi colpi di coltello per tagliare i grossi tortani di pane, dicendo: che siamo noi, che siamo mai, noi, al giovane vinaio, figliuolo della Sangiovannara, che le aveva tolto il saluto. Persino Gaetanella la pettinatrice, adesso che ella si pettinava ogni giorno, veniva da lei a bocca stretta, con parole caute e sottolineate, con qualche allusione alle giovani che si rovinavano sul teatro e via; e, infine, il suo portinaio, quello di cui essa più aveva scorno, che la guardava con un certo sogghigno strano, ogni volta che ella usciva a ora insolita. In casa, no, mai! Si vergognava di tutto quello che vi era dentro, della Madonna sospesa a capo letto, delle reliquie di sant’Antonio di cui era tanto devota, di tutto quello che le rammentava la sua giovinezza ancora casta, ancora pura. Non esprimeva nulla di ciò, a Roberto per paura che si burlasse di lei: ma si ostinava a non volerlo in casa. La stanza era così miseramente arredata, malgrado le sue fatiche per tenerla pulita, che una fiamma le saliva al viso all’idea che il suo amante, così pretensioso sullo chic, volesse penetrarvi. Quella sera, anche, egli aveva insistito, presso lei, infastidito di doverla vedere, da solo a sola, in un alberghetto di terz’ordine, verso la ferrovia, una locanduccia detta La bella Napoli, come se ella fosse una donna maritata, con un marito geloso: infastidito, anche, senza volerlo dire, di dovere spendere qualche lira, per questo convegno, quando ella era sola in casa, e con cinquanta centesimi dati al portinaio, costui avrebbe taciuto.

— No, no, no; — aveva replicatamente risposto lei, con la cocciutaggine dei timidi, dei paurosi.

Quella sera istessa, Roberto Gargiulo le aveva offerto di farle cambiar casa, di affittarle una stanza mobiliata, in un’altra via, in un altro quartiere, dove nessuno la conoscesse; offerta già fattale altre volte, ma sempre vagamente, senza mai fissarne i termini. Ella aveva sempre rifiutato: e, in fondo, Roberto Gargiulo sarebbe stato bene mistificato, se ella avesse accettato. Una stanza mobiliata, almeno quaranta o cinquanta lire al mese; spesa insopportabile al bilancio dei giovane cassiere; e, insieme, tanti altri obblighi, una serva da pagare, il portinaio da compensare, e le padrone di casa corrompitrici e avide, e il vincolo con Carmela fatto più saldo, più forte da questo cambiamento di vita, da lui voluto. Così, per scimmiottare il gran signore, egli aveva pronunziato, due o tre volte, questa frase: felice di non essere preso in parola. Ella non aveva voluto, seria, con quel senso di economia rigorosa che le veniva dalla povertà, con quel senso di conservazione di tutte le creature semplici, che amano la loro vecchia strada, la loro brutta casa, i loro cattivi vicini. Pure, ogni volta che non lo lasciava salire in casa, Roberto Gargiulo andava via in collera. Sicuro di esser adorato da Carmela Minino sapendola obbediente a ogni suo cenno, certissimo di tenerla soggiogata sotto il fascino del suo amore, della sua generosità — non le faceva sempre dei regalucci? — questa ribellione lo indignava.

— Dunque, ti vergogni di quel che hai fatto? E perché lo hai fatto? — la investiva, arrivando alle ingiurie.

Perchè... perché... — diceva lei, crollando il capo, misteriosamente.

Giunta innanzi alla sua porta e avendo aperto, senza togliersi il cappello, la giacchetta, all’oscuro, con la fioca luce che veniva dalla finestra, donde erano chiusi solo i vetri, ella si lasciò cadere sopra una sedia che aveva urtato col piede, e si nascose il viso fra le mani. Ella sapeva che, adesso, Roberto Gargiulo se ne tornava alla sua casa, sull’altura di San Potito: e che, dormitovi su, non avrebbe più pensato alla loro lite, piccola del resto. Ma essa, sola all’oscuro, si sentiva così miserabile, così perduta, così disperata, che si chiese, ad alta voce, come se vi fosse un’altra persona:

— Ma che ho? Che mi è accaduto?

Ah, pensando, pensando, in quella ombra, in quel silenzio, in quell’ora alta della notte, ella lo vedeva bene, quello che le era successo. Le era successo che aveva commesso il suo primo e il suo grande errore, quello che non si ripara mai più, quello per cui solo Dio, forse, può aver misericordia, commesso non per passione non per amore, non per vanità, non per interesse, ma perché era una creatura fiacca e senza volontà, incapace di resistere, incapace di reagire: aveva offeso il Signore e la Madonna, aveva addolorato la benedetta anima di sua madre che era, forse, in Purgatorio, si era perduta nell’opinione della gente onesta, non si poteva più confessare non si poteva più comunicare, così, così, senza una ragione forte, possente, che la scusasse, che le servisse di compenso. Ella era molto legata a Roberto Gargiulo per gratitudine delle gentilezze, della sua bontà, dei doni che le faceva, ella avrebbe fatto per lui ogni sacrificio, per mostrargli la propria riconoscenza, ma volergli bene, come si vuol bene a un amante, questo non lo sentiva.

— Perché l’ho fatto, dunque? Perché l’ho fatto?

Nella notte che si faceva più fredda, in quella stanza in cui aveva battuto i denti tutto l’inverno, sotto le sue grame coverte, ella rivolgeva a questa frase che, tante volte, nelle dispute, era proferita da Roberto: e niuna risposta ne veniva dai recessi oscuri della sua anima, dove, pure, qualche cosa di profondo viveva. E come se ne era pentita, subito dal primo momento, si pentiva quella notte, di ritorno da quella cena alla Regina d’Italia, quella cena che ella aveva inghiottita di traverso, fra quella gente curiosa notturna, con quelle pretensioni, quei malumori, quegli sgarbi di Roberto Gargiulo, con quel terribile discorso di don Gabriele Scognamiglio, il discorso in cui le si rivelava, limpidamente e crudamente, l’errore passato e l’errore futuro.

Forse che Roberto Gargiulo veramente era innamorato di lei? Non era ella brutta, malgrado la gioventù, malgrado i begli occhi neri e i bei capelli neri, e Gargiulo non era, forse, un bel giovane e aveva avuto delle altre amanti, almeno come diceva lui, centomila volte più belle di lei? Che ci poteva trovare in lei, Roberto Gargiulo? Per questo la obbligava a caricarsi le guance di belletto, e tingersi gli occhi e le labbra, a riempirsi di gioielli falsi, a lavarsi le mani con la pasta di mandorle, perché la doveva trovare rozza, comune, brutta, servile. L’amava Gargiulo? Ma che! ma che! Ella non era di quelle donne cui si vuol bene; la fortuna d’ispirare un grande amore, almeno un amore forte, non le era riserbata. Ciò era fatto per le prime ballerine, per le comprimarie, per quelle felici di prima fila, che sanno ballare bene, che hanno le gonnelline sempre fresche, bustini di raso sempre nuovi, le mani bianche della donna oziosa e qualche bel gioiello al collo: non era ella una infelice ballerina di terza fila, perduta fra le sorelle Musto e Marietta Sanges, fra Filomena Scoppa e Checchina Cozzolino, portando delle gonnelle appassite, dei calzari sdruciti e niente al collo? Gargiulo, amarla? Ma che!

— Perché l’ho fatto, dunque? Perché l’ho fatto?

Ella se ne pentiva amaramente. Le gioie fisiche dell’amore nulla avevano detto al suo temperamento abituato alla castità: ella le subiva senza mormorare, come una punizione del suo peccato: in certi giorni le davano una ripugnanza invincibile. Sentimentale, di quella piccola sentimentalità meridionale, ella avrebbe voluto che Roberto Gargiulo le scrivesse sempre delle lunghe lettere, come le prime, che le trascrivesse dei versi, da qualche libro, che le portasse dei fiori, che le dicesse tante dolci parole, che le facesse tante carezze, soavi e pure: e lui, invece, avendo preso una ballerina per amante, riteneva inutile, oramai, tutto questo che si fa con le signorine per bene, con la fidanzata, e assumeva un tono disinvolto, superiore, cinico, di persona rotta alla vita. Sì, le faceva dei doni: una quantità di cose che le mancavano, di cui aveva sentito molto la mancanza, poiché sono necessarie alla vita, gliele portava lui, col suo contegno bonario e largo di persona generosa. Ella aveva dei fazzoletti di falsa battista, delle calzette di mezza seta, una sottana di surah, comperata di seconda mano qualche gioielletto di poche lire, lo aveva. Le aveva dato il vestito lilla, per Pasqua, e gliene prometteva uno di setina, a righe bianche e nere, per l’estate. Egli spendeva, per le piccole cene, per le piccole colazioni, per le carrozze: forse, ella gli costava già quattro o cinquecento lire, in due mesi di relazione. Ma Carmela stessa, non era costretta, dalla sua relazione, a una quantità di cose che non avrebbe mai fatte? Non cucinava più da , per non rovinarsi le mani, come egli diceva: e aveva una servetta, cui dava otto lire il mese. Non aveva dovuto spendere in un paio di scarpini, in un busto nuovo, in quella giacchetta che un sarto le aveva fatto, a credito, pagando due lire la settimana? Ora, ai 15 maggio, quando ricorreva il compleanno di Roberto, ed ella lo sapeva, non doveva ella disobbligarsi, facendogli un dono, spendendo almeno una trentina di lire in un portasigarette d’argento? Egli era un giovine così innamorato dello chic! Ella si trovava singolarmente spostata, in finanze. Di solito, nei quattro mesi in cui San Carlo era aperto, con quelle centocinque lire mensili, ella faceva delle economie, le quali, in estate, insieme con qualche scrittura a Bari, a Caserta, a Reggio, dove le davano un paio di lire al giorno, l’aiutavano a vivere. Ora, da due mesi, non faceva più un soldo di economia: aveva speso tutto, per figurar bene, con Roberto: e aveva anche qualche debito, il che la faceva tremare di dispiacere.

Tutte le sue abitudini erano mutate: ella non dormiva più quanto le serviva per riposarsi, mangiava dei cibi che le facevano male, ad ore insolite, era tormentata sempre da una grande fretta. Nei crepuscoli liberi, non andava più al vespero nella parrocchia dei Pellegrini; per la messa aveva cambiato chiesa, lasciando lo Spirito Santo per la Madonna delle Grazie, dove niuno la conosceva. Non indossava più lo scapolare della Vergine del Carmine, sua patrona, invocata in ogni momento di pena, di tristezza; si era tolto dai fianchi il cordone del Terz’Ordine di san Francesco, poichè non si credeva più degna dell’uno, dell’altro. Viveva in istato di peccato: in quella Pasqua di Risurrezione, non aveva potuto comunicarsi, Dio è misericordioso, Dio perdona, Dio assolve: ma bisogna uscire dal peccato, ed ella vi era dentro.

Perchè l’ho fatto, dunque? Perchè l’ho fatto?

Se vi pensava, innanzi, nell’avvenire imminente, ella tremava di ribrezzo, di sgomento. Quanto poteva durare questa relazione con Roberto Gargiulo? Ella lo sentiva, non legato a lei, non preso con l’anima e coi sensi ma lusingato nell’amor proprio maschile per aver sedotto una giovane che si era mantenuta onesta, sino allora, malgrado la povertà e malgrado le insidie del palcoscenico; accarezzato nelle sue fantasticherie di piccolo impiegato di commercio, spostato nel voler fare la vita di piacere del signore; ma tutto contento, esteriormente, nella sua vanità meridionale di andar a teatro la sera, per sorridere ostentatamente all’amante ballerina, che, arrivando innanzi alla ribalta, ballando, con tutta la sua fila, ostentatamente lo saluta e gli sorride. Egli era gentile, ma non tenero egli era galante, ma non amoroso; egli era facile al dono, ma al dono che serviva a lui, che doveva farlo figurare come un uomo largo, spendereccio, spensierato, non al dono pratico, utile, dell’amante provvido e innamorato. D’altronde, spesso, Roberto Gargiulo aveva dei mutamenti di umore che Carmela Minino osservava subito e di cui non domandava conto, con fa sua timidità abituale, ma che la turbavano molto. Si mostrava pensieroso, preoccupato. Talvolta usciva in escandescenze, contro la umiltà della sua condizione, mentre egli era nato con istinti principeschi, con gusti d’uomo raffinato: parlava dei ricchi, specialmente del suo principale, che era già milionario, con dispetto, con rabbia. Spesso nominava la cifra di danaro che gli era passata per le mani come cassiere, con una intonazione bizzarra, che faceva rabbrividire di un’ignota paura la sua amante. Spesso taceva. Ella sapeva che nel magazzino inglese erano molto buoni, molto cortesi, non a parole soltanto, ma anche a fatti, con gli impiegati, pagandoli bene, compensandoli per il lavoro soverchio, dando loro delle belle gratificazioni quando le chiusure d’inventario erano brillanti, ma che, in cambio, domandavano intelligenza, zelo solerzia, integrità, correttezza, buoni costumi. Roberto Gargiulo le aveva nascosto che, nel passato, egli aveva avuto varii freddi richiami, circa la sua condotta privata, dal capo della casa; pure, qualche cosa di ciò Carmela Minino aveva intravvisto, da qualche frase sfuggitagli. Subito, Roberto Gargiulo, che prometteva di mutar vita, faceva due o tre mesi di astinenza, nel senso che andava poco a teatro, non si faceva vedere con donne, non frequentava le trattorie e i caffè notturni. Poi ricominciava. Adesso, da più di due mesi, egli si faceva vedere dappertutto con Carmela Minino, con un contegno di uomo superiore, di mondano lanciato nella esistenza più ardente dei piaceri, infischiantesi della casa inglese, del suo rigido capo. Pure, talvolta, aveva dei lunghi minuti di silenzio. Forse spendeva troppo, anche. Aveva qualche economia, ma doveva essere esaurita da un pezzo. Su che spendeva? Qualche giorno diventava avaro; non prendeva neppure una carrozzella per mezza corsa, per risparmiare i sette soldi, non entrava, con Carmela, in caffè, contentandosi di pagarle un bicchiere di acqua e sciroppo dall’acquafrescaio, spendendo un soldo. Aveva dei debiti, forse, di già. E ripensando a tutte queste cose, che notava ogni giorno, senza che neppure una le sfuggisse, sentendo che il suo errore pesava egualmente sulla vita di Roberto Gargiulo, come sulla sua, ella affannosamente si chiedeva:

Perchè l’ho fatto? Perchè l’ho fatto?

E la ragione intima, profonda, segretissima, che era chiusa in un recesso oscuro della sua anima, ella non voleva dirla ad altri a stessa.

Uscendo dalla penombra del palcoscenico delle Varietà, dove, per due o tre ore, era stata chiusa per provare il grande ballo Rolla, Carmela Minino si fermò un poco nella via del Chiatamone, guardandosi intorno, con gli occhi un po’ abbagliati dalla luce del pomeriggio di estate. Cercava Roberto Gargiulo che aveva promesso di venirla a prendere, verso le cinque, se poteva lasciare per un’oretta il magazzino, mettendovi il suo supplente. Non vi era.

«Non avrà potuto», ella pensò, mettendosi per la via Pace, volendo risalire verso casa sua. La via era lunga, ma ella era una leggiera camminatrice. Andava, tenendo rialzato il suo bel vestito di setina a righe bianche e nere, il vestito di estate che egli le aveva promesso e che, infatti, le aveva donato. E voleva che lo mettesse sempre, almeno ogni volta che vi era probabilità si vedessero insieme per la via. Quando fu in piazza Martiri, un fattorino di magazzino la fermò, toccandosi con la mano il berretto gallonato per salutarla. Portava scritto Gutteridge, sul berretto: ed ella lo conosceva, questo ragazzo di dodici anni, Roberto Gargiulo glielo aveva mandato varie volte, con qualche biglietto, con qualche ambasciata.

— Questa lettera per voi, signorina. Non vi è risposta.

Prima ancora che ella avesse aperto la busta, il fattorino era sparito. Ella si fermò sotto il giardino del palazzo Nunziante, i cui cancelli erano tutti carichi di una glicinia fiorita, a grappoli lilla fra il verde. Diceva, la lettera:

— «Cara Carmela mia. — Io non ho il coraggio di venirti a dire, a voce, quello che ti scrivo, perchè mi farebbe troppo male vederti soffrire. Debbo lasciar Napoli per qualche tempo. Alcuni miei nemici sono andati a riferire al signor Gutteridge il nostro amore e costui mi ha fatto delle severissime rimostranze, a tuo proposito. Ho dovuto dichiarare che ti avrei lasciata: se no mi licenziavano. Povera Carmela mia, tu piangerai, quando leggerai questa lettera; ma pensa, potevo io farmi mettere sul lastrico, dopo dodici anni di lavoro? Tu stessa non lo avresti voluto. Siccome hanno creduto poco alle mie dichiarazioni e alle mie promesse, poiché ho promesso altra volta e ho mancato — oh, io era nato per fare il gran signore — ho dovuto chiedere, io medesimo, di essere inviato, per quattro o cinque mesi, a Sarno, nella fabbrica di filati O. Neilly, che, come sai, sono soci del mio capo: e starò in penitenza dei miei peccati così dolci! Sarno è molto vicino a Napoli, ma io debbo restarvi come carcerato, se voglio riacquistare la fiducia del mio principale. Quando riceverai questa lettera, io sarò già partito. Non piangere, Carmela! Abbiamo passato insieme delle belle ore, io non le dimenticherò: tu, credo. Io mi ricorderò sempre di te, come di una buona ragazza: disgraziatamente, il mondo è cattivo e io non potevo, senza rovinarmi, sposarti, continuare la relazione con te. In qualunque ora della tua vita, pensa che hai in me un amico sincero e comandami in quanto posso, io lo farò volentieri per colei che è stata la mia Carmela. Ti mando un bacio afflitto e mi raccomando alla tua memoria. — Roberto Gargiulo».

Non pianse, ella. Era nella via, in una via elegante e popolata che, in quell’ora pomeridiana, dopo la siesta, cominciava a riempirsi di gente. Ebbe bastante forza di camminare avanti, come se nulla fosse, stringendo nelle mani, la lettera aperta. Verso Chiaia, anzi, mentre risaliva lentamente il marciapiede di destra, ella rilesse attentamente quello che le aveva scritto il suo amante, lasciandola. Quelle frasi racimolate qua e , dalla lettura dei romanzi dove Roberto Gargiulo attingeva tutta la sua rettorica amorosa, quelle vane e vaghe parole di rimpianto e non una sola parola di amorenascondevano a mala pena l’egoismo freddo dell’uomo che, dopo aver goduto, scaccia da , irrimediabilmente, l’oggetto del suo godimento, quando gli sia diventato fastidioso e imbarazzante. Un tempo, a principio, tutte quelle belle parole che Roberto Gargiulo le scriveva, per deciderla ad amarlo, l’avevano assai lusingata, col compiacimento delle piccole anime sentimentali, appagate dal luccichio e dal calore di certe frasi. Poi man mano, ella aveva compreso tutta l’aridità che si celava sotto quella forma falsa di amore verboso, nelle parole e negli scritti; in questa ultima lettera, tutto il cinismo di un temperamento dato solo ai sensuali piaceri della vita, le completava la figura dell’uomo a cui aveva sacrificato la sua onestà. Neppure lo ricordava egli, così, con qualche dolcezza, questo sacrifizio che ella gli aveva fatto, l’ingrato! Mentre, metodicamente, ella se ne tornava, per Toledo, alla sua misera stanza del vicolo Paradiso — quanto aveva fatto bene, a non abbandonarla mai! — ella si sentiva non disperata, no, ma col sangue inondato di amarezza. Quel senso di umiltà muliebre che toccava il servilismo, da cui era affetto il suo cuore, le impediva di odiare Roberto Gargiulo per il tranello che le aveva teso, per le menzogne del suo amore, per il modo brutale e irrimediabile con cui l’abbandonava; ella non aveva ira, odio, contro lui che, infine, aveva fatto il suo giuoco, quello che tutti gli uomini fanno, per vedere se riesce: tutto sta, nella donna, a non entrare nel giuoco maschile! Vi è un detto popolare napoletano che si ripete a tutte le ragazze indifese, a tutte le giovanette pericolanti. A tutte le mogli giovani tentate dall’adulterio, un motto pieno di sapienza e di verità: l’uomo è cacciatore. Non farsi prendere a quella caccia, bisognava! Adesso, che avrebbe potuto pretendere lei? Quando aveva ceduto a Roberto Gargiulo, così, per una ragione arcana, ella non gli aveva messo nessun patto, egli non aveva dato nessuna promessa, di matrimonio, di vita comune, di relazione eterna, di relazione lunga. In collera, perchè? Che diritto aveva, di essere in collera, lei, disgraziata, prima e dopo, ma la cui sorgente di ogni disgrazia era in stessa, nella sua debolezza, nel suo isolamento, nell’ambiente in cui viveva, nei suoi ricordi d’infanzia, nella figura ideale di beltà e di piacere che era stata la sua madrina, Amina Boschetti, in sua madre che aveva una figliuola senz’essere mai stata maritata? Roberto Gargiulo aveva ragione, dunque Ella non era in collera, non era disperata, non spasimava di angoscia ma era piena di una tristezza mortale, con la bocca amara di quelli che hanno bevuto del metallo liquido. Le lagrime non uscivano dai suoi occhi aridi. Andava a casa, pallidissima, ma dall’aspetto composto. L’indomani, quell’altro giorno, più tardi, ella avrebbe dovuto sopportare i sogghigni e le beffe dei vicini, delle amiche di palcoscenico, di tutte le altre ballerine. Appena una di loro è abbandonata dall’amante, si sa subito: e anche le più buone ne gongolano, poiché esse stesse sono state e saranno abbandonate alla loro volta.

Ella entrò in via Pignasecca, più commossa del momento in cui aveva letta e riletta l’ultima crudele missiva di Roberto Gargiulo. L’avvicinarsi alla sua casa, a tutti coloro che la conoscevano, le dava un tormento interiore che le faceva abbassare il capo sul petto. Aveva così poca fierezza ella! In piazza della Pignasecca, sulla soglia della ricca ed elegante farmacia del Caprio, il cavaliere Gabriele Scognamiglio era sulla porta, mentre un suo commesso inaffiava la via innanzi a lui. Il cavaliere stava sempre, dalle cinque alle otto, in farmacia, geloso dei suoi interessi, in fondo, sapendo bene dividere le ore dello svago da quelle del lavoro.

— Oh donna Carmelina bella! — egli esclamò giocondamente, — donde venite?

— Dalla prova, cavaliere, disse lei, fermandosi per cortesia.

Va presto, il Rolla, alle Varietà, cara, carina?

Va sabato prossimo; fra tre giorni.

— Verrò ad applaudirvi. Anzi, vi manderò dei fiori. Siete di prima fila alle Varietà?

— Sì, sono guida di prima fila, — mormorò ella, a occhi bassi.

Caspita, che avanzamento

— Sono teatro di estate, le Varietà: le buone ballerine mancano e allora...

— No, non dite questo. Io verrò ad applaudirvi e vi manderò dei fiori. Non dirà nulla, Gargiulo?

—... no, — rispose ella, dopo un momento di esitazione.

Egli la guardò meglio: la squadrò, coi suoi occhietti vivi e maliziosi di uomo che capisce tutto, da una pausa, dalla velatura di una voce.

— Che avete, donna Carmelina? siete malata?

— No, grazie, sto benissimo, cavaliere,

Roberto Gargiulo vi ha lasciata, — disse lui, crudamente.

— Come lo sapete? — balbettò la poveretta, guardandolo con occhi persi.

— Come se me lo avesse detto lui, Carmelina. Non poteva essere diversamente.

—... Già, — sussurrò lei, a voce fioca.

— Non vi disperate troppo, mia bella ragazza. Le lagrime guastano la faccia e rovinano lo stomaco.

— Io non ho pianto, cavaliere.

Egli la scrutò bene: e le chiese subito

— Dunque, non gli volevate bene?

— No, cavaliere, — rispose ella, voltandosi in .

— Neppure lui, allora, ve ne voleva?

— Lui, niente, — ella replicò.

— E allora... perchè?

— Perché?... e chi lo sa?... non si sa, il perché. Buongiorno, cavaliere.

— Ve ne andate? Restate. Ricordate che vi dissi, alla Regina d’Italia! Il vostro don Gabriele è qui, per voi. Siete una cara ragazza, io vi voglio molto bene, mi piacete assai; sono contento, in fondo che vi siate liberata da quell’egoistaccio di Roberto.

Buongiorno, buongiorno, cavaliere, diss’ella, volendosene andare, non sopportando di udire quelle parole, ascoltandole per gentilezza e soffrendone molto.

— Vi vengo a prendere questa sera. Andiamo a cena insieme? Non volete? Perché non volete? Sono un galantuomo, sono un signore; vedrete subito la differenza con quel commesso! Non volete, siete ancora triste, eh? Andate a chiudervi in casa, un poco? Bene, bene, aspetterò: don Gabriele è un uomo paziente. Cara ragazza, non perdete tutta questa fortuna, non capita ogni giorno!

E se ne rientrò in farmacia indispettito in fondo, ma sereno nell’aspetto. La sera della prima rappresentazione del Rolla, il bel teatro estivo delle Varietà era gremito di una folla quasi simile, nella composizione, a quella che frequenta, nell’inverno, il teatro San Carlo, poichè la gente elegante napoletana lascia Napoli solo alla metà di luglio: nelle prime file di poltrone erano i soliti frequentatori del Massimo, fra cui don Gabriele Scognamiglio, e la corte che egli faceva a Carmela Minino era così evidente, i suoi brava, Carmela!... così udibili da tutta la fila, i fiori, che le aveva mandato nelle quinte, così olezzanti, che la ballerina, ancora triste dell’abbandono di Roberto, si sentiva imbarazzata, confusa. Le compagne che l’avevano derisa per tre giorni, ora, la invidiavano, poichè, per quasi tutte loro, don Gabriele Scognamiglio rappresentava il tipo perfetto dell’amante di una ballerina, vecchio, ricco, donnaiuolo, generoso, occupato in molte ore della giornata, facile a ingannare: le sorelle Musto, scritturate anche esse, in prima fila, la tiravano in tutti gli angoli del palcoscenico, per dirle di non fare la imbecille, di non perdere quella magnifica occasione di fare quattro giorni di buona vita, di accumulare un po’ di denaro, almeno, per i tempi cattivi. E don Gabriele non era, anche, un simpaticissimo uomo, ben vestito, profumato? Carmela, stordita confusa, crollava il capo, dicendo no, fiocamente, decisa a rifiutare, ma non sapendo farlo sgarbatamente. Così, solo per disimpegno, dichiarandoglielo, anzi, accettò di cenare, quella sera, con lui, al restaurant Starita, in Santa Lucia nova.

Il restaurant Starita è collocato sulla penisoletta tra terra e mare, che è attaccata al forte Ovo: penisoletta circondata dal mare, in un piccolo porto artificiale, dove si ancorano i piccoli yacht, piccoli cutters e le yoles dei due Circoli di canottieri, che sorgono dirimpetto. Colà sono delle case che furono fatte, in inizio, per albergare i marinai della vecchia strada di Santa Lucia, che è tutta in rifazione, da dieci anni; anzi, quelle poche case, a un piano, prendono il nome di Borgo Marinai. Ma, veramente, marinai non ce ne sono ancora, poichè essi abitano sempre Santa Lucia vecchia, immobile sotto la lentezza della sua trasformazione: e la modicità delle pigioni di quel borgo vi ha indotto delle piccole famiglie di infima borghesia, vi ha indotto dei pittori poveri, e quasi tutti coloro che sono impiegati, in estate, al grande stabilimento di bagni Eldorado, con relativo café-chantant. La banchina di terrapieno, colà, fa un gomito lungo, e sui due lati di questo gomito sono sorte tre o quattro trattorie, in piena aria, con le loro tavole imbandite sotto le tende, dietro alcune leggiere balaustre di legno dipinto, con lumi che si riflettono nel mare, che è a un paio di metri di distanza. Ivi, di estate, con la vicinanza dell’Eldorado, delle Varietà, vi sono sempre persone che pranzano, che cenano, prima dello spettacolo e dopo lo spettacolo: alle famiglie borghesi si mescolano delle coppie d’innamorati; delle chanteuses, delle ballerine, delle equilibriste, delle mime vi appaiono, in lieta compagnia. Due o tre di quelle trattorie sono più modeste, più volgari e vi va gente minuta: il restaurant Starita ne rappresentava l’aristocrazia. Si sta sul mare, al fresco, di sera: sotto le chiglie dei yacht, dei cutters ammassati si vede scintillare l’acqua bruna del piccolo porto, chiuso dalla scogliera; sulla via del Chiatamone brillano i lumi dei grandi alberghi Royal e Vésuve, passano equipaggi continuamente: alle spalle, il forte Ovo dirizza la sua singolar linea di castello tragico. Si mangiano delle zuppe di pesce, delle fritture di pesce, come al lontano Posillipo, che tutti trascurano, oramai, poiché ci voglion tre quarti d’ora per arrivarvi, e Santa Lucia nova è nel centro della città; si paga molto caro, ma è così bello, sul mare, nelle sere di estate, a un passo dal centro, sotto gli occhi di tutti gli uomini chic, scapoli specialmente, o mariti le cui mogli sono già partite per la villeggiatura, guardando tutte le bellezze vere o artifiziose che si agitano nel mondo del piacere, in estate, a Napoli!

In verità, quella sera, don Gabriele Scognamiglio ebbe un tatto squisito per non impaurire Carmela Minino. Gli bastava, infine, a lui, per cominciare, che la ragazza avesse accettato di venire a cena con lui, al restaurant Starita, in un posto dove tutti quanti li avrebbero visti non voleva altro, per allora. Egli non era innamorato di Carmela, giacchè, alla sua età, egli lo dichiarava, non si sentiva tanto stupido da innamorarsi di una donna qualsiasi, più giovane o meno giovane: forse, in tutta la sua vita, non era stato innamorato mai, sentendo nel suo egoismo, che un tale sentimento, in tutta la sua esplicazione e in tutta la sua forza, avrebbe turbato la sua linea di condotta, dedita solo alla gioia. La ragazza gli piaceva, da più tempo, malgrado che non fosse bella, aggraziata, elegante: era giovine, era nuova, diceva lui, non aveva tutte le perfidie e le perversità di chi ha già troppo precocemente vissuto, e ciò gli bastava, a don Gabriele Scognamiglio. Non era una grande conquista, tanto più che vi era stato un altro prima di lui: ma, a circa sessant’anni, il gaudente farmacista sapeva contentarsi, e quasi quasi era contento di poter succedere a Roberto Gargiulo, senza preoccupazioni senza rimorsi. Carmela Minino glielo aveva preferito: era troppo filosofo per seccarsi, quando le donne gli preferivano un giovane. E ora raccoglieva quella povera anima afflitta e abbandonata, la trattava con gentilezza, non le parlava d’amore, sapendo bene il modo come vanno prese le donne, esseri capricciosi, malati e incomprensibili: non incomprensibili a chi, da quarant’anni, non si occupava che di loro.

Le camminava accanto, per la via del Chiatamone, senza darle il braccio, cercando di farla ridere con le sue barzellette, raccontandole qualche aneddoto spiritoso, narrandole qualche avventura di viaggio. Don Gabriele Scognamiglio presiedeva ai suoi affari, in farmacia, per dieci mesi dell’anno: ma due mesi, in primavera o in autunno, li consacrava ai viaggi all’estero, dove vi era grande vita e belle donne, o donne, senz’altro, ma donne diverse, donne varie. Più spesso andava a Parigi, anzi, malgrado la sua professione, malgrado i contatti delle sue giornate di lavoro e delle sue notti napoletane, era un parlatore di francese perfetto. Nel discorso, quando furono nella viottola che porta al forte Ovo, egli disse:

Carmelina, vi voglio portare a Parigi.

Ella abbozzò un assai smorto sorriso. Sapeva che don Gabriele le diceva quello per solo atto di galanteria: ed ella, per buona educazione, non lo interrompeva. Malgrado fosse tardi, il restaurant Starita era pieno: i suoi lumi piovevano luce su tavole dove cenavano i napoletani, a gruppi di tre, di quattro, di cinque, con un affaccendarsi di camerieri, che non bastavano alle richieste.

— Vi piace, qui, Carmelina?

— Sì, è bello, — ella disse, guardando la città, il mare ed il Vesuvio, macchinalmente.

Trovarono un tavolino piccolo, per due, accanto a una tavola imbandita per otto persone, coperta da piattini di antipasto, da trionfi di frutta e da due mazzi di fiori, ma vuota. Era fissata la grande tavola, per una cena, dalla mattina. I commensali sarebbero arrivati fra un quarto d’ora: e il cameriere, che don Gabriele interrogava, sempre curioso, ne nominò qualcuno.

— Il conte di Sanframondi, don Ferdinando Terzi, il conte Althan.

— Tutti amici, tutte conoscenze... — approvava il farmacista gaudente, felice di esser vicino a quella cena.

Carmela Minino lo guardò con certi occhi supplici e smarriti; ora provava un imperioso bisogno di andarsene: ma non aveva il coraggio di dirlo al suo compagno. Fuggire, dove? Che avrebbe pensato don Gabriele Scognamiglio? Che ella era una malcreata, una pazza. Come dirgli? Che cosa dirgli? E perché fuggire? o in altro posto, non era la medesima cosa? Trangugiando delle rade lagrime ardenti, che le erano salite agli occhi, ella restò al suo posto, sulle spine, rispondendo come meglio poteva a don Gabriele Scognamiglio, che le chiedeva che volesse da cena, tutta rigida nel suo vestitino di seta bianco e nero, il solo buono che possedesse, un po’ terrea sotto un cappellino di velo celeste che la modista le aveva voluto fare assolutamente e che le stava abbastanza male. Così vicina, quell’altra tavola! E, infatti, dopo poco tempo, con un gran rumore di voci, di risate femminili, giunsero le quattro coppie, Emilia Tromba, Concetta Giura, la chanteuse spagnuola Mariquita che cantava e ballava all’Eldorado, la mima Alina Bell che agiva nel Ballo Rolla alle Varietà. Si sedettero, con gran fracasso di sedie, accanto ai quattro gentiluomini che le accompagnavano in silenzio. Carmela Minino non vedeva Concetta Giura ed Emilia Tromba dalla primavera, dalla fine della stagione di San Carlo: le due ballerine si davano il lusso di non ballare in estate. E malgrado si dicesse che Sanframondi non ne poteva più di Concetta, che Ferdinando Terzi tenesse Emilia Tromba solo per rimedio, oramai, ai sospetti di un marito geloso, i due continuavano a portare in giro le loro amanti, a pagar loro da cena. Ferdinando Terzi, nel sedersi, capitò dirimpetto a Carmela Minino. Nulla era mutato in lui: con una bottoniera di garofani bianchi allo smoking, egli era sempre il bel gentiluomo dai fini mustacchi biondi, rialzati mollemente sopra una bocca rossa e sensuale, che non sorrideva mai, dal profilo nobilissimo ma così rigorosamente aquilino che pareva tagliato col coltello, dagli occhi azzurro-pallidi, freddissimi, altieri, glaciali. Per un istante li fissò sovra Carmela.

Poi si curvò ad Emilia, facendole in due parole, una domanda. Carmela comprese subito che si informava di lei, di quel posto e di quella compagnia in cui ella si trovava: e comprese anche, che, ridendo, in poche parole, Emilia Tromba gli narrava la sua caduta. Carmela guardava, intensamente e dal modo sprezzante delle labbra di Ferdinando Terzi, ella intese, sentì magicamente le due parole:

— Che sciocca!

Carmela guardò, nell’ombra, la città, il mare, la montagna ardente, senza vederli e pensò che tutto, tutto era inutile.

 

 


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