Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Castigo
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I

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Castigo

I

 

Un alto e tetro silenzio era nella stanza di Cesare Dias. Egli stava seduto nel seggiolone di cuoio bruno, teneva appoggiati i gomiti sulla grande scrivania di legno scolpito e le due mani gli nascondevano gli occhi e la fronte: si vedean solo i capelli un po’ scomposti e le labbra pallidissime sotto i mustacchi disfatti. Fuori, la triste giornata invernale declinava e tetre si facevano le ombre nell’austera stanza, tetre intorno a quella immobile figura di uomo di cui, nell’alto silenzio, parea non si udisse neanche il respiro.

Eccellenza... — mormorò una voce trepida.

Cesare non si mosse: sembrava non avesse inteso.

Eccellenza, perdonate... — ripetette l’esitante e tremula voce. Allora egli, quasi a forza, liberò i suoi occhi e la sua fronte dal velo delle mani e fissò lo sguardo stanco e smarrito sulla cameriera, che lo aveva due volte interrogato. Non avea pianto, Cesare: ma tutto il volto aveva una espressione di stanchezza e di smarrimento.

— Come debbo vestirla? — chiese la donna.

Pensò un minuto:

— Di biancodisse, a voce sommessa.

E come quella donna se ne andava, al suo domestico e terribile ufficio, egli la richiamò.

— Il vestito da sposa: anche il velo.

Un singulto spezzò il petto della cameriera. Cesare Dias la guardò, trasognato, come si guarda un fantasma: la mano, che egli aveva abbandonata sulla scrivania, tremava. La donna se ne andò, piangendo, senza che egli avesse soggiunto altro. Restò solo, di nuovo. Non un rumore giungeva dal resto dell’appartamento: non un rumore dalla strada. Annottava. Un servo entrò, portando una lampada accesa, coperta da un largo paralume, e la posò sulla scrivania, augurando la «buona sera». Ma il padrone non rispose: la luce della lampada, ristretta in cerchio vivido dal paralume, batteva sugli oggetti della scrivania che entravano nel suo alone luminoso. Cesare li guardava, intensamente, questi.

Era il suo calamaio di bronzo antico, figurante un Fauno che accarezza una Chimera, i due o tre portasigarette di argento niellato, di cuoio impresso, i portacenere di porcellana giapponese dove erano ancora i resti di sigarette fumate al mattino; e la lucernetta che serviva ad accenderle, e due o tre scatole di foglietti, aperte, donde, talvolta, egli traeva un foglio per scrivere una parola a un amico: raro scrittore, avente in odio le lettere e le loro risposte. Tanti altri minuti e leggiadri oggetti, leggiadri nella serietà del loro gusto, avea quella grande scrivania, ma restavano in ombra, oltre il lume, perduti nell’oscuro del legno, fra le penombre che avevano invasa la gran camera. Cesare non guardava ciò; non guardava neppure il vasello di limpidissimo cristallo dove, ogni mattina, una mano innamorata veniva a mettere un mazzolino di fiori freschi. Sorridendo di piacere, il Fauno passava la mano carezzevole sulla nuca della Chimera; scintillava l’argento dei portasigarette, chiudendo il conforto, il sollievo dei brevi, malinconici pensieri del fumatore; la carta rammentava i piaceri fini, le ore squisite, i nomi delle persone simpatiche: ma presso il calamaio, l’alone della lampada mostrava due oggetti insoliti a quella scrivania e su cui stavano fissi gli occhi di Cesare Dias. Il primo era una piccola rivoltella delicatamente incrostata di acciaio e di avorio, come un gioiello; posava sulla scrivania, brillando nelle gentili intarsiature, vezzosa nella sua brevità, quasi lasciando indovinare, in tanta grazia, la precisione rigorosa del suo meccanismo. Ah, si rammentava bene, Cesare Dias, dove l’aveva comperata e quando; se ne ricordava con una lucidità vivissima; a Liegi, nel Belgio, in un molto noioso viaggio che aveva fatto colà, sei anni prima, seccatissimo di quel paese che imita la Francia, e capitato a Liegi solo per un suo segreto e bizzarro amore delle belle armi. Non se ne era servito mai, di questa rivoltella, così carina e l’aveva tenuta nel suo cassetto, dimenticata, rivedendola ogni tanto, quando gli capitava: non si ricordava chi l’avesse mai caricata. Adesso… il gioiello era , e attirava magneticamente i suoi occhi coi suoi punti luminosi. Pian piano la mano abbandonata sulla scrivania, si appressò all’arme, la toccò, il dito si posò sull’orlo della piccola canna dai metallici, crudeli riflessi. Per ribrezzo la mano si ritrasse: il dito era sporco di nero, un colpo era stato sparato, con quella leggiadra rivoltella. Più profondo si distese il pallore sul viso di Cesare.

Accanto alla rivoltella giaceva ammucchiato, molle, un fazzolettino di batista, orlato di un lieve merletto. Piccole macchie di sangue bagnavano il merletto, alcune già secche e un poco scolorite, altre ancora fresche e vivide; la batista, poi, era tutta una larga macchia di sangue che agli orli, asciugandosi, s’ingialliva, mentre in mezzo era di un rosso fortissimo. Quel fazzoletto era stato composto, per tanto tempo, nella sua custodia di raso profumato, era passato per le bianche mani inguantate, al ballo, ai teatri, a tutti gli spettacoli della gioia umana; e poi, due ore prima, si era appoggiato sulla ferita sanguinante di un cuore infranto per sempre. E quelle piccole macchie di sangue, come quella larga macchia di sangue ancora umida, lo attiravano con il singolare e pauroso fascino che solo il sangue versato ha, poiché il sangue pare ancora vita, poiché il sangue è vita fluente. Aveva toccato la canna sudicia dal passaggio della palla micidiale, ma la sua mano di uomo non vinse l’orrore che gli faceva quel sangue, malgrado che, con tutte le misteriose forze delle cose vive, quel sangue invocasse le carezze della sua mano, i baci delle sue labbra, le lagrime dei suoi occhi. Da tre ore, su quella scrivania, egli aveva innanzi a sé quella rivoltella minuta e graziosa, quel fazzolettino muliebre: e non sapeva staccarne gli occhi, e per liberarsi da quella visione aveva dovuto nascondersi il volto fra le mani, vedendo ancora, attraverso le dita, lo scintillìo dell’arma micidiale e la larga macchia di sangue che copriva la batista. Quella rivoltella e quel sangue erano la morte: e, intorno a lui e in lui, era l’alto e tetro silenzio, la immobilità delle cose finite.

Un lieve passo sfiorò il tappeto e un’ombra femminile venne ad appoggiarsi dall’altra parte della scrivania. Era Laura, sua cognata. Nella faccia della bionda fanciulla, candida faccia giovanile e verginale, nei grandi, chiari occhi azzurri, nel purissimo arco della bocca vi era la medesima espressione di smarrimento; il trasognare dello sguardo e della voce di coloro che furono stupefatti dalla più improvvisa fra le catastrofi. Ella aveva gittato sul suo vestito bianco uno scialle di merletto nero che le cadeva da una spalla, e i capelli biondi erano disciolti sulla nuca. Stette un poco , posando leggermente le mani sulla scrivania, come non si reggesse. A un momento si guardarono, smemorati, quasi non riconoscendosi. Ella per la prima parlò.

— Non ho trovato nessuna letteradisse, parlando a se stessa.

Egli fece un cenno largo con la mano. Perché avrebbe dovuto esservi una lettera?

— Nessuna, nessuna — si ostinò lei, con l’idea fissa dei disperati. — Ho guardato dovunque, nella sua stanza, altrove. Nessuna... niente...

Cesare crollava il capo. Era naturale che nessuna lettera si trovasse: perché cercarla?

— Eppure... avrebbe dovuto esservi... — soggiunse Laura. — Cercherò... cercherò ancora...

Ma non se ne andò. Egli abbassava il capo, non volendo guardarla. Ella restava, presa anche lei dagli oggetti deposti sulla scrivania.

— ... È quella? — chiese, poi, indicando la rivoltella.

Anzi che parlare, Cesare assentì col capo.

— Stava... vicino a lei?

— Sì... — rispose Cesare, così piano che appena Laura l’udì.

— Un sol colpo?

— Un solo.

— E... subito?

— Subito.

Tacquero, come se avesse sfiorato la loro testa il soffio gelido della morte. Laura si curvò, lentamente, sulla tavola, tenendo lo sguardo sul fazzoletto macchiato di sangue: lo voleva vedere più da vicino.

— È suo? — domandò monotonamente, quasi che questo interrogatorio le sgorgasse dall’anima senza sua volontà.

Ma un brivido di terrore, di ribrezzo, di pietà colse Cesare Dias.

Taci... — disse con voce fievole, coprendosi il volto con le mani.

Ella era curva sulla scrivania, vinta dalla spaventosa seduzione del sangue, stendendo la mano per toccare il fazzoletto.

— ... Molto sangue? — chiese, come in un sogno, Laura.

Taci, taci, taciscongiurò lui, cadendo con la testa sul tavolino, con le braccia prosciolte.

Ma ella aveva messo le mani sul fazzoletto e con le bianche dita frugava fra le pieghe sanguinose della batista e del merletto, senza che tremassero: soltanto con uno smarrimento maggiore negli occhi. Si alzò parlando a se stessa:

— Niente, anche qui... bisognerà cercare altrove...

Poi, chetamente, come era venuta, volse le spalle e se ne andò, col lembo dello scialle nero che le cadeva sull’abito bianco e coi capelli biondi che le si disfacevano sulle spalle. Si erano parlati, si eran guardati: l’un volto smarrito e stanco era il riflesso dello stanco e smarrito volto dell’altro, ma non si erano, forse, né visti, né uditi.

— La signora è vestitaannunciò, rientrando, la cameriera.

Egli trasalì e si levò immediatamente, dicendo:

— Vengo.

Non parea, forse, che il tempo si fosse arrestato di ventiquattro ore e che ella lo avesse mandato a chiamare per farglisi vedere nel suo vestito di broccato azzurro, prima di andare al teatro? Tutta l’anima di Cesare Dias vacillò, un minuto. Ripetette, vagamente:

— Vengo... vengo...

Doveva andare. La signora non era forse vestita col suo bell’abito? Ella si facea sempre guardare da lui, prima di andare al ballo, o al teatro, o alla passeggiata, e solo la sua approvazione la lusingava. La cameriera aveva fatto il suo compito, ed egli andava a dare il lasciapassare mondano alla giovane signora che era pronta. Vacillava lo spirito di Cesare fra il sogno e il desiderio. E mormorò bizzarramente:

Ditele... ditele che vengo...

La povera donna lo guardò e crollò il capo. Non era che una semplice e oscura domestica; giammai la signora le aveva detto una sola parola dei suoi dolori, ma l’aveva sempre trattata con bontà. Crollò la testa alla strana ambasciata, mentre Cesare Dias si riaggiustava macchinalmente i capelli scomposti, con l’istinto di chi deve presentarsi corretto innanzi a una signora.

Eccellenza, — soggiunse la donna, dopo un’esitazione — ho messo anche il crocefisso... sul petto...

— Avete fatto benerispose lui subito, con l’anima nuovamente immobilizzata nel pensiero della morte.

— E anche la Madonna.. della Seggiola... quella Madonna di cui era tanto devota. Quella Mamma e quel Figlio sanno tutto... e le avranno già perdonato... Sanno tutto...

— È vero, sanno tutto — replicò lui.

La donna uscì. Cesare camminò un paio di volte, su e giù per la severa stanza, si fermò un istante innanzi all’oscuro suo letto, coperto da una coltre bruna; sull’arazzo, in fondo al baldacchino, il gran crocefisso di avorio stendeva le braccia sulla croce nera. Poi, un rumor sordo si udì fuori. Cesare andò al balcone; un vento di tempesta si levava nella sera invernale, le nuvole basse parea che scendessero a opprimere la terra e il mare; la piazza della Vittoria era nera e deserta; era nero l’orizzonte del cielo e del mare, su cui smortamente biancheggiava la base del monumento senza statua, sulla riva; e nell’ombra profonda, indistintamente, si vedea ondeggiare la palma, al vento tempestoso. Così, l’alto e tetro silenzio della casa, della sua austera stanza, era attraversato, ogni tanto, da questo rumorìo ancora basso, come sotterraneo, del vento che si levava. Egli si trasse di , senza neanche chiudere le imposte, contro la imminente bufera notturna che si levava dal mare; attraversò la sua stanza senza fermarsi, senza voltarsi indietro; attraversò il lungo corridoio che portava alla camera di sua moglie e restò sulla soglia, colpito da un acuto profumo, colpito da una viva luce.

Le pietose mani, che avevano vestito la signora, avevano anche buttato per terra, sul tappeto bianco a grandi miosotidi azzurre, sui mobili di quella chiara e lieta stanza, sulle poltrone, dovunque, quanti fiori si erano trovati in casa, quanti fiori si erano trovati al vicino mercato dei fiori, a Chiaia. Acutamente odoravano le bianche rose di gennaio: sottilmente odoravano le dolci rose thea; soavemente odoravano dei mazzolini precoci di violette: freschi e freddi fiori d’inverno, caduti come una pioggia in ogni angolo della bella stanza, dove la signora stava, vestita. Il gran balcone che dava sulla piazza della Vittoria era chiuso; erano sbarrate le imposte; abbassate le portiere di stoffa, sciolte dai loro lacci; abbassata la gran tendina di merletto; così nell’aria, più fortemente odoravano i fiori sparsi. In quel chiarore, ogni oggetto, nella stanza della signora, si vedea precisamente, nitidamente: sul tavolino da toletta, innanzi allo specchio dalla larga cornice d’argento, fra tutte le graziose, le leggiadre cose, che servono a fare l’acconciatura di una donna, vi era la coppa di bronzo antico, dove ella lasciava i gioielli che aveva portati nella giornata; e vi erano le stelle di brillanti che le avevano ornato la testa e il seno, la sera innanzi, al teatro; vi era il filo di perle che aveva portato al collo, e un grande spillo a trifoglio, fatto da tre perle nere, di cui una, malaugurosamente, mancava; e sul piano del tavolino, fra le boccette e i vasellini, le forcinelle di tartaruga che non aveva messo fra i capelli, al mattino: e innanzi allo specchio, tre candelabri ardevano; e fra i gioielli, i ninnoli eleganti, i pettini di avorio e le forcelle di tartaruga che avevan sostenuto il peso delle nere trecce, eran cadute delle rose, dei mazzolini di violette, dal freddo profumo dei giorni d’inverno. Sopra una poltrona erano ancora la vestaglia di velluto nero, che ella aveva portato nella lunga notte insonne, e una sciarpa di crespo bianco che ella aveva al collo, messe , come se ancora aspettassero la persona che le riprendesse, per indossarle; e anche sovr’esse eran caduti i fiori, sul tetro velluto della veste e sul morbido tessuto della sciarpa.

Sulla piccola scrivania ancora stava, appoggiata al calamaio, la penna d’oro, dalla piccola perla che la terminava: era servita per scrivere un biglietto con cui la signora chiamava a sé il suo signore: niente altro aveva scritto più; e innanzi ai fogli sparsi, vi era il piccolo orologio di argento, nel suo cappuccio di velluto azzurro, dono del signore. L’orologio aveva segnate tutte le ore, buone e cattive, amorose e crudeli; e segnava anche questa ora, fra i gelidi e odorosi fiori d’inverno che giacevano fra le carte e il piccolo candeliere d’argento, acceso, come se attendesse la mano bianca che facesse liquefare, alla sua fiamma, la verde cera da suggellare. L’occhio di Cesare Dias, adesso, si accostava al luminoso centro della stanza, dove era la signora. Il tavolino, che era poco distante dal letto, era stato trasformato in un breve altare dove la immagine della Madonna della Seggiola chinava i suoi pietosi occhi sul divino Figlio, e il bimbo chinava i suoi occhi misericordiosi su chi guardava: in una conca d’argento era l’acqua santa e vi bagnava, dentro, un ramo di ulivo benedetto; e ardevano, innanzi alla santa immagine, tre candelabri di argento dai cerei alti e puri, fra i fiori sparsi intorno intorno.

L’immagine era rivolta verso il letto, e più fitta in quel centro della camera era la pioggia dei fiori, più vivida e concentrata la luce dei cerei. Il letto era tutto nascosto da una grande coltre di broccato bianco, che pendeva per terra e sull’origliere vi era anche un drappo bianco, della medesima stoffa candida, ricca e fulgida. Dovunque, dovunque pareva che fossero piovuti gli smorti fiori della fredda stagione, ma sull’origliere, sulla coltre, per terra, era una neve di rose, dove, ogni tanto, le fresche piccole viole spezzavano il biancore, le rose thea mettevano una nota più viva. Presso questo letto, poggiati per terra, erano tre altri candelabri d’argento: due alla testa del letto, uno ai piedi: e alte, alte ardevano le tre fiammelle, ripetendo, ancora, la mistica figura della Trinità. Fra la luminosità alta e pura di questi cerei, su questo letto tutto bianco, pel broccato, tutto glacialmente odoroso pei fiori, col capo sul bianco e freddo origliere cosparso di fiori era distesa la morta signora, Anna Acquaviva, la moglie di Cesare Dias.

Era vestita, la morta signora, del suo abito nuziale, di grossa e pur morbida seta bianca, che era più mite, più tenera, nel suo candore, dello scintillante broccato bianco, onde era coperto il letto: una veste da sposa di un bianco smorto, senza riflessi, come se nella sua immacolata bianchezza si fosse mescolato un mortale pallore. Lo strascico dell’abito da sposa si allungava sulla bianca e brillante coltre funebre e dall’orlo della veste uscivano i sottili piedini calzati dalle calze trasparenti di seta bianca e delle piccole scarpine di seta bianca; piedini diritti, accostati, di creatura morta. E si vedean bene, solo, questi piccoli e leggiadri e rigidi piedini, civettuolmente calzati per andarsene nella tomba; poiché la testa, le mani, tutta la persona era seminascosta nel grande velo nuziale, appuntato dagli spilloni di perle sulle trecce nere, raccolto in fitte pieghe sul volto e sulle mani, ampiamente allungato sulla persona. Così, su tutta quella bianchezza, anche l’ombra era fatta di un velo candidissimo, anche il segreto della morta era conservato da una sottile nuvola nivea. Il velo si sollevava sulla faccia che era leggermente rialzata sull’origliere, ma le pietose mani vi avevano assai raccolto le pieghe del velo, perché bene, bene serbato sotto la nuvola candida fosse quel supremo segreto: si sollevava sul petto, dove era stato poggiato, un piccolo crocifisso di avorio, sul quale erano intrecciate le mani, e poi ricadeva in lievi flutti bianchi sino all’orlo del vestito, lasciando liberi solo quei piedini piccini, fini, che mai più avrebbero fatto un passo. Le pietose mani, e anche sapienti, non avevano messo su quella veste nuziale, su quel velo nuziale, il bianco e inebbriante fiore d’arancio, poiché colei che era partita per sempre era, sì, la giovane sposa, Anna Acquaviva, ma era anche Anna Dias, la giovane moglie di Cesare Dias. Non dunque il fior d’arancio, che è il fiore della verginale innocenza e della fortuna: ma le bianche rose fredde di chi ha conosciuto la calda stagione, di chi ha attraversato la torrida zona per giungere, stanca, desiderosa della fine, agli eterni ghiacci: ma le fredde violette di chi ha vissuto nella passione, e prima di dover vivere nella indifferenza, ha voluto morire. La bianca e smorta veste nuziale, sì: sì, sì, il candido velo che tutta l’avvolgeva, poiché così dolorosamente e irrimediabilmente breve era stata la dolce e ardente stagione della morta: non il fior d’arancio, angelico e beneaugurante! Dalla soglia, Cesare Dias guardava la giovane morta, ma non ne riconosceva, nelle graziose scarpette bianche, che i brevi piedini gelati e immobilizzati, nella loro vivida e palpitante beltà dalla Morte. Pure, era ben lei, Anna Acquaviva, Anna Dias, sua moglie, una giovane donna di ventitré anni, che egli aveva ricondotta, quattro ore prima nella sua casa, col cuore attraversato da una palla di rivoltella, col nero elegante vestito tutto bagnato di sangue, col bruno capo che spenzolava sulle sue braccia e con le nere trecce disciolte che radevano gli scalini della scala: era bene lei che si era uccisa, con un sol colpo della piccola, delicata, vezzosa rivoltella, che giaceva sulla scrivania, nella sua stanza; era bene il suo ardente e ora gelido sangue che aveva inzuppato il fazzoletto di batista e merletti. Non si vedeano che i piccioletti piedi: ma era quella Anna Dias, la giovane moglie, colei che, quattro ore prima, aveva trovato la vita così insopportabilmente dolorosa, e il mondo così insopportabilmente deserto, da uccidersi, negando ogni fede e ogni speranza nel suo Dio, nella sua gioventù, nella sua bellezza, nel cuore delle persone che aveva amato.

Non lui, Cesare Dias, il marito, il vedovovedovo, la bizzarra parola! — acuiva lo sguardo per riconoscere nelle onde smorte della veste bianca nuziale, sotto le nuvole candide del velo nuziale, la faccia e la persona della giovane donna che si era uccisa, disperata di tutte le cose umane e disperata di tutte le speranze divine. Era sparita la nera veste tutta rosseggiante di sangue: e le piccole mani che così coraggiosamente e fermamente avean tenuto la rivoltella, erano state liberate dai loro guanti neri; e le trecce nere disfatte erano state pettinate e raccolte: e l’incubo, le vesti deturpate, le biancherie inzuppate di sangue, il fazzoletto inzuppato di sangue, i gioielli divelti, la veletta strappata, e l’arme, infine, l’arme con la sua lucida canna di acciaio ancora negra di fumo, tutto era sparito. Intorno a quella giacente creatura era tutto il pietoso, il tenero candore delle stoffe, dei veli, dei fiori, era la gran luce pura, fervida, quasi pregante dei mistici cerei che si consumavano; sul petto posava il segno della Redenzione: dalla azzurra e rossa immagine della Madonna della Seggiola, il bimbo di tutte le pietà, guardava quella povera salma immersa nelle ultime, dolcissime bianchezze — ma era bene lei, quella che si era uccisa. Cesare non poteva non pensare che sotto quella bianca veste era un cuore freddato da una palla, non poteva non pensare che quei piccoli piedini avevano camminato volontariamente alla Morte, non poteva non pensare che quelle mani, piamente intrecciate sulla croce di tutti i dolori, avevano eseguita la tetra volontaria sentenza; non poteva non pensare che, veramente, la giovane creatura sparente fra i veli e i fiori era Anna Dias, che si era uccisa. Non aveva bisogno di rievocare la terribile scena, dall’intenso minuto in cui aveva appresa la notizia, al momento profondo in cui aveva visto quel cadavere; di rievocare la visione di quei truci testimoni del suicidio, di quel tragico ritorno nella casa, onde era uscita viva: non aveva bisogno di sollevare quel velo che nascondeva il giovanile e passionale volto, nella sua ultima espressione. Le pietose mani avean tentato la trasfigurazione, avean celato le linee di quel corpo e le tinte di quel volto, ma non vi era forza umana, mai più, che levasse dalle memorie di Cesare Dias il nitido, crudele ricordo di una giovane donna, traboccante sangue dalla piccola ferita del cuore, di una testa arrovesciata dalle trecce nere disciolte e trascinantisi. Si era uccisa, Anna Dias: ed era quella: e niuna santa, compassionevole poesia di chiarezza, di biancore, di fioritura glaciale e odorosa, poteva scongiurare la truce immagine. Quando Cesare Dias aveva veduto la faccia del messaggero, quattro ore prima, e aveva udito appena il nome di Anna uscirgli dalle labbra, aveva fulmineamente pensato e detto, prima che il messaggero nulla dicesse:

Anna si è uccisa.

Questa parola prima, solitaria, unica, restava su tutte le altre, posteriori, su tutte le pie, le care trasfigurazioni, più forte dei fiori, dei profumi, dei cerei, più forte di ogni memoria del passato, più forte di ogni dolore del presente, più forte di ogni terrore dell’avvenire, la sola parola, l’unica, quella che resterebbe, nel tempo, la Parola: Anna si è uccisa.

Egli entrò quietamente: passò presso il letto funebre a occhi chini e andò a sedersi nella poltroncina, accanto alla scrivania, dove, dalla morta, gli era stato scritto l’ultimo biglietto: era voltato in modo che la candida visione di quell’estremo sonno che la morta faceva, sul suo letto, non gli sfuggiva in una sola sua linea. Macchinalmente guardò l’orologio: erano le dieci. La veglia notturna mortuaria cominciava, nella lunghezza della notte invernale, col rumor tetro del vento che dal mare assaltava la piazza deserta della Vittoria. Cesare Dias era solo, innanzi al cadavere di sua moglie. Frescamente olezzavano i fiori tagliati e sparsi dappertutto: limpide e pure ardevano le fiammelle dei cerei, senza che un soffio nella stanza ermeticamente chiusa, venisse a piegarle. L’ora funebre, silenziosa, senza pianti, senza parole, in cui il vivo pare che abbia nelle membra la stessa immobilità del cadavere, mentre nel cervello arde il suo pensiero, mentre nel cuore è lo strazio muto; l’ora funebre in cui la Vita contempla la Morte non osandole chiedere il motto dell’enigma, mentre lo spirito si solleva dolorosamente per indagare, per conoscere, per sapere; l’ora funebre in cui tutta l’anima subisce la segreta tortura che accompagna, latente, ogni passo della esistenza umana, lo spettacolo, cioè, della Fine, della irrimediabile Fine, era principiata. Cesare Dias passava con sua moglie l’ultima notte.

Adesso, accanto al profondo pensiero che gli solcava il cervello, si levava un senso di fastidio sottile, qualche minuta noia che accompagna sempre le grandi catastrofi interiori e che diventa imperiosa, nella sua piccolezza. S’infastidiva Cesare, pensando che forse sarebbe venuto qualcuno della casa a tenergli compagnia, che quella estrema notte che lui ed Anna passavano insieme sarebbe forse stata turbata dalla presenza di qualche testimone. Non lo aveva detto che desiderava restar solo, , dentro, sino al mattino: e intanto non poteva levarsi per uscire fuori, per chiamare, per dire che nessuno, nessuno venisse a disturbarlo nella veglia mortuaria. Quella porta aperta, nera, sul resto dell’appartamento oscuro e silenzioso, gli dava una noia acuta: gli sembrava che di dovesse entrare, da un momento all’altro, chi volesse vegliare con lui, piangere, pregare e non poteva levarsi, per andarla a chiudere, quella porta, girando la chiave, per restare assolutamente solo col cadavere. Giunto in quella camera, seduto di faccia al letto, gli pareva che nulla più avrebbe potuto fargli fare un passo, arrivato allo scopo, preso dalla gran fermata donde mai, in nessuna ora, in nessun minuto di quella notte avrebbe potuto riprendere la sua strada. Il suo timor taciturno non gli dava forza; ogni sua volontà era caduta, e non sentiva, in sé, che il bisogno di esser solo, con Anna: il bisogno che niun essere umano, in quella veglia, potesse vedere la faccia del vivo e la faccia della morta: il bisogno che niuno sapesse, dal suo volto, quello che egli aveva sentito, vegliando Anna nella sua veste nuziale e mortuaria.

E non, forse, egli era sempre stato così, geloso tanto del proprio sentimento, geloso della più piccola impressione, sino al punto da rendere la propria esistenza una negazione fredda e perfetta di tutto se stesso? Non forse, da giovane, quando più lieta ride la vita agli umani, egli si era abituato a soffocare la sua gioia sotto la glacialità dello scetticismo; tanto che le nevi eterne ed infeconde lo avean soverchiato e veramente in lui si era spenta ogni gioia? Non forse, col tacito disprezzo, egli aveva distrutto in sé e attorno a sé le forme dell’entusiasmo che gli parean ridicole, sciocche, indegne della altezza d’animo di un uomo, di un gentiluomo? Sempre, sempre come in quella lugubre veglia egli aveva temuto che un occhio umano beffardo o indifferente, o emozionato, lo sorprendesse nel minuto della commozione, quando la vampa dell’amore, del dolore, ha sciolto tutti i ghiacci: sempre egli, nel suo disdegno della santa comunione umana, aveva piuttosto rinunziato al sentimento, anzi che soffrire, gioire, ridere, piangere insieme a un’altra creatura come lui. Tutta la vita, così: dai caldi e impetuosi giorni della gioventù, domati da una sdegnosa volontà, vinti dall’arida ipocrisia dello scettico, sino ai giorni della più virile età ormai chiusi nelle ironiche e sarcastiche apparenze dell’uomo che si è liberato per sempre dal sentimento. Non voleva nessuno in quella notte, fra sé e sua moglie: così aveva pensato e voluto sempre, così pensava anche ora. Giammai, nel suo disprezzo per gli umani egli aveva consentito a diventare, anche per poco, il loro spettacolo: tutta la sua fierezza si era sempre rivoltata contro questa umiliazione; egli era uno spettatore delle miserie, delle debolezze, delle follìe altrui: un attore, giammai! Ah quella porta, quella porta aperta sulla casa, aperta sulla città, aperta sul mondo come lo faceva soffrire nella sensibilità acuta della sua gelosia, come gli dava un tormento acuto, l’impossibilità di essere lui, di abbandonarsi al proprio sentimento! No, no, niuno avrebbe potuto vedere e sapere quel che accadeva nella veglia funeraria, niuno doveva conoscere quel che fossero gli occhi e le labbra di Cesare Dias innanzi alla bianca salma della sua sposa giovanetta! Avesse potuto chiudere quella porta! Non si doveva sapere nulla, non sarebbe stato giammai un attore, lo sguardo umano non avrebbe mai sorpreso la libera espansione del suo cuore. Innanzi all’annunzio di quel suicidio, egli non aveva potuto impedire che un gran pallore gli disfacesse il volto; innanzi al truce spettacolo, riconducendo la uccisa alla sua casa, egli aveva chinato gli occhi, per non fissarne i lineamenti, temendo di sé, temendo della propria voce, temendo di ogni mutamento del proprio aspetto. Oh era stato forte, fortissimo, soltanto pallido, soltanto disfatto, senza urlare, senza piangere, senza gridare, senza parlare: sempre per non diventare un attore, sempre perché la gente ignorasse la misura di quel che sentiva, sempre perché la gente sapesse che veramente, in lui, ogni corda era infranta! Ma ora... ora avrebbe voluto esser solo con lei. Imminente era il bisogno. Solo con la sua morta, voleva restare. Aveva in se stesso qualche cosa che voleva escire, e non sapeva bene se fossero singhiozzi, o lacrime, o grida di disperazione: aveva in sé un istinto ancora incerto che voleva manifestare e non sapeva come. Ma doveva restar solo, tutta la notte, senza che vi fosse occhio di persona vivente che potesse giammai ridire di aver visto fremere o piangere Cesare Dias al letto di morte di sua moglie. Ah non lei, non lei, fredda, esanime, avrebbe potuto narrarlo! Tutta la vita che fluisce nel mondo, dalle stelle ai fiori, dal mare al cielo, dagli animali agli uomini, tutta la infinita e mai cessante vitalità che è nella grande compagine, non avrebbe potuto ridare un minuto di esistenza alla giovane morta.

Poteva Cesare Dias buttarsi in ginocchio innanzi a quel letto, baciare quei piccoli piedi bianchi e gelidi, baciare quelle piccole mani che si tingevano di viola sull’avorio del crocefisso, poteva baciare quel volto che non aveva ancora osato di guardare, ella non avrebbe inteso, ella non lo avrebbe ridetto, giammai. Solo con lei, che era morta, significava esser solo con se stesso; poter infine sciogliere l’annoso laccio; poter buttar via la pesante e salda e lucida corazza che gli aveva fiaccate le membra; e esser uomo di carne, di sangue e di nervi, con le sue miserie, con le sue tenerezze, con le sue desolazioni: esser un uomo e forse non piangere, e forse non amare, e forse non sentire neanche la atroce puntura del rimorso, e forse non avere neanche il terrore della Fine che colpisce i più forti, e forse, essere una creatura senza viscere, senza palpiti, senza singulti, senza sussulti, ma un uomo! Quella porta donde poteva entrare un parente, un prete, un servo! Ah la sua ora era giunta in cui potesse essere quello che era; in cui potesse parlare a se stesso, la Verità, turpe o luminosa, arida o tenera, in cui potesse essere come tutti sono, felice, infelice; carnefice, eroe, vittima, ma uomo! Ma la grande e miserabile paura di tutta la sua esistenza ancora lo teneva. Niuno doveva vedere Cesare Dias esser un uomo come un altro anche nella fatale tappa della Morte!

Seduto, immobile, fissando lo sguardo sul candore del letto di morte, che pareva vaporasse come una bianchissima nuvola, Cesare Dias pensava che la giovane donna di cui egli vegliava il supremo sonno su questa terra non lo aveva mai veduto essere un uomo come gli altri, con le stesse debolezze spirituali, con le stesse indomabili e umane viltà dei sensi, con quelle tenerezze rare e profonde che sgorgano dalle anime più chiuse e più dure, con quelle ore di miseria morale che colpiscono i cuori più forti — mai. Adesso, Anna era morta, gli occhi erano chiusi, le mani erano fatte glaciali, il cuore aveva cessato di palpitare, non udiva, non vedeva: nessuna figura umana, tenera, appassionata, dolorata, convulsa, potea più colpirla; nessun sentimento umano di amore, di dolore, di terrore la potea più interessare: ma giammai, nella breve vita vissuta accanto all’uomo che ella amava ed adorava con tutte le sue forze, giammai ella aveva sorpreso il minuto della emozione, talvolta, forse, il fastidio, che è l’espressione dell’egoismo, ma sempre, poi, l’indifferenza. Si rammentava bene, Cesare, di aver ammucchiato intorno al proprio cuore più alti, più formidabili i ghiacci che salvano dalle commozioni, che conservano la salute e la pace, che danno la forza dell’aridità solitaria, e sovra tutto che ispirano quel deserto disprezzo di ogni cosa e di ogni persona con cui tanto felicemente vivono gli egoisti, si rammentava di aver fatto ciò specialmente contro Anna, contro quel temperamento vibrante ed eccessivo, contro quel cuore innocente, passionale ed estremo, contro quella immaginazione focosa, esuberante e pure assorbita nelle sue amorose e tenere fantasie. Quanto l’aveva disprezzata, per tutte le emozioni che agitavano la fremente anima, per gli abbandoni che ne vincevano la volontà, per quelle follie del cuore che si facean più forti nei sogni della fantasia, per quel dare tutta se stessa, così, apertamente, a un sentimento, a una passione, per la incoerenza della sua mente, per l’assorbimento, in un solo desiderio alto, rovente, scopo della esistenza, centro del mondo: quanto l’aveva disprezzata, Anna, per questa sua immensa debolezza, per cui tutti potevano vedere e commentare i suoi pallori, i suoi turbamenti, le lagrime delle sue delusioni, i furori della sua gelosia! Poiché ella era una attrice, inconscia, naturale, umana, schietta fino all’audacia, debole fino alla vigliaccheria, innamorata fino alla pazzia; poiché ella era dalla parte infinita di umanità che spettacolo di sé, lui, Cesare, che si era messo sovranamente dalla piccola parte degli spettatori, sentiva per lei un disdegno senza pietà, un disprezzo senz’ombra di carità. Egli rideva, sì, aveva sempre riso di quegli impulsi nobili e folli, di quelle spirituali voluttà di dolore, di quegli sguardi smarriti e di quelle labbra tremanti, di quelle parole balbettate nel turbamento dei nervi eccitati, di quei singhiozzi che scuotevano le esaltate fibre, di quel fuoco, infine, che avvampava e consumava l’anima di Anna! Ne aveva sempre riso, in un disprezzo senza collera e senza compassione, e assai più invincibile si era levata la barriera delle eterne nevi, fra loro. Egli aveva resistito con la freddezza all’amore nascente nel cuore di Anna, reprimendone gli slanci con l’ironia, col sarcasmo; egli aveva resistito, con una indifferenza finanche crudele, alle lettere di amore appassionate e disperate, agli sguardi d’amore ardenti della fiamma interiore e umidi di desolate lagrime; egli aveva resistito al mortale languore che minava l’esistenza di Anna, sino all’ora in cui temette di vederla morire. Ah, che soltanto, soltanto la Morte è una cosa seria, è una cosa che ferisce, che avvilisce, che alla più salda anima umana lo spavento del fatto irrimediabile! Un sol minuto, in cui egli aveva consentito a sposare la fanciulla, perché la morte non la cogliesse prima della sua ora: ma, per compensarsi di quel momento di paura e di pietà, che alta, alta, invalicabile montagna di ghiacci egli aveva elevata, fra sé ed Anna! Padrone inflessibile di se stesso, dei propri sensi, dei propri desiderii, egli aveva elargito all’appassionata sua sposa una forma d’amor coniugale tranquillissima, misurata correttacorretta, era la sua gran parola — e talvolta anche beffarda, giuocando con l’impeto giovanile, col giovanile entusiasmo di Anna, fingendo di non vedere o fingendo di sorridere della commozione mortale che la vinceva, quando le sue labbra la baciavano sulle labbra!

Nella veglia mortuaria, presso quella creatura distesa, giacente, avvolta nella nuvola bianca, donde l’avrebbero discesa nella terra nera, per sempre, Cesare si ricordava che cos’era stata la passione di Anna, per lui. Quel cadavere di cui appena appena s’intravedevano le linee, sotto i flutti dell’amplissimo velo nuziale, era stata la giovane donna bella; e più che bella, attraente di espressione, di vitalità, di calore; più che attraente, affascinante per i luminosi occhi, per il magnifico fiore del sorriso, per il sangue che correva a vivificare la bruna tinta del volto, per la morbida e carezzevole persona, così fatta per l’amore. Quante volte quegli snelli e brevi piedini, simili al marmo, ora, nel tessuto lievissimo della seta bianca, nelle scarpette di seta, freddi e immobili come il marmo, ora, nelle loro babbucce ricamate, rosei, vividi, eran venuti, dalla stanza di Anna alla stanza di Cesare, col ritmico passo, camminando rapidamente verso l’amore — ed eran tornati indietro lenti, molli, stanchi, trascinantisi, poiché la indifferenza li aveva respinti! Quelle braccia incrociate sul petto, quelle mani intrecciate sopra il crocefisso, braccia e mani che mai più avrebbero avuto un indistinto movimento di vita, quante volte amorosamente si erano legate al collo di Cesare come una catena che non si voleva sciogliere, salde, tenaci, e pur morbide, povere care braccia e povere carezzevoli mani, fatte solo per abbracciare e per carezzare, disciolte dal beffardo sorriso di chi trovava che esse abbracciavano troppo, disciolte, cadute, prese da una lassezza mortale, poiché chi amava sentiva che il proprio destino era fallito, miseramente fallito! Sotto le folte pieghe del velo, fermate dagli spilloni di perle, nereggiavano le brune trecce della morta, che nessuna mano di acconciatrice più avrebbe pettinato e profumato. Quante volte avevano sfiorato la faccia di Cesare, quante volte, disfatte, si erano sparse per le spalle, per l’amore, per il dolore: e una convulsa mano e aveva raccolte e riacconciate, malamente, poiché veramente quella donna era fatta deserta e desolata dall’amore. Il volto, il volto della morta, per la pietà della donna che l’aveva vestita, misteriosa e sacra pietà per gli estinti e forse per i viventi, era nascosto sotto il velo: ma Cesare ricordava quella breve fronte piegante sotto la massa dei neri capelli e sulla quale, come in un libro aperto, egli aveva letto soltanto il pensiero dell’amore; quegli occhi languenti di tenerezza, folgoranti di amorosa collera, folgoranti di amoroso sdegno, luminosi di una umile e assai rara gioia; sempre innamorati, sempre, se si levava il sole o se tramontava; nella notte come nel giorno, fra la gente come nella solitudine; quelle labbra rosse e schiuse come il fiore del melograno, fatte solo per dire la parola dell’amore, fatte solo per baciare, per baciare sino a che venisse la suprema fatalità del distacco. Quante volte egli si era beffato di quella fronte limitata dove non si racchiudeva che un solo pensiero, quante volte aveva fatto riempire di lagrime quegli occhi innamorati, guardandoli freddamente; quante volte aveva respinto per giuoco, per crudele giuoco, quelle labbra innamorate! Ah, che né più un passo d’amore darebbero quei piedini, né un bacio quelle labbra, né uno sguardo quegli occhi: poiché l’Amore li aveva respinti, la Morte, la Morte aveva preso tutto. Adesso l’attrice si era uccisa; e adesso, invano egli tentava di essere il glaciale spettatore dell’esistenza, come era sempre stato. Gli è che non lo avrebbe mai creduto, che Anna si sarebbe uccisa. Non forse era stato un sistema di assiomi della sua natura scettica ed egoistica: che tutte le persone passionali soffrono ma non muoiono; che tutte le anime deluse languiscono, ma non si uccidono; che tutti i cuori amanti ed infelici preferiscono il loro amore e la loro infelicità, alla fine di tutto; che tutti i temperamenti violenti ritrovano in se stessi l’equilibrio, ma non muoiono; che chi dice di volersi uccidere non si uccide, che i suicidi di amore sono, quasi tutti, dei suicidi per dissesti finanziari? Oh, egli aveva le sue teorie, le sue convinzioni, su questa ignobile follia che è il suicidio; egli era fortissimo su questa miseria degli umani cervelli, ed egli aveva delle note di incredulità e di disprezzo a ogni fatto simile, espressione di ironia sanguinosa contro gli sciocchi, contro i mediocri che non sanno accettare le responsabilità della vita o non sanno dominarle; ma per lo più non ci credeva al suicidio; diceva che era una invenzione da cronisti di giornali a corto di notizie. E mai, mai, avrebbe creduto al suicidio di Anna. Fremere, sussultare, singhiozzare, sì; aver le guance smorte, gli occhi dalle occhiaie livide, le labbra bianche, sì; non ridere più, non sorridere più, avere l’eterno velo delle lagrime innanzi agli occhi, sì; piangere, torcersi le braccia, torcersi le mani, sì; passare le giornate nell’accasciamento e le notti nell’insonnia, sì; essere giovane e sentirsi vecchia di cento anni, esser bella e non amare più la propria beltà, essere amata e non vedere l’amore; sì, sì, sì, tutto questo lo fanno queste creature di emozione, queste anime date alla Passione — ma uccidersi, no.

Quante volte aveva crollato le spalle, alla disperata minaccia di sua moglie, non credendole, disprezzandola anche più per questa vana parola, ingiuriandola col sogghigno, con lo sguardo ironico. Non le credeva! Era uno scettico ed era un egoista; aveva saggiato il fondo di tutte le vanità; aveva per le cose e per gli uomini un immenso disdegno, ma adorava la vita, Cesare, ma non gli pareva che nessuna speranza ideale, nessun premio luminoso, nessuna consolazione suprema valesse l’esistenza quotidiana; ma il pensiero della Morte era sempre quello che lo faceva rabbrividire nelle migliori ore dei suoi piaceri, ma il desiderio della Morte, prima del tempo, gli sembrava così mostruoso, che le minacce di Anna lo facevan sorridere. Ventitré anni, aveva ventitré anni, sua moglie; non si muore, a quell’età, per un amore non corrisposto, per una speranza infranta, per aver invocato la festa suprema del cuore e non averla ottenuta! Si continua ad amare, a sperare, a soffrire, e ogni giorno porta la sua parvenza nuova, che inganna, che fa transigere, che fa aspettare, e si chiede la forza al cuore e la si ottiene, quando si ha ventitré anni. Uccidersi, Anna, mai!

Ella era bella e sana, e aveva lunghi anni innanzi a sé, e tutte le dolcezze del nome, della fortuna, del lusso la circondavano, ed era piena di fervida vitalità, e le speranze sue rinascevano con l’alba, più candide e più rosee, e poteva, sì, poteva tentare ancora di vincere il duro cuore dell’uomo che amava, e poteva finanche sperare di soffocare, di spegnere il proprio amore, entrando ella stessa, fortunata, felice, trionfatrice, nel tempio dell’indifferenza dove solo gli elettissimi che non hanno mai amato e gli eletti che hanno finito di amare possono penetrare. Perché si sarebbe dovuta uccidere, quando aveva solo ventitré anni? Egli sorrideva, in un sarcasmo che la faceva mortalmente impallidire; ella non rispondeva, chinava il capo, come se si rimproverasse la propria debolezza, come se si disprezzasse da se stessa di non uccidersi subito, in presenza di quel tristo e crudele marito: e il tristo e crudele marito se ne andava, sogghignando, carezzando sovranamente il mustacchio, nella soddisfazione di avere ancora avvilita quell’anima innamorata, convinto che ella non si sarebbe mai uccisa e felice di averle gettato in faccia la sua debolezza e la sua vigliaccheria. Anche nell’ultima scena che avevano avuto insieme nella mattinata, quando la povera donna aveva detto tutte le parole della sua disperazione, quando gli si era trascinata alle ginocchia, ella innocente ed egli colpevole, quando ella aveva gridato a lui, alla terra e al cielo, che quel tradimento le era insopportabile, che quel tradimento la faceva morire, egli non le aveva creduto, egli l’aveva spinta, passo, passo, contro il precipizio, con le sue brevi, fischianti, insultanti parole, egli l’aveva sospinta, vedendola vacillare, smarrita, perduta, sino all’abisso, credendo che ella si sarebbe fermata , come sempre. Non le aveva prestato fede, quando essa aveva proclamato, nell’alta sua disperazione, che non avrebbe sopportato il tradimento, e infine, mentre usciva, quando ella aveva cercato di trattenerlo dicendogli: se te ne vai, io muoio; egli le aveva quietamente risposto che non ci credeva, che ella non sarebbe morta niente affatto, e se ne era andato, tranquillo di spirito, e forse contento di aver superato una delle più difficili scene della sua vita. Pure, Anna si era uccisa. Egli era andato assai placidamente a far colazione al club volendo punire sua moglie della gran noia che ella gli aveva dato; poi era andato a tirare di scherma, esercizio che gli piaceva immensamente e che non trascurava quasi mai; poi era andato a vedere, nel box, il nuovo cavallo di Giulio Carafa: e tutte queste solite cose della sua giornata egli le aveva compiute con la massima libertà di spirito, senza un soffio lieve di rimorso, senza un’ombra di presentimento. Come va che, di un tratto, quando sulla porta della scuderia di Carafa, vedendo la faccia stravolta e le labbra tremanti del messaggero, egli, lo scettico, l’egoista, colui che non credeva né alle minacce di suicidio, né al suicidio, colui che aveva schiaffeggiato e vilipeso sua moglie sotto l’ironico insulto, come va, che egli aveva subito pensato che Anna si era uccisa? Subito. Un gran calore lo aveva arso, dallo stomaco alle estremità come ad un improvviso attacco di febbre, ed egli aveva visto, nitidamente, che sua moglie era morta. Niente aveva chiesto, era andato taciturno, solamente pallido, e l’aveva portata con sé.

Quando Laura era comparsa sulla porta, udendo quei pianti e quelle grida dei servi che nulla valeva a frenare, egli non l’aveva neanche guardata in faccia, e con un gesto largo, quasi dando ragione alla poveretta morta, con la voce che annunzia un avvenimento fatale e quindi inevitabile, egli le aveva detto: Anna si è uccisa. Laura era caduta riversa, senza un grido, bianca come il suo vestito bianco, svenuta: egli parve non se ne accorgesse. Egli sentiva sempre un gran fuoco allo stomaco e per la persona, e le ore che passavano, da quel pomeriggio a quella notte, non temperavano quell’ardore febbrile. Sentiva, sempre più forte, l’istinto dell’azione che scompigliava ogni sua volontà di calma, di freddezza: sentiva che quel fuoco divoratore che gli faceva tumultuare il sangue nelle vene, era il segnale che in lui lo spettatore era morto, che egli era un uomo, un uomo simile agli altri, simile nella confusione de’ suoi sentimenti e delle sue impressioni, a colei che se ne era andata, esaurita in tutte le sue nobili fiducie; sentiva che quanto aveva fatto dal minuto intenso in cui aveva conosciuto la morte di sua moglie, sino allora era la verità umile e nuda, di un cuore umano che è dinanzi ad una catastrofe. Per questo vegliava, nella notte, presso il cadavere di Anna; per questo sentiva, nella notte, un indistinto, prepotente bisogno di levarsi, di andare presso quel letto, di sollevare quel velo, per vedere il suo volto.

Ma l’ardente e crescente e dolorosa curiosità che è in tutti coloro cui morì una persona, quella curiosità fatale e indomabile e torturatrice di vedere il cadavere, quella brama insaziata di fissare nella mente, nella fantasia quei tratti, quelle tinte, quelle linee, quel morboso e tormentoso desiderio di appropriarsi con la lunga contemplazione, di quella immagine che dopo breve ora sparirà per sempre dalla terra, questa triste voluttà degli occhi e del cuore era combattuta, in Cesare Dias, da una sottile sensazione di sgomento. Pensava che si sarebbe levato dalla poltrona dove si abbandonava da tanto tempo, che si sarebbe appressato al letto e avrebbe guardato la faccia della morta, senza velo: la voleva guardare così intensamente, così a lungo, che giammai più altra visione si sarebbe potuta scolpire nella sua immaginazione; guardarla tanto, la faccia di Anna, da prenderne il possesso, il solo estremo possesso di coloro cui morì una persona.

Eppure, con questo desiderio che si faceva così acuto, ancora non si muoveva, legato da una paura latente. Forse era la paura di vedere la Morte in tutta la sua espressione, egli che aveva sempre avuto un fremito segreto di orrore, pensando di dover morire; forse era un vago terrore, impreciso, indefinito, vago terrore di vedere uno spettacolo inaspettato; forse sentiva, vagamente, agitarsi un sentimento ignoto nel suo cuore, ne temeva lo scoppio, innanzi al volto di Anna. Saliva, saliva col calore febbrile, dal cuore al cervello, questo desiderio ultimo, questa suprema croce e suprema delizia di coloro cui morì una persona, ma imperioso anche, si andava facendo il terrore. Ogni tanto, per rincuorarsi guardava la figura della giovane morta, bianco-vestita, sul bianco letto, sotto il morbido velo nivale, cercava distinguere i lineamenti, sotto le pieghe; e quella creatura morta, distesa su quel funebre giaciglio, aveva un aspetto così mite, innocente e infinitamente doloroso, niente altro che doloroso, che il suo coraggio si rialzava e la sua brama di vedere Anna si faceva invincibile. Non trascorreva, forse, l’ora della notte mortuaria? Gli restava poco tempo; la sua mente era lucida: egli sapeva bene che questa era l’ultima notte che passava con sua moglie; sapeva che all’indomani l’avrebbero chiusa nella cassa di quercia e l’avrebbero chiusa nella terra, e sulla terra avrebbero chiusa e suggellata la lapide di marmo, e sulla lapide avrebbero chiuso la ferrea porta della cappella Dias, al Camposanto. Chiusa, smarrita, perduta, scomparsa per sempre, l’immagine! Gli restava poco tempo, per vederla bene, per vederla fino alla immedesimazione della visione, per vederla tanto da rivederla, sempre, per tutta la vita. Infine, quale tremenda verità poteva sorgere dal viso di quella creatura? Era così candido e teneramente desolante l’aspetto nebuloso di quel letto e di quella morta vestita dei suoi abiti nuziali, in una poesia di bianchezza, di fiori freschi e bianchi, di cerei ardenti. E con uno sforzo immenso, simile a quello che gli pareva adatto a sollevare il mondo, egli si alzò, fece un passo verso il letto. Ma fu, a un tratto, debolissimo, incapace di camminare più oltre: aveva caldo e si sentiva languire. Forse era l’aria di quella stanza, già carica del penetrante profumo dei fiori, ermeticamente chiusa, e tutta ardente, oramai, malgrado il freddo della notte invernale, per il calore dei cerei. Il suo respiro era oppresso, la sua testa vacillava; il letto e la bianca salma gli si confusero innanzi agli occhi, fluttuando lentamente e stranamente in un biancore tenue, evaporante. Pure, con la forza macchinale dell’istinto, egli andò verso il grande balcone di cui erano abbassate le portiere di pesante stoffa chiara e, abbassata la grande tendina di merletto, passò dietro, schiuse le imposte e i vetri, cercando aria, sentendo che aveva bisogno di respirare fuori, nella notte, per non morire. Un soffio di vento burrascoso entrò nella stanza, sollevò la gran tendina, fece vacillare tutte le fiammelle dei cerei, e parve che tutta la camera avesse ondeggiato.

Cesare Dias, piegato sul balcone, beveva l’aria notturna avidamente, lasciava che il vento lo investisse, che gli scompigliasse i capelli e gli abiti: si chinava, come prestando orecchio alle bizzarre parole che parea dicesse la bufera, sul mare, per la città, sulle colline, il gran balbettìo sordo e stridente della tempesta; e i suoi sensi si confortavano, in quell’ombra, in quel silenzio, dove solo la burrasca metteva i suoi gridi improvvisi, i suoi singhiozzi; il suo cervello si liberava dalla gran languidezza mortale dove aveva sentito cadere tutte le sue forze. Fischiava, urlava intorno al suo capo il fiero vento che veniva dal mare sconvolto, che sconvolgeva la terra, piegando gli alberi neri della Villa, nera nella tenebra notturna, quasi scuotendo le case della Riviera tutte nere, nella notte. E, improvvisamente, nella mente di Cesare Dias sorse un ricordo vivissimo, nitido crudele, nella sua nitidezza: il ricordo di una figura di donna avvolta nella pelliccia, che si piegava nell’angolo del balcone, sulla ringhiera, per guardare bene nella via, nella notte alta, se ritornasse a casa l’uomo che ella adorava. Oh, la rivedeva la figura di sua moglie, su quel balcone, tremante di freddo e di impazienza, ma riarsa dall’amore e dalla gelosia, contando le ore, le mezz’ore, i quarti d’ora in cui egli passava la notte, al giuoco, a qualche facile capriccio!

Ritornando a casa, in quelle notti, stanco, pallido, con gli occhi abbattuti, l’anima inaridita, egli guardava in su e un lieve sorriso di trionfo lo rianimava, un istante, vedendo lassù quella povera donna tormentata: e subito dopo, nel suo disprezzo per tutte le donne innamorate, che commettono la sciocchezza di stare al balcone, nelle notti d’inverno, per aspettare un oblioso, un indifferente, egli rientrava in casa, andava a letto senza neanche entrare ad augurarle la buona notte. Spesso, mentre era chiuso nella sua stanza, in quelle notti, egli aveva udito un passo lieve attraversare il corridoio, aveva udito il respiro di Anna che origliava alla sua porta: aveva sorriso di orgoglio, di pietà, ma non aveva aperto, addormentandosi nella profonda lassezza dei soliti piaceri che lo attiravano potentemente, malgrado la loro monotonia. Gli occhi di Anna, scintillanti sotto il cappuccio, nell’angolo del balcone, nell’attesa delle notti d’inverno, egli li vedeva ancora: ancora udiva il lieve respiro di quell’anima in pena, dietro la porta, e il profondo sospiro con cui ella se ne andava.

Rientrò. Non resisteva ai ricordi: la realtà della stanza funebre era meno tormentosa: e un fascino lo riconduceva presso a quel letto di morte. L’ora fuggiva, la notte si faceva alta, egli voleva vedere sua moglie morta, prima che l’alba sorgesse. Rientrò. Lasciò il balcone aperto, temendo di esser preso un’altra volta dalla soffocazione. Il vento entrava, facendo voltare la gran tendina di merletto, abbassando le pure e diritte fiammelle dei cerei, muovendo le stoffe delle portiere, facendo battere i foglietti da scrivere, sulla scrivanietta, dando a quella camera l’aspetto di una barca filante sulla schiuma dell’onde, in alto mare. E immediatamente Cesare Dias ebbe un moto di ribrezzo a tutta quell’agitazione di tempesta, nella stanza dove dormiva la morta: gli parve che la gran calma pura e ardente della camera fosse stata violata, gli parve che tutto il mondo esteriore, estraneo, fosse entrato in quella taciturna e solitaria sua veglia: e andò a richiudere, subito, ermeticamente, ancora una volta, ridando l’aspetto austero nella bianchezza, nella freschezza dei fiori, ridando la pace a quell’ambiente mortuario, dove non doveva entrare neppure la voce della bufera. Dei fogli erano caduti, li raccolse, li depose sulla scrivanietta: passò innanzi allo specchio, si guardò macchinalmente. E mentre non aveva sui tratti che un mortale pallore, e uno smarrimento negli occhi, mentre non aveva né singhiozzato, né pianto, gli parve di vedere nello specchio un uomo di cento anni, disfatto, decomposto, già appartenente alla tomba, un centenario consumato dalla Vita. E sotto tale impressione, indietreggiò, corse al letto di morte, tolse i fiori che delicatamente posavano sul velo, sollevò il velo, guardò Anna, vide Anna.

Cesare Dias vide uno stupefacente e terribile spettacolo. Cessato il clamoroso combattimento tra la vita e la morte, chetata l’estrema ribellione, finita la suprema convulsione, si allarga sulla faccia del cadavere una grande pace: vi sono morti che sembrano dormire tranquillamente: vi sono morti sul cui volto è tanta augusta serenità che le lagrime dei vivi s’inaridiscono, nel misterioso rispetto del di . Fiorisce, talvolta, sul viso dei morti una nuova e imperitura bellezza che mai ebbero da vivi: e i cari desolati ne hanno un senso d’ideale trasfigurazione. Ma la faccia di Anna Acquaviva era, veramente, terribile a vedersi. Da otto ore la Morte aveva fatto il suo gran lavoro di pacificamento, ma ella conservava il suo viso di agonizzante disperata. La piccola bocca di Anna era contratta dolorosamente, come se ancora dovessero uscire grida, singulti, desolate parole da quelle labbra violette: gli occhi erano appena socchiusi, quasi che ancora volessero vedere lo spettacolo dell’universo: e una intensa, profonda espressione di rammarico era in tutte le linee di quella faccia morta. Disperata di morire!

Cesare indietreggiò, si coprì il volto con le mani, non resistendo a quella vista che era tutto il Grande Rimprovero di chi era morta per lui, vissuta troppo poco, mentre adorava la vita, vissuta senza essere amata, mentre il solo suo segreto era l’amore, uccisa dalla Indifferenza, mentre era la Passione. Adesso intendeva, Cesare, la pietà della povera donna che aveva acconciata la morta e che ne aveva nascosto il viso, perché egli non lo vedesse, perché non sentisse tutto lo sconfinato dolore che aveva accompagnato l’agonia di quella suicida. Ah no, non era morta freddamente, fatalmente, obbedendo a una oscura legge ineluttabile, andandosene, con la calma tragica delle creature su cui soffiò il destino, immortalmente stanca, non avendo più forza di resistere! No, no, non voleva morire, questa donna dal volto contratto e dalla bocca esprimente un rancore immenso alla propria sorte; non voleva morire, questa donna morta, le cui palpebre non si erano potute chiudere perfettamente, desiderose di guardare ancora l’uomo che essa amava, e disperata di non doverlo vedere più; non voleva morire, questa donna morta, sulla cui fronte vi era una ruga profonda, come di chi ha subìto il solco del più orrido pensiero; non voleva morire, aveva ventitré anni, si era uccisa dopo la più atroce agonia, gridando il suo dolore, gridando contro la immane ingiustizia che la uccideva — e le violette labbra erano stirate sui piccoli denti bianchi stretti stretti: quella bocca, orribile a dirsi, pareva che soffrisse ancora.

Aveva indietreggiato, Cesare, e si era coverto gli occhi, ma che importava? Aveva visto. Un solo minuto di visione gli aveva data tutta la conoscenza del Grande Rimprovero: e nessun velo di carne, nessun fitto coverchio di quercia sovra una bara, nessuna lapide marmorea, nessun cancello di bronzo, tutta la solidità del legno, del metallo, della pietra gli avrebbero potuto togliere giammai la profonda, incancellabile memoria di quella visione. Si spiegava, ora, il suo ardente desiderio di scoprire quel volto dal suo velo, quel desiderio saliente, rovente, che lo aveva tormentato sino allo spasimo, mentre tutto l’aspetto della morte, in quella stanza, aveva la mitezza, la tenerezza, solo la mitissima, misericordiosa tenerezza. Era la voce degli imperiosi fati umani quella che lo spingeva, da due ore, a guardare quel viso: era tutta la sua tremenda responsabilità che lo urgeva, segretamente, perché egli conoscesse la misura profonda di quel che aveva commesso. L’uomo appassionato e tradito non può resistere a non guardare l’immagine della donna che, per esempio, lo deluse: l’uomo colpevole ritorna sul campo del suo delitto: l’uomo che deve morire cammina alla sua morte, senza fallare un passo: e tutti sono chiamati da una voce interiore che li mette in cospetto del proprio fato, e obbediscono a una forza nascosta. Ah, egli aveva resistito: ma con tutte le attrazioni del mistero, dell’ombra, della notte, lo chiamava quel viso di morta, celato sotto il velo! Aveva voluto guardare: e niuno aspetto di paesaggio stupendo o pauroso, niun volto umano bellissimo o bruttissimo, glaciale nella inespressione o vivace di sentimento, niente, niente avrebbe potuto mai più sovrapporsi all’orribile aspetto di Anna, sul letto di morte.

Egli abbassò le mani, affascinato: e i suoi occhi lungamente, lungamente si fissarono su quel misero volto, dove tutta la umile e tragica istoria era scritta. Ricordava. Era il medesimo volto disperato che gli era apparso, al mattino, quando, chiamato da sua moglie, era entrato nella sua stanza, a udirsi rimproverare il disamore, il disprezzo, la crudeltà: quegli occhi semiaperti lo avevano guardato ardenti dalla disperazione, lavati invano da fiumi di lacrime: quella bocca convulsa gli aveva parlato le parole supreme che egli aveva schiaffeggiato dei suoi sarcasmi: quella bocca aveva singhiozzato, aveva gridato: egli ancora la rivedeva, viva, innanzi a sé, contratta dal dolore, livida, fremente, e così, così, la rivedeva morta.

Ricordava. Quelle mani piccole e già mezzo violette erano raggricchiate sul crocefisso, e così, vive, egli le aveva intese aggrapparsi alle sue, tentando di trattenerlo, aggrapparsi al suo collo, ed egli le aveva respinte, e così, così le rivedeva morte: quel corpo rigido sotto la veste nuziale, egli lo aveva visto, alla mattina, dibattersi sotto gli impeti della disperazione, contorcersi, irrigidirsi, come se avesse un tronco di spada attraverso le fibre, e così, così, ora lo rivedeva, come se anche nella morte la misera donna non avesse potuto liberarsi di quel tronco d’arme. L’orribile aspetto gli era noto. Lo ricordava. E dunque l’agonia atroce era cominciata dall’ora in cui egli aveva spinto all’abisso la misera donna, senza pietà, senza misericordia, cieco e sordo, non intendendo il delitto, non sentendo che uccideva: dunque l’agonia era cominciata dalla notte prima, in cui Laura aveva spinto, audacemente, aspramente, sua sorella verso l’abisso, faccia a faccia, passo a passo, guardandola negli occhi per suggestionarle l’idea della perdizione, senz’affetto fraterno, senza carità, non vedendo, non udendo, e non sapendo, forse, di uccidere: dunque, l’agonia era cominciata anche prima, nella sera, quando Anna, tornando bella e splendidamente acconciata dal teatro, era venuta a origliare dietro le portiere, aveva udite le parole d’amore che si dicevano Cesare e Laura, aveva visto e udito gli amorosi, appassionati baci che essi si davano, aveva udito il tenero saluto degli amanti: Addio, amore. Da allora l’ultima bufera aveva travolto lo spirito della misera donna, e sui tratti della sua faccia, sconvolti, sulle linee della sua persona, torcentisi, si era messa quella espressione che viveva, atroce, atroce a dirsi, oltre la morte. Certo, da quel momento ineffabile in cui il tradimento le era apparso, ella aveva camminato, spinta, spinta da Cesare, da Laura, da se stessa, verso il suicidio che era a capo della breve sua strada, e per una notte e per la metà di un giorno ella aveva compiuto la sua piccola strada, indietreggiando, inorridendo di quello che era accaduto, inorridendo di quello che andava ad accadere, combattendo con l’orribile aspetto della vita e con l’orribile aspetto della morte. E la verità sorgeva da quel volto tragico, con le pupille nere che si vedevano dalle palpebre socchiuse, con i piccoli denti serrati e disperati su cui le violacee labbra si stiravano, con la gran ruga che tagliava la fronte: sorgeva la verità da quelle mani rattratte che invano si erano attaccate alla vita, da quel corpo irrigidito nell’ultima convulsione che lo aveva infranto. Una sola verità, l’unica verità. Anna aveva resistito alla freddezza, aveva resistito al disdegno, aveva resistito al disprezzo, aveva resistito alla indifferenza, poiché, forse, una ignota speranza si agitava nel fondo del cuore: non aveva resistito al tradimento. Per esso, era morta. Dopo la tremenda scoperta, ancora si era trascinata per una notte e per mezza giornata, come chi precipita, si attacca agli spigoli taglienti della roccia: e poi, si era uccisa.

Ma veramente, veramente, non era il colpo di rivoltella che le aveva attraversato il cuore, quello che l’aveva uccisa. Anna era morta, dalla sera innanzi, quando aveva visto suo marito e sua sorella baciarsi, morta per il Tradimento.

Ed essi non avevano avuto pietà di lei; appassionata moglie di Cesare, tenera sorella di Laura, Cesare e Laura si erano messi insieme per adoperare contro lei la crudeltà insopportabile del tradimento. Senza pietà! Il comune e tenue e pur forte vincolo che tiene i cuori degli uomini grandi e piccoli, ricchi e poveri, illustri ed oscuri, la pietà ch’è la forma ultima dell’amore, sentita anche dagli scettici, anche dai cinici, anche dai brutali, il vincolo sottile e saldo che resiste anche quando tutti gli altri sono spezzati, la pietà, la pietà che assolve, la pietà che redime, questo legame di tutta l’umanità essi lo avevano infranto. Era innocente, era amorosa, era giovane, e amava, l’avevan fatta la più infelice fra le donne e non ne avevano avuto pietà. Il vecchio infermo trova il ricovero; il bambino povero trova il pane; il povero vergognoso trova la segreta carità; tutte le miserie, tutte le infelicità, tutti i disastri, tutte le sventure trovano la compassione, trovano la carità; non Anna! Ella aveva chiesto, ella, la innocente, ella, la tradita, che avrebbe avuto il diritto di uccidere, tanto era orribile il tradimento, ella aveva domandato ai loro cuori di uomini, di cristiani, al cuore di un marito, di una sorella, la pietà, essa che avrebbe dovuto chiamare colpevoli, per la punizione innanzi a tutti i tribunali, da quello della legge a quello di Dio. Anna, dinanzi al tremendo peccato di sua sorella, aveva dimenticato l’offesa, aveva perdonato, sì, perdonato: ed aveva domandato pietà, aveva domandato che il passato si perdesse, che Laura le lasciasse questo amore, senza il quale sarebbe morta, aveva chiesto compassione di donna, carità fraterna, ella che era innocente! No, Laura non aveva avuto pietà: fiera nel suo cuore, innamorata del suo peccato, sentendo nel cuore e nei nervi solo la orgogliosa, imperiosa voce del suo peccato, ella aveva negato la pietà alla misera creatura che agonizzava. Anna, dinanzi al perverso tradimento di suo marito, aveva voluto, con uno sforzo immane, obliare la perfidia glaciale e la corruzione obbrobriosa, e si era prostrata innanzi a lui, gli aveva chiesto che questo non fosse più, gli aveva domandato di partire, di fuggire, di mettere il tempo e lo spazio fra sé e la corruzione e la perfidia: essa che era pura, che aveva vissuto solo nella idolatria dell’amor suo, aveva chiesto che Cesare avesse pietà di lei, a Cesare il corrotto, a Cesare il perfido, a Cesare che aveva insidiato la pace e l’onore di sua sorella, ella aveva chiesto pietà. E niente, niente, anche Cesare aveva negato, nel freddo furore dell’uomo che si vede disturbato nel suo quieto e segreto ideale di perfidia e di corruzione, nella superbia invincibile del proprio egoismo. La misera Anna aveva preso le mani dei suoi carnefici e le aveva baciate: aveva bagnato delle sue lagrime quelle mani senza pietà: si era inginocchiata davanti a coloro che la facevano morire e aveva detto loro le parole supreme delle creature disperate. Non avevano avuto pietà, Cesare, Laura, chiusi nel loro interesse, chiuso il cuore, chiuse tutte le fibre, incapaci di fremere, di commuoversi di piangere, al male che faceva morire Anna e che essi avevano commesso. Neppur l’ombra del rimorso aveva sfiorato la loro coscienza e neppur l’ombra della pietà, che è anche nel cuore dei maggiori colpevoli, aveva velato i loro occhi, velato la loro voce. Senza pietà.

Le due parole salivano alle labbra di Cesare Dias mentre guardava sua moglie uccisa: salivano precise, insistenti, ostinate, così ostinate che egli finì per ripeterle, piano, piano, parlando come innanzi a un vivo:

— Senza pietà, senza pietàmormorò, chinandosi verso la morta.

Ma ella era ben fredda, bene immobile, nel suo dolore, che ancora si dipingeva sul volto bruno già pieno di ombre, nel rammarico inconsolabile per la grande ingiustizia che Dio e gli uomini avevan commesso contro lei, morta da otto ore, morta oramai, senza che niuna voce di tenerezza e di desolazione la potesse più scuotere, senza che nessuna mano carezzevole e disperata la potesse più far fremere, senza che nessun bacio di amore, di pietà, di dolore, potesse più far palpitare quell’appassionato cuore, muto per sempre. Cesare vedea bene la immobilità, la freddezza, l’insensibilità della morte, ma ancora, con un accento tremante e inconsolabile, riprese a dire le due parole fatali:

— Senza pietà, senza pietà, senza pietà!...

Ardeva la sua testa e le tempie battevano, come se il sangue vi si precipitasse nel maggior calore e nel maggior tumulto: ardevano le sue mani e tremavano i suoi polsi, sotto l’urto vibrante del caldo sangue, e nella vertigine lenta e molle di quell’ora, i profumi dei mille fiori sparsi per la stanza gli davano un languore mortale, e le fiammelle dei cerei che si elevavano, pure diritte, come spirituali forme di luce aspiranti al cielo, gli sembravano moltiplicate. Un groppo gli stringeva la gola, imbarazzandogli il respiro, obbligandolo a sospirare profondamente, ogni tanto, senza che la oppressione del suo petto si alleviasse. Non distingueva più, se quel malessere che si faceva più ampio, che lo invadeva tutto, a ondate, fosse un tormento fisico venuto dalla veglia notturna, fra i fiori, fra i cerei, davanti a quella morta, o se fosse una suprema crisi morale indistinta, indefinita, dove tutto di sé naufragasse. La languida vertigine lo avvolgeva in turbini più larghi, il profumo si faceva irresistibile, le fiammelle vibravano di luce, ed egli disse ancora, piegato sul viso della morta, affascinato dal viso della morta, disse con uno straziato accento:

— Senza pietà, senza pietà...

A che serviva lo strazio di quelle due parole, dette sul volto di Anna, ripetute desolatamente e monotonamente, quasi che esse riassumessero ogni impressione, ogni espressione dell’animo di Cesare? Invano si piegava, pronunziandole, a vedere se nulla si mutasse, nell’orribile aspetto della morta: poiché egli vedea sempre la tortura di quelle linee; la tortura di quegli occhi semiaperti a cui neppure la morte dava riposo; la tortura ineffabile di quella bocca convulsa; la ruga della fronte, come una cicatrice del pensiero; le mani raggricchiate anche sul crocefisso, dove ogni pena si placa. E allora, per la prima volta in quella notte funebre, per la prima volta nella sua vita, Cesare ebbe il senso dell’irreparabile. Tutto può mutarsi e trasformarsi: la passione può diventar pace: l’indifferenza può diventar affetto: i ricordi possono svanire: le speranze possono realizzarsi: quello che oggi è tormento, domani può essere serenità: quella che oggi è catastrofe, domani può essere austera rivoluzione: solo la morte di coloro che ci amano, di coloro che amiamo non ha rimedio. La malattia si guarisce, la miseria si vince, le delusioni si scordano, le ferite dell’ambizione si chiudono: la morte non ha rimedio! Avrebbe potuto mille volte Cesare Dias inginocchiarsi innanzi ad Anna e chiederle perdono, sarebbe stato inutile: avrebbe potuto mille volte offrire la sua vita e il suo amore, per pagare la sua colpa, sarebbe stato inutile; avrebbe potuto gridare al mondo la sua infamia e il suo pentimento: inutile, inutile, inutile. Ella non udiva, non vedeva, non sentiva, tutto era silenzio intorno a quella creatura; niente più vi era da fare, da dire: il dolore non serviva, la pietà non serviva, l’amore non serviva, tutto era silenzio.

E allora, davanti a questa forza assoluta e taciturna dell’irreparabile, egli sentì tutta la debolezza dell’umano orgoglio, tutta la miseria dell’umana crudeltà, vincere la estrema sua resistenza: una grande stanchezza andò dal suo cuore al suo cervello, dal suo cervello alle estremità, prostrandolo: le sue palpebre riarse batterono due o tre volte, come abbagliate; le mani vagarono, incerte, quasi cercando sostegno: egli sentì, sentì il duro suo cuore frangersi in due dal dolore, dalla pietà; egli cadde a’ piedi di quel letto, e nella bianca coltre ove Ella giaceva, Cesare pianse su quel cadavere.

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Trasognato, uscendo da quella crisi di pianto, levando gli occhi abbruciati dalle roventi lagrime di chi piange per la prima volta, Cesare udì un mormorio nella stanza mortuaria. Mentre egli, con la faccia nascosta dalla coltre funebre, singhiozzava sull’irreparabile destino di Anna, la cameriera era entrata pian piano. Non aveva osato chiamarlo, non aveva osato neppure avanzarsi verso il letto della morta: e, presa una sedia, l’aveva messa in un cantuccio remoto della camera, vi si era inginocchiata innanzi, appoggiandovi le braccia, e con gli occhi fissi sulla Madonna della Seggiola, pregava. Quali orazioni diceva? Che si dice, a Dio, innanzi a un cadavere? Si prega la pace per l’anima partita, o si chiede il conforto per chi resta deserto sulla terra? Che domandava alla Madonna quella povera serva che neppure essa aveva dormito e che veniva nell’alto della notte a genuflettersi, a pregare, umilmente, compiendo il suo dovere di fedeltà sino all’ultimo? Egli andò verso di lei ed ella alzò la testa, mentre le labbra ancora bisbigliavano le orazioni.

— Che dici? — egli chiese a bassa voce.

— Le litaniemormorò ella.

— ... queste, si dicono?... le litanie? — egli ripetette.

— Sì, Eccellenza… almeno... le ho dette per mia madre, quando morì... per la padrona mia... non so... ma la Madonna vede l’intenzione.

Dille, dille, le litaniedisse Cesare, rapidamente, allontanandosi.

Avesse voluto pregare, non avrebbe saputo. Come gli erano stati indifferenti gli uomini, così gli era stato indifferente Iddio. Meglio, meglio che pregasse quella poveretta, semplice nella sua fede, umile nella sua speranza, che invocava la Vergine sotto tutti i suoi teneri e poetici appellativi, perché salvasse l’anima di Anna Acquaviva e perché desse la pace a coloro che si tormentavano ancora sulla terra. Egli si appoggiò sulla spalliera bassa del letto di legno, graziosamente scolpito, e chinò gli occhi sui piccoli piedini di Anna, che la gentile scarpetta bianca appena calzava, simile alla pianella di Cenerentola: e colà rimase per lungo tempo assorto, tendendo l’orecchio al sussurro delle preghiere, in quel cantuccio della stanza. Non lui poteva pregare, accanto a quella morta! Aveva amato tanto suo marito, sua sorella, le persone che la circondavano, Anna: ma, veramente, solo quella misera servente poteva orare, nella schiettezza e nell’affetto del suo cuore, solo essa aveva il pio diritto di domandare quiete allo spirito della morta. Poi, dopo un pezzo, il sussurro cessò: e la cameriera, levatasi, era venuta presso il padrone.

Eccellenza... — disseEccellenza...

— Che è?

— Perché Vostra Eccellenza non va a riposare?... Resto io...

— No — egli replicò recisamente.

— Ma che vuol fare, Vostra Eccellenza?... rovinarsi la salute?... Se la mia padrona vedesse questo, non lo permetterebbe...

Va’ viadisse Cesare, con dolcezza. — Veglierò io.

— La mia padrona voleva tanto bene a Vostra Eccellenza... — ella soggiunse, con una tenerezza pietosa nella voce, andandosene, facendo ancora il segno della croce. Gli bruciavano gli occhi, a Cesare, dalle lagrime che vi salivano, di nuovo, udite quelle parole ingenue. Fu più tardi, quando più alta era la notte di inverno, che una mano leggera si posò sul suo braccio. Egli ebbe un fremito di orrore, chiuse gli occhi: chi poteva toccarlo così, lievemente, come un fantasma? Invero, pareva un’ombra, Laura, entrata nella stanza senza che egli la udisse, avvicinata a lui, con la mano che gli teneva il braccio: sul vestito bianco era sempre gittato, disordinatamente, lo scialletto nero che pendeva; e i biondi capelli erano tutti sciolti sulle spalle, l’aureola d’oro che coronava la fronte e le tempie era scomposta, gli occhi azzurri, limpidi avevano più che mai quel senso di smarrimento e di interrogazione folle. E vedendo quello spettro, presso a lui, innanzi al letto di morte, accanto a lui, davanti al cadavere di Anna dalla faccia scoperta e dagli occhi semiaperti, egli rabbrividì di orrore. Laura taceva, così smorta che il suo viso, sul vestito bianco, parea terreo; guardava Cesare, rivolgendo a lui la interrogazione dei suoi occhi smarriti.

— Sei stato sempre qui? — domandò, con un soffio di voce, chinandosi verso di lui, col suo moto abituale che accostava i volti vicinissimi.

— Sempre.

— Oh! — fece lei, con una intonazione monotona.

Si guardò attorno: ma sfuggiva di fissare i suoi occhi sovra il cadavere.

— Perché non vai a riposare, un poco? Lucia dice che ciò ti farà male...

Egli non rispose; e una espressione di durezza gli si andò diffondendo per il volto. Laura lo guardò meglio, fece un atto di meraviglia e di sgomento: poi gli chiese, in preda ad una ignota emozione:

— Hai pianto? Tu, hai pianto?

— Sì — rispose lui, a voce più alta, con un gesto largo, come proclamando la sua dedizione al dolore e alla pietà.

— Oh Dio! — disse lei, fremendo, tremando, battendosi la fronte con le mani.

Egli la fissò, per vedere se a quei limpidi occhi, almeno, almeno adesso salissero le lacrime. No: ella era in preda a un sentimento misterioso ignoto, ella aveva fatto l’atto di disperazione innanzi alla umile e dolorosa confessione di lui, ma niuna stilla di pianto scendeva sulle smorte guance. Ella, lentamente, si allontanò da lui, e girando intorno al letto, andò a cadere in ginocchio innanzi alla immagine della Madonna. Ma non era giunta a completare il segno della salvazione, che una mano si appesantì sulla sua spalla.

— Che fai? — le chiese Cesare all’orecchio.

Prego — ella disse, senz’espressione nel viso, senza espressione nella voce.

— Per chi preghi?

Lasciami pregare, lasciami... — ella mormorò, crollando il capo.

— Ma per chi vuoi pregare? Alzati, alzati

Prego per Anna — ella rispose, diventata fiera, a un tratto.

— Non servedisse Cesare, brevemente.

Anna si è uccisa, bisogna pregare per lei, perché Dio le perdoni

Alzati, non pregare, Laura... — soggiunse lui frenando l’impeto dei suoi sentimenti.

— Si è uccisa, si è uccisa, è una suicida. Dio è senza misericordia per chi si uccide, bisogna pregare, bisogna far dire delle messe... — ella insistette, tenendogli testa, non levandosi da terra.

— Non serve, alzati e va’ nella tua stanza, Laura, va’ via, va’ via...

— No — disse lei, levandosi, ergendoglisi innanzi, tirandosi lo scialletto nero sul petto, incrociando le mani alla cintura.

Vattene, Laura, vattene...

— Tu vi sei: io posso restarvi — ella dichiarò a voce alta.

— Io sono stato qui per vegliare la morta, per piangere: io non ho osato pregare, perché non sono un empio. Tu non devi vegliarla: tu non sai piangere; tu offendi Dio ed Anna, pregando... Vattene.. vattene...

Fino a che tu resti, io rimarrò — ella replicò duramente.

— Non ti ha fatto orrore, l’entrare qui? — chiese Cesare.

— No.

— Non hai avuto paura?

— No.

— Non ti senti morire di rimorso, di sgomento?

— No.

— Non ti sembra che la morta si debba levare dal letto e cacciarti?

— No.

— Non ti sembra di essere la più turpe, la più crudele fra le donne?

— No.

— Eppure tu l’hai uccisa, Laura.

— Anche tu — proclamò lei, guardandolo in faccia.

E gli sguardi dei due complici s’incrociarono, come due spade nemiche. Ritti, pallidissimi, con gli occhi torbidi di collera e di dolore, uniti dalla colpa, e divisi dalla colpa, spasimanti di un diverso ma di un medesimo profondo strazio, in quel fiero, in quel tragico dissidio non sapevano che ardere di sdegno, l’uno per l’altra, e infuriavano, l’uno contro l’altra nel terrore, nel pentimento, nella pietà, Cesare; in preda ad un atroce combattimento di misteriosi sentimenti, Laura. A metà consumati ardevano i purissimi e funebri cerei, a metà appassiti ancora olezzavano i fiori recisi; e la morta giaceva sul letto, col viso scoperto, serbando sul viso la sua immensa disperazione che avrebbe portato nella bara, che avrebbe conservato sino a che l’ultima dissoluzione avesse distrutto quella forma terrena di Anna Dias.

— Anche io — consentì Cesare, e prendendo una mano di Laura e stringendola convulsamente. — In due, l’abbiamo uccisa. L’hai tu guardata?

— No, no — disse Laura tirando a sé la mano per scioglierla da quella di Cesare, che furiosamente la stringeva.

— Io, sì. Guardala.

— No, no — mormorò lei sordamente, voltando la testa in .

— Non hai coraggio? Non puoi guardarla? Ti credevo una donna forte e fiera, forte nel male, fiera nel peccato, per questo io ti ho amata. Laura, Laura, non valeva la pena di fare morire Anna per te!

Ella che si era curvata, tentando di sciogliere la sua mano di cui egli tormentava il polso, ella che quasi si dibatteva, convulsa, si chetò d’un tratto. Senza che egli più la forzasse, si volse alla morta, le si accostò, si chinò su lei, più vicino, più vicino, come se volesse dire qualche cosa. Cesare si era allontanato, in un tumulto indomabile di tutto il suo essere, era giunto sino al balcone ed era tornato indietro.

— Hai visto, hai visto? — chiese a Laura.

— Ho visto — ella rispose, vagamente, con gli occhi sognanti.

Par fatta più piccola, pare una bimba.

— Hai visto la sua faccia?

— Sì, sì... — sussurrò ella, trasognata, perduta nelle sue visioni.

— E non ti ha fatto orrore? Non ti senti fremere nei nervi e nel sangue, vedendo questa bimba, questa povera bimba che ti amava, che mi amava, che è morta, che è morta, capisci, mentre era buona, mentre era innocente e noi che eravamo colpevoli, viviamo? Non fremi di orrore contro te stessa, contro me, per quello che abbiamo fatto? Ma che deve succedere perché questa tua serena maschera si commuova? Ma ti commuoverebbe il mondo, se crollasse? E che essere incapace di emozione, di febbre, di delirio, sei tu? Tu non hai neanche pianto, tu, e nella via, nel palazzo, tutti piangono, anche i servi, anche gli estranei, anche quelli che in nulla la offesero, che le furono sempre cortesi, poiché era cortese e dolce! Tu non hai pianto, per una sorella tua, morta a ventitré anni, uscita sana e bella dalla casa, ritornata dopo due ore con un colpo di rivoltella nel cuore! Ma che aspetti, per piangere?

— Io non posso piangere — ella disse glacialmente, mentre il suo pallore si facea terreo, a quell’assalto di ingiurie e di dolore.

— Non hai pianto la notte scorsa, è vero? Che è passato, fra voi? Chi lo sa? Ella è morta, non può dirlo: e tu non lo dirai mai, tu non parli, tu non confessi neppure nelle tue orazioni: la tua forza è il silenzio. Chi sa quanto crudele sei stata, Laura, con tua sorella. Io l’ho trovata agonizzante...

— E le hai dato il colpo mortale.

— E le ho dato il colpo mortale... chi nega? Ma quando mi hanno detto che Anna si era uccisa, io ho sentito, veramente, qualche cosa lacerarsi in me, io ho sentito la febbre salirmi al cervello: io ho sentito lo sgomento mortale di quello che avevo fatto, io mi sono pentito, capisci, pentito, io Cesare Dias, umiliato nel pentimento, io, qui, innanzi a questa morta! Ma tu, no. Tu non hai versato una stilla di pianto, su questo cadavere; tu non hai lasciato neppure, sacrilega, sacrilega, il vestito bianco con cui sei venuta nella mia stanza, l’altra sera, quando ci siamo baciati, ed ella ci ha visti, e porti questo scialletto nero non per segno di lutto, ma perché hai freddo, ma perché non si geli la tua bella e sana persona; tu non hai voluto vederla, tua sorella morta, e hai consentito che mani estranee ne lavassero il corpo, che la vestissero nel suo abito nuziale le mani caritatevoli di una oscura serva; tu non hai portato un fiore a questo cadavere; tu non sei venuta a vegliarlo, tu, sacrilega, sei venuta qui a cercare me, e quando io, Cesare Dias lo scettico, il cinico, colui che aveva indurito il suo cuore a tutte le emozioni, colui che non aveva mai tremato, mai sofferto, mai pianto, colui che non amava nessuno e niente, salvo questa tua serena maschera di vergine voluttuosa e taciturna, quando io che ho conosciuto il fondo di ogni corruzione e il segreto di tutte le glacialità, ho visto questo volto, io mi sono inginocchiato e ho pianto, m’intendi, non come un uomo che ha provato il ribrezzo della propria colpa, ma come un uomo che grida contro se stesso, contro la propria crudeltà e contro l’ingiustizia del destino. Ho pianto, ho quarantacinque anni, non avevo pianto mai, mi son sentito morire, capisci, alle lacrime che mi bruciavano la faccia!...

— Oh Dio, oh Dio! esclamò ella, levando le braccia al cielo.

— Non vedi il suo volto? e la forzò, prendendola furiosamente per le braccia, a chinarsi nuovamente sul letto, quasi gettandola sul cadavere. — Leggi, leggi quello che esso dice, poiché parla, poiché se un giudice istruttore lo vedesse, questo volto, ci condannerebbe a morte, Laura, te, me, come due freddi assassini! Guarda, Laura, ella non voleva morire, poveretta poiché i vecchi debbono morire, i malati debbono morire, ma non gli esseri sani, giovani, pieni di bontà, come lei! Non sembra che ci guardi disperatamente attraverso quelle palpebre socchiuse? Vedi, vedi, come soffre questa bocca; ti rammenti, come sorrideva bene, come era dolce, nel sorriso? Oh Signore, quanto deve aver spasimato, prima di morire! Guarda, guarda bene, che strana linea di durezza in questa fisionomia che era così tenera, guarda che espressione di desolazione e di sdegno, anche contro noi che la facevamo morire! Ah ella non deve, non può averci perdonato...

Cesare, Cesare, lasciamimormorava, soffocatamente, Laura.

— Non ha perdonato, ti dico, Laura...

Lasciami andare... — e con un grande sforzo si sciolse da quelle braccia tenaci che la tenevano faccia a faccia col cadavere, e fece per fuggire.

— No — gridò lui, sbarrandole il passo, con gli occhi stravolti — non puoi uscire così. Inginocchiati e chiedi perdono a questa morta.

— È inutile — ella disse, di nuovo fredda.

Laura, pentiti; Laura, domanda perdono.

— È inutile: è morta.

— L’anima non muore: ella ti ode, chiedi il perdono.

E la mano di Cesare si appesantiva sulla spalla di Laura per piegare alla genuflessione quella giovane, indomita persona: ella sentiva venire il momento in cui, nella confusione del dolore e dell’ira, egli l’avrebbe forzata a inginocchiarsi. Ma, ostinatamente, non cedette.

Devi domandare perdono, Laura.

— No, giammai! — diss’ella, fierissimamente.

— Giammai?

— Se mi riapparisse mia madre, in questa camera, non mi obbligherebbe a chiedere perdono; se dovessi avere la salvazione eterna, per questo perdono, non lo domanderei, Cesare, mai, mai, mai.

— E perché? — domandò lui, in preda a un novello stupore, a un novello sgomento, sentendo un appressamento misterioso di male.

— Così — ella disse, accennando largamente la ignota ragione.

Laura, Laura — egli riprese, cercando di esser calmo, almeno nel tono della voce, almeno nelle paroleascolta: tu non dovevi venire qui questa notte; è stato un tentare la Provvidenza. Chi sa! Anche tu forse, hai obbedito a un impulso interno, che ti ha tratto dal silenzio della tua stanza e ti ha messo innanzi a questa morta. Anche io! Lo sai! Così si dice che succeda, in ogni delitto. Corrosi dalla passione che li spinse alla colpa, ardenti di una fatale curiosità, i colpevoli non sognano che di ritornare sul luogo dove hanno ucciso, non vedono nei loro sogni che l’espressione dolorosa e disperata della vittima...

Cesare, tu hai perduto la testa; non continuare...

— Ti assicuro che no, vedo tutto con la massima chiarezza. Sono un uomo! Sono un uomo e per questo il mio cuore ha sofferto e soffre infinitamente di questa morta; sono uomo e ho sentito lo strazio di aver visto il cadavere di una giovane donna, sul letto di morte: sono uomo, il pentimento è degli uomini, il chieder perdono è da uomini: non ho soltanto pianto, io, ho anche domandato all’anima di Anna che mi perdonasse.

— Tu hai fatto questo? — gridò Laura con le mani nei capelli.

— Io, sì.

— Questa notte?

Ora, ora, prima che tu venissi. Innanzi a te, lo domanderò di nuovo.

— Non udirò questo — gridò ella, esasperata.

— L’udrai. Adesso, domani, quando la porteranno via, e quando se ne sarà andata, io, nel mio pentimento, le chiederò perdono. Sono uomo; ho commesso una infamia atroce e irreparabile; non posso fare altro che domandar perdono, ogni minuto, nel mio cuore...

Signore, Signore, che castigo

— Di quale castigo parli, Laura?

— Un ingiusto castigo, Signore, un castigo immeritato, un castigo crudele...

— Che dici?

— Niente — ella disse, sconvolta ancora, tutta tremante, avendo già perduto il senso delle cose e del tempo.

Laura, di’ quel che pensi; parla, tu hai un pensiero segreto, da oggi tu nascondi qualche cosa in questo tuo verginale e mostruoso cuore; parla, ci deve essere un segreto. Sei una donna, sei umana, non puoi aver l’istinto delle iene, che divorano i cadaveri: Anna è morta, tu non hai pianto; Anna si è uccisa, perché noi l’abbiamo tradita! Anna si è uccisa, perché dopo averla tradita, noi l’abbiamo oltraggiata con la freddezza, con l’ironia, con l’audacia del tradimento, con la crudeltà dei traditori. Sei una donna infine, dovresti piangere, dovresti pentirti, dovresti sentire la tenerezza immensa che viene dal dolore! Ma sa Iddio che si è formato, di bizzarramente pauroso, in fondo a questa tua anima, che mi sgomenta, che mi terrorizza, poiché in questo io sono debole come un fanciullo... Laura, di’ tutto: nulla è peggio, nulla, di quel che ho sentito, nulla è peggio di questa povera morta disperata...

— Non ho nulla da dire — ella dichiarò.

Laura, non chiudere la tua anima, non farmi dire che sei una creatura perversa, una creatura infame, tu che non hai una parola di rimpianto, tu che non pieghi le ginocchia innanzi alla tua vittima...

— Nulla da dire, nulla — dichiarò di nuovo, ma già vacillante sotto l’ingiuria.

Perversa, perversa, infame, infame dinanzi a una morta... dinanzi a una morta!... E l’ho tradita, per costei, la mia morta!... l’ho fatta morire per costei... Vattene, vattene, mi fai ribrezzo...

Ah, ella non potette sopportare questa parola! Camminò verso lui, gli prese le mani, lo guardò negli occhi, con l’ardente sguardo dei suoi chiarissimi, purissimi occhi che lo avevano sedotto al peccato, gli parlò, con la limpida e incantatrice voce che lo aveva trascinato al peccato e in cui ora ardeva, nuovamente, il torbido calore delle ore estreme.

Di’ che hai mentito, Cesare, dicendo che soffri!

— Non ho mentito, Laura; ho conosciuto tutta la profondità del dolore, oggi; non la conoscevo, l’ho conosciuta...

— Hai mentito, mi sono ingannata, quando ho visto, quando mi hai detto che hai pianto?

— Le prime lacrime, Laura, le prime!

— Non è la lunga veglia, non sono questi fiori, questi cerei, non è questa stanchezza mortuaria, forse, che ha dato a te, uomo forte, questa debolezza, questa miseria? Forse domani, con la luce, col sole, tu ritornerai Cesare.

Domani sarà come stanotte, Laura; e come stanotte sempre.

— Sempre?

— Sempre.

Cesare, Cesare, Cesare, di’ che mi vuoi bene ancora!

— Non ti vergogni di domandar questo? Non hai capito quello che vi è tra noi?

Cesare, mi vuoi bene?

— Innanzi a una morta, che infamia!

Cesare, Cesare, Cesare, di’ che non è vero che ti faccio ribrezzo!

Veramente, tu mi fai ribrezzo — egli proclamò, guardando il letto di morte.

Laura chiuse gli occhi. Poi, quietamente, a denti stretti gli disse:

Ascolta. È vero. Anna ti amava; non dovevo amarti io, sua sorella, non dovevi amarmi tu, mio cognato, quasi mio fratello; è vero, è stato un terribile peccato, è vero quando ella mi ha chiesto di non amarci più, di partire, di fuggire, dovevo cedere, pentita, umiliata; è vero, sono stata crudele. E poi? Basta. Ieri, forse, potevo, dovevo piangere: ieri, forse, a mia sorella viva, e a Dio, potevo domandare perdono del mio errore, oggi no.

Oggi, no?...

— Hai dimenticato, dunque? Hai smarrito la testa? Vuoi negare a te stesso la verità?

— Che verità? — gridò Cesare vedendo venire l’ignoto colpo.

— Tua moglie si è uccisa in casa di Luigi Caracciolo, Cesare.

— Oh! — egli fece, senz’altro, come soffocando.

— L’hai trovata per la via, nella carrozza dove la trasportavano; ma veniva di , dal villino Rey al Chiatamone, dalla casa di Luigi Caracciolo, dove, nel suo salotto, innanzi a lui, si era tirata un colpo di rivoltella al cuore. Non te ne sei accorto: o lo hai scordato: o lo vuoi scordare; ma così è: Anna si è uccisa nella casa di Luigi.

Anna è innocente!

Credilo, se vuoi. Io, non lo credo. È uscita; è andata da lui; vi è restata; si è uccisa. Sono giusta, io, per me e contro me, per gli altri e contro gli altri. Io ho tradito Anna; Anna ha tradito te. Si è uccisa da lui: non ha lasciato una lettera; non ha detto, a nessuno, una parola. Ha tradito, come me. Posso raccomandare la sua anima al Signore come la mia. Ma non voglio pentirmi, per lei, non voglio piangere, per lei; non voglio chiedere perdono.

Sorgeva l’alba, gelida, nelle freddissime tinte metalliche. Impallidite le fiammelle dei cerei, quasi tutti consumati; appassiti, morti i fiori; sul volto scoperto della morta le tinte brune si eran fatte di viola. La veglia mortuaria era finita.

 


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