IntraText Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Verso le dieci e mezzo del mattino, un cameriere dell’albergo bussò due volte alla porta di Cesare Dias: costui dormiva profondamente e non si svegliò. Questo cameriere restò un poco in forse, innanzi alla porta; poi, ridiscese nell’atrio, dove disse ai due signori che avevano fatto chiamare Dias che il signore non rispondeva. Proprio, aveva picchiato due volte, forte? Sì due volte, non un solo rumore nella stanza chiusa. Quei due si guardarono curiosamente.
— Che si siano ammazzati stanotte, per fare più presto? — disse Carafa, pentendosi di nuovo di aver lasciato Luigi e Cesare.
— Senza noi? Non si è mai visto — rispose Palliano.
— Sarebbe un grazioso disbrigo, ad ogni modo — osservò Giulio, filosoficamente. — Ma è rientrato, Dias? — disse, rivolgendosi al cameriere.
— Sì, è rientrato molto tardi.
— Avrà passata la notte a consolar Laura — mormorò Palliano, che era oppresso da Roma, dal triste autunno, da quello strano duello, dalla lontananza di Lillina e che avrebbe voluto esilararsi un poco.
— Sarebbe un errore di metodo, alla vigilia di un duello — e Carafa pregò il cameriere di risalire, di picchiare ancora.
Questa volta Cesare udì. Fra la veglia e il sonno torbido che ancora gli legava l’anima, i due nomi gittatigli dal cameriere, a traverso la porta, non gli dissero nulla: poi, in un minuto secondo, acquistò la lucidità di coloro che si svegliano a una grande giornata. Aveva dormito poche ore, ma con tanta intensità che vi avea lasciato ogni stanchezza fisica. Si vestì rapidissimamente. Prese del denaro da una valigia, che richiuse, come aveva chiuso ogni altro suo bagaglio: solo il nécessaire da toeletta era aperto sulla mensola. Guardò un minuto la sua stanza, pensando se dimenticasse qualche cosa necessaria: niente: avea fazzoletto, guanti, bastone e un soprabito più greve, perché gli parea che la giornata fosse molto fredda. Richiuse la porta della sua stanza, pianamente. Nel salotto vi erano ancora le lampade che aveano arso tutta la notte, e i mozziconi delle candele consumate, che avevano chiarito le ombre, intorno a Laura, ma che non aveano vinto la sua paura: la porta di Laura era serrata. Pure si udiva un mormorìo, là dentro. Cesare tese l’orecchio a udire le parole di quel mormorìo: ma esso continuava monotono e confuso. Si curvò al buco della serratura e capì. Laura non si era spogliata, si vedeva il letto intatto: e lei, inginocchiata innanzi a una sedia, con la faccia fra le mani, che pregava. Le preci uscivano dalle sue labbra, come un gemito basso. Cesare se ne andò, in punta di piedi. Che avrebbe potuto dirle? Ella pregava: le anime straziate si confortano, parlando a Dio, anche se Dio non vuole ascoltarle, anche se Dio non può esaudirle. Pensava, scendendo le scale, che la religione è un’assai buona cosa, per gl’innocenti come per i peccatori e che, se non l’avessero inventata, valeva la pena d’inventarla.
— Perdio, hai un buon sonno, Cesare! — disse Carafa, vedendolo apparire e indagando, senz’averne l’aria, tutte le linee di questa fisonomia.
— Avete aspettato molto?
— Venti minuti: e io ho una fame diabolica. Fra gli altri guai, non so perché, ma in questa Roma io ho sempre fame — si lagnò Palliano.
— Marco, se cominci la narrazione delle tue sventure, scriverai un nuovo libro di Giobbe disse Carafa, mentre si avviavano.
— Del resto, far colazione alle undici, significa proprio essere famelici.
— Andiamo a colazione adesso ? — domandò Cesare, fermandosi nella via.
— Lo credo! — esclamò Palliano.
— Ma... a che ora?
— È per le due — disse Carafa, diventato a un tratto grave.
— Altre tre ore? È una eternità. Tu la sapevi, Giulio, l’ora stanotte? Perché non me l’hai detta?
— Non la sapevo: Tornabuoni e Firidolfi me l’hanno comunicata con un telegramma, stamattina, alle otto.
— E... dove?
— Alla Valle d’inferno, come tu hai detto. Stefanello Colonna ha trovato il posto.
— Questo va bene. Ma alle due, così tardi! Era meglio che dormissi un altro poco.
— Grazie del complimento — mormorò Palliano, che voleva assolutamente dare un’intonazione più lieta alla conversazione.
— Sei nervoso? — chiese Giulio, scrutando ancora il volto di Cesare.
— Adesso no. Ho passato la mala notte: ma, dopo, ho dormito.
— Come i grandi capitani, Dias.
— Come Cesare — egli disse, con un sorriso amaro.
— Hai forse tirato di scherma, ieri? — domandò Marco, mentre entravano da Morteo.
— No, niente.
— Nulla vi è di peggiore che tirare il giorno prima di un duello.
— Lo so: del resto, avevo altro da fare, ieri.
— Un’avventura, eh? — disse Palliano, scherzando.
— Sì, un’avventura — rispose gravemente Cesare.
— D’amore.
— Sei un bel tipo — mormorò Giulio che sentiva crescere il mistero di quella posizione.
— Ero.
— Mi pare che continui: matrimonio, amore, duello, via, significa essere nel movimento.
— Chimere, chimere, Giulio — disse Cesare, tristissimamente — Dias fu.
— Come Otello — soggiunse Palliano, non accorgendosi dell’errore che commetteva.
Per fortuna, avean trovato un tavolino vuoto, per far colazione, e l’osservazione cadde, mentre si sedevano e chiamavano il cameriere.
— Hai fame, Cesare? — domandò paternamente Carafa.
— Sì.
— Molta? Non bisogna mangiar molto, lo sai.
— Tu mi sembri un precettore, o un medico curante — osservò Cesare, con un pallido sorriso. — Fammi portare una bistecca, o tutore mio.
— Ma io la voglio alla milanese, la mia costoletta, grande, immensa, con molte patate; io sono testimone, io posso mangiare, tu permetti, Giulio? Tanto, il testimone, salvo eccezione, è un burattino qualunque.
— Le eccezioni sono rarissime — soggiunse Giulio, sorridendo.
Così, con un’alternativa di tranquillità pensierosa e di allegria un po’ fittizia, i tre amici fecero colazione. Ogni tanto, mentre si discorreva di cose frivole, Cesare faceva una domanda relativa al duello; a che distanza era il terreno, in quanto tempo ci si arrivava: se avevano trovato il medico; dove li aspettava la carrozza; chi portava le spade. Ci voleva poco, sino a quella fornace dei Borghese, fuori Porta Angelica, a Valle d’Inferno, una mezz’ora di buon passo: il medico era trovato, sarebbe venuto col suo assistente, sul terreno, era il celebre Montechiaro, celebre perché non faceva altro che assistere duellanti, era una vocazione, per lui, egli era sempre alla caccia di tutte le questioni. Le spade erano in carrozza, ne portavano due per ciascuno, sul terreno si sarebbe scelto: la carrozza veniva all’una, innanzi a Morteo.
— Tutto va bene, dunque — ripeteva ogni volta Cesare, monotonamente.
Si era versato due o tre bicchieri di Barolo, ma al terzo Giulio Carafa stese la mano e gli disse:
— Basta.
— Ah io sono felice di non battermi: Giulio mi farebbe ricorrere al suicidio — scoppiò a dire Palliano.
— Io sono felicissimo di battermi — disse Cesare.
E tutta la soddisfazione vivida rifulse sul suo volto; una soddisfazione di un’anima che, in qualunque modo, ha risoluto il problema.
— Sii meno felice e più tranquillo — osservò Carafa.
— Tranquillo e felice, Giulio: lasciami stare. Ah sarà un bel pomeriggio, questo, per me!
— Speriamo per tutti — disse Palliano, diventato serio anche lui.
— Ognuno di noi desidera la liberazione — disse, piano, Cesare Dias.
— Tu, come Luigi: Luigi, come te? — domandò Carafa, ansioso.
— Sì: egualmente.
E i due padrini intesero che quella convinzione era il risultato del colloquio della notte. Non chiesero altro. Né, dopo quella dolorosa confessione, nessuno osò più scherzare, tutti pensosi, Carafa, nervoso un poco, che guardava troppo spesso l’orologio. Presero del cognac; anzi, Carafa se ne fece dare una bottiglia, di quelle da viaggio, dal cameriere.
— È una giornata fredda — spiegò.
Fumavano, tacendo. Poi, a un tratto, Giulio Carafa si ricordò:
— E Laura? — domandò, rivolto a Cesare.
— Ma! ... — fece l’altro, con un atto evasivo, scuotendo la cenere della sua sigaretta.
— Continua a sospettare di nulla?
— Anzi, continua a sospettare...
— E non dice nulla? Non fa nulla?
— Ha promesso che non farebbe nulla, che non direbbe nulla. È una donna che mantiene le sue promesse.
— Poi, ieri sera, l’hai portata a teatro... per distrarla.
— Già, a teatro — mormorò Cesare.
— Divertente, eh?
— Non credo che Laura si sia divertita.
— E neppure tu, mi sembra.
— Neppure io. È per oggi il mio grande divertimento.
— …Temi le Idi di marzo: ma siamo in ottobre. Non temere, Giulio, per la correttezza di questo duello. Ti giuro che sarò correttissimo sul terreno. Non mostrerò per nulla la mia felicità. Non sarò né felice, né infelice, né triste, né lieto, niente sarò: sarò un tranquillo e silenzioso uomo che si batte, che bada alla sua spada e a quella del suo avversario. Va bene?
— Va bene. Purché Laura non sappia qualche cosa! — disse Carafa, che vedeva le tenebre sempre più addensarsi su quell’affare. — Dove l’hai lasciata?
— Solissima.
— No... abbiamo due stanze separate; io sono uscito pianissimo.
— Che faceva ella? Dormiva?
— Non è un grande capitano, è una donna: faceva quel che fanno tutte le donne: pregava.
— Ah!... vedi bene che sa qualche cosa.
— Pregava per suo conto: le donne hanno sempre qualche cosa da dire al Signore.
— Infine... faremo presto — concluse Carafa, a cui la presenza, magari non immediata, di una donna, in questo duello, dava una certa pena.
— Oh prestissimo! — disse sorridendo Cesare.
Era l’una meno un quarto. Avevano ancora un quarto d’ora da aspettare la carrozza, e per Valle d’Inferno non ci vuole che mezz’ora, niente altro. Arrivar tardi, è atroce, in un duello: ma arrivare presto, è ridicolo; questo pensavano tutti tre, malgrado l’impazienza repressa di Cesare, malgrado la nervosità di Giulio, malgrado il malumore ormai stizzoso di Palliano. Anche il convegno d’amore ha queste bizzarre condizioni: arrivar tardi, è orribile, è inutile arrivare più; mentre arrivar presto è da collegiali. Bisogna misurare così matematicamente l’entusiasmo della pugna o il desiderio dell’amore, che queste passioni siano guidate dall’orologio più inflessibile. I tre gentiluomini restarono seduti al loro tavolino, che il cameriere aveva sparecchiato, innanzi ai loro tre bicchierini di cognac, sentendo quella pena sempre più acuta della lentezza del tempo, non parlandosi più, in preda a quella segreta emozione che tutti nascondono gelosamente e che trapela, ogni tanto, aumentando la nota generale di emozione. Pure, Cesare Dias voleva domandare qualche altra cosa:
— Avete parlato di verbale, con Tornabuoni e Firidolfi?
— Così, sulle generali... — rispose, imbarazzato, Giulio Carafa.
— Ne avete parlato? — insistette Dias.
— Ho detto sì.
— E che avete stabilito?
— Nulla. Mi dirai tu.
— Evitare assolutamente la causa — disse, presto, Cesare.
— Naturalmente, Cesare. Ma non bastano le parole ragioni personali, per spiegare un duello che ha tanta importanza.
— Noi faremo la figura di cannibali, Dias, te lo avverto.
— Tanto la gente lo sa, perché ci battiamo — disse lui, amaramente. — Nel popolo si dànno delle coltellate, per questo, e i giudici assolvono.
— Bisognerebbe trovare una formola... — suggerì Palliano.
— Non cercate nulla. Fate un verbale arido e secco. La gente sa, la gente non ha bisogno di formole.
Era l’una. Scambiata un’occhiata si levarono, dopo aver pagato Giulio Carafa lo scotto. La carrozza a due cavalli, chiusa, li aspettava innanzi alla porta di Morteo, in piazza in Lucina: una carrozzaccia nera, con cavalli neri, da battesimo, da sposalizio o da morte.
— Il veicolo non è allegro — mormorò Cesare, entrandovi.
Giulio Carafa sedette accanto a lui, Marco Palliano gli sedette dirimpetto: quando Dias andò a stendere i piedi, sentì un corpo duro. Si curvò, a tastare: erano le spade avvolte in un panno verde. Le raccolse, se le posò sulle ginocchia. Anzi, voleva svolgerle dal panno, per vederle: ma con un gesto Giulio Carafa glielo impedì. Sguainare, no, esiziali e pure fedeli, in cui dalla mano passa nell’acciaio la volontà aspra e tenace di chi si batte. Non si guarda il corruscare livido della lama, prima di essere sul terreno di fronte al proprio avversario: può essere una spavalderia o un atto di debolezza: e, forse, un malaugurio. Questo disse Giulio Carafa a Cesare Dias; egli aveva avuto il suo smorto sorriso, alle parole di Giulio: niente altro.
Faceva freddo. Carafa, sempre previdente, aveva portato un plaid da carrozza e lo aveva allargato sulle gambe di tutti, volendo che il suo primo non perdesse il calore e la elasticità. Ma Dias, invece di aver freddo, parea soffocasse in quel carrozzone nero e chiuso di cui non aveva voluto neppure che si levassero i cristalli: ogni tanto si piegava allo sportello e teneva la testa fuori, per respirare.
— Che hai, hai caldo? — gli domandò Carafa.
— Respiro male, qui dentro. Non si potrebbe aprire la carrozza?
— È impossibile, in tre, in carrozza, con questa giornata, per queste vie, avremmo proprio l’aria della situazione — notò Giulio.
— Hai ragione, ma mi sembra di essere in un sarcofago, con qualche ora di anticipazione.
— Non scherzare così — disse Palliano, che era annoiatissimo di quanto gli accadeva. L’emozione in lui prendeva forme di noia.
— Non scherzo. A questo quarto posto vuoto, ci manca il confessore, mio caro, mentre il medico è sul terreno.
— Che ne vorresti fare del confessore. Dias?
— Nulla: non avrei nulla da dirgli.
— Sei senza peccati?
— Pieno di peccati: ma anche strabocchevolmente pieno di penitenza.
— Molte volte il peccato istesso è la penitenza — filosofò Marco Palliano, non sapendo di dire tanto giusto.
Cesare guardava dallo sportello le vie che egli aveva fatto il giorno prima, seguendo Hermione che andava innanzi a lui, come uno spettro affascinante. Era l’itinerario di via dell’Orso, di via Tordinona, tutta botteghe e botteghelle di antiquarii, di rigattieri, di agenzie di pegni; l’itinerario del ponte Sant’Angelo, sopra quel fiume triste che in quel punto pare così giallo e sudicio, di via Borgo dai suoi negozi di immagini sacre e di rosari, dove pallide e belle donne, dai neri e torbidi occhi, dalle mani bianche e grassocce, vestite elegantemente di nero, vi vendono tutta questa pietosa chincaglieria, parlando nobilmente il bel linguaggio romano; l’itinerario di Borgo, di piazza Rusticucci, di piazza San Pietro, del viale di Porta Angelica. Lo aveva fatto il giorno prima, quasi alla stessa ora, preso da quello stupore che non mancava di attrazione, da quello spasimo che aveva il suo intimissimo senso di piacere. Ora non ricordava più nulla di ciò: tutta la bizzarra avventura del dì innanzi era sparita, naufragata nel gran problema già risoluto dal destino e di cui egli avrebbe avuto la parola fra un’ora. Quando furono nel viale di Porta Angelica, invece di piegare verso la via grande che sta fra la campagna e il Tevere, presero una via traversa, fra due alte siepi di spine. La carrozza andava piano, perché la via che conduce alle fornaci era malagevole e con solchi profondi scavativi dai carri che andavano a prendere i mattoni cotti alle fornaci. Adesso, nella carrozza nessuno parlava più. L’ora incombeva: e incombeva il malinconico ambiente deserto della campagna romana, dove non appare villico affaticato tornante alla povera casipola, dove non si ode né canto di uccelli, né mugghiare di animali, né stormire di fronde.
— Non ha nulla di attraente, il paesaggio — osservò Cesare.
— Nulla; sarebbe meglio battersi ai Bagnoli, convieni — disse Marco Palliano, che decisamente odiava Roma.
— Il golfo di Napoli è fatto per la nostra vita e per la nostra morte — concluse Dias.
Ogni tanto, sovra la siepe di sinistra compariva un’alta proda erbosa, e più su, oltre la proda, una via che costeggiava l’alta e sinuosa e talvolta merlata muraglia bigia: compariva, cioè, la via delle Mura, che abbraccia tutta Roma, che si congiunge da una porta all’altra, dove stretta, dove larga, dove saliente, dove scendente, un anello strano che chiude Roma. La muraglia sovrastava la via e la proda erbosa, e dimostrava la grandezza, la fierezza, l’asprezza di Roma, serrata nella sua forza assorbente e invincibile. Giulio Carafa guardò due volte curiosamente lassù.
— Che guardi? — chiese Palliano a Carafa.
— Guardo... che di lassù ci potrebbero vedere.
— Speriamo di no. Non siamo giunti ancora: forse la fornace è nascosta dal gomito che fa la via.
— D’altronde... è lontano, non giungerebbero a impedirci. Vuoi del cognac, Cesare?
— Sì: vorrei anche essere arrivato.
Bevve il cognac, un grande sorso. La carrozza si fermò improvvisamente.
Da cinque o sei minuti, dopo l’alta siepe verde che per l’ottobre già mostrava gli spini neri, la carrozza aveva costeggiato, sulla sinistra, un muro greggio di pietre, appena legate fra loro da un po’ di calce: poi si era fermata innanzi a un cancello spalancato, donde si vedeva solo un terreno gialliccio, in discesa, senza un filo d’erba.
— La carrozza non può entrare? — chiese Giulio dallo sportello al cocchiere.
— Gnornò, non ce li posso mette, i cavalli miei.
— Scendiamo, scendiamo — disse Cesare, frettolosamente.
Scesero tutti e tre, innanzi al cancello: il cocchiere indicò a Carafa un posto poco lontano dove egli andava ad aspettare con la sua carrozza. Bastava un fischio, per chiamarlo: già sarebbe stato raggiunto dall’altra carrozza, che doveva anche aspettare. I tre si immisero per il cancello, in un ampio terreno giallo e rado, che discendeva verso una spianata, dove sorgevano i rustici forni che nella notte mandano quell’incandescente chiarore per la campagna e dove, nel giorno, si raffreddano, in bizzarre pile i mattoni, senza che nessuno vi badi, almeno in apparenza. Nulla è più deserto, nella notte come nel giorno, di una fornace di mattoni: l’opera dell’uomo vi è così segreta che la fornace nella sua forma rudimentale e muta, nel colore bigio di argilla dei suoi forni, simile all’argilla bigia dei mattoni, ha la tristezza delle cose abbandonate. Il vasto piano dove non appariva traccia di coltivazione, dove non era ombra d’uomo, dove la sola traccia umana pareva consistesse nei solchi secchi e aridi delle ruote che i carri vi avevano scavati, chi sa quanto tempo prima, si abbassava, scendendo dalla proda delle mura alla pianura che finisce Monte Mario: e dalla destra apparivano alte, lontane, le mura sovrastanti e la stretta via che corre lungo esse, come un nastro: dall’altro lato, sulla sinistra, i cipressi di Monte Mario, assai più alti, sovrastavano. Un perfettissimo silenzio era nell’aria, nelle cose: e qual rumore di vita animale o vegetale poteva nascere, dove non vi era né albergo, né pianta, né cespuglio, né casa o capanna? Sul recinto, dall’alta proda delle mura sino alle pianure che vanno verso la via Trionfale, si abbassava un cielo perfettamente nuvoloso e glaciale dell’autunno romano che ha una rigorosa tristezza: e la seconda giornata era simile alla vigilia, più fredda, più rigorosa, più triste.
Cesare Dias, Giulio Carafa, Marco Palliano che portava le spade, si avanzarono verso le fornaci, istintivamente: mancavano solo dieci minuti alle due, eppure non si vedeva anima viva. Carafa domandò a Palliano se Stefanello Colonna gli avesse dato una precisa indicazione. Sì, sì, era proprio colà, ci si batteva sempre colà, a Roma, o in qualche villa, ora che la tradizionale spianata ombrosa dell’Acqua Acetosa era stata sottratta ai belligeranti romani. D’altronde non era aperto il cancello? Qualcheduno lo doveva aver aperto: si doveva cercare questo qualcuno. E girarono intorno alle fornaci. Alle spalle di essi trovarono un uomo, che si avanzò verso loro, salutandoli. Era il dottore, il famoso dottore Montechiaro, famoso solamente perché non faceva altro che assistere a duelli: un uomo giovane ancora, biondo, più rossastro che biondo, tarchiato, quasi grasso, con certe mani forti e grasse coperte di peli biondo-rossastri, con certi occhi bigi che diventavano brillantissimi nella loro torbida tinta, appena vedeva un fioretto o una spada. E stringendo la mano a tutti, vigorosamente, egli fece loro gli onori del terreno: vi era venuto tante volte, un terreno ottimo, secco, con una luce giusta, comunque si collocassero gli avversari. Sopra un mucchio di rottami egli aveva deposto la valigia nera, proprio una valigetta, con tutti i ferri chirurgici e le medicature alla Lister: la indicò, con l’occhio, con un vago sorriso di beatitudine, decantando il metodo moderno delle disinfezioni, che salvano per il novantacinque per cento la vita dei feriti gravi; e si disinfettano anche le sciabole e le spade ora, o con l’acido fenico, o col sublimato. E tutto rosso nel viso, contento, pieno di salute e di forza, col soprabito aperto, egli si lasciava andare alla sua passione del duello. Correttamente taciturni, riuniti in gruppo, con la immobilità che precede queste partite e che è come un riposo per i nervi e per i muscoli di chi si deve battere, come per i nervi vibranti dei padrini, Dias, Carafa e Palliano ascoltavano. Erano le due. Quattro uomini scendevano verso di loro, camminando né presto né piano, sapendo di arrivare all’ora precisa. Luigi Caracciolo andava innanzi, accompagnato da Pietro Tornabuoni: dietro veniva il bel Giovanni Firidolfi, insieme col medico, un medico sconosciuto. Luigi, a un tratto si fermò: lasciò che verso Carafa e Palliano si avvicinassero i suoi padrini mentre i due medici si stringevano la mano, mentre Cesare Dias diventato calmissimo di nuovo, vinto quel tremolìo di impazienza si era allontanato anche lui, verso la sua parte, guardando Monte Mario onde tanta mestizia viene al paesaggio dai cipressi, alberi della morte. I padrini avevano formato un gruppo, un gruppo stretto: ma parlavano a bassa voce, tranquillamente, senza che nulla si potesse vedere sulle loro fisonomie. Poi, si allargò il gruppo, in un momento: una moneta volò in aria, ricadde a terra, e tutti quattro si piegarono sul suolo. Il comando del terreno era spettato, dalla sorte, a Giulio Carafa. Egli ebbe solo un fugacissimo aggrottamento di sopracciglia, niente altro. Soli, presso il loro mucchio di rottami, curvi, i due medici si occupavano intorno ai loro arnesi: però nascondendone, col corpo, la vista ai due avversari. Distratto, assorbito, con un’aria di stanchezza e di malattia sulla faccia, Luigi Caracciolo pareva che non pensasse a nulla di quel duello, pareva che avesse dimenticato dove si trovava, guardando, così, senza veder niente, verso le mura onde Roma è chiusa in un anello: mentre Cesare, dalla sua parte, calmissimo, freddissimo, non nella apparenza soltanto, ma nello spirito, si teneva in un contegno giusto: e la mano guantata scacciava con la mazzetta di ebano le pietruzze del giallo terreno. Infine, tutto era pronto: Giulio Carafa si accostò a Cesare e gli comunicò che a lui, Giulio, era spettato il comando del terreno. Quello ascoltò, indifferente, mentre cominciava a smettere il soprabito, l’abito, il panciotto: né il freddo della giornata parve gli facesse impressione.
— Vuoi del cognac? — chiese Giulio, a bassa voce.
— No: grazie.
Dall’altra parte, Pietro Tornabuoni si era accostato a Luigi Caracciolo: costui si era scosso, come smemorato. Nel loro angolo, presso le fornaci, i medici, adesso, con una spugnetta imbibita nella soluzione di sublimato, strisciavano sulle lame delle quattro spade, con lentezza e con precisione; le punte acuminate, luccicanti in quella luce triste, furono tenute immerse, un minuto, nella soluzione. Poi le quattro spade, riunite in un fascio, confusamente, furono consegnate a Marco Palliano; egli doveva offrirle ai duellanti, così, confusamente, perché scegliessero: erano della stessa misura. Si avanzarono, i due gruppi, verso il campo del duello. Era innanzi alle fornaci, in un posto spianato, perfettamente, dove la luce, venendo ampia e uguale, non dava nessun vantaggio a nessuno dei due avversari. Stavano in tal modo situati che avevano, come più piccolo orizzonte, il pezzo di muro che chiudeva il recinto della fornace e che si perdeva, sinuosamente, verso la campagna: mentre Cesare poteva vedere, levando gli occhi, tutta la via delle Mura e Caracciolo la triste verdezza nera di Monte Mario. Lentamente, si vennero a collocare uno di fronte all’altro, senza guardarsi: un po’ pallido, Marco Palliano si accostò, offrendo le spade. Cesare la prese, dopo aver guardato: Luigi senza guardare.
— Buona fortuna a Cesare — disse Marco, allontanandosi, per riunirsi a Firidolfi, mentre Carafa e Tornabuoni prendevano anche loro una spada.
I due avversari erano di fronte, con gli occhi chini, con la punta della spada abbassata verso terra, in quell’ultimo minuto di aspettazione. Giulio, avvicinandosi a Cesare, nulla gli disse: era andata, adesso, niuna parola serviva più. Con una precisione meccanica di movimenti, Giulio prese le punte delle due spade, le unì, poi le lasciò andare, comandando:
— In guardia!
Andata, adesso. Erano in guardia, immobili, ferme le spade. Si guardavano. Negli occhi di Cesare una glacialità velata d’indifferenza: in quelli di Luigi, una tristezza velata di distrazione.
— A voi! — comandò Giulio, più forte.
Immediatamente, la superiorità di Cesare predominò quel duello. Luigi Caracciolo aveva ventotto anni, era naturalmente robusto e svelto, era un forte tiratore di spada: nelle sale d’armi, nei tornei di scherma, il suo gioco così fine e audace insieme, era sempre ammirato dagli iniziati alla nobilissima arte della scherma e ammirato dai profani. Ma quel giorno la sua mano teneva la spada quasi senza dirigerla, facendo solo qualche lento e distratto moto di difesa. Il suo avversario, invece, era già un uomo che aveva passato i quarant’anni e di cui gli ultimi otto mesi di vita avevano sconvolto la fibra: egli non era che un tiratore buono, di quelli che si esercitano senza troppa passione, solo per amore di uno sport quotidiano, solo per passare un’ora della giornata. In quel primo assalto, poi, Cesare Dias, conoscendo bene il valore alla spada del suo avversario, aveva usato una riserva di mosse simile alla glacialità del suo contegno, simile alla glacialità del suo sguardo. Eppure, subito si vide, da tutti, che Dias aveva il disopra: Luigi non si difendeva che fiaccamente, assorbito, ogni tanto, preso forse da qualche altra più forte preoccupazione. Carafa e Tornabuoni si scambiarono un’occhiata:
Le spade si abbassarono. Tornabuoni si avvicinò a Luigi, gli parlò pianissimo, concitatamente:
— Se sei venuto per suicidarti era inutile chiamarci!
— Pietro, tu sai tutto... lasciami stare...
— Luigi, se tu non ti difendi, ti giuro che dico a tutti che sei malato nel cervello e che non si può continuare il duello, hai inteso?
Dall’altra parte, Giulio non aveva detto a Cesare che questo:
— Hai freddo?
— È troppo stretto il nastro della spada?
Tornabuoni guardò Giulio e con la istessa voce forte, un po’ ansiosa, Carafa comandò agli avversari di porsi in guardia e diede l’a voi! Stavolta il giuoco di Cesare, quasi che egli avesse inteso la gran debolezza spirituale del suo nemico, fu più preciso, più serrato, cercando con quel movimento, piccolo, breve e pur continuo della spada che non ha nessuna bellezza estetica, ma che colpisce per la tragica e implacabile ricerca del petto dell’avversario, di dare il colpo sicuramente esiziale. Quasi istintivamente, come se l’antica consuetudine del tiratore rinascesse in lui e si sovrapponesse alla sua triste distrazione, Luigi si difese meglio, più attentamente, con un occhio più interessato alle due lame delle spade, alle due punte che si aggiravano nello strettissimo giuoco. Però, si difendeva soltanto, incapace di una iniziativa, obbedendo solo all’istinto cavalleresco: e il giuoco del secondo assalto durò qualche minuto, così, senza nessun risultato.
— Alt! — comandò Carafa, sempre più nervoso.
Certo, una emozione nervosa aveva vinto tutti. Pian piano i due medici si erano avvicinati al campo del duello, sentendo che il minuto della risoluzione si appressava: Marco Palliano e Giovanni Firidolfi che avevan tentato di scambiare qualche parola fra loro, nella loro parte immobile di testimoni, ora tacevano, oppressi da quell’aspettazione. Pure, tutto questo era interiore, non si vedeva nulla: tutto procedeva con la massima freddezza e con la massima correttezza. Tornabuoni, irritato, aveva detto a Luigi, di nuovo:
— Ma che fai? attacca, perdio!
— A che serve?
— Non vedi che gli fai un pìacere?
— In guardia! — comandò Carafa.
Allora, tutta l’anima dei due avversari fu data al giro breve, stretto, rapidissimo delle loro spade. Cesare conservava la sua glacialità superba e conservava sempre la sua superiorità: ma uno spasimo d’impazienza gli stirava il labbro. Ma Luigi si batteva meglio, con un interesse crescente, come se a poco a poco avesse preso il sopravvento l’istinto della vita: le due spade guizzavano, nell’attacco e nella difesa, mentre i due corpi si mantenevano quasi immobili, mentre tutta la forza della vita era negli occhi, mentre tutta questa forza della vita era trasmessa al solo braccio, anzi al solo polso che manovrava la spada; Cesare, impercettibilmente perdeva terreno, sentendo il nuovo ardore dell’avversario, avendo egli sciupato le proprie forze: e Carafa, attentissimo, si mordeva il mustacchio, cosa che gli succedeva di rado.
Così, come se la debolezza che era nell’anima di Luigi fosse andata in quella del suo avversario, Cesare cominciò a difendersi con fiacchezza, disattento, stanco quasi. Carafa pensò che era impossibile chiamare l’alt: questo terzo assalto, disastroso pel suo primo, non durava che da poco. E continuando, vi fu un momento che Cesare parve perduto a tutti, e che la spada di Luigi non avesse che a scegliere il posto più sicuro, dove ferirlo mortalmente. Fu in quel momento che accadde un fatto curioso. Quasi attratto da una misteriosa voce interna, lasciando di guardare la spada e quella dell’avversario, lasciando la sua vita alla mercede di Luigi, Cesare Dias aveva levato gli occhi in alto, lassù, dove, oltre la proda erbosa, si svolgeva, lungo le mura la stretta via che abbraccia Roma. Lassù, nel momento in cui la sua esistenza era nella mani di Luigi, era apparsa una donna e si era fermata sull’orlo della via, guardando i duellanti: e gli occhi di Cesare, malgrado la distanza, avevano riconosciuto il pallido volto bruno della duchessa di Cleveland.
E mentre, con un nuovo ardore la spada di Luigi cercava il cuore di Cesare, con un accanimento che si vedeva solo nel guizzo più rapido, vipereo, dell’acciaio, Luigi vide che il volto del suo avversario si era tramutato, vide che Cesare guardava altrove, con una strana unione di dolore e di terrore negli occhi: e scosso, seguì quello sguardo, ed egli stesso, lassù, lontano, verso il cìelo bigio, verso le bigie mura di Roma, ritta sull’orlo della via, vide Hermione, dal bruno e pallido volto, vestita di colore oscuro, che li guardava. Tutto l’ardore di Luigi si dileguò in un minuto:la sua spada parve nelle sue mani diventata un inutile bastoncello, una spada di bambagia che appena, appena, a stento, arrivava a difendere la vita di chi la maneggiava. La signora oscuramente vestita — poco lontano era la sua carrozza, un coupé — guardava ancora, così intensamente che i due avversari si volsero, a lei insieme, per la ispirazione e per la forza. Nell’abbassarsi degli occhi di Luigi e di Cesare, nell’incontrarsi delle due armi, spada di Cesare attraversò la spalla di Caracciolo, da parte a parte. Egli restò un minuto in piedi, sorridendo vagamente: poi roteò e cadde. Montechiaro, che era accorso, non lo lasciò cadere a terra, lo sostenne a mezz’aria, tenendogli la testa sul petto. Tutti erano attorno al ferito, ora. Cesare, freddo, con la spada abbassata guardava un filo di sangue che vi era rimasto. Poi, Giulio, venne a lui, molto pallido:
— Grave, non gravissimo — disse, sottovoce.
Cesare, senza rispondere, pensò una cosa. Aveva pensato:
— Da ricominciare.
Lassù, la signora era sparita.
. . . . . . . . . . . . . . .
Se ne andava il giorno, quando Cesare Dias rientrò all’Hôtel de Rome: il nubiloso e freddo pomeriggio di autunno cedeva a una gelida e triste sera. Cesare, per un riguardo cavalleresco, aveva aspettato che sul terreno fosse compita la prima medicatura di Luigi, standosene lontano, ricevendo in silenzio le notizie che gli venivano a portare Palliano e Carafa, ogni tanto. Caracciolo perdeva molto sangue e i due dottori erano in forse, se ricoverarlo in qualche casa vicina, temendo che il moto della carrozza aumentasse l’emorragia. Pure, dopo un lungo consulto fra loro, decisero di trasportarlo lentissimamente, disteso orizzontalmente sui cuscini riuniti della carrozza. Egli, il ferito, ascoltava tutto questo, vedeva tutto questo andirivieni, immobile, con certi occhi distratti e dolenti, con un volto smorto, dove già cominciava a salire il calore della febbre: non apriva bocca, non volgea lo sguardo intorno, con quel disinteresse a ogni cosa umana, che è nelle persone gravemente inferme. Così si era lasciato trasportare, distendere nella carrozza, senza un lagno, senza un sospiro. Cesare lo aveva visto passare, innanzi a sé, in un assai melanconico corteo e aveva abbassato gli occhi: forse, in quel minuto, si sentiva senza odio, ma il suo spirito rimaneva inquieto, insoddisfatto, non risoluto il problema della sua vita. Giovanni Firidolfi aveva dovuto cedere il suo posto nella carrozza di Luigi a Montechiaro, il dottore: due medici e Tornabuoni vegliavano il ferito. Carafa offrì a Firidolfi un posto nella loro carrozza, non lo potean lasciar solo, in quella fornace di mattoni. E dietro alla vettura di Luigi, che andava al passo con i cristalli abbassati per dare aria al ferito, la vettura che portava Cesare Dias, Palliano, Carafa e Firidolfi si avviò al passo, fra il mutismo generale. A quel modo ci volevan tre ore per rientrare in Roma. Dalla sua vettura Tornabuoni mandò un biglietto a Carafa: passassero pure innanzi, non vi era obbligo di seguirli così a convoglio funebre: ed era anche pericoloso. Carafa, senza neppur chiedere a Dias, diede ordine al proprio cocchiere di passare innanzi: passando, si piegarono agli sportelli, salutarono quella triste carrozza, dove, nel fondo, biancheggiava la pallida e febbricitante faccia del ferito. Anzi, dopo aver lasciato molto distante la vettura di Luigi, il cocchiere di Cesare prese una scorciatoia molto allegramente, poiché era pieno di amor proprio quel cocchiere ed era fiero della vittoria del suo cliente. Ma una oppressione era nella carrozza di Dias, la presenza di un testimone di Caracciolo rendeva la conversazione quasi impossibile: d’altronde, Dias era pensoso, come se nulla avesse fatto contro le sue preoccupazioni quel colpo di spada: tanto Carafa quanto Palliano, a malgrado il naturale desiderio che tutto finisse bene, per il loro primo, erano un po’ seccati di quello che era accaduto a Luigi, che era un giovanotto buono e simpatico, caro a tutti. Non parlava nessuno nella carrozza, mentre tornavano verso Roma e il giorno languiva in un freddissimo crepuscolo. Dias aveva conosciuto Giovanni Firidolfi il bellissimo, superbo e povero gentiluomo toscano, quel giorno soltanto; pure, per rompere quell’oppressione, gli indirizzò con perfetta indifferenza due o tre domande sulla società fiorentina a cui Giovanni, mettendosi sullo stesso tono, rispose con una indifferenza perfettissima. Donna Barbara de’ Neri era in Ungheria, poiché il suo lord inglese, sconoscente e brutale, l’aveva piantata per andarsene a caccia; donna Caterina Lorini non cantava adesso che musica di chiesa; la grande etera Gwendoline Harris che vantava tanto la sua origine americana, si era scoperto fosse francese, assolutamente francese, niente altro; da Wilkinson si giuocava sempre, ma Tornabuoni non toccava più una carta. Dopo una pausa di silenzio a questi pettegolezzi mondani fiorentini, Cesare domandò:
— Hanno avuto una duchessa di Cleveland, in questo inverno a Firenze?
— Nella primavera. Molto alla moda.
— Bella?
— Assolutamente meridionale. Non bella, forse: seducentissima.
— Aveva molti corteggiatori?
— Molti, sul principio: flirtava assai. Del resto glaciale.
— Ah! — disse soltanto Cesare. — Esiste un duca di Cleveland? — soggiunse poi.
— Autentico. Vivono lontani, non divisi. Suppongo che lady Hermione non ami che lui.
— È alla moda, ora, di amare il marito, fra le donne — osservò Palliano, con un rimpianto nella voce.
— Le donne sono capaci di tutto — disse Carafa.
— Mi dicono che lady Hermione sia qui — aggiunse Firidolfi, sempre con quella perfettissima indifferenza. — Andrò a portarle le mie carte.
— Lei è dei suoi intimi?
— Una conoscenza semplice, con qualche tinta di amicizia. Essa posa un po’ troppo, ma la credo buona.
— Posa?
— Sì: un non so che di sepolcrale. Ho sempre supposto che dormisse in una bara, o che si ritirasse al camposanto, la notte.
— Lei scherza... — mormorò Cesare.
Cadde il discorso, subito. Dopo qualche minuto di silenzio, Cesare e Giulio parlarono fra loro, con la massima delicatezza di frasi, a proposito del duello. Carafa dichiarava che lui e Palliano sarebbero restati ancora uno o due giorni a Roma, per sentire della salute di Luigi Caracciolo. Cesare non sapeva bene quel che avrebbe fatto, non aveva nulla di deciso: aveva Laura all’albergo, chi sa in quale stato, era impossibile, a malgrado della sua forza d’animo, che ella non fosse inquietatissima.
— È stata ammirabile, in questa occasione — disse Carafa.
— Ammirabile, certo ripetette Dias, macchinalmente.
— La sua signora? — chiese Firidolfi.
— Sì: è a Roma.
— Credevo che ella fosse vedovo... — e intese di aver commesso un errore.
— Mi sono rimaritato; ho sposato mia cognata — rispose presto Dias.
Un glaciale silenzio. Non forse tutti sapevano la causa del duello di Cesare? E non forse, egli stesso li sapeva consci di tutto? Si avvicinavano a Roma. Cesare disse che avrebbe mandato a prendere notizie di Luigi, ma che se Carafa vi andava, gliene venisse a dare, personalmente. Il correttissimo Carafa, annuì, col capo: e approvò questo atto cavalleresco di Cesare. Erano consci di tutto: e Luigi, certo, aveva offeso mortalmente Dias, ma l’onore era stato lavato dalla sua macchia, ma l’offensore era gravemente ferito, e l’umanità, ma, sovra tutto la cavalleria, domanda questi atti di generosità. Per non girare per Roma con quel carrozzone nero, lo lasciarono a San Lorenzo in Lucina e a piedi accompagnarono Cesare Dias sino all’albergo: Giovanni Firidolfi discretamente li lasciò a via Condotti, dicendo che andava ad aspettare il ferito all’Hôtel d’Europe.
— È un simpatico giovane — disse Cesare, mentre andava per il Corso.
— Simpaticissimo — confermò Carafa. — Come ti senti tu?
— Benissimo, perché me lo domandi?
— Ma! una giornata tumultuosa.
— Non dire questo: non guastare la finezza e la forza della tua condotta, Dias.
— Ti giuro, Giulio, che poteva finir male per me, e non mi sarei lamentato.
— Anche questo, non dirlo. Buona sera, Dias; rassicura tua moglie, pranza con lei, amala un poco o molto, posto che è di moda, nel matrimonio; manda a chiedere notizie di Luigi e dormi profondamente.
— Io farò lo stesso... se trovo a maritarmi provvisoriamente — disse Palliano.
Erano entrati nell’atrio, donde erano partiti insieme, sei ore addietro. Egli strinse la mano ai suoi padrini, guardandoli: e li ringraziava, mutamente, con un intenso sguardo di riconoscenza. Non era uomo di molte parole: e sovra tutto, aveva sempre odiata la rettorica. Ma era commosso, per la prima volta, nella giornata. Né essi dissero nulla intendendo quel silenzio e quella emozione. Si salutarono: essi partirono. Annottava. Risalì lentamente le scale, sentendo, adesso, una grande stanchezza, e un grande vuoto, nel cervello. Laura non era nel salotto: tutto era oscuro, nelle tre stanze. Egli si avanzò, nella stanza di Laura: la chiamò, non rispose. Accese un fiammifero, vide che Laura era seduta presso il letto, col capo appoggiato sul letto, coi capelli disordinati e lo stesso vestito che portava la sera innanzi. Dormiva. Egli accese una candela: ella non si destò. Aveva vegliato tutta la notte, era rimasta sola tutto il giorno, in quel triste e freddo giorno, sola in quell’albergo pieno di gente sconosciuta, sola in quella stanza: si doveva esser addormentata, stanca di pregare, stanca di esser sola, stanca di esser abbandonata. Quanto pareva consumata, in quel suo fondo viso di giovane bionda, serenamente bella e orgogliosa! Come la tenue carnagione, così trasparente e luminosa, era stata macchiata, quasi corrosa dalle lacrime! Egli la guardava e non la svegliava, pure sentendo che aveva il respiro oppresso, pur sentendola trasalire nel sonno. Ella riaprì gli occhi, così, pel lume che li feriva, guardandosi trasognata intorno.
— E già notte? — diss’ella, con voce di meraviglia.
— Debbo aver dormito assai, assai... — diss’ella, vagamente, come non raccapezzandosi.
— Hai vegliato, la notte scorsa... poveretta — egli mormorò.
Ella si levò, lentamente. Aveva dormito, ma sembrava disfatta. Sovra tutto consumata, nel volto, come se una bufera avesse devastato la floridezza di quella tenera e trasparente carnagione di bionda, la delicatezza di quelle labbra giovanili.
— Ti senti male? — egli le domandò, molto colpito da quel cangiamento.
— Ho fatto dei sogni orribili... — ed ebbe un leggero fremito, rammentandoli — Credo di aver avuto l’incubo.
— Che sogni?
— Oh così orribili! non voglio raccontarteli.
— Ti ho lasciato così sola, Laura, anche oggi... — ed esitava a continuare.
— Eh... tanto — ella disse, con un atto desolato.
— Ora... non ho più nulla da fare, qui...
— Più nulla? — gridò lei, subitamente intravvedendo tutta la verità.
— No, più nulla.
— Ti sei battuto, è vero, ti sei battuto? — e gli teneva le mani, lo interrogava, ansiosamente.
— Sì, mi sono battuto.
— Oggi?
— Oggi.
— Ah io lo dovevo intendere, io mi sono sentita soffocare, oggi, nel sonno, per un’ora, sotto l’incubo! Sei stato in pericolo, è vero, in pericolo?
— Un poco — egli disse, con un così bizzarro sorriso.
— Come ti sei salvato? Ti vedo qui, sei salvo.
— Mi hanno salvato — egli rispose, enigmaticamente.
— È morto, Caracciolo? — chiese ella, con voce sorda.
— No, è ferito.
— Gravemente?
— Gravemente.
— Morrà?
— Speriamo di no — ella disse, piamente.
Egli voltò la testa in là. Ella gli teneva le mani e gliele accarezzava, teneramente, lo guardava con una luce di tenerezza, negli occhi. Cesare ebbe quel moto familiare di carezza, toccandole lievemente i biondi capelli.
— Ce ne andremo di qui, ora...
— Sì, sì, ce ne andremo... — ella ripetette, rianimata da una tenue speranza. — Dove andremo?
— Non hai nessun affare, in nessun paese, Cesare?
— Nessun affare: che affari posso avere?
— E nessun desiderio, di andare, non so dove?
— Nessun desiderio — egli disse monotonamente.
— E neppure io — ella soggiunse, scoraggiata.
Erano in piedi dietro la finestra guardando senza vedere la strada.
— Torniamo a Napoli — propose Laura, d’un tratto.
— A far che?
— A viverci.
— Non ci torniamo, senti, non ci torniamo. Là... non potremo mai dimenticare niente... e tutta la gente sa... ora, con questo duello: vi sarà un gran rumore...
— Hai ragione — ella approvò, tristemente. — Ma dove andare?
— Io non so — egli disse, battendo con le dita sui vetri.
— Cerchiamo, Cesare... cerchiamo un paese tranquillo... dove restare qualche tempo... magari qualche anno... noi, dimenticando, e noi dimenticati dalla gente...
— Cerchiamo... — mormorò Cesare.
— Poiché... infine, la povera donna che abbiamo resa così infelice, ha trovato un rifugio nella morte, a questa infelicità... è in pace, ora... e noi stiamo espiando, adesso, da otto mesi, con le pene più atroci, il male che abbiamo fatto... Non abbiamo più patria, non osiamo tornare a Napoli, a casa nostra... non mi ami più... non oso parlarti del mio amore... non te ne parlerò più, se non vuoi... le nostre giornate sono orribili, come le nostre notti... Ci siamo dette le supreme parole che dividono, Cesare... e infine, infine, dopo tutto questo, poiché non abbiamo il coraggio di ucciderci, bisogna trovare un angolo quieto, dove finire di scontare questo castigo...
Con così profondo dolore ella parlava, con una rassegnazione così piena di lacrime, con tale voce infranta ella diceva le semplici e dolenti cose! Così vinta, così domata, così perduta d’ogni volontà e di ogni speranza, quella selvaggia anima che non aveva riconosciuto ostacoli!
— Forse, divisi, saremmo più tranquilli... — disse Cesare, a bassa voce.
— Forse; ma tu non sei più giovane, Cesare, e io sono troppo giovane. Perché lasciarci? Tanto... abbiamo superato insieme le grandi catastrofi del disonore e della morte; che può fare di più il destino, contro noi? Tanto... so che il tuo cuore è gelido per me e che queste fiamme non si riaccendono. Non tenterò, te lo prometto, non tenterò di riaverti amante. Già... lo sai, che non tenterò. Non per superbia. Quale fierezza potrei avere? Non tenterò per disperazione. So, so, che è finito tutto, nel giorno della morte di Anna, io stessa... io stessa sento che la mia passione è stata peccaminosa, prima... e che ora è inutile. A che servirebbe adorarti? Ti voglio bene, te ne vorrò sino alla morte, ma è inutile, questo bene, per te, per me. Oh Cesare, assai più grande è il castigo nostro del suo, se ci lascia in vita, ma così esausti, così gelidi, così desolati, che nessuna delle cose umane più ci tiene e noi cerchiamo un angolo segreto, dove andar a chiuderci, indifferenti l’uno ai dolori dell’altro, incapaci di consolarci, inetti, inetti a vivere.
— Separiamoci, allora — egli disse, a capo chino.
— Ah, no, no, Cesare, ciò non è possibile... siamo avvinti da una catena, che non è il matrimonio, è il passato... non è possibile lasciarci, tu stesso lo senti, non ci dividiamo, non aggiungiamo un nuovo rimorso... non abbiamo più speranze, ma non ci castighiamo con la nuova tortura dell’isolamento... Ho ventitré anni, Cesare... e ho paura del mondo, del vasto e deserto mondo, io che nulla temevo... non ci lasciamo, infine, cerchiamo un asilo... troviamo una forma di esistenza... saremo insieme, ma divisi... vivremo sotto lo stesso tetto, non ti chieggo altro, Cesare, per il ricordo di quella morta, altro non ti chiederò...
— E sia — egli consentì.
Bene egli aveva inteso che ella non gli tendeva un tranello. Quell’anima era spezzata in tutte le sue energie. Non era un accasciamento passeggero, quello. Era spezzata, per sempre, quell’anima. Poteva consentire a quel triste pellegrinaggio, Cesare, poiché nulla, già mai, avrebbe potuto far risorgere una sola delle cose morte.
— Grazie — ella rispose, senza gioia.
— Partiamo domani, dunque: fa i tuoi preparativi.
— Sì: ma ho tante cose a Napoli...
— Telegrafa che te le mandino.
— Dove?
— A Milano: andremo verso la Svizzera, a cercare asilo.
— Fatti mandare tutto quello che ti serve. Forse... non torneremo più, a Napoli.
— Va bene — e gli stese la mano.
Egli la prese, la baciò. Ma era il gelido bacio d’un uomo inetto ad amare, ad esser felice, a vivere, quello che scese sulla piccola mano: e niuna fibra tremò, in Laura, a quel bacio, poiché ella sapeva tutta quella rovina, poiché ella istessa era una rovina. D’ora in poi, avrebbero vissuto così, in una lentezza monotona di ore e di avvenimenti, in quell’apatia inguaribile di chi ha troppo abusato della passione e della vita, in quella fredda compagnia senza tenerezza e senza carità, in quel giro metodico delle esistenze che divorarono le loro speranze e assistettero alla morte fuori di sé e in sé. Sarebbero partiti, l’indomani, l’una insieme all’altro, ma senza tenersi per mano, a occhi bassi, non sapendo la via, non curandosi della via, pellegrini, che per essere stati crudeli non potevano essere teneri più, mai.
. . . . . . . . . . . . . . .
Non uscirono dall’albergo in quella sera. Dopo un silenzioso pranzo alla tavola rotonda, in compagnia di gente ignota a cui erano ignoti, Laura e Cesare risalirono nelle loro stanze, senza parlarsi. Egli cercò i giornali della sera e, quando glieli portarono, li scorse con una certa ansietà, per vedere se si parlasse del suo duello, il che lo avrebbe infastidito molto.
Ma non vi era nulla. Forse i padrini avevano fatto pratiche, presso le redazioni dei giornali, perché non si pubblicasse nulla: Laura si era ritirata nella sua stanza, ma egli la udiva andare e venire, quietamente, facendo le sue valigie: poi sogguardando dalla porta aperta, vide che si era messa a scrivere. Anche lui doveva scrivere qualche lettera, se ne andò in camera sua: e lì, tranquillamente, con quella lucidità di mente che aveva riacquistato dal momento in cui si era trovato di fronte Luigi Caracciolo, sul terreno, scrisse tre o quattro lunghe lettere di affari, a Napoli e nella provincia di Reggio Calabria, dove i Dias avevano avuto e ancora avevano dei grandi possedimenti. Metteva in ordine le sue cose, come se fosse alla morte; e in un plico suggellato, spedito al suo notaio, mandò anche il suo testamento, che aveva già scritto prima di andare a battersi.
Ciò non lo rattristava punto: partiva, chi sa per dove, chi sa per quanto tempo, partiva, a un oscuro e non felice viaggio, e non era triste, si sentiva come morto, trascinandosi dietro un’altra esistenza morta. Suonò, perché quelle lettere fossero impostate e il cameriere che le prese, gli annunciò anche Giulio Carafa. Erano le dieci e mezzo. Udendo annunciare qualcuno, Laura aveva subito chiuso la porta della sua stanza, come se volesse sottrarsi a qualunque conversazione. Giulio attraversò il salotto ed entrò nella camera di Cesare: era un po’ turbato e non parlò subito.
— Ebbene, come sta Luigi?
— Non malissimo: la febbre non è tanto alta.
— Ci sei stato, tu?
— Sì, mi sono trattenuto una mezz’ora. Tu non ci sei stato? — ed esitò chiedendo questo.
— Io? No.
— Hai fatto bene — mormorò Giulio, tutto pensoso.
— Sei entrato nella sua stanza? — chiese Cesare, lievemente inquieto.
— No; Montechiaro teme l’agitazione. Pietro vi è entrato...
— Nulla ancora. Hanno consigliato di tacerle tutto, fino a che Luigi sarà trasportato a Napoli.
— Presto, vi andrà?
— Pare che domandi lui, di andarvi...
— Ah! — disse Cesare. — E vi andrà presto?
— Al più presto.
— Chi lo accompagnerà?
— Tornabuoni... e quella signora andrà innanzi.
— Quale signora? La Cleveland? — gridò Dias.
— La Cleveland — assentì Giulio, guardando fisso Cesare.
— Lo ama, dunque?
— Lo ama? Non lo so. È venuta a visitarlo...
— Tutta sola, da lui, una signora?
— È ferito: è suo amico, ella è inglese...
— Tu l’hai vista, Giulio? — disse Cesare, angosciosamente.
— L’ho vista, sì... purtroppo...
— Ah tu mi compatisci, è vero, Giulio, mi compartisci? — disse l’uomo, ripiombando nel suo precipizio.
— Ti compatisco — ed era una vera pietà, in lui.
— È irrimediabile! irrimediabile, Giulio!
— Vattene via, lontano, con tua moglie...
— Ma essa va a Napoli... ma egli ci va...
— Parti per la Russia, per il Polo... va’ lontanissimo, porta con te Laura, sta tre anni, dieci anni all’estero… non vi è altro, Cesare.
— Anche a te, ti parve lei?
— Anche a me.
— Sembrerà a tutti che la conobbero... a Napoli... sembrerà lei...
— Va’ via, questa sera... no, è troppo tardi... domattina, per Pietroburgo, per la Norvegia... va’ via, non hai altro scampo.
— Cercherò questo scampo — disse Cesare, senza rispondere più altro, dopo, alle parole di conforto che gli voleva dire Giulio.
Ma alla mattina, alle sei, Cesare andò a bussare alla porta di Laura ed a lei, che si presentò vestita da viaggio, col velo bigio avvolto alla faccia e al collo, disse:
Ella non fece che alzargli gli occhi in volto. Non disse nulla. Il nero presentimento del male l’avvolse nel suo gelo. Ed egli fece un atto desolato e fiero insieme, come chi dà la sua anima e il suo corpo, all’implacabile male.