Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Castigo
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IV

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IV

 

Due volte aveva detto di no Caterina Lorini al marchese di Mileto che, sottovoce, la pregava di cantare; silenziosamente, poiché ella amava di parlar poco, mettendo tutta la espressione della sua anima nel canto, ella gli aveva indicato il salone di Barbara de’ Neri, pieno di gente che andava e veniva dalle quattro grandi porte-finestre che davano sulla magnifica terrazza degli oleandri: i gruppi delle signore, delle signorine, dei gentiluomini, si componevano, si scomponevano, con un movimento continuo e grazioso, come quello di un’amabile danza ritmica. Alle pareti dell’ampio salone pendevano gli squisiti arazzi antichi, e non una stoffa moderna, non un moderno gingillo deturpava quella beltà di tinte sfinite, quegli azzurri morenti, quei bigi già morti. Donna Barbara de’ Neri aveva semplicemente fatto mettere molte grandi piante verdi, dovunque: e dei fiori dappertutto, nelle bianche porcellane di Capodimonte e nelle strane coppe di Delft: e le sedie, le poltrone, i divani erano così belli alla moda antica, così atti a far valere nelle loro linee, tutta la snellezza e la nobiltà della figura muliebre! Ella stessa, girando per i gruppi che rendevano così brillante e così affascinante il suo ricevimento del venerdì, era venuta a chiedere, col suo buon sorriso tenero di donna inesprimibilmente innamorata, a Caterina Lorini che cantasse qualche cosa.

— Non disturbiamo i flirts — aveva detto Caterina crollando la piccola testa dai bei capelli castani, dagli occhi così pieni di sogni.

— Anzi: come flirtare meglio, quando tu canti?

— Oh povera musica! — avea esclamato, teneramente, Caterina.

Ketty, la musica è stata fatta solo per l’amoredisse gravemente donna Barbara e impallidì un poco, quasi che il suo male le avesse dato un morso al cuore.

La seducente padrona di casa, dagli occhi grigi così scintillanti e pur soavi, si allontanò, per andare incontro alla principessa di Annenkow che giungeva, scortata da un piccolo corteo di giovani e di maturi spasimanti. Ella rideva, la grande russa dai denti così bianchi e forti attraverso le labbra un po’ grosse, e il suo cappello di paglia coverto di fiori freschi e selvatici, una eccentricità, occupò subito tutto il salone, e l’eco del suo riso si ripercosse fin sulla terrazza degli oleandri, dove altre coppie flirtavano, lietamente e dolcemente.

Cantate un poco — mormorò, per la terza volta, Luigi Caracciolo a Caterina.

— Tanto vi piace, la musica?

— Non la musica, la vostra voce.

— E perché?

— La musica è stata fatta per l’amore: e la vostra voce per il dolore, marchesa — egli disse, sottovoce, senza guardarla.

Ella conoscea bene la storia di Luigi; ella sapeva che, come il suo cuore di donna, vagamente malinconico per segrete delusioni, dava nel canto le sue lacrime, i suoi singhiozzi, le sue evocazioni, così la sua voce, nel canto, aveva misteriose e ineffabili consolazioni per coloro che si portano nel mondo una cura che nulla guarirà giammai. Tante volte, nella penombra del suo salotto, Caterina Lorini avea cantato per cullare lo sconforto di un’anima amica e desolata; tante volte, in salone, ella aveva visto, al suo canto, scolorarsi dei volti rosei e una nuvola di pianto salire agli occhi aridi di vanità! Lentamente, ella si tolse i lunghi guanti di camoscio, e le bianchissime mani apparvero, le mani che avevano tanta spiritualità, volando sul pianoforte, mentre non un solo filo d’oro ne adornava le dita. Ella si accompagnava, odiando quell’atto di restare in piedi, col viso rivolto alla gente, che vi potea leggere tutta la sua emozione: odiando, sovra tutto, che un qualunque maestro l’accompagnasse, sapendo ella sola accordare il mormorio del pianoforte alla sua voce. Si era seduta, pianamente, quasi che cantasse solo per Luigi a cui aveva lasciato i suoi guanti. Ella cantò, sul metro orientalmente monotono e triste e voluttuoso, Les adieux de l’hôtesse arabe di Giorgio Bizet, la grande anima musicale di questa fine di secolo. Era una nenia che ella diceva pianissimamente, voltando le spalle al salone, con gli occhi socchiusi, con le spirituali mani di donna che non aveva saputo peccare, carezzanti il pianoforte; e nel salone, due o tre persone tacquero ascoltando, mentre altrove, specialmente sul terrazzo degli oleandri fioriva il cicalìo d’amore. Puisque rien ne t’arrête, dans cet heureux pays. Ni l’ombre du palmier... cantava Caterina, mentre Luigi Caracciolo, a testa bassa, ascoltava assorto, preso da quella cantilena dove la purità della voce di Caterina si tingeva di una malinconia amorosa. Adieu, bel étranger... cantava Caterina, smorzando la voce, nel dare l’ultimo saluto della bella araba dai grandi occhi di velluto, che non avevano saputo trattenere il perfido straniero: e Luigi non vedeva più il maestoso salone fiorentino dai grandi arazzi di alto liccio, dove certe morenti dame azzurre guardavano coi loro occhi di seta agonizzanti i morti cavalieri bigi.

Canta la Ninadisse donna Barbara, che era venuta ad ascoltare Caterina, guardando, di lontano, la bella figura di lord Fitz-Roy.

E l’immortale grido di passione e di angoscia che eruppe dal petto straziato di Giovan Battista Pergolese, la canzone di Nina che è malata, che è immersa nel sonno, nel torpore letale, «il sonno l’assassina», la canzone più profonda, più intima e più clamorosa di amore, salì per l’aria profumata di quel salone fiorentino, fra gli amoretti tenui e carini, fra le simpatie incipienti e fugaci, fra il «flirt esotico», per cui i vividi occhi di America s’innamorano dei languidi occhi italiani, per cui le carnagioni delle vergini sassoni si tingono nel roseo della gioia. La marchesa Lorini cantava così pateticamente, così passionalmente la Nina del grande martire dell’amore, che il pallore di donna Barbara de’ Neri si fece più intenso, mentre le palpebre le si abbassavano sui grigi e soavi occhi, per nasconderne, forse, il velo delle lacrime. — Luigi Caracciolo aveva levata la testa, come scosso da un avvertimento intimo, in attesa di un misterioso avvenimento. Difatti, quando Caterina cantò la frase sublime: Svegliatemi Ninetta, entrò, nel salone di donna Barbara de’ Neri, la duchessa di Cleveland.

Lady Hermione era vestita di velo di lana, color rosso cupo e smorto, un rosso tetrissimo, come velato di nero. La forma era quella di una tunica antica, assai austera, assai claustrale, a pieghe fitte dalla cintura in giù. Bensì questa tunica era lievemente aperta in quadrato, al collo, una scollatura casta, orlata di un gallone su cui brillavano violaceamente delle pietre di ametista. Due grosse ametiste pendevano dalle sottili orecchie di lady Hermione: e il cappellino di stoffa d’oro era tutto trapuntato di ametiste. Nelle mani portava un fascio di orchidee gialle e non aveva né ventaglio del Giappone, né ombrellino di merletto, né portabiglietti di stoffa antica: solo le piccole mani che uscivano dalle maniche strettissime al polso, larghe e alte sulle spalle, portavano queste orchidee, di un giallo vivo, di forme arcanamente mostruose. Donna Barbara de’ Neri e la duchessa di Cleveland scambiarono una profonda riverenza, in mezzo al salone, dove la fantastica donna inglese si era avanzata col suo passo, che appena appena sfiorava il pavimento di antichi marmi toscani. Svegliatela, per pietà, cantava Caterina: ma Luigi, affascinato, era andato incontro a lady Hermione e le aveva baciata la mano che ella gli aveva stesa, guardandolo coi suoi occhi neri, fieri, dolci, senza sorridergli, senza parlargli.

Poverettodisse donna Barbara, piano, a Caterina che aveva finito di cantare.

Poverettoripetette la cantatrice dal pietoso cuore deluso. Luigi aveva seguito, a due passi di distanza, lady Hermione che andava lievemente, quasi senza toccar terra, per il salone, salutando senza un sorriso quelle e quelli che conosceva, stendendo loro la mano, facendo delle grandi riverenze di vecchio stile, nobilissimo, mentre stringeva al petto le gialle orchidee. Ella si era seduta sopra un seggiolone di cuoio, dall’alta spalliera scolpita, dove l’arme dei Neri si rilevava: e diritta sul seggiolone, con quella tunica che cadeva a pieghe fitte e minute, intorno, con quei gioielli strani del colore del vino bruciato, con quei neri capelli rialzati come un’onda nera sulla breve fronte, ella ascoltava quel che le diceva Luigi.

— Come siete giunta tardi... — le mormorò Luigi.

Tardi, vi pare? Non so bene — ella rispose con voce un po’ gutturale e toccante, col suo accento straniero che accresceva la poesia del suo linguaggio italiano.

— Sono le...

— Non mi dite che ora è — disse lady Hermione, interrompendolo subito. — Mai, mi dovete dire l’ora.

— E perché?

— Così. Non vi è orologio, nessun orologio nella mia casa: ho proibito ai servi di dirmi l’ora: prego gli amici di non dirmela mai.

Vivete così?

— Sì. Vivo senza conoscere l’ora della giornata, ignorando in qual giorno della settimana ci troviamo, qual è il mese che trascorre e quale anno vada a cadere nel nulla.

— Sicché, voi ignorate anche il numero dei vostri anni?

— Oh sì! — disse Hermione con una intonazione più grave, guardandolo negli occhi.

Egli ebbe un minuto di spasimo, sulla fisonomia.

— Siete giovaneLuigi riprese, essendo riuscito a vincere quel sussulto di fantasia turbata.

— No — ella rispose, con una certa durezza.

Sembrate e siete giovane — egli replicò, volendo diventare più forte contro le suggestioni della fantasia.

— Ho vissuto tanto, tanto... — soggiunse lady Hermione, spalancando i grandi occhi neri.

Dove? — chiese Luigi, sentendo, di nuovo, la confusione invadergli il cervello.

Dappertutto.

— Siete stata a Napoli, è vero?

Ella lo scrutò, prima di rispondere. Si curvò un minuto: e le violacee ametiste brillarono sul tetro rosso del vestito, sulla pelle bianca del collo, sull’oro forte e opaco del cappellino. Poi, rialzando la piccola testa bruna, rispose:

— Sì.

— Quando? Quando?

Lady Hermione ebbe un gesto vago, per indicare un punto indefinito nel passato: poteva essere anni prima, poteva essere il giorno prima.

— Quando? Quando?

— Non so: non posso dirvi.

— Ci siamo incontrati, è vero?

— Io non lo sodisse lady Hermione, con l’ombra di un sorriso, apparente e sparente.

E nello smarrimento che gli aveva dato quel dialogo strano e quel finale sorriso di anima conscia, egli le rivolse la folle domanda che le faceva, da venti giorni, ogni minuto, in un minuto qualsiasi della loro conversazione: la domanda inaudita che ella ascoltava, sorpresa e silenziosa: la domanda dove si riassumeva tutta la malattia sentimentale del marchese di Mileto.

Ditemi chi siete, ditemelo.

— La duchessa di Cleveland — ella rispose, levandosi dal seggiolone e andando incontro alla principessa Firidolfi, la madre del bel Giovanni, così nobile, così bello, così povero.

Luigi restò seduto, seguendola con gli occhi in quel suo andare di fantasma, nel salone: poi la vide uscire sul terrazzo, dileguarsi.

— Il rimedio è peggiore del male, è vero, Luigi? — gli disse Pietro Tornabuoni, accostandosi a lui, dopo aver flirtato, qua e , con la sua bella grazia languente italiana, rialzata da una punta di scetticismo.

— Quale rimedio?

— La duchessa di Cleveland.

— È il mio male istesso, Pietro.

Luigi, tu vuoi essere malato, tu soltanto.

— È il male, il male, lei, te lo giuro.

— Non mi dirai tu, Luigi, che gli spettri camminino per la città, in pieno giorno, vestiti alla maniera delle creature del Beato Angelico? Che abbiano mezzo milione di rendita e un marito Pari d’Inghilterra?

— Che importa! — disse l’altro. — Non è forse il primo anno, che apparisce qui lady Hermione?

— Il primo.

— Non è venuta qui, solo da un mese?

— Sì, solo da un mese.

— Non vive bizzarramente?

— Sì: ma la bizzarria è la libertà delle persone di talento.

— Non è una persona fantastica?

— Sì: ma Firenze ne è piena, di straniere fantastiche.

— Le sue mani non sono sempre fredde?

— Già: una cosa orribile. Speriamo che sia caldo il suo cuore, per te.

— Non direesclamò Luigi, sgomento. — Ha avuto amanti, qui?

— No, nessuno, per ora. Dicono che ami lord Cleveland.

— Ha flirtato con nessuno?

— Con te, soltanto.

— Questo ti dicevo, dunque, amico mio — concluse Luigi, trionfalmente.

Va’ a raggiungerla, Luigi — gli suggerì Pietro, indicandogli la terrazza degli oleandri.

— Tu mi ci mandi? Tu?

— Qualunque donna essa sia, vedi, Luigi, che fo delle concessioni alla tua infermità, qualunque sia il suo nome, il suo cuore, venga da dove vuole, parta per dove le piace, non vi è che un sol rimedio, per te: che la duchessa di Cleveland diventi la tua amante. Hai capitò? Non l’innamorata, l’amante! Mi intendi bene? Falle la corte, dalla mattina alla sera, non la lasciare mai, flirta sino allo scandalo, compromettila, compromettiti, fatti cacciare dai suoi servi, battiti con lord Cleveland, ma ottienila. Non vi è altro, se vuoi salvarti. Averla! Voglio poi vedere, quando l’avrai tenuta fra le braccia, se crederai che sia un fantasma. Va’, va’, scampa il tuo cuore e la tua salute: e se ella è veramente uno spettro, Luigi, dopo, mi farai sapere in qual modo si comportano, nell’amore. Sono curioso: non ho mai amato un fantasma, non ne so niente. Ottienila e poi raccontami. Va’!

Aveva parlato, così, fra la serietà e lo scherzo, fra il bisogno di non lasciarsi vincere dallo stesso intimo, singolare, pauroso dubbio del suo amico e la necessità di vederlo guarire, per mezzo di un fatto brutale. E nella tumultuosa lotta che facevano fra loro sentimenti, impressioni e sensazioni nello spirito di Luigi, questo fatto semplice, netto e preciso nella sua realtà umana, apparve all’infermo come la gran medicina che lo doveva condurre alla morte o alla guarigione. Senza rispondere, obbedendo alla suggestione di Tornabuoni, si levò e attraversando il salone, dopo aver scambiato qua e delle frasi, uscì sulla gran terrazza tutta fiorita di rosei oleandri, e dal cui bianco parapetto di marmo si guardava la verde campagna toscana. Anche fuori, nella dolce ora del vespro, fra le sedie rustiche e i tavolini di fine paglia saldamente intrecciata, nei cantucci, lungo il parapetto, era un unirsi e uno sciogliersi di coppie, di gruppi, che godevano la soavità di quell’ora e la soavità dei suoi tenui amori, delle fini simpatie. Lady Hermione era seduta sovra un banco, ai piedi di un boschetto di oleandri che sorgevano da grandi vasi riuniti e accostati, e parlava con Giovanni Firidolfi, lentamente, levando i begli occhi neri, tenendo sulle ginocchia i suoi gialli fiori dalle forme grottesche e attraenti. Parlava piano, tutta circondata dalla luce di viola del vespro, dove le gemme di ametista del suo vestito, della sua testa, brillavano più limpide nella loro chiara tinta.

Quando Luigi Caracciolo si fu avvicinato a lady Hermione e a Giovanni Firidolfi, la conversazione durò ancora per qualche minuto, in tre, con quella naturalezza graziosa italiana: poi, esercitando quella nobile virtù del rispetto all’amore, virtù che sta fra la discrezione e la indulgenza, Giovanni Firidolfi, con la sua disinvoltura signorile, si allontanò, lasciando soli i due. Ma l’impressione improvvisa ricevuta da Luigi, accostandosi, udendo i discorsi fra Hermione e Giovanni, in cui aveva messo qualche parola, durava. Li aveva trovati, non già a parlare di qualche frivolo soggetto mondano, né dediti a scambiare quei paradossi amorosi, di chi quotidianamente fa questa scherma sentimentale: in quel tramonto tenero, in quella chiarezza d’aria, fra le tinte rosate degli oleandri carichi di fiori, fra tante persone che, chiacchierando cortesemente d’amore, finivano per amarsi, Hermione e Giovanni parlavano di Pisa e del suo magnifico cimitero e della meravigliosa pittura di Orcagna, la danza della Morte. Quante di queste danze macabre sono sparse per la Germania e in tutti i paesi nordici, dove l’idea della morte soverchia la vita! Ma, la Morte che conduce il ballo, sulle pareti del grande camposanto pisano, ha un fascino di paura, di terrore, s’imprime nell’animo di chi guarda e vi resta, e gli riappare, nelle notti senza sonno. Questo dicevano, Hermione e Giovanni, gravemente, come se parlassero del pique-nique che si doveva fare, tutti quanti, a Vallombrosa, o del matrimonio di Cia Sismondi con Paolo Malatesta.

— Perché parlate sempre di queste cose lugubri? — domandò Luigi, già immediatamente spostato dalla suggestione di materiale conquista, che Pietro Tornabuoni gli aveva fatta.

— La morte non è una cosa lugubredisse Hermione vagamente.

— Ve ne prego, non insistete...

— Voi altri italiani siete così paurosi della morte! ella riprese, con una lieve intonazione di disprezzo. — L’idea che sarete freddi per sempre, quando vi piace così il caldo; l’idea che non godrete più la luce, mentre siete tutti innamorati del sole; l’idea che si corromperà il vostro bel viso e il vostro bel corpo, che amate tanto, tutto questo, che è la morte, vi terrorizza... Ella sorrideva.

— E voi, non vi terrorizza, lady?

— No.

— Non avete orrore del gelo, dell’oscurità, del… resto?

So di che si tratta — ella disse, profondamente.

— Ma che dite? esclamò Luigi con una nebbia torbida innanzi agli occhi, innanzi al cervello.

Dico — ella riprese — che da anni mi abituo alla sola cosa vera che noi conosciamo, che è la morte; dico che ho finito per amare questa sola nostra certezza, in questo mondo dove tutto è fallace, cominciando dall’amore e finendo all’amore; dico che questa luminosa verità mi attira. Oh come siete spaventato, Caracciolo! Siete pallido come un morto, ma non io sarò pallida così, nella tomba, vedrete!

— Oh lady Hermione, io sono debole e vile come un fanciullo.

Parlare della morte, fa venire un coraggio indomito, conte. Io credo che voi mi verrete a trovare, nel mio mausoleo. Vi ho mai detto come sarò io bella e affascinante, nella mia tomba? Voi tremate? E perché? Anzitutto, io mi farò fare un mausoleo di marmo roseo, ampio come un salone antico, con grandi finestre all’oriente e all’occidente, donde possa entrare il sole sorgente e calante, donde entrino tutti i profumi del grande giardino fiorito dove il mausoleo sarà messo nel mezzo di un boschetto di palme e di oleandri; e nella notte, vi entrerà il fioco bagliore delle stelle, il morbido chiarore della luna. Il mio corpo sarà imbalsamato finemente e odorerà degli aromi più inebbrianti: i miei capelli saranno acconciati in questa maniera; avrò il mio più bel vestito, di una stoffa calda e vistosa; porterò i miei più splendidi gioielli e non mi chiuderanno, no, mi metteranno così, come se dormissi, sopra un letto di marmo roseo, coverto di cuscini orientali. E io lascerò dei legati a chi porterà dei fiori, ogni giorno, a questa bella donna dormente; a chi verrà a versare, nuovamente, dei profumi, sul corpo imbalsamato; a chi pettinerà i neri capelli, e prima di morire l’anima mia darà all’uomo che mi ama la volontà di vedermi ogni giorno, così, bella sempre, imperitura...

Lady, voi avete un terrore invincibile della mortedisse Luigi.

— Forse ella annuì, — impallidendo.

Luigi si commosse, pentito di aver sorpresa la segreta debolezza di quell’anima. E riprese il discorso, con una diversione che lo riconduceva al suo scopo amoroso.

Dove andate, questa sera, duchessa? — chiese con l’audacia degli innamorati, che le donne perdonano così volentieri.

— Con Caterina Lorini, all’Orfeo di Glück.

— Ci siete già stata; vi rammentate? Vi fui presentato colà.

— Sì, mi rammento.

— E perché ci tornate?

— Così.

— Non andateci, lady... — egli pregò, con la sua voce insinuante e calda.

— E che farò, se non ci vado?

— Mi darete questa serata.

— A voi?

— A me.

— Per qual ragione?

— Perché vi voglio bene assai — disse napoletanamente Luigi, con la grazia appassionata del suo paese.

Ripetetedisse lei, con una gentile e singolare curiosità, chinandosi un poco, a guardar meglio quel volto, a udir quella voce.

— Vi voglio bene assai — egli ripetette, con la languida tenerezza italica che conquista tutti i freddi cuori.

— Ah, va bene — ella disse, con una voce più gutturalmente inglese, senz’altro.

— Non ci andate all’Orfeo?

— No — Hermione rispose, senz’esitare.

— Posso venire al palazzo Gualandi, stasera?

— Sì.

— A che ora?

— Io non so l’ora. Io sono un’ombra che ignora il tempo — e sorrise in un modo così seducente che egli sentì le fiamme della passione salirgli al cervello.

— Presto, verrò.

— Presto.

— Mi aspetterete?

— Vi aspetterò; con terrore e con desiderio, come la morte — ella soggiunse, accentuando il suo sorriso che prometteva, pur non avendo non so quale triste riflesso.

E si levò: le fitte pieghe del suo vestito rosso cupo caddero più diritte, sino a terra, e nella linea della veste, con quel cappellino, che aveva la forma di un bizzarro ornamento d’altri tempi, ella rassomigliò a qualche imperatrice di Bisanzio, dipinta sul fondo d’oro di una chiesa di Romagna.

— Oh, ve ne andate? Vi accompagnochiese, con una subita e schietta tristezza.

— No: stasera. Ecco un fiore.

Ma invece di dargli una delle gialle orchidee che stringeva alla cintura, ella spiccò un fiore di oleandro, ad un vaso, e glielo offrì.

Grazie — e, con un atto fugace, egli baciò le dita guantate che glielo porgevano.

— È inebbriante e velenoso, badatedisse Hermione. — Addio, portatemi dei fiori, stasera. Sapete il mio fiore prediletto?

— No.

— Li amo tutti, ma adoro i crisantemi, fiori di morte! Tanti crisantemi, mi portate, questa sera? Fate come se li portaste a una morta. Addio.

E, col suo passo fantomatico, attraversò la terrazza dove già le ombre della sera scendevano, sparve. La gente si diradava, sulla terrazza, salutando, sorridendo, dividendosi per rivedersi subito, più tardi. In un angolo, donna Barbara de’ Neri parlava con lord Fritz-Roy, ed era così bella nel suo minuto di felicità, che le amiche le dirigevan solo un rapidissimo saluto, discretamente. Ognuno portava seco la sua parte di vita sentimentale, simpatia, tenerezza, amore, gelosia, vaghe inclinazioni del cuore.

— È viva, eh? — chiese, ridendo, Pietro Tornabuoni a Luigi, andando via insieme.

— Questa sera lo saprò — egli rispose seriamente.

 

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Lady Hermione stava ritta presso l’alto leggio di legno scolpito, su cui batteva la luce mite di un’antica lampada di bronzo: sul leggìo era aperto un grande libro dai fogli di pergamena ingiallita, a grossi caratteri neri e rossi, e sulle pagine pendeva il segnalibro di nastro rosso, che ella rimoveva, ogni volta che finiva di leggere un foglio. Tutta la grande stanza era cupamente mobiliata di mobili nello stile del cinquecento, di legni bruni severamente scolpiti e di un velluto marrone oscuro dove qua e , ogni tanto brillava un filo d’oro. Le pareti avevano degli scaffali scolpiti, pieni di vecchi libri, degli scaffali a cristalli, pieni di preziosissimi oggetti d’arte, e, dove un vuoto restava, sulle pareti, vi erano dei quadri antichi, su cui la poca luce delle due o tre lampade di bronzo non lasciava vedere le figure. Le sedie, le poltrone, i divani, pur conservando quella purezza, quella nobiltà di stile che è la manifestazione della grande epoca italiana, portavano dei cuscini di velluto marrone che parean neri, nella penombra. Il solo mobile modernissimo era un’ampia seggiola a sdraio, coperta da un bizzarro drappo di broccato nero tutto ricamato d’oro e da una quantità di cuscini di raso ammucchiati, su cui la dama aveva gittato o lasciato un fascio di orchidee gialle, un fazzolettino e una di quelle collane di ambra che tengono sempre fra le mani le donne orientali, per far passare il tempo che sembra immobile, per loro, e per profumare le dita, sgranandone monotonamente i grani. Vi si doveva essere sdraiata un momento, la dama, poiché i cuscini abbassati, portavano la forma del suo corpo. Adesso, in piedi, con la bianchissima mano riccamente gemmata dal mignolo all’indice, appoggiata ai vecchi fogli, lady Hermione leggeva.

Hermione era vestita di un abito bianco, di una stoffa fine e lieve che pareva lino, che ricascava intorno alla persona senza uno sgonfìo, senza una piega artefatta, sino ai piedi, rotondo, senza strascico, senza un fruscìo. L’abito era aperto in tondo, intorno al collo, alla radice di esso, e orlato di un merletto arrovesciato, senza neppur un gioiello che lo fermasse. Attorno alla cintura aveva una fascia ricamata di oro e d’argento che chiudeva innanzi e pendeva in un sol capo, più largo sino ai piedi del vestito, come una stola. I capelli nerissimi erano rialzati in onda sulla fronte, rialzati in onda dalla nuca, e formavano un sol nodo grosso, a metà della testa. Non aveva orecchini, non aveva braccialetti, non aveva uno spillone, nei capelli: i soli, magnifici gioielli erano i molti anelli onde le mani erano caricate. Ella leggeva, attentamente, senza mostrar impressione sul bel viso bruno, con gli occhi nerissimi fissi sugli antichi caratteri, mentre la snella persona, non molto alta, non mostrava stanchezza, da quella lettura fatta così. Il più profondo silenzio regnava in quel palazzo Gualandi, che la duchessa di Cleveland aveva preso tutto, per essere tranquilla: e un profondo silenzio era sulla piazza, dove si ergea, al chiaror plenilunare, la chiesa di Santa Croce. Ogni tanto, il foglio di pergamena, voltato, frusciava come ala di uccello notturno, nel silenzio. E guardando bene, sull’ampio tavolone dove erano posati degli altri grossi libri, alcuni coperti di cuoio impresso, chiusi con borchie d’argento, e un pugnale spagnuolo per tagliare le carte, e degli amuleti di Oriente raccolti in un piatto di bronzo, vi erano, in certi vasi d’Etruria i crisantemi di un bianco latteo, di un lilla smorto, di un roseo disfatto. Vi erano altri crisantemi sul piano delle mensole, sul piano degli scaffali, e tre, uno bianco, uno rosso, uno lilla erano sul leggìo, stretti fra il pesante libro e il legno. Ogni tanto, la mano fulgida di gioie di lady Hermione sfiorava questi fiori, distrattamente; ma ella non si arrestava nel leggere attentissima. Così, entrando senza essere annunziato, ma accompagnato sino alla soglia da un servo silenzioso che portava la livrea dei Cleveland, Luigi Caracciolo si fermò un minuto, colpito da quelle penombre, da quelle luci fioche, e da quella figura bianca, ritta presso il leggìo e immobile nella lettura. Ella si voltò, quasi che avesse inteso quello sguardo, ed ebbe un lieve sorriso: ora dava le spalle al leggìo, aspettando che Caracciolo si avvicinasse; e la stola d’oro e d’argento scintillava. Ella, quando Luigi fu giunto vicino a lei, gli stese la mano. Era così fredda che egli dovette reprimere un brivido di ribrezzo, per baciarla leggermente. Stette un poco, per rimettersi da quella agghiacciante impressione. Fu lei la prima a parlare:

— Quanti crisantemi, conte!

— Non ve ne erano altri, in Firenze, milady.

— Questa notte li fo portare nella mia camera: dormirò sotto la loro protezione.

— No, non fate questo — egli disse, sempre novellamente turbato, nelle sue idee amorose.

— E perché non dovrei farlo?

— Perché sono fiori mortuarii: perché quelli che me li hanno dati, li preparavano per i morti. Non ne parliamo più, sapete che ho paura della morte, e questa sera voglio dirvi che vi voglio bene...

— È presto ancora, conte: verso la fine della serata...

— Non è mai troppo presto, lady Hermione: non vi è mai sufficiente tempo, per dire che si ama...

— Voi non pensate che all’amore, voi italianidisse ella, con un riso un po’ gutturale.

Soltanto all’amore, lady; e in Inghilterra non è così?

— Non è così.

— E che fanno gli inglesi e le inglesi?

— Gli inglesi? Fanno del commercio; o della politica; o dell’arte; si dànno a tutti gli sport fisici e morali; lavorano nobilmente; oziano nobilmente; guadagnano tantissimo denaro e ne spendono tanto e gliene resta sempre. Sono sani, forti, onesti, gli inglesi.

— Ma l’amore, lady, l’amore?

— Non saprei dirvi, conte; lord Cleveland potrebbe informarvi meglio di me.

— E le inglesi che fanno?

Vanno in Italia, conte — ella concluse, sorridendogli un brevissimo minuto.

— E ci restano, è vero?

— Ci restanosoggiunse lady Hermione.

— Per sempre, lady — egli mormorò, già nuovamente riarso dalle fiamme della passione.

— Sempre, è una gran parola, conte.

— È la parola dell’amore.

Avevano parlato in piedi, ella appena appoggiata con le spalle al suo leggìo, con le mani abbandonate lungo la persona vestita di bianco: una di esse teneva, fra le dita, il crisantemo bianco. Egli non si era seduto, fermo presso l’angolo del gran tavolo, a ben poca distanza da lei, ma senza curvarsi, guardandola coi suoi languidi occhi d’italiano innamorato. E con la disinvoltura un po’ fredda e con l’audacia bizzarra non scevra di una sovrana impertinenza, la duchessa rimise ella stessa il discorso sull’amore.

Durerà, dunque, sempre questo amore?

— Sempre, lady.

— E da quando è incominciato?

Gli si era fatta un po’ più vicina, lo guardava intensamente, quasi volendogli strappare la verità, ed era di una beltà affascinante, inebbriante. Egli esitò. Ciò che faceva gli apparve per la prima volta, sacrilego verso il passato, turpe verso il presente. E parea che ella lo sapesse, perché gli chiese, con la sua voce più grave e più toccante:

Ditemi da quando è incominciato.

Esitò ancora. Ma i dolci occhi nerissimi interrogavano; il delicato volto bruno, intenso, teso a lui, aspettava la risposta; ed egli, oramai, non conosceva più il limite fra la verità e la bugia, fra la realtà e l’illusione. Disse:

— Da venti giorni.

— Come? — diss’ella, con una lieve sorpresa nella voce. — Non da più tempo?

— Non ebbi l’onore di vedervi prima, miladyinsistette lui, volendo restare, tentando di restare nella realtà del minuto presente.

— Oh come siete preciso, conte! Chi è preciso, non ama. Chi ama, ha già amato. Rammentate bene — e sorrise stranamenteevocate tutti i sogni della vostra fantasia, cercate in tutti i vostri ricordi e troverete che la mia immagine, voi la conoscevate. Cercate...

Ed Hermione indicò vagamente, con la mano, coll’indice teso verso le ombre della stanza, come se colà Luigi dovesse veder apparire nei sogni, nei ricordi, l’immagine. Egli rabbrividì.

— Non sono soltanto venti giorni, è vero? Se così poco fosse, che mi amate, non vi ascolterei...

Hermione!

— Non mi chiamate così — ella mormorò, col volto chiuso e immobile, simile al granito di una sfinge.

Egli taceva, guardandola. Si sentiva morire di amore e di terrore.

Confessate la veritàHermione insistette, più vicina a lui. — Dite da quanto tempo mi amate.

— Da... sempre.

— Ah, va bene — ella concluse, col suo accento inglese.

Egli la guardava, negli occhi. Non intendeva più nulla, altro che il desiderio di guardarla, senza che ella parlasse, di prenderla fra le braccia, senza che ella parlasse, e una paura orribile lo teneva, guardandola, una paura orribile gli impediva di abbracciarla. La stanza era tetra: la luce delle lampade era fioca: ella era vestita di bianco: tutto ciò lo esaltava nell’amore, lo eccitava nel più folle desiderio di cingere quello snello adorabile corpo di donna, e intanto lo prostrava nello spavento di aver innanzi a sé un’ombra. Ah invano egli tentava di fare lo spirito forte, dicendo a se stesso che i morti non lasciano le loro tombe, che quella rassomiglianza era una fatale combinazione di linee e di colori, che non vi erano spettri: chi la conosce, la verità della vita spirituale? Chi li ha indagati, tutti i misteri dell’anima? Ella gli sorrise in un modo incantevole, ma assolutamente umano. Poi si sedette sulla larga sedia a sdraio; senza distendervisi: e gli indicò un seggiolone, poco discosto. Hermione aveva preso, dal grande tavolino di legno, un ventaglio fatto da tre penne bianche legate insieme, sopra un solo manico di madreperla: e lo agitava lievemente, facendosi accarezzare la guancia dalla punta delle piume, con un atto così seducente e voluttuoso, così perfettamente umano e moderno, che egli sentì, di nuovo, soltanto la prepotenza dell’amore.

— Perché mi amate, Caracciolo?

— Perché mi piacete.

— Vi piaccio?

— Oh assai! — egli esclamò con un impeto sincero.

— Vi piacciono più i miei occhi o la mia bocca?

— Non so bene... tutto mi piace.

Ditelo, voglio saperlo. Gli occhi o la bocca?

— Gli occhi, allora.

— E perché?

— Così: preferisco gli occhi.

— È brutta la bocca?

— È divina.

— E dunque? Dite, dite, Caracciolo.

— Essa mi fa paura.

— Di che temete?

— Quando si schiude per parlare, lady Hermione, io muoio di terrore.

— Ho una voce che vi urta i nervi?

— Avete una voce deliziosa.

— Ebbene?

— Non è la voce: sono le parole che dite, quelle che mi fanno fremere di sgomento.

— Oh che strana cosa! — ella mormorò, trasognata, fermando il ventaglio di piume alle labbra. — Debbo io tacere, dunque?

— No, no: ma sentite, io sono un’anima malata, debole, miserabile e... non posso dirvi l’origine della mia malattia, della mia miseriasoltanto, posso pregarvi di trattarmi come un fanciullo infermo, a cui una parola, uno sguardo, un atto fanno venire le convulsioni dell’agonia...

— Io non vi capisco.

— Non importa... purché mi trattiate come un malato... purché non mi diciate tutte le bizzarre e lugubri cose che contrastano tanto con la vostra giovinezza, con la vostra bellezza e col mio amore... parliamo di amore, così, come un momento fa, poiché voi siete così indulgente e così curiosa da domandarmi, poiché la vostra gentilezza di donna e la vostra superiorità di signora vi permettono di chiedermi tutto. Oh lo so, lo so, che non mi amate... ma non vi annoia parlare di amore, ma mi lasciate dire tutto il bene che vi voglio, lungo, infinito, da sempre, per sempre...

Molto le si era avvicinato, dicendo queste cose, ed Hermione doveva vedergli negli occhi il lampo corruscante della passione che ne aveva vinta la natural languidezza amorosa e doveva udire nella voce quel fremito che niuna donna ignora. Hermione distolse i suoi occhi: e una nebbia torbida parve che li velasse. Fu un minuto soltanto. Sottovoce, Hermione gli disse:

— Io conosco la ragione della vostra malattia.

— No, no, non ne parliamo: lasciatemi dire che vi voglio bene...

So perché siete infermo di spirito, Caracciolo... so perché vi sentite sgomento, quando io parlo...

— Ve ne prego, lady, come poco fa... risparmiatemi...

— Vorrei risparmiarvi... Ma io so, perché siete malato.

— Non lo sapete — egli esclamò, tentando di sfidarla.

— Oh sì, sì — e crollò il capo bruno.

— Chi vi ha detto? — egli domandò, facendosi subito vincere.

— Io leggo in voi, come in un libro aperto.

— Che conoscete?

— Siete malato di amore, conte.

— Sì: per voi.

— Per me, forse.

— Per voi, Hermione.

— Non questo nome —- ella disse lentamente, guardandolo negli occhi, senza sorridere. — Voi amate me, forse: ma amate anche un cadavere, Luigi.

E con un moto improvviso ella si distese, tutta bianca, sulla seggiola a sdraio e socchiuse gli occhi. E la parola tremenda, e il moto fantomatico che la facea rassomigliare a una funebre figura, la fecero impallidire mortalmente, mentre la voce le si era affogata nella gola.

Egli taceva, col viso nascosto fra le mani, la testa abbassata, prostrato in fondo a un abisso donde guardava un cielo nero e tempestoso, sul suo capo abbattuto e inerte. Ella si faceva vento, pianissimo, col ventaglio di piume bianche, accarezzandosi con la punta morbida delle piume ora la fronte, ora le guance, ora le labbra. Poi pian piano, scivolò dalla gran seggiola e senz’aver l’aria di toccar terra, attraversò una parte del salone e uscì sopra un largo balcone di marmo che dava sulla piazza deserta, restando colà a contemplare la notte estiva, dove già saliva un bagliore perlaceo d’imminente luna. Quando Luigi abbassò le mani, cercandola coi suoi occhi pieni di una immensa tristezza, ella non vi era più: ma, dal balcone, un soffio di voce femminile lo chiamò. Si levò e la raggiunse. Hermione aveva le due braccia abbandonate sulla balaustra di marmo e il ventaglio pendea: ella guardava le dileguanti ombre notturne. Era una gran freschezza, intorno: e di lontano, dalle vie più popolate di Firenze, arrivava il sordo mormorìo della città. Non un’anima passava per la piazza e Santa Croce dormiva sul sonno eterno dei grandi che essa ricopre.

— Che meravigliosa notte... — ella mormorò dolcemente.

Meravigliosa.

— Voi preferite la notte al giorno, è vero?

— Sì, molto. Trovo che la luce del giorno è cruda, è brutale: e che la notte soltanto il pascolo allo spirito, come ai sensi.

— La notte è l’ora delle visioni, — Hermione mormorò — è la vita, infine, è l’ombra di un sogno fuggente; così dice il vostro poeta.

— Purché il sogno sia di amore che importa?

— Eppure... ha tante altre belle cose, il mondo, conte.

— Quali? non oltre l’amore, lady...

— I fiori, per esempio.

— Non per sé vivono, ma per gli amanti.

— I bei quadri, gli stupendi quadri.

— Furono fatti da anime innamorate e per essere ammirati dagli amanti.

— I paesaggi, i magnifici paesaggi...

— Non vi è paesaggio senza baci, lady...

— Le lacrime, le lacrime profonde, dolci e lunghe...

— Solo l’amore è degno di farle versare.

— La morte, la bella e soave morte, assopitrice di ogni tristezza.

— Solo chi non ama più, ha diritto di morire.

— Chi non è amato?

— Chi non ama più, lady Hermione.

— Cioè?

— L’interessante, nell’amore, non è essere amati, è l’amare. Quando il cuore della creatura che adorate è duro come la pietra, voi potrete ancora vivere: è quando il vostro cuore si è inaridito, che dovete morire.

— Quante volte avete amato, Caracciolo?

— Una volta — egli disse, risolutamente.

Ora?

Ora. E voi, lady?

— Non lo so — ella sussurrò, vagamente, passandosi la sottile mano sulla fronte — forse, giammai.

Erano accanto, appoggiati alla stessa balaustra, il braccio di Luigi sfiorava quello di Hermione: e la notte era inebbriante di freschezza.

— Perché non provate? — le diss’egli, quasi all’orecchio, mentre ella chinava un po’ la testa. — Perché non amereste, una volta?

— Vorrei... vorrei... ma non so se posso — ed Hermione guardava il cielo già tutto bianco per la luna che ascendeva, lentissimamente.

— Non potete? Temete di qualche cosa... di qualcuno... di lord Cleveland?

— Oh no — rispose, con un lieve sorriso.

— E di chi?

— Di me: forse non posso.

Tentate, Hermione, tentate.

— Non posso, forse. Tutti gli angioli, tutte le madonne, tutti i santi di Angelico, di Benozzo Gozzoli, di Botticelli, di Mantegna, che io idolatro, mi rimprovererebbero.

— Venite a Napoli — egli le suggerì, perduto già nel novello trasporto della passione.

— A Napoli?

— È fatto per amare, il mio paese. Che fate qui? Queste pure e gelide immagini agghiacciano il vostro sangue! Tutte queste notti piene di sogno vi allontanano dalla realtà dell’amore. Venite laggiù, con me.

— E che faremo, colà?

— Io vi amerò, ecco.

— Più di qui?

— Mille volte di più.

— Non vi sono quadri del grande Sandro, colà...

— E che fa? Se sapeste quali magnifici quadri ha il mio paese, nel suo bel mare, nel suo immenso cielo... se sapeste che è una notte napoletana, dove il tremito delle stelle è così violento, così palpitante, così vicino a voi che vi pare di averla nel cuore quella luce, di sentirle nel sangue quelle calde e palpitanti stelle... venite, Hermione, laggiù, con me...

— Ma che faremo, nelle atroci giornate di estate?

Chiuderete tutte le persiane della vostra villa, a Posillipo: entrerà l’aria e non la luce; dormirete; sognerete: leggerete il vostro libro prediletto, sul vostro leggìo...

— L’Evangelo di Giovanni...

— L’Evangelo di Giovanni. Io non verrò a vedervi, di giorno; come le ombre della sera saranno discese, voi mi permetterete di venire a guardare i vostri occhi, sino all’alba... Venite laggiù, con me...

— Sempre in quella villa?

Dove vorrete... nella notte, sui colli... sulla mia piccola nave... dove vorrete, per le vie... per il mare... dovunque, sino all’alba.

Pareva che ella avesse ascoltato tutto questo germoglio di desideroso amore che la circondava, la prendeva, tentava rapirla, con quel molle abbandono della donna che per l’amore o per la curiosità, per il gran minuto psicologico o per la voce misteriosa dei sensi, non ha più difesa. Sommessamente, affannato d’amore, singhiozzando quasi di dolcezza, egli le diceva delle parole di amore, monotone, balbettate, ripetute sempre: l’inebbriante freschezza della notte li avvolgeva ambedue e la luna inondava di latteo chiarore la piazza. Hermione non rispondeva più, ma lo guardava con un fascino vago e fine nei neri occhi, con le braccia prosciolte e il bianco ventaglio che radeva la terra, Allora egli mise un braccio intorno alla morbida cintura, voltando leggermente la persona di lei verso lui, le cinse il collo nudo con l’altro braccio e ne voltò la bella faccia verso lui: e tremante osò toccare con le sue le labbra di lei e, nel baciarla, singultò delirando:

Amore... amore mio solo... oh Anna!

Allora quel corpo di donna così flessuoso e molle che già si abbandonava, si stecchì, s’irrigidì nelle sue braccia: la fronte di quella donna, le guance di quella donna, le sue labbra si fecero di ghiaccio ed egli sentì quel freddo orribile: gli occhi di quella donna si velarono di una nebbia torbida, si socchiusero: la bocca si contorse, in una espressione di sofferenza: ed egli sentì spegnere tutta la fiamma del suo desiderio d’amore, nell’orrore: poiché ella gli parve morta.

 

 


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