Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
La ballerina
Lettura del testo

IV

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

IV

 

Era la sera di Capodanno. A San Carlo, di giorno, si era dato il Barbiere di Siviglia, tutto cantato da seconde e da terze parti, senza ballo; di sera, si dava l’Aida, con canti di primo ordine, ed il leggiadro ballo Coppelia, un ballo breve, adatto a seguire una grossa e lunga opera come l’Aida, e fatto per mettere in mostra l’agilità e la forza di Maria Giurì: una prima ballerina magrissima, tutta occhi, che sembrava fusa in acciaio. Di questa Coppelia le ballerine, le corifee con relative famiglie, con relativi corteggiatori, innamorati e amanti, erano soddisfattissime: un vero balletto di mezzo carattere, come si dice in gergo danzante, con soli tre cangiamenti di vestito per la prima fila e due cangiamenti per le seconde e le terze file, poca fatica, poco tempo, e la paga correva egualmente. Però, subito, la Direzione del teatro aveva inventato qualche cosa per tormentarle: aveva preteso, e pretendeva, che una ventina di loro venissero in teatro, al principio dello spettacolo, per eseguire la danza sacra dell’Aida al secondo e al quarto atto, nel tempio di Ftha, mentre nella seconda parte dovevano apparire e danzare nel corteo che accompagna Radames vincitore. Per trovarle, queste venti ballerine, che si volessero sacrificare, ogni sera che si dava l’Aida, col ballo Coppelia, a venire in teatro alle sette e mezzo di sera, per danzare quattro o cinque volte, prima nei costumi egiziani di Aida, sotto i veli violetti che svolazzavano intorno alla persona, sotto l’ibis d’oro, il sacro uccello che ferma i capelli delle danzatrici sacre sulla fronte, poi nei costumi tedeschi delle Gretchen e delle Lottchen che si agitano intorno ai fantocci del dottor Coppelius, per trovare queste venti serve, queste venti schiave, come esse dicevano, ce n’era voluto! L’impresa aveva dovuto contentarsi, per formare quel piccolo corpo di ballo, delle ballerine di seconda e di terza fila, le più brutte, le più sgraziate, ma le più volenterose. Carmela Minino era fra queste, essa che non sapeva mai dire di no, quando si trattava di lavorare, di essere utile a qualche cosa.

In quella serata di Capodanno, malgrado che vi fosse un ricevimento ufficiale alla reggia di Napoli, dopo il pranzo di Corte, ed un ballo in casa Savignano, il teatro San Carlo era gremito di gente: le persone più chic vi erano venute prima di andare alla reggia, per restarvi un momento, o vi capitavano fra il ricevimento del Principe ereditario e la festa in casa Savignano. Le signore erano tutte in toilettes sfarzose, coperte di gioielli, anch’esse facendo la spola, fra la reggia, il teatro San Carlo e il ballo Savignano, dandosi dei convegni da un posto all’altro, accompagnandosi e riaccompagnandosi, fra loro, in carrozza; e serviva da fondo una larga folla che non andava alla reggia, da Savignano, perchè non invitata, perché non di quel ceto, ma che aveva, quella folla, gli uomini indossato la marsina sull’impeccabile camicia bianca, le donne messo fuori il più ricco vestito scollacciato che possedevano, fingendo, uomini e donne, di andare e venire, anch’essi, dal ricevimento di Corte, dall’antico e avito palazzo de’ Savignano. Malgrado che il teatro fosse freddissimo, che molto male agissero i caloriferi, specialmente quando era sollevato il sipario, tanta era la gente, che le signore avevano le guance accaldate e agitavano lentamente i loro grandi ventagli di piume bianche.

Le ballerine, nei loro cameroni, si cingevano in fretta i corsaletti d’oro delle danzatrici sacre del tempio, per escire nelle danze intorno ad Amneris, l’appassionata e altiera figliuola dei Faraoni; malgrado il calore dei becchi di gas, tutti aperti, qualcuna di esse tremava dal freddo. Checchina Cozzolino, specialmente, che aveva un raffreddore orribile e non riesciva, con la polvere, col cold cream, col bianchetto a rendere meno rosso il suo naso rosso. Carmela Minino si aspergeva di cipria le braccia, macchinalmente, le sue braccia brune che quel riflesso d’oro del corsaletto e i riflessi violacei delle gonnelle rendevano terree, verdastre. Concetta Giura venne a bussare, chiedendo un po’ di vasellina inglese, chi l’avesse, perché le mani le bruciavano dal freddo e la cipria le rendeva più aspre. Fuori fischiava la tramontana. Mentre Rosina Musto le porgeva la vasellina, in un vasetto, Concetta Giura gittò alle otto ballerine una notizia:

Sapete? È stato ucciso un signore... un signore della nobiltà...

— Chi, chi, chi? — chiesero strillando di curiosità, quattro o cinque di loro.

— E da chi? Da chi? Da chi? — ritornarono a strillare, mentre già l’avvisatore le chiamava, bussando alla porta, fortemente.

— Non lo so... non lo so... — disse lei, scappandosene via. — Se so qualche cosa, vengo a dirvelo, — gridò dal corridoio.

— Come sapete, — dichiarò Rosina Musto, a bassa voce, ma in modo che tutte la udissero, — Sanframondi ha lasciato Concetta.

Quasi tutte lo sapevano, anche Carmela Minino. Ella non disse nulla, fingendo di acconciarsi i capelli sotto l’ibis. Era divenuta più chiusa, più tetra, molto distratta, assai disattenta a quel che faceva, da qualche tempo. Vestita da città o da ballo, quando doveva aspettare la chiamata, si metteva in un cantone, a occhi bassi, con una ciera distaccata, lontano da quanto accadesse intorno a lei. All’annunzio di Concetta non aveva posto mente; ma le parole le aveva udite. Mentre bussavano per la seconda volta, ella si domandava, così, chi mai poteva essere stato ucciso, in quella grande società, dove non si è uccisi se non in duello. Un duello, forse? Le ballerine rientrarono dopo aver eseguito il loro passo, intorno ad Amneris; adesso bisognava che aspettassero la seconda parte dell’atto, per seguire Radames, al suono della famosa marcia. Andavano e venivano, chiacchierando, rialzandosi le spalline dei corsaletti, con quell’atto costante delle ballerine, che pare sempre temano di restare col busto ignudo, qualcuna ritoccandosi il viso, raggiustandosi la pettinatura, soffiandosi sulle dita gelate da quella sera d’inverno, non osando sedersi, per timore di sciupar le loro leggiere gonnelle. Carmela Minino non faceva nulla, appoggiata allo stipite della porta, con le braccia prosciolte lungo la persona, con gli occhi fissi nel vuoto.

— A che pensi? alle pecore che hai in Puglia? — le chiese, ridendo, Filomena Scoppa, ripetendo un motto popolare, per indicare ironicamente la preoccupazione della ricchezza.

— Ho mal di capo, — riprese l’altra, a bassa voce.

— E sei venuta a ballare? Te ne stavi a casa.

— A casa mi annoio, — mormorò Carmela con voce languida.

Neh! — esclamò l’altra ironicamente poichè da quando anche Carmela Minino aveva peccato ed ella, Filomena, era restata la sola zitella della fila, la disprezzava.

Concetta Giura, la biondissima, entrò correndo, un po’ anelante.

— Ho sbagliato, ho sbagliato, mi hanno detto una cosa per un’altra. Non è stato ucciso, questo signore, questo gentiluomo... si è ucciso... si è suicidato.

— Ma chi è, ma chi è? — ritornarono a strillare quelle, circondando Concetta Giura.

— Non lo so. Non si sa, ancora. Dicono che è un giovane... che si è ucciso... ecco tutto.

— Per debiti?

— Per amore?

— Che amore e amore! Sarà per debiti!

— Non so nulla, — disse lei, aprendo le braccia. — Qualche altra notizia, si saprà.

Anche Carmela Minino si era messa nel cerchio che formavano le otto ballerine intorno a Concetta Giura, della prima fila. Forse per tutti quei gridi, ella senti più forte il cerchio di piombo che le stringeva la testa. Non pronunziò verbo. Quei rumori, quelle chiacchiere, quei pettegolezzi le arrivavano come un ronzio fastidioso e vano. D’altronde bisognava andarsi a mettere in fila, per il corteo. Chi poteva essersi ucciso? Chi sa, poveretto, chi sa come e perché, pensava ella, così, senza fermarvisi su, tanto era il dolore di testa, la pesantezza di tutto il corpo e la ignota sua tristezza di quella sera. L’orchestra cominciava le prime battute della marcia. Concetta Giura, Carmela Minino, tutte le ballerine scapparono a prendere il loro posto. Nelle quinte tirava un venticello freddo da far rabbrividire. L’impresa le voleva, dunque, mandare tutte all’altro mondo, con la bronchite, con la polmonite, con la tisi? Alla ribalta almeno, si aveva più caldo. Mentre passavano, per file di quattro, nei loro veli bianchi, dietro ai soldati egizi, dietro ai prigionieri che Radames riconduce incatenati, girando due volte tutto il palcoscenico, Concetta Giura, che stava due file innanzi a Carmela Minino, si voltò e le disse;

Guarda, Carmela, guarda nel palco dei nobili.

Quel palco dei nobili, che era, poi, quello del Club Nazionale, il palco di proscenio di prima fila a destra degli spettatori, dove ogni socio va a dare una capatina, nelle sere di spettacolo, a restarvi cinque minuti, per un convegno con un amico, a cercare, da dietro i suoi paralumi verdi, lo sguardo di qualche dama che è nella sala, questo palco, con quello degli ufficiali e quello della Commissione, è quello che attira sempre l’attenzione delle ballerine. Sul davanti, vi sono sempre due o tre gentiluomini, seminascosti dai paralumi; vi si chiacchiera, vi si ride, vi si lascia la pelliccia e il bastone, per andare a far visita in qualche palco. Anzi, da quel palco, quei gentiluomini dicono volentieri la paroletta, dicono qualche frase galante alle cantanti, alle mime, alle ballerine, quando vi si avvicinano: vi si fissano, passando, persino degli appuntamenti. Carmela vi guardò, suggestionata da Concetta Giura. Vi erano tre o quattro gentiluomini in piedi, un po’ in fondo; parlottavano fra loro, vivacemente. Carmela riconobbe, di fronte, il duca di Sanframondi, alle spalle e al profilo, il conte Althan, ma non potette discernere le fisonomie e le persone degli altri due; poi, i quattro uscirono e il palco restò vuoto qualche tempo. Vi apparve, più tardi, Inigo Assante, un giovanotto magro e pallido, che rimase colà un pezzetto, voltando le spalle alla sala, ma non guardando neppure il palcoscenico, e poi se ne andò anche lui, frettolosamente, come se fosse stato chiamato. La sfilata e la danza finirono, le ballerine rientrarono nel camerone. Dovevano attendere l’ultimo atto, adesso per danzare un breve passo sacro e mortuario, sulla pietra funebre che si chiude sulla testa del traditore Radames.

E l’ora parve eterna a Carmela Minino. Adesso, nello stupore in cui la metteva il suo malessere, era sovraggiunta un’inquietudine nervosa, un bisogno di muoversi, di parlare, di agire. Aveva un desiderio grande di uscire dal camerone, di andare nel camerone della prima fila, per parlare con Concetta Giura. Voleva chiederle se, in uno dei due gentiluomini che voltavano le spalle alla scena, in fondo al palco del Nazionale, e che parlottavano vivamente col duca di Sanframondi e col conte Althan, ella, Concetta Giura, avesse riconosciuto il conte Ferdinando Terzi di Torregrande. Ma si vergognò. Dicevano che Terzi avesse abbandonato dall’ottobre Emilia Tromba e che costei gli avesse già dato un successore nel marchese di Rivadebro, un vecchio viveur a cui la ricchezza, una terza ricchezza, dopo due altre che ne aveva divorate, era giunta troppo tardi. Uno dei due, certo, doveva essere Ferdinando Terzi, che andava sempre con Sanframondi e con Althan; forse discutevano fra loro di quel suicidio che colpiva tutta la loro classe e forse uno dei loro amici. Non osò, Carmela Minino, aspettando quell’ultimo atto dell’Aida che non veniva più, cercare di Concetta Giura per farle, anche indirettamente quella domanda, costei si vide più. Aveva promesso di venire a dare notizie, ma non doveva aver saputo altro, poiché, col suo gusto dei pettegolezzi, sarebbe corsa subito. Malgrado l’inquietezza sorda che le dava un tremolio interno, Carmela Minino non si mosse; quell’agitazione veniva, certo, dal suo mal di capo che ora si trasformava in trafitture nervose, nel cervello. Soffriva. Taceva, non dicendo mai ad alcuno le sue sofferenze fisiche e morali, timida anche fra le persone del suo sesso, fra le compagne di lavoro. Finalmente, questo tanto atteso ultimo atto dell’Aida venne. Le ballerine, macchinalmente, ricominciarono a muoversi, a riaggiustarsi un nastro al collo, a sollevare le loro gonnelle di velo, a stirare sulla persona i loro bustini di stoffa d’oro.

La scena nell’ultimo atto dell’Aida, per chi non lo rammenta, è divisa in due piani: nel primo, basso, è la cripta, è il sotterraneo ieratico, dove è seppellito, vivo, il traditore della patria, Radames: nel secondo piano, è il tempio di Ftha, coi sacerdoti, coi ieroduli che finiscono di murare la pietra sepolcrale, con le danzatrici sacre, che intessono intorno all’idolo, fra le colonne basse e tozze dell’architettura egiziana, le loro danze leggiere. Poi mentre Radames e Aida, che si sono ritrovati nell’oscura cripta, cantano il loro addio alla vita, alla terra, vedendo nel loro delirio di amore e di morte schiudersi il cielo, mentre ancora le ballerine scivolano lievi nei veli violetti, fra le arcate del tempio, Amneris appare velata di nero, piangente, si inginocchia sulla pietra sacra, la bacia, vi depone un fiore e vi resta ginocchioni a pregare. Le ballerine per fare quest’ultima piccola danza, sulla mistica musica che inneggia a Ftha, erano uscite metà da una quinta, metà dall’altra parte e poi si dovevano riunire, disciogliere novellamente, per poi formare quattro gruppi immobili.

Concetta Giura, con le altre nove, uscì dalla quinta a sinistra dello spettatore: Carmela Ninino dalla quinta a destra, danzando i due gruppi con pose molli orientali. Nell’ultimo, in cui Concetta e Carmela furono vicine, Concetta le disse con voce alterata:

— Non lo crederesti, non lo crederesti, chi è che si è ucciso

— Chi? — balbettò Carmela.

L’altra non giunse a rispondere, perché il ritorno del ballo le divise, per cinque o sei minuti: poi, come la musica diventava più incalzante e il ballo meglio le mescolava, Concetta Giura disse a Carmela Minino:

— Si è ucciso Ferdinando Terzi, con un colpo di rivoltella al cuore.

Carmela Minino, di botto, si fermò dal ballare. Vacillando, si arrestò verso il fondo, appoggiandosi a una di quelle colonne finte di legno e cartone; era confusa fra le comparse, vestite da sacerdoti di Ftha, in abiti talari di dubbia bianchezza, con certe lunghe barbe bianche, abbastanza ingiallite. Non vedendola ballare, addossata alla colonna, con una mano che si reggeva la fronte, una di quelle comparse le chiese:

— Che avete? Vi sentite male, signorina?

Ella guardò in faccia quell’uomo, senza rispondergli. Non lo aveva compreso, come non comprendeva più dove si trovasse, con quei gridi dei cantanti, con quel rumorio sordo dell’orchestra, con quella sala zeppa di spettatori estatici e che ella vedeva avvolti in una nebbia, con quegli uomini fermi, travestiti bizzarramente, fra cui ella era, con quelle donne vestite similmente a lei e che continuavano a ballare, voltandosi, ogni tanto, a darle un’occhiata indagatrice e, in fondo, indifferente. Le parve che qualche cosa la tenesse inchiodata, , contro quella colonna, qualche ritorta di ferro che ella non potesse giungere a spezzare: si sentì avvinghiata coi piedi calzati di seta a quel palcoscenico di legno, con la persona stretta a quel legno ed a quella cartapesta che fingeva il granito del tempio egiziano: e le pareva di far sforzi enormi per divincolarsi, per infrangere quelle catene, per fuggir via, senza riuscirvi, spasimando di dolore muto. Poi, la silenziosa angoscia divenne più intensa, più profonda: la sua volontà si tese, come se ella volesse spezzare in due una sbarra di ferro, e si senti libera, ad un tratto.

Uscì da quel palcoscenico, mentre le ultime battute della musica risonavano, mentre le ballerine davano gli ultimi passetti danzanti intorno alle colonne, mentre il canto degli amanti moribondi languiva nel sotterraneo, e Amneris, inginocchiata sotto le gramaglie, levava le braccia disperate al cielo. Carmela Minino fuggì verso il camerone, dove si dovevano spogliare e rivestire lei e le sue compagne, e furiosamente cominciò a strapparsi dai capelli l’ibis di metallo che fingeva oro, a scingersi il corsaletto di seta a fili d’oro, con le mani tremanti che strappavano tutto, che rompevano tutto. In tumulto le ballerine rientravano, parlando di quel suicidio, gridando, dandosi sulla voce, contraddicendosi, ripetendo quello che circolava in tutto il teatro, in tutto il palcoscenico, disputando, quasi venendo alle mani.

— Si è ucciso alle otto!

Nossignora, alle dieci...

— Si è ucciso a casa sua...

— Ma che casa e casa! Non era rientrato a casa da ventiquattr’ore

— Lo credevano partito.

— Aveva detto che andava a Roma.

— Si è ucciso in un albergo.

— Al Grand Hôtel, al Grand Hôtel!

— Niente affatto all’Hôtel Royal.

— Che state dicendo? Quanto siete bestie! Si è ucciso all’albergo Suisse, a via Molo.

— Un signore come lui, in quell’albergaccio!

— Se vi dico che è al Royal!

— Al Suisse, al Suisse! Non aveva che cinque lire, pare, addosso.

— Ma non si è mica ucciso per debiti, Ferdinando Terzi.

— Per amore, per amore

— Che peccato! un così bel giovane!

Bellissimo giovane... mi piaceva molto. Ci avrei fatto all’amore volentieri.

Ora è morto, è morto.

— Non mi piaceva, a me: era troppo superbo.

— Ed Emilia Tromba, che dirà Emilia Tromba?

— Che glie ne importa? Quella ha già un altro. Quella non ha mai amato nessuno, nel mondo.

— Salvo quel cocchiere con cui fece la prima sciocchezza.

— Un cocchiere? Un cocchiere? Ed era arrivata a Ferdinando Terzi?

— Sì: e glie ne ha mangiati denari! Anche lei sarà stata causa della sua morte.

— Si è ucciso per quella signora, lo sapete...

— Chi, signora? Chi, signora?

— La contessa di Miradois...

— La contessa di Miradois, sì, sì...

Carmela Minino, senza neppure voltarsi contro la porta, come faceva, ogni volta, per pudore, quando si tirava via la maglia di seta e restava ignuda, un momento, ora si era spogliata, e si rivestiva, gittando via tutto da , afferrando alla rinfusa i suoi abiti di città, adattandoseli addosso alla meglio, con le mani così tremanti che non potevano annodare i nastri, agganciare i ganci, passare i bottoni negli occhielli. Ella ascoltava tutto a occhi bassi, a bocca stretta, con una espressione feroce di collera nel viso. E vedendola vestirsi da città, ella che, come loro, doveva ballare fra mezz'ora nella Coppelia, due o tre di esse si meravigliarono.

— Che fai? Ti sei scordata che devi ballare nella Coppelia? — le chiese sogghignando Filomena Scoppa.

Carmela Minino la guardò, senza rispondere, e s’infilò la giacchetta.

— Te ne vai? Te ne vai? — disse Rosina Musto. — Non ti senti bene?

Carmela Minino si metteva il cappello, pungendosi con gli spilloni che lo dovevano tener fermo sulla testa. Non rispose neppure a Rosina Musto, prese il suo paio di guanti, la sua borsetta, si guardò attorno, con occhio bieco e senza salutare, senza rispondere una sola parola, uscì dal camerone.

— Ma che ha? Che è successo?

— Chi sa?

Sembra una pazza, da qualche tempo.

Carmela Minino si urtò con varie persone, mentre con passo rapido e deciso attraversava il corridoio umido e lubrico, che conduce alla porticina del teatro: ma non vide e non sentì nulla. Solo innanzi alla porticina vi erano due o tre gentiluomini che, malgrado il freddo, stavano , chiacchierando, coi baveri delle pellicce alzati.

Qualche lembo di frase le giunse:

Morto da tre ore...

— La famiglia non è stata avvertita...

— Non vi può essere funzione religiosa...

Carmela Minino fu colpita in volto dal soffio rigidissimo della tramontana, ma non lo sentì. Si era strofinata ruvidamente il volto con l’asciugamano, per togliersi il rossetto e il bianchetto, volendo riprendere il suo viso d’ogni giorno: e le guance le bruciavano.

Uscita sotto il porticato di San Carlo, guardò a destra e a sinistra, se vedeva una carrozza. E in quel punto le si presentò avanti don Gabriele Scognamiglio, tutto chiuso nella sua ricca pelliccia di lontra, con la sua bella barba bianca profumata, col suo bastone d’ebano dal pomo di argento cesellato, la sua faccia di vecchio gaudente, egoista e sorridente. Ella ebbe un movimento palese di ribrezzo, arretrandosi.

Dove vai, bella mia? — le chiese il vecchio, non accorgendosi di nulla.

Ella aveva fatto un cenno a un vettura da nolo, aperta, che si accostava: e si accingeva a salire.

— Ma si può sapere dove vai, così? — domandò imperiosamente, col tono del padrone, don Gabriele.

Ella, già salita in carrozza, a denti stretti, a voce bassa, gli rispose

Dove mi pare.

— Ah! — esclamò ironicamente don Gabriele. — Di già?... E quando ci vediamo?

— Mai più, — ella disse, con voce sorda, piena di sdegno invincibile, mentre la carrozza voltava, avviandosi verso la strada di Chiaia. Don Gabriele crollò le spalle e rientrò in teatro.

Quando giunse al Grand Hôtel, quasi alla fine di via Caracciolo, la carrozza da nolo che conduceva Carmela Minino, erano le dodici meno un quarto. Ci aveva messo meno di dieci minuti, da San Carlo, mentre la via è lunga; ma il cocchiere, intirizzito dal vento gelato di tramontana, aveva bastonato a morte il suo cavallo, giacché la signora, da dentro, gli diceva di far presto, di correre, di correre, perché gli avrebbe dato quel che voleva. Ella non sembrava aver freddo, la signora, poichè non aveva neppure rialzato il bavero della sua giacchetta e guardava continuamente di qua e di , la Villa Nazionale tutta bruna nella notte nera, e il mare nero che batteva sinistramente contro la banchina. La carrozzella girò attorno al giardinetto, che è davanti al grande portone del Grand Hôtel, e Carmela Minino discese precipitosamente. Il portone del magnifico albergo era ancora aperto, poiché s’aspettavano dei forestieri che dovevano arrivare col treno di mezzanotte da Roma e altri che erano in teatro; il maestoso guardaportone andava e veniva, col berretto gallonato d’oro sugli occhi; Carmela andò a lui, direttamente.

Scusate, — disse, guardandolo negli occhi, è qui che si è ucciso un gentiluomo?

— Che dite? Che volete dire, signora? — borbottò il portiere, stupito dalla domanda,

— Vorrei sapere se è qui che si è ucciso il conte Ferdinando Terzi di Torregrande, — ripetette ella, chiaramente.

Colui la guardò un minuto, come avesse da far con una matta; poi soggiunse, gentilmente:

Nossignora. Qui non si è ucciso nessuno.

Ella restò indecisa, guardandolo ancora fissamente, come se volesse strappargli una parola più sicura.

Ditemi la verità... — mormorò con voce tremula. — Ditemelo, vorrei saperlo... Se è qui, ditemelo...

Era così smarrita, adesso, che il portinaio comprese qualche cosa e le disse, con una certa dolcezza:

Persuadetevi, signora, che questo gentiluomo non si è ucciso qui.

— Allora, scusate. Buona notte, grazie, buona notte.

Il portiere la vide allontanarsi con passo risoluto, nell’ombra, risalire in carrozza, dopo aver detto due parole al cocchiere. E la carrozzella riprese a correre, sgangheratamente, per via Caracciolo, perfettamente deserta, fra il tetro mare che rotolava le sue onde, rotte al soffio della tramontana, e gli alberi bruni e brulli della Villa Nazionale.

Corri, corri, per amor di Dio, — pregava la donna di dentro, al cocchiere.

Costui si era convinto, oramai, che si trattava di una cosa grave, di una disgrazia, forse, e, ogni tanto, dava una occhiata di curiosità e di compassione alla donna, che fremeva d’impazienza, in quella notte freddissima d’inverno, e che girava di albergo in albergo in cerca di qualcuno. Fermarono in via Chiatamone, innanzi all’Hôtel Royal, di cui allora allora si andavano chiudendo le porte: non v’era neppure più il portiere, vi era il facchino che veglia la notte, dormendo sovra uno stramazzo nel peristilio dell’albergo. Carmela Minino fece a lui, per la seconda volta, la singolare tragica domanda. Quel facchino era un napoletano. La guardò con un sorriso ironico, e le disse:

Figliuola mia, vi hanno burlata.

No, questo signore si è ucciso veramente, ella disse, guardandosi intorno, con un viso così pallido, con certi occhi scrutatori, che il facchino smise subito di scherzare.

— Ma qui no, qui no, per grazia di Dio.

— Ne siete certo, buon uomo? Ne siete certo?

— Come è certa la morte, figliuola mia.

— E buona notte, buona notte, andrò altrove.

Quando fu sul marciapiede della via del Chiatamone, Carmela Minino fu presa da uno scoraggiamento immenso. Nell’ombra il cocchiere aspettava guardandola.

— Qui neanche vi è... — mormorò lei come se parlasse a stessa, con una espressione infantile di dolore.

— Ma chi andate cercando, signorina? Chi andate cercando? — domandò il cocchiere, felice di poter appagare la sua curiosità,

— Uno... balbettò lei. — Uno… che si è ucciso...

Madonna del Carmine! E vi era qualche cosa questo signore?

Ella guardò il cocchiere senza rispondere. Costui dovette capire, che quell’ucciso le era qualche cosa.

— E non sapete dove?

— Mi hanno detto due o tre alberghi; ma non vi è, non vi è, non l’ho trovato.

— Qualche altro ve ne hanno nominato?

— Sì, sì, l’albergo Suisse. Dove sta? Al Molo, mi hanno detto!

— Chi lo sa, signorina mia! Questo è un albergo che non conosco. Andiamo al Molo. Chi ha lingua, va in Sardegna.

Ella ripassò dinanzi a San Carlo, mentre la gente cominciava ad uscire dal teatro, poichè il piccolo ballo Coppelia era finito ma Carmela non si voltò neppure. La mezzanotte era suonata, adesso ella pensava che a questo albergo Suisse avrebbero, forse, già chiuso il portone. Traversarono piazza San Carlo, piazza Municipio, tutta la via Molo, mentre lei e il cocchiere guardavano su tutti i balconi, a cercare l’insegna di questo albergo. Finalmente, all’angolo fra via Porto e via Molo, in un avvallamento dove già cominciavano i lavori dello sventramento di Napoli, sopra un balcone videro una scritta su cui batteva a tratti la luce di un lampione, che il vento notturno, sempre più freddo, agitava Pension Suisse.

— Eccoci, — diss’ella, con voce profonda, guardando quel balcone, di cui i cristalli erano chiusi, velati dalle tendine di merletto, ma interiormente illuminati.

Il portone della Pension Suisse aveva un battente chiuso e l’altro socchiuso; Carmela Minino si ficcò per quella mezza apertura, e si trovò in un androne oscuro e umido, illuminato appena da una lampada a petrolio, fumosa, dalla luce rossiccia; un uomo mal vestito, che portava in capo un berretto, sdrucito e unto, con le mani in tasca, passeggiava, fischiettando l’aria della Ciccuzza. Carmela gli si avvicinò e quell’individuo dal viso scialbo, dallo sguardo sfuggente ed equivoco, la squadrò sospettosamente.

— È qui... — diss’ella, ripetendo per la terza volta la funebre domanda. — È qui che si è ucciso il conte Ferdinando Terzi di Torregrande?

— Sì, per nostra disgrazia, — borbottò l’altro.

— Ah! — diss’ella, diventando anche più bianca.

Di botto, uscì dal portone socchiuso, aprì la sua borsetta per pagare il cocchiere. Costui la rimirava con occhi compassionevoli.

— L’avete trovato, eh? — le chiese con tono di rimpianto.

— Sì, l’ho trovato, — rispose Carmela, brevemente, con quel suo tono profondo e sordo, aggiungendo una lira di mancia al prezzo.

Debbo aspettarvi, signorina? — replicò il cocchiere, commosso da quell’avventura e da quella lira.

— No, non mi aspettare.

Rientrò nel portone. Il losco portinaio le sbarrò la via,

Dove andate?

— A vedere il morto.

— Siete persona di famiglia? — soggiunse l’altro, guardandola di nuovo.

—... No.

— E allora, perchè salire?

— Sono la sua cameriera, — ella soggiunse, facendo scivolare due lire nella mano di quel portinaio.

Per fortuna, teneva nella borsetta la quindicina, presa quel giorno stesso. A tentoni, ansando, ella salì per una scaletta in capo alla quale brillava un lumicino. E dal posto, dal portone, dalla scala, da quell’anticamera nuda, attraversata da una lurida striscia di cocco, dove un lercio cameriere sonnecchiava, presso la tavola, si vedeva non solo l’alberguccio di terzo ordine, ma la locanda malfamata, le cui orribili stanze si affittano a giornate ed a mezze giornate, per due ore e per un’ora, da persone che arrivano senza bagaglio, che pagano in fretta e anticipatamente, sempre in coppia, coll’uomo che arriva cinque minuti prima, la donna subito dopo, con cautela, a occhi bassi. Due o tre porte davano su quell’anticamera due erano chiuse, la terza a dritta, dirimpetto alla scaletta, dove andava a finire la striscia di cocco, era socchiusa; un filo di luce ne usciva.

— Voglio vedere il mortodisse subito, accennando cogli occhi a quella porta, Carmela Minino.

Il cameriere si stropicciò gli occhi e le chiese anche lui

— Siete parente?

— Sono una sua beneficata, — replicò ella, reprimendo un singhiozzo che le schiantava il petto.

Parenti non ne sono venuti. Qualche amico… ma se ne è andato subito. Si aspetta il pretore. Entrate.

Entrò Carmela Minino, sola. La stanza era quella più grande della trista locanda: aveva un balcone su via Molo e uno su via Porto, occupando l’angolo del casamento. Delle tendine, un tempo bianche, adesso giallicce di polvere e di fumo, coprivano i vetri, per nascondere la stanza ai vicini e ai viandanti altre cortine, egualmente affumicate e sporche, erano state disciolte dai loro grossi cordoni di cotone bianco. Un tappeto, di cui non si vedeva più il disegno, ridotto ad un’esile trama, copriva il pavimento; una toilette d’antico modello, dallo specchio verdastro, un cassettone dal piano di marmo bianco, un secrétaire e quattro sedie di Vienna, completavano il mobilio di quella povera, sporca e pretenziosa stanza dove tante persone erano passate in un’ora di amore perseguitato, di capriccio volgare, di follia. Il letto grande maritale occupava tutto il fondo della stanza, sotto un baldacchino di sargia verde, da cui non pendevano cortine. Sul letto, ove si era ucciso, donde non era stato rimosso, aspettandosi il pretore, giaceva il conte Ferdinando Terzi di Torregrande.

Il letto non era stato disfatto: tutto ricoperto di sargia verde a macchie giallastre, dimostrava che sulle materasse non vi erano lenzuola. I cuscini avevano, però, la loro federetta, guarnita di un merletto all’uncinetto fatto in casa. La sargia verde aveva anche delle macchie fresche di sangue: delle macchie di sangue insozzavano il tappeto nella viottola del letto, dalla parte ove il conte si era ucciso; tutto lo sparato della camicia da frac era macchiato, sul petto, di sangue. Ferdinando si era ucciso in marsina e in cravatta bianca. Aveva anche una gardenia candidissima all’occhiello. La sua pelliccia era deposta sopra una sedia poco distante.

La mano destra con cui si era tirato il securo colpo al cuore, era ricaduta lungo la persona e si allungava sul letto, tenendo fra le dita, mollemente, una piccola rivoltella a calcio di argento brunito, lavorato finemente di cesello; la mano sinistra, in un moto di spasimo, si era raggricciata sul petto verso il cuore: e le dita, il dorso della mano rosseggiavano di sangue. Del resto il corpo non offriva altre espressioni di dolore: era posato decentemente sul letto, supino, come chi aspetti il sonno, fantasticando. La testa si appoggiava sui due cuscini bianchi, senza linea di contorcimento; anzi, con una quiete composta che doveva essere anteriore alla morte. I bei capelli biondo-castani, divisi in mezzo, pettinati alla russa, non si erano disordinati: la bella bocca sottile e rossa appariva sotto l’arco de’ bei baffi biondi, sotto la linea purissima e tagliente del profilo aquilino: solo il mento si rialzava, come in vita, dalla linea dura di volontà. Le palpebre erano abbassate sui begli occhi azzurri, il cui sguardo dai riflessi metallici, dalla espressione ora indifferente, ora superba, ora addirittura sprezzante, si era estinto. E malgrado l’aspetto infame di quella Pension Suisse, malgrado l’ignobilità nauseante di quella camera, malgrado tutto quel sangue sparso sul petto, sulle mani, sul letto, sul tappeto, malgrado quella morte così orrenda, quel morto conservava la sua nobile bellezza venutagli da Dio, dalla razza, dalla educazione, dai gusti, e che i vizi della vita, la laidezza di quella fine gli potevano togliere. Chi sa perché Ferdinando Terzi aveva voluto morire in quella locandaccia, in quella cameraccia puzzolente? Forse, per un supremo insulto a stesso e agli uomini? Ma non era giunto a cancellare i tratti che la bellezza aveva messo sul suo viso e sulla sua persona. Anzi, la morte vi aveva messo qualche cosa di più semplice, oramai, qualche cosa come il ritorno alla verità originale, una purezza nuova, una nuova giovanilità al bellissimo che si era colà ucciso.

Ai piedi del letto, con le mani incrociate sulla spalliera di ferro vuoto, Carmela Minino non si saziava di guardare quel morto. Lo aveva cercato, di notte, per tutta Napoli, andando a bussare alle porte dei più ricchi e più eleganti alberghi, come una pazza, e lo aveva finalmente trovato, in quella stamberga, solo, non pianto da nessuno, non vegliato da nessuno, salvo quel sonnacchioso cameriere, ed ella lo poteva adesso guardare a suo bell’agio, con gli occhi secchi e lucidi, dove non appariva una lagrima, comprimendosi il petto con le mani, quasi a calmarne l’ansia.

Lo aveva raggiunto. Non vi erano costì, la madre di Ferdinando Terzi che viveva in Puglia nelle sue terre, dal giorno in cui era rimasta vedova: non vi era la sua sorella maritata, la marchesa di Vallicella, a cui nessuno aveva osato dirlo ancora: non vi era la bruna e fine marchesa di Miradois, la spagnuola dagli occhi brucianti, dal marito così tremendamente geloso. Vi era solo lei ed ella contemplava Ferdinando Terzi come non aveva mai avuto il coraggio di farlo in vita, lo contemplava divorandone cogli occhi il volto reso più fine, più eletto, più spirituale, dalla morte. I begli occhi erano chiusi, per sempre: ella ne sapeva lo sguardo, tanto da vederli aperti e fissi in un punto lontano e la figura le si completava innanzi come quando era viva, ma più bella e più nobile.

La porta si schiuse e lasciò passare cinque o sei persone: prima che la vedessero, Carmela Minino si arretrò nel varco del balcone, fra le cortine prosciolte, forse prosciolte dalla mano stessa del morto, per garantirsi dalla curiosità dei vicini di via Porto e dai viandanti di via Molo. Coloro che erano entrati erano il pretore col suo cancelliere, il padrone e il cameriere dell’alberguccio, il duca di Sanframondi e il conte Althan. Dal suo nascondiglio, ove ella ratteneva il respiro, Carmela Minino vide ed intese tutto quel lugubre formulario che accompagna la constatazione di un decesso per suicidio. Il pretore, molto annoiato d’essere dovuto uscire a quell’ora, con quel freddo cane, venendo a piedi dal vicino giardinetto ove abitava, un grosso uomo, già obeso a trent’anni, si era gittato, soffiando e sbuffando, nella sola poltrona, tutta sgangherata, che vi era e di cui le molle stridevano ad ogni movimento di quel corpo pesante. Il cancelliere, un piccolo, magrolino, con gli occhi rossi dal sonno interrotto e dal vento gelido che soffiava, col bavero del soprabitino gramo sollevato alle orecchie, si era allogato presso la toilette, per scrivere il verbale. E vi fu scritto questo: «I due gentiluomini, duca Leopoldo Caracciolo Rosso di Sanframondi e conte Francesco Federici di Althan, amici personali dell’estinto, dichiarano che il suicida è propriamente il conte Ferdinando Terzi di Torregrande, figliuolo primogenito del fu conte Giovanni e di Donna Maria Angela de La Puiserage. Riconoscono anche i suoi vestiti, i suoi gioielli, la sua pelliccia e la rivoltella con cui si è ucciso».

«Il conduttore dell’albergo Pension Suisse dichiara che si è presentato, alle sette di sera, il prenominato conte Ferdinando Terzi di Torregrande e gli ha chiesto una stanza per passarvi la notte. Visto l’aspetto di gentiluomo, Raffaele Scarano, conduttore di detto albergo, non gli ha chiesto donde venisse, il suo nome, e perché non avesse bagaglio. Egli non ha saputo il suo nome che più tardi, dopo il suicidio. Il conte Ferdinando Terzi ha pagato il prezzo della camera — la migliore della Pension Suisse — in lire quattro e cinquanta, non ha preso il resto di cinquanta centesimi delle cinque lire, e ha detto che sarebbe tornato più tardi. Il prelodato gentiluomo, almeno dal tempo in cui lo Scarano è conduttore della Pension Suisse, non è mai venuto in quell’albergo».

«Il cameriere della Pension Suisse, Domenico Quagliuolo, dichiara di aver visto, alla sfuggita, il conte Ferdinando Terzi di Torregrande, quando ha contrattato la camera col suo padrone Scarano, ma di non averlo guardato bene, avendo l’abitudine di osservare il meno possibile i passeggieri, per non dar loro fastidio. tardi, verso le nove, il conte è ritornato, solo. Il padrone Scarana era dall’altra parte dell’albergo e il conte si è diretto al cameriere perchè gl’indicasse la camera sua. Entrando in essa, si era fermato un poco sulla soglia. Il cameriere gli aveva subito fatto osservare che il letto non aveva le lenzuola, perché non lo si aspettava così presto, ma che del resto si accomodava in un momento. Il conte gli aveva soggiunto che era inutile, per allora, poichè, forse, egli sarebbe uscito di bel nuovo; era molto tranquillo e aveva anche acceso una sigaretta. Poi, aveva licenziato il cameriere, dicendogli che lo avrebbe richiamato. La porta era stata chiusa con la sola maniglia, non con la chiave. Il cameriere aveva udito il conte che andava e veniva, due o tre volte, nella camera, ma con passo tranquillo poteva esser passata, così, mezzora, quando il Quagliuolo aveva sentito il colpo di rivoltella e si era precipitato nella stanza. Il conte Ferdinando Terzi boccheggiava, sul letto dove si era disteso non aveva detto una sola parola, aveva soltanto aperto e chiuso gli occhi, due o tre volte, si era guardato intorno, come se cercasse qualche cosa. Il Quagliuolo insisteva su questo particolare. Il suicida era morto immediatamente, nelle braccia del Quagliuolo, che aveva una manica della sua marsina sporca di sangue. Erano corsi il padrone Scarano, due commessi viaggiatori che alloggiavano in casa, il portinaio dalla farmacia del Cervo, in via Torto, era corso, chiamato, il dottor Gaetano Marotta, che aveva constatato la morte e disteso il verbale mortuario. Sul tavolino da notte era stata trovata una carta da visita col nome del conte Ferdinando Terzi di Torregrande e con le parole, scritte a lapis: mi uccido, perchè così mi piace, con la firma. L’avviso della morte era subito stato dato al San Carlo, al palco del Nazionale, ove si supponeva che qualche amico o qualche parente del suicida vi fosse».

Questa scrittura del verbale durò più di un’ora: il pretore, dopo raccolte le dichiarazioni, lo aveva dettato parola per parola al cancelliere. I due gentiluomini assistevano, in piedi, muti, evidentemente turbati e commossi per quella morte, ma anche seccati di esservi frammischiati interrogati dal pretore, così, fuggevolmente, su le cause che avevano potuto determinare questo suicidio, s’erano schermiti dal rispondere con un cenno evasivo.

Egli, colpito da un certo rispetto, non insistette. Del resto, il suicidio era chiaro; la constatazione di morte del dottor Marotta era precisa e legale; il pretore sapeva bene che Raffaele Scarano, conduttore della Pension Suisse, e Domenico Quagliuolo, cameriere, avevano troppo paura della giustizia, per ragioni loro particolari, per non aver detto la verità in questo fatto, di cui erano innocenti. Egli si sbrigò. Cascava dal sonno, moriva di freddo: il suo povero cancelliere batteva i denti: i due gentiluomini avevano l’aria impaziente: il padrone dell’albergo ed il cameriere erano inquieti, afflitti da quel caso che gittava una luce anche più sinistra, malgrado la réclame, sul brutto loco che era la Pension Suisse. Solo il morto, su quel letto sporco del suo sangue, nulla sentiva più di tutte queste impressioni e sensazioni umane che egli suscitava, entrato oramai nella grande pace, cui aveva anelato, per una ignota e profonda ragione: solo, dietro le cortine abbandonate e ondeggianti, un essere fremeva, in silenzio, d’impaziente disperazione.

Uscirono via, prima, il pretore e il cancelliere, chiusa la funebre bisogna del verbale, riaccompagnati dal conduttore dell’albergo e dal cameriere: essi rientrarono poco stante, dopo essersi raccomandati, chi sa mai, al signor pretore. Il duca di Sanframondi e Francesco Althan si consultavano, a bassa voce, fra loro, sogguardando di tanto in tanto il morto: il più prudente era di lasciarlo colà, sino alla mattina, per non fare un tumulto a casa Terzi, alle due della notte: alla mattina Sanframondi si sarebbe incaricato di questo funebre trasporto, mentre Althan avrebbe avvertito la marchesa di Vallicella. Ad assistenza di preti, non si poteva pensare, a quell’ora, in quel posto: si sarebbe veduto l’indomani. Parlavano piano, con parole monche, alludendo ognuno, con frasi velate, ad una causa possente ed ineluttabile che aveva determinato il suicidio: non vi era da fare, per il povero amico loro, che uccidersi. E se ne andarono anch’essi, dando cinquanta lire nelle mani di Raffaele Scarano per quanto occorresse, a prima mattina, e cinque lire di mancia al cameriere, perché vegliasse il morto. Dopo un’altra occhiata al suicida, essi andarono via, in punta di piedi. Il padrone affidò il cadavere al cameriere e se ne uscì, borbottando contro il suo avverso destino, malgrado le cinquanta lire. Quale coppia mai avrebbe presa quella stanza, dove un uomo si era ucciso? I giornali avrebbero parlato, egli era rovinato.

Con un gran sospiro di sollievo, Carmela Minino uscì dal suo nascondiglio. Il cameriere, che si era dimenticato di lei, la guardò con sorpresa.

Andate a dormire, lo veglio io, — ella gl’impose, indicandogli la porta.

— Ma... ma...

— Eccovi cinque lire. Restate nella camera accanto, ma non entrate.

— Voi, certo, non potevate essere una sua innamorata... — disse lui, dopo averla squadrata, paragonandola lei, così brutta, così poveramente vestita, con quel morto così elegante e così bello.

— No, io non poteva essere la sua innamorata, — disse lei, con voce strana. — Andatevene dunque.

Egli se ne andò a malincuore. Ella chiuse la porta, con la maniglia. Finalmente, ella restava sola, con quel morto. Nessuno sarebbe venuto, sino alla mattina: quel morto era suo. Di dietro le cortine, ella aveva tutto udito, mentre moriva di impazienza: Sanframondi, Althan, nessuno di quel ceto sarebbe venuto, sino all’indomani, mentre l’opera del medico e del pretore era compiuta, mentre il padrone dell’albergo e il cameriere si erano allontanati. Quel morto era suo, per una notte intiera, in una camera ignota, solinga. Ella lo guardò con una tenerezza e una pietà intensa: si mosse pianamente, per la stanza: trovò, sul piano di velluto del falso caminetto, due steariche: le accese e le trasportò verso il morto, sul tavolino da notte, che era dal lato del cadavere. Per far questo, si era avvicinata molto a lui lo guardò dappresso, come affascinata da quello spettacolo di funebre beltà, giacente nel suo sangue. Si cercò macchinalmente nella tasca: vi trovò il suo rosario e cavandolo fuori, ne baciò la medaglina della Vergine che vi era sospesa ed il piccolo crocifisso di metallo. Cautamente, con una gentile delicatezza, intorno alla mano che si raggricciava sul cuore morto di Ferdinando Terzi, ella avvolse il suo rosario, lasciando cadere la medaglina della Madonna ed il crocifisso sul petto insanguinato.

Per fare questo, ella non solo aveva dovuto avvicinarsi molto al cadavere, ma piegarsi sovra esso, toccarne la mano gelida: due volte si era gettata indietro, come se le mancassero le forze. Ma quel volto l’affascinava: si guardò intorno. Era sola. Alta era la notte: alto il silenzio. E, lentamente, ella si curvò su quel morto, appoggiò lievissimamente, in un bacio tenue, le sue labbra su quella superba fronte, altiera anche nella morte. Quel tocco freddo sciolse l’orribile nodo che serrava la gola e il petto di Carmela: ella piombò a terra ginocchioni, presso il letto, sulla macchia di sangue che deturpava il tappeto, piangendo. singhiozzando, parlando al morto.

— Oh amore mio, oh amore mio unico, amore mio bello, voi siete morto, voi siete morto, ed io vivo! Oh bellezza mia, oh cuore mio, solo morto io vi poteva baciare! Chi me lo avesse detto, chi, chi, che vi doveva vedere morto! Oh amore mio, perché campo io, io, perché ci campo su questa terra, dove voi siete morto!

Così cominciava, nella notte d’inverno, la veglia funebre di Ferdinando Terzi conte di Torregrande, nella lurida stanza della Pension Suisse, fra il sangue del suicidio, assistito dal pianto, dai singulti, dalle interrotte parole di amore e di dolore di Carmela Minino, ballerina di terza riga, al teatro San Carlo.


«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on touch / multitouch device
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2011. Content in this page is licensed under a Creative Commons License