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Il garden party nel Real Bosco di Capodimonte, era stato organizzato con un molto pietoso scopo da un gruppo di dame e di gentiluomini, per soccorrere i bimbi poveri e malati; e nelle corte giornate del febbraio, per i salotti nobilmente arredati, intorno ai caminetti fiammeggianti, vi era stato un vivido e grazioso discutere di signore impellicciate, che eran tutte rosee di quel calore e anche tutte infiammate di carità, per i fanciulletti infermi. In quelle giornate gelide sorrideva alla loro fantasia muliebre l’immagine di un ballo all’aria aperta, sotto i grandi alberi di quel magnifico parco, fra la tiepida luce del sole e il primo crepuscolo violaceo; e forse sorrideva loro nella dolce febbre della loro vita mondana, la speranza di poter prolungare quella bella stagione di feste, di divertimenti, di sorrisi sino alla primavera: e più era acuto l’inverno, più esse sentivano la pietà dell’Opera per i bimbi malati e poveretti, più le teneva un grande ardore di venire lietamente e teneramente in soccorso di quella duplice, immeritata infelicità dell’infanzia. Il garden party era dunque sorto, bello e poetico e caritatevole da quelle gentili riunioni: qualcuno, innamorato delle parole italiche, aveva tentato di fare adottare il titolo di ballo campestre, ma non vi era riuscito: la immaginazione femminile, così simpaticamente facile alla esaltazione e alla delusione, si sentiva mortificata all’idea di mettere insieme un ballo campestre, e niente altro, qualche cosa come una tarantella sul prato: mentre le due esotiche parole garden party avevano il potere di far sognare, subito, non so quale squisita eleganza di danze, di ambiente, di sorrisi, di amori. Vi era chi si rammentava di qualche festa simile in quella Inghilterra, dai grandi parchi signorili, dalle grandi serre, dove qualche doviziosa dama dall’alto nome inglese si circondava di tutte le beltà e di tutte le eleganze: e chi aveva visto qualche garden party in Francia, meno maestoso ma più lieto, forse: e chi ne aveva visto a Roma, al Quirinale, e chi in Napoli istesso, in un parco signorile — e le feste italiane erano parse più serene, più poetiche, in tanta bellezza di paesaggio. Garden party, dunque: alla nota elegantissima che dava la parola e la consuetudine inglese, si sarebbe aggiunta la gran luminosità italiana, quel mare di azzurro onde s’impregnano le fibre, i sensi e l’anima. E i cari bimbi avrebbero avuto una più dolce, più soave primavera! Soltanto che, organizzato precisamente e splendidamente nel febbraio, fra un cotillon turbinante e un concerto delicato, il garden party di beneficenza fu rimandato due volte: si voleva farlo nella prima settimana di marzo, ma il folle mese mandò tali freddi nelle sue prime dieci giornate che nessuno osò convocare le danzatrici e i danzatori, in un bosco ancora devastato dalle rigorose pruine, sotto i rami ancora nudi, neri e stecchiti degli alberi. Si ebbe, allora, la poetica idea di rimandarlo al ventuno di marzo, giorno in cui entra ufficialmente la Primavera, mentre già le vie di Napoli sono piene di violette e di rose thea, ma l’equinozio di primavera ebbe tali piogge dirotte che la città e le colline, da Poggioreale a Posillipo, si avvolsero in un gran velo di acqua cadente che parve le dovesse annegare. In verità erano lunghe e dirotte piogge che cadevano senza una tempesta, nell’aria, senza rombo di tuono e senza lividi lampi; s’indovinava, in quelle piogge, la dolcezza primaverile; fra la pioggia vi erano tante roride violette e tante gentili rose thea, tutte fresche, come bagnate di lacrime scorse senza dolore: ma pioveva, era impossibile andare a ballare sui prati naufragati di Capodimonte. Adesso, era di moda, quando s’incontrava una delle belle e pietose signore del comitato di beneficenza, di scherzare con esse, dicendo loro che Mathieu de la Drôme prevedeva una primavera tutta piovosa, che l’estate sarebbe stata assai tempestosa: ed esse, un po’ scherzavano, un po’ si crucciavano, mentre guardavano la gran nuvola di un bigio tenero, da cui cadeva la tenerissima, ma lunga pioggia primaverile.
Infine, raccolte tutte insieme, con una ostinazione femminile che avrebbe sfidato qualunque elemento contrario, esse giurarono che il garden party si sarebbe tenuto il quindici aprile: esse promisero a se stesse di riunire tale magnetica forza di suggestione che il sole, il divo sole, non avrebbe potuto resistere. Difatti, piovve il dieci e l’undici aprile, ma il sole brillò, serenamente, asciugando i prati molli e la terra umida, penetrando nei viali che declinano sotto l’arco dei grandi alberi e dando loro quel tepore carezzevole, penetrando nei cespugli, penetrando nei boschetti, intiepidendo, carezzando, riscaldando, seminando di rosei anemoni e di mille stelle bianche dal cuore di oro la verde erba: il sole fece questo dal giorno dodici al quindici, con un benefizio costante e limpido di luce e di calore, tanto che il garden party fu annunziato, in tutto il suo splendore primaverile dalle due alle otto pomeridiane, nel regal bosco, sulle spianate, sui prati e nei viali, fra le musiche, sotto le tende bizzarre. È vero, sui loro chiari vestiti rotondi, per lo più morbide e tenui lane, tutte le signore provvide immaginarono anche un gran mantello leggero primaverile, di non so quali fantastici tessuti, serici, lievi e pure caldi, lucidi e strani, a forme assolutamente impensate, da buttarsi sulle spalle, pur lasciando vedere il vestito, da avvolgersi nelle ore crepuscolari, come in un manto che fosse anche un velo. Si era al quindici di aprile, è vero: in piena primavera: ma aveva tanto piovuto e nulla è più grazioso per una leggiadra donna che temere la pioggia o il freddo, inventando così un nuovo mantello.
Ma era così luminosa la giornata di aprile che molte signore, le quali avevano ordinato il coupé per le due, si pentirono di aver chiesto quella vettura chiusa: l’azzurro del paesaggio napoletano — esso è dappertutto l’azzurro nella terra, nelle case, nell’aria — mette sempre nei nervi, nel sangue, questa voglia gioconda dell’aria libera. Così luminosa! Le signore più timide, sugli abiti del tenuissimo colore lilla che è quello dell’eliotropio del Giappone, su quelli di un verdino pallido, come sono le albe, su quelli color dell’avorio stretti alle cinture dalle larghe e molli fasce di seta che allora costumavano, rinnovando la moda dell’impero, avevano messi, a titolo di modestia, i loro grandi mantelli, dalle stoffe cangianti, dalle grandi fibbie niellate, dalle ampie maniche cadenti sino a terra. Ma era così tiepida e luminosa la giornata che, lentamente, nella molle ascensione verso il bel colle di Capodimonte, in quella viva e pur dolce aria, penetrante di dolcezza, le dame si lasciavano vedere, dai passanti fermati, attoniti, lungo le vie, e si lasciavano vedere in tutta la fine e deliziosa composizione della loro toilette, sotto le piume volitanti, bianche dal seno roseo, bianche dal seno azzurrino, che giravano intorno ai cappelli primaverili sotto le ghirlandette dei piccoli cappelli, dove le rose incoronavano le chiome brune e i miosotidi le chiome bionde. Non presto, certo, arrivavano le più belle e le più eleganti, quelle che preferiscono lasciarsi aspettare, pur di dare una impressione più profonda e più intensa: ma le squisite signore che avevano organizzato il garden party, ma le fanciulle gioconde che fanno molto presto a indossare il loro vestitino bianco, adorne come sono della più perfetta grazia che è la giovinezza, le fanciulle che non conoscono e non debbono conoscere l’arte del farsi aspettare, esse che non vogliono perdere e hanno ragione di non voler perdere un minuto di una lieta ora, tutte costoro erano a Capodimonte fin dalle due e mezzo, girando sotto le bianche cappe degli ombrellini di seta bianca, sotto le cappe di merletto color avorio, sotto i riflessi micacei degli ombrellini cangianti.
Il garden party cominciava con una passeggiata dalla larghissima spianata innanzi al real palazzo, dove si doveva ballare, alla palazzina dove abitò tanto tempo Vittorio Emanuele, al gran viale che discende verso il lato settentrionale del parco così fresco e ombroso, alla gran tenda araba eretta sovra una altura verde, sotto i cui bizzarri ricami di rosso, di giallo, di azzurro orientale, eranvi i larghi divani di Oriente, singolar sogno di paesi lontani trasportati in un verde e fiorito bosco, in una giornata di primavera: continuava verso il piazzale che inclina al lato orientale del bosco, verso la campagna, onde si partono, a raggio, i famosi tre viali, così noti agli amanti, ai poeti, ai sognanti, a tutte le anime solinghe nell’amore o nelle visioni. Al gran cancello del parco era un giungere di equipaggi, con un rumor sordo e continuo: e innanzi al cancello vi era un gruppo di otto o dieci gentiluomini, i più eleganti, i più cortesi, i più belli, che aspettavano, in massa e per la forma, tutte le signore, ma che, forse o senza forse, aspettavano l’essere invocato e temuto, quello solo, l’unico essere per cui li teneva, nel fondo dell’anima, sotto la più disinvolta mondana apparenza, il desiderio e la paura. Portavano sul soprabito da mattina, il fiore all’occhiello, la rosetta thea o la violetta: e chiacchieravano: e sorridevano: e sogguardavano verso la via larga che conduce a Capodimonte: e sapevano non impallidire, non trasalire, quando appariva l’Unico essere femminile: e ogni tanto, uno di loro, con disinvoltura, spariva verso il campo del garden party non avendo più ragione di stare al cancello; o dal campo della festa qualcuno che aspettava invano, rodendosi d’impazienza, tornava al cancello, conservando la stessa disinvoltura, scherzando ancora, con l’animo amarissimo, ma abituato alla profonda e necessaria e anche morale dissimulazione mondana.
Chi non indovinava la segreta inquietudine di Luigi Caracciolo che, con quella sua grazia un po’ molle nella figura virile, con quel suo spirito mondano velato sempre di sentimentalità, andava e veniva, fermandosi qua e là, con le signore, con gli amici, scherzando e ridendo, ma ritornando sempre alla porta del parco, fra il gruppo di coloro che aspettavano? Si era schermito di ballare, quando una delle dame del comitato glielo aveva domandato, e molto meno di aiutare Paolo Gioia nella direzione del cotillon campestre; la sua ferita lo incomodava sempre, aveva il respiro così corto! E ci sorrideva, su questa sua eterna ferita, così poco importante, in fondo, perché non aveva neppure — o miseria delle ferite! — messo in pericolo la sua esistenza, e che lo aveva tenuto, fra letto e poltrona, quattro mesi in casa, a guardare le eterne pitture del soffitto, quando era stanco di leggere i libri più stupidi e più noiosi del mondo. A che esser ferito, quando non si deve morire, quando non si è, almeno, in gran pericolo di morte?
— Sono un personaggio da commedia, io, contessa — diceva alla più ridente e più spumante bionda contessa che avesse Napoli, allora — non mi riesce di essere tragico o almeno drammatico. Quella lo ascoltava, col sorriso fermo sui bianchi, bellissimi denti, tentando invano di indurlo a ballare. La ferita… così sciocca quella ferita! La bella creatura gioconda, vestita di un roseo pallido e di un cappellino che era un soffio di velo roseo, trascorse oltre con una risata schietta, sapendo bene che Luigi non ballava per una qualche ignota ragione — ed ella rideva ancora, con un gruppo dei suoi più lieti amici, guardando Luigi che se ne andava al cancello. Colà, giungevano le ultime carrozze: poiché si eran contate le dame e non ne mancavano più che cinque o sei. I cortesi gentiluomini eran diminuiti di numero, là innanzi: una carrozzella da nolo, vuota, aveva portato un servo, un messaggero che aveva consegnato un biglietto a uno di loro. Egli aveva letto sorridendo, ma in verità egli compiangeva quel pomeriggio perduto, la sua donna non sarebbe venuta, lassù: una crudel persona, un crudele impedimento glielo avevano proibito. Fra i quattro o cinque amici, adesso, languiva la conversazione: fattosi pallido, a un tratto, Luigi dichiarò di essere pentito di questa corvée, che avrebbe dato il suo denaro ai bimbi infermi e poveri, ma che avrebbe preferito di starsene sdraiato sopra una poltrona, nella immobilità e nell’ozio. Quegli amici, tutti un po’ nervosi, dichiaravano che vi eran troppe fanciulle nel garden party e che ciò guastava la giornata, che le mamme diventavano opprimenti, traendosi dietro tante figlie. Non vi erano abbastanza scapoli, e ciò era desolante, oltre che immorale! Ma due o tre carrozze voltarono per la curva che porta al cancello e la conversazione si rasserenò, si rasserenarono i volti. In una di esse vi erano due signore ignote, mal vestite, anche: da due altre carrozze scesero due aspettate, due cavalieri si allontanarono, per il viale che andava al piazzale, dando il braccio alle dame, congratulandosi di aver atteso, posto che l’attesa era stata consacrata a una così incantevole toilette. Un altro equipaggio si fermò al cancello. Ne scese la duchessa di Cleveland, a cui Luigi tese la mano, subito, salutandola profondamente: lentamente, col suo passo che appena radeva la terra, ella si avviò verso il piazzale, accompagnata da lui. Non le aveva offerto il braccio, perché giammai Hermione accettava il braccio. Camminavano daccanto, parlando piano.
Hermione, in quel giorno, era vestita di bianco: la veste era tutta di seta bianca, di un candore così opaco che pareva del colore del latte: e tutta la gonna rotonda, che toccava la terra egualmente intorno, era ricamata sino al ginocchio da fiori curiosissimi, in una tinta di un giallo smorto, senz’altre gradazioni. Il giallo di questi fiori, oltre ad essere smorto, era anche opaco, senza una sola lucidezza: e il busto attillatissimo, di seta bianca, era ricamato dalla cintura sin sotto alle spalle, sino sul petto come un corsaletto; e una zona di ricamo cingeva il giro del collo, leggermente scollato in tondo, senza nessun ornamento intorno alla linea libera del collo, dalla vivida carnagione color dell’avorio. Sui capelli neri, rialzati a onda, nella consueta foggia, lady Hermione portava un cappellino di velo bianco, inghirlandato di bizzarri fiori gialli, piccoli, minuti e fini. Ella non aveva veletta. Due grossi topazii, di un’acqua gialla magnifica, le pendevano dalle delicate orecchie. Le maniche del vestito, assai strette, finivano oltre il gomito, con una zona di ricamo giallo; e i sottili guanti di seta bianca lasciavano intravvedere gemme di cui erano cariche, sino all’indice, le perfette piccole mani. Il suo grande ombrellino, di quei meravigliosi merletti antichi d’Inghilterra, aveva un molto grosso topazio per pomo. Il volto ovale, di un bruno uguale e affascinante, era libero e sereno in tutte le sue linee: i neri occhi, dolci e fieri insieme, avevano quello sguardo vago, un po’ incerto di chi bene non vede o di chi sdegna quietamente di veder bene. La svelta persona andava, per la ghiaia fine del viale, senza flessuosità provocatrici: era una figura seducente di gioventù, di floridezza e pure di una castità che faceva crescere la seduzione. Ella stringeva, in una mano, un fascetto di crisantemi bianchi e gialli, di un bianco opaco, di un giallo smorto. La salutarono: sorrideva un pochino, quasi niente, rispondendo al saluto. Tre o quattro signore, sue amiche, la circondarono, festeggiandola, domandandole se ballava. Non ballava mai. Intanto, un gaio richiamo risuonò per il parco: e dai grandi archi del portone del palazzo, dalla tenda araba, da tutti i viali, più vicini e più lontani, fu un accorrere di donne e di uomini, un andare, un venire, un chiamarsi, un collocarsi, un cambiar posto, tutto così lietamente, che il preparativo della gran quadriglia d’onore, di sessanta coppie, venti e venti nella maggior figura, dieci e dieci nella minor figura, segnò un quarto d’ora squisito.
Poi vi fu un minuto d’immobilità: e fra un duplice cerchio di donne e di uomini che guardavano ballare, fra una fusione di tinte chiarissime e di tinte scure, nel gran paesaggio tutto azzurro sul capo, tutto verde intorno, spezzato solo dalla gran mole imponente del real palazzo, in quella fine e luminosa aria libera, fra i volti bruni dai grandi cappelli piumati, fra il giro delle vesti morbide trascorrenti sul prato, fra lo scintillìo dei dolci occhi meridionali e il riso delle fresche bocche, sul ritmo vivo e inebbriante di una musica che fremeva, venendo dai boschetti ove era celata, la danza incominciò. Sopra un praticello saliente, in modo da veder a distanza dall’alto questo stupendo quadro, Hermione guardava. Ritta, sulla verde erba cosparsa di margheritine: disegnandosi, bianco vestita, sopra un folto cespuglio d’alberi, di un verde cupo, mentre alla sua dritta si apriva il bosco, vedendosi una discesa rapida d’orizzonte verso una pianura verde: aperto l’ampio ombrellino bianco appoggiato sulla spalla, in cui la bruna testa incoronata di fini e piccoli fiori gialli s’incorniciava; la mano che stringeva il suo mazzetto di fiori abbandonata lungo la veste bianca; immobile. Accanto a lei, Luigi, che invece di guardare la prima danza del garden party, guardava lei.
— Oh sì! — ella rispose, col suo gutturale e pur toccante accento sassone.
— Più bello che in Inghilterra è vero?
— È un’altra cosa — ella mormorò, scuotendo il capo.
— Proprio niente trovate di più bello, qui, lady? — e si facea triste, sempre più, come quando sentiva in lei quella nostalgia che l’attirava al suo nordico paese.
— Il sole.
— Ah, meno male... qualche cosa vi vince.
— Non lo possiamo comprendere, il vostro sole: non lo possiamo portare, nelle nostre valigie, in Inghilterra.
— Se no, lo fareste?
— Certo: subito, a qualunque prezzo. Io muoio di freddo, sempre: lo comprerei a qualunque prezzo.
— Portereste via il sole e il cuore degli uomini, così crudelmente?
— Non si è mai abbastanza crudeli — ella sentenziò, sorridendo a una signora che le faceva un cenno grazioso.
— Che dite? Che vorreste essere, dunque?
— Io? Una tigre.
— Voi scherzate, sempre, Hermione! Hermione, mi volete un po’ di bene?
— Oh tanto — ella disse glacialmente, senza guardarlo.
— Così me lo dite? — e fu un piccolo lamento, il suo.
— Così mi avete insegnato voi.
— Le parole sono così: ma il sentimento è un altro.
— Noi vorremmo comperare o rubare il sole, Caracciolo: ma il sentimento no. Voi poi non avreste più niente.
— Avete ragione: a me deve bastare, di potervi amare.
— E allora, Luigi, perché mi domandate sempre, se vi voglio bene?
La cara voce si fermò sul nome che aveva pronunziato, con una certa dolcezza. Egli non rispose subito, profondamente turbato dall’udirsi chiamare così, il fascino irresistibile di Hermione lo penetrava sino alle più nascoste sorgenti dell’emozione.
— Vi domando... così... anche per udirvi rispondere male... perché il parlare d’amore è ancora l’amore...
La quadriglia era finita, tutta la bella folla di dame, di damigelle, di cavalieri, si andava disperdendo qua e là, al «buffet» che era ricoverato sotto una tenda, ai viali che scendevano, con campestre e ombrosa suggestione, al profondo bosco, altre ed altri sedevano, sui banchi rustici, chiacchierando, come in un salone.
— Andiamo via — disse lady Hermione, muovendosi dal suo posto di osservazione.
— Lasciate che vi dia il braccio, lasciate? — supplicò lui.
— No, no.
— Ma perché?
— Perché nessuno cammina come io cammino, Caracciolo...
— È vero... sembra che sorvoliate sul terreno.
— Un giorno... sulle Alpi... vi era tanta neve, Caracciolo, tanta neve e ne cadeva ancora, lieve, gelida, ebbene, tutte le orme vi si stampavano, salvo la mia.
Ella aveva narrato questo, sottovoce, con un accento di confidenza paurosa, di mistero, ed egli ebbe un brivido di terrore, per i passi di questo fantasma femminile che non lasciavano traccia, sulla neve.
— Come un’ombra... — Luigi balbettò.
— Come un’ombra — ella confermò, assai misteriosamente, ma sorridendo.
Erano sul prato, ora, fra la gente; e signore e signori venivano a salutare lady Hermione. Ogni volta — rara volta — che ella appariva in pubblico, otteneva un successo duplice per se stessa e per la sua rassomiglianza. La nobilissima dama, così ricca, così strana, che si vestiva in una forma così diversa da tutte le altre, che parlava poco, che andava per le vie alle ore più insolite, che spariva nelle ore consuete della passeggiata, che «posava», infine, così simpaticamente, avrebbe di per sé attratto l’attenzione, se non fosse anche stata l’immagine di Anna Dias, morta così tragicamente. Non glielo dicevano: ma ella produceva sempre un novello effetto di stupore, in quanti si rammentavano la infelice giovane che si era uccisa. D’altronde Luigi la seguiva, dovunque: d’altronde, due volte, in un circolo e in un ballo, in cui ella era apparsa, Laura Dias, due volte, aveva dovuto lasciare la sala, smorta, vacillante: d’altronde, Cesare Dias non andava mai da lady Darlington, non l’accompagnava mai in pubblico, pareva che non la conoscesse neppure, eppure si trovava dovunque ella era, la guardava di lontano, la sorvegliava. E amici e conoscenze, nei momenti in cui si distraevano dai propri amori, dalle proprie imminenti o lontane tragedie, sentivano che in quelle quattro persone, in Hermione che sembrava uscita dalla tomba, in Laura che si claustrava per non vedere questo fantasma, in Luigi che ne era innamorato come della morta e più della morta, in Cesare che ne pareva geloso come della morta e più della morta, malgrado il duello, malgrado la ferita di Caracciolo, sentivano, coloro che per un minuto si toglievano ai loro drammi o alle loro commedie, sentivano che si agitava una ignota tempesta.
Quando Giulio Carafa vedeva la duchessa inglese, così stravagantemente bruna per una inglese, andare in giro con Luigi, lasciandosi corteggiare con quell’altiera indulgenza di quelle dame che non le compromette mai, mentre l’uomo se ne innamora perdutamente, quando egli vedeva apparire Cesare Dias, con l’occhio avido del geloso, con la bocca piegata dall’amarezza del geloso, con quel vagabondaggio inquieto e instancabile del geloso, Giulio Carafa intendeva come il minuto della catastrofe si approssimasse. Ah, egli la detestava, per il suo amico, quella duchessa inglese che aveva la maschera di una bellezza italiana, e avrebbe volentieri tentato di rimandarla in Inghilterra, se non avesse pensato che Luigi Caracciolo e Cesare Dias l’avrebbero seguita! Egli non si era fatto presentare, un po’ per la collera che gli destava e un po’ per un senso di paura: ma egli la guardava spesso come se ne fosse innamorato, mentre in cuor suo, quando non pensava ad altro, la malediva. Così, nel cerchio di lady Hermione, Carafa non vi era: e incapace di allontanarsi, Luigi le stava a lato, taciturno, a occhi bassi, mentre la gente si domandava a che punto fossero, e se almeno questa inglese lo volesse amare, il bel Luigi.
La polka cominciava, il giro doppio si rifaceva, a guardare la danza: mentre delle coppie solitarie erravano, passeggiando, lontane, ma in vista. Mentre passava, ballando, Giulio Carafa disse a Luigi:
— Vi è Dias.
Caracciolo ebbe uno stringimento di spalle. Sentiva, sempre, gli occhi tristi e freddi di Dias che vegliavano gelosamente, vedeva quel terreo volto di geloso visionario; intendeva il furore represso di quel vedovo, che respingeva il disonore anche in una effigie fantastica; ma Luigi viveva in un’atmosfera di sogni morbosi, di desiderii smodati e fallaci, di terrori segreti che lo afferravano alla gola, e parea che lo soffocassero, e non lo soffocavano mai. Luigi, sì, sapeva che non era finita con Cesare Dias la loro sanguinosa partita, finché egli delirasse ancora per quel ritratto della sua donna morta: ma non era forse una medesima fatalità che li involgeva tutti, non forse qualcuno di loro, in quella fatalità doveva perire? Sì, Cesare era apparso nel viale grande, dal cancello, in compagnia di Clemente Cortez, venendo verso il campo della festa, dove era lui con Hermione; si avanzava, Cesare, parlando con Cortez, ma tenendo i suoi occhi fissi su quella coppia, terreo, con un lieve aggrottamento di ciglia, come l’uomo che dentro di sé tenta risolvere il più atroce problema, ma non per questo Luigi si era staccato da lady Hermione, vinto dal fascino istesso di quella fatalità. E un perfido riso fu sulle labbra di Hermione, mentre ella diceva:
— Amereste di essere Desdemona, voi, lady?
— Ella era una sciocca veneziana — disse la superba signora.
— Quanto odiate l’Italia, oggi, Hermione.
— V’ingannate: quell’Otello m’interessa.
— Lo vado a chiamare? — esclamò amaramente Luigi.
— Non amo le presentazioni, lo sapete.
— Voi non lo avete mai conosciuto, Dias? — egli chiese con ansietà.
— Non mi è stato mai presentato — diss’ella, evitando la risposta.
— Conosciuto... dicevo — egli insistette.
— Nella vita anteriore, forse? — ella disse con quel suo accento sordo, levando i bianchi e gialli crisantemi, a nascondere il suo volto.
— Hermione, io ho tanta paura di voi — egli le sussurrò, affannosamente.
— È naturale — ella soggiunse, sordamente, guardandolo con certi occhi così vaghi e incerti, che egli voltò la testa, non reggendo a quello sguardo fantomatico.
Come si ballava con dolcezza insieme e con vivezza su quel grande piazzale, ora che il sole cominciava a declinare! Delle altre coppie si erano riunite sopra un praticello verde, verso la palazzina e ballavano ancora, più libere, tutte liete della loro indipendenza dal grande cerchio del ballo, dove il moto era più lento, tante erano le coppie, mentre una ventina di bimbi e bimbe, in un altro prato, invece di fare la polka, si erano presi per mano, e giravano in tondo, allegramente, ridendo, canticchiando, dando di quegli strilletti infantili che sembrano un richiamo di uccelletti. Declinava il sole e l’azzurro del cielo si faceva più tenero, diventando simile alla preziosa turchese; e il verde diventava più forte, mentre già un alito fresco confortava i danzatori e le danzatrici. Pochi eran quelli, invero, che avevan resistito all’incanto del paesaggio, dell’ora, dell’ambiente e che non fossero in uno dei cerchi danzanti, stringendo nel ritmo della musica tutti i sogni della fantasia, che aveva un così soave esaltamento.
— Perché non ballate, un poco, solo un poco? — invocò Luigi, ad Hermione.
— Io? Mai.
— Perché?
— …no.
— …neanche.
— Voi non avete mai amato, è vero, Hermione?
— Vi ho detto questo?
— Chi sa! Credo.. debbo credere di non aver amato mai. Pure...
— Pure?
— Pure... mi sembra di ricordarmi... così... vagamente, di aver amato...
— Vi ricordate? Non siete certa?
— Non sono certa di nulla...
— Perché avete fatto voto di non ballare mai? — tornò a domandare Luigi, perché il discorso, così acutamente penoso, deviasse.
— Lo feci... qualche anno fa. Un mia amica morì di tisi, per una polmonite presa in un ballo e io mi votai, credendo di poterla salvare.
— Poveretta!
— Perché la compatite? Io mi votai: ma essa non fu infelice, morendo.
— La vita non è poi una così triste cosa, Hermione.
— Che ne sapete, se non sia più sereno, il di là? Qualche morto vi è apparso, forse? Vi ha confidato il suo segreto, qualche morto?
Egli non rispose; si voltò di là, per celare l’atroce suo turbamento. Ora, su quella musica così amabilmente convenzionale e anche così bizzarramente leggiadra, si ballavano i lanciers, la sola danza moderna che più della quadriglia istessa abbia della compostezza e della grazia. I quadrati dei lanciers erano dieci o dodici, si ballava dappertutto, mentre le tre orchestrine, nascoste fra i cespugli, suonavano all’unisono mettendo le note un po’ ondeggianti di quella musica, nell’aria pura di quel vespero di primavera. E le dame, in quell’ampiezza di salone campestre che niuna parete costringeva, in quella luminosità ormai tenera, sotto quel cielo di un azzurro sempre più chiaro, fra il circolo dei grandi alberi che chiudevano, lontano, l’orizzonte, fra il sottile profumo dei fiori silvestri che vinceva nella sua agreste naturalezza il profumo emanante dalle vesti e dagli ornamenti muliebri, le dame ballavano con un’indolenza corretta che aveva del languore e aveva della grazia, ballavano un po’ sorridenti, prolungando le loro riverenze innanzi ai profondi saluti dei loro cavalieri, avanzandosi con un passo lieve che è una delle più grandi attrazioni femminili, porgendo la mano, girando, con una lentezza sapiente di movimenti, con un sapore di danza antica, tutta espressione. Si formavano e si scioglievano delle squadre femminili, variegate di tinte tenui, nel rosa pallido, nel bianco avorio, nel verde finissimo, nel lilla smorto, ed esse sfilavano con un’ondulazione armoniosa, a una certa distanza, silenziose e sorridenti. La gran lietezza del garden party, ora che il vespero cresceva, si sopiva in una serenità vasta come il cielo, profonda come il bosco, confortante come tutti i freschi odori della campagna.
— Giacché non ballate, venite a passeggiare? — invitò Luigi, nuovamente.
Ella, senza rispondere, si mosse dall’orlo del prato, donde aveva seguito, con lo sguardo intento e sereno, tutta quell’armoniosa ed elegante danza, ondeggiante col ritmo delicato, con un morbido moto di cullamento: e con Luigi, si allontanò verso la palazzina.
— Andiamo sotto la tenda araba, volete? — egli propose.
— Farà caldo... — osservò Hermione, esitando.
— Proviamo.
La tenda araba, nel suo colore nocciuola, della tela greggia tutta esoticamente ricamata di rosso, di azzurro, di giallo, di verde, a losanghe, a palme, in tutte le forme strane dei disegni d’Oriente, sorgeva sopra un’altura, piantata su solidi piuoli e annodata fortemente, col lembo davanti che si prolungava, a forma di peristilio.
Dal basso dell’altura vi erano dei gruppi fermi, a contemplarla, e altri salivano, e vi entravano, sedendosi sui larghi divani, intorno. Invero, la luce del giorno già cadente vi moriva; e vi si respirava un’aria calda. Pure, qua e là, sui divani, vi erano dei solitari che chiacchieravano; due amici che odiavano le feste campestri e in generale tutte le feste e che pure non osavano mancarvi; due mamme che seguitavano, anche in quel giorno, la dura missione delle madri che hanno figliuole da marito, e che si riposavano, un momento, da tanta fatica; qualcuna di quelle comparse di ballo, uomini e donne, che vi si trovano sempre, non si sa perché, mentre non hanno né bellezza, né ricchezza, né gioventù, né nome, mentre sono mal vestite, e non parlano, e si annoiano, e annoiano. Hermione si fermò sull’entrata, facendo un atto di repulsione, lievissimo:
— Quanta gente!
— Una tenda non è fatta che per due persone — egli mormorò, deluso, perché aveva sperato di trovar nessuno o solo qualcuno.
— Ho anche io una tenda araba, laggiù... — ella disse, facendo qualche passo innanzi.
— Dove?
— Laggiù, in Inghilterra: in un grande parco, pieno di alti alberi... — e la sua voce, ancora una volta, aveva un rimpianto nostalgico.
— Come siete inglese, oggi, Hermione.
— Povero paese lontano, così attraente nell’austerità dell’inverno e nelle giornate di primavera... povero paese nostro che abbandoniamo così volentieri... e che si rimpiange tanto!
— Voi tornerete presto colà, è vero? — interrogò lui, tristemente.
— Non so: forse.
— Se partite, vengo anch’io, Hermione.
— Oh no! — protestò lei.
— Come me lo potreste impedire?
— Pregandovi di evitarvi questo dolore.
— Questo dolore, venire laggiù, dove voi siete? Ma che dite? il dolore è dove non siete, lady.
— Non venite mai, in Inghilterra!
— Ci verrò, se ci andate — egli ripetette, nella ostinatezza della passione.
— No, no, Luigi — ella mormorò, con quella invincibile grazia che dava al suo nome.
— Perché dirvela? Non la intendete? E così triste!
— Voi non ritroverete mai Hermione, laggiù — ella disse con un tono di voce profondo, avanzandosi sotto la tenda.
A lui si velarono gli occhi di lacrime.
— Non potrò mai raggiungervi in Inghilterra, dunque, in nessun tempo, in nessun giorno?
— Non vi è, Hermione, in Inghilterra — ella ripetette, a bassa voce, avvolta nelle ombre che erano in fondo alla tenda araba.
Egli tacque: un sospiro di musica giunse, dal piazzale. Ma Luigi non resistette.
— E allora mi promettete di non andar via senza me? Mi permettete di seguirvi, in qualunque altro paese andiate?
— Verreste in qualunque paese, Luigi?
— In qualunque, amor mio: con voi.
— Nel più lontano?
— Nel lontanissimo paese: con voi.
— Nel più freddo?
— Nel paese delle eterne nevi: con voi.
Ella sentì che si era inchinato, che le baciava la mano, poi il polso, inebbriato dall’amore, fatto audace dall’ombra.
— Ancora un momento, Hermione.
— Non vedete?
E gli indicò l’apertura della tenda, dove insieme a Clemente Cortez, che era un altro misantropo e che non ballava, Cesare Dias passeggiava, avanti e indietro, guardando dentro la tenda, fedele alla sua gelosa guardia; non erano soli, ma Dias era colà, fermo nella sua gelosia funebre, non lasciandoli mai, non curandosi di mostrare il pallor terreo del suo volto e la tristezza sdegnosa della sua fronte.
— Che v’importa di lui? — disse Luigi, irritato. — Non è mica vostro marito!
— No, non è mio marito: è il duca di Cleveland, io credo, mio marito. Ma quell’uomo soffre, Luigi; andiamo via.
— Anche io soffro.
— Voi, presso a me: egli, lontano.
— Lo compatite tanto? Credete che vi ami?
— Non so — ella concluse, enigmaticamente.
Si era avviata per uscire dalla tenda: Luigi, a malincuore, la seguì. Passarono, ambedue, innanzi a Clemente Cortez e a Cesare Dias che chiacchieravano, fermi davanti all’apertura della tenda araba e che si fecero da parte, salutando profondamente. La duchessa di Cleveland salutò, con quello sguardo incerto e quel sorriso vago, che pareva non si dirigesse a nessuno e che, pur essendo cortese, era di una grande alterigia: Caracciolo salutò distrattamente. Fuori, era giorno ancora: ma un giorno tenerissimo, già fresco, non freddo: tutto di un grigio delicato, metallico, mentre il verde degli alberi si era fatto scuriccio, già un po’ confuso nella luce crepuscolare. La folla dei gentiluomini e delle dame, dopo aver ballato una voluttuosa mazurka, si era accalcata ai tavolini apprestati, alla grande tavola coperta di fiori e di dolci, coperta di piatti che offrivano agli stomachi più forti e più deboli le raffinatezze di una signorile merenda. Certo le signore chiedevano una granita, un gelato: ma arrivavano allo champagne, ma pur avendo l’aria di rifiutare ogni alimento solido — e quale donna può aver dimenticato il poetico orrore di lord Byron, per le donne che troppo mangiavano in pubblico? — arrivavano al sandwich col caviale, al petto di una pernice, a un briciolo di roseo salmone nella sua gialla salsa. Intorno, dunque, alla tenda della merenda, era tutto un lieto movimento di signore e di cavalieri, un andare e venire frettoloso di camerieri, uno stappare di bottiglie di champagne, un levare grazioso di coppe tenute dalle mani gemmate: sul piazzale quasi deserto, Paolo Gioia, con due o tre altri, preparavano il campestre cotillon: e finanche, dietro ai cespugli, i suonatori delle invisibili orchestre, seduti sull’erba, facevano merenda, più rusticamente. Arrivavano, confusamente, suoni di voci allegre e squilli di risate. Hermione guardò un poco lo spettacolo, discendendo dall’altura dove sorgeva la tenda araba: ed ebbe uno dei suoi fugaci sorrisi. Come attirata da tutta quella graziosa scena, si venne avvicinando, pian piano, tenendo accanto Luigi Caracciolo, che ridiventava l’innamorato mondano, appena ella usciva da quella sottile atmosfera di dubbio e di mistero, per un momento: sperando sempre che questo minuto umano di Hermione durasse e che egli potesse umanamente adorarla senza turbamenti e senza terrori. La duchessa di Cleveland non volle mettersi più vicino alla tenda della merenda, poiché la folla le dava fastidio.
— No: direste che sono troppo inglese.
— Un gelato, allora?
— Ah, io ho sempre troppo freddo, per amare i vostri gelati!
— Un bicchiere di champagne, per riscaldarvi?
— È un vino volgare: un bicchiere di Johannisberg, se volete.
Luigi Caracciolo fece cenno a un cameriere che accorse e sparì.
L’innamorato cercava con gli occhi un tavolino, per sedersi: ma non ve ne erano. Ella indovinò.
— Non voglio sedermi: sapete che odio lo stare seduta.
— Lo so: ma voi odiate tante cose, Hermione!
— Io amo di stare in piedi o sdraiata; seduta mai. Ma la ragione è tutta di civetteria femminile.
— Voi non siete civetta.
— Io sono enormemente civetta e mi sembra di fare il mio dovere di donna. Ora, vedete, mi confesso a voi, che mi amate e su cui la confessione non farà un cattivo effetto: mi confesso, Luigi, uditemi bene. Io sono piccola...
— Non è vero.
— È naturale che diciate così: e vi approvo. Ma sono piccola. Le stelle potrebbero morire, il sole potrebbe naufragare nel mare, potrebbero avvenire i più torbidi cataclismi, ma io resterei sempre piccola.
— È una illusione ottica. Tutto è una illusione ottica... in me. E forse io sembro veramente grande... sembro... Siamo forse certi se i nostri occhi sono neri o azzurri, se le nostre mani sono piccole o grandi? Sembro grande: ma sembro grande, per una illusione, solo quando sto in piedi, o quando sono sdraiata. Quando mi metto a sedere sono volgarmente piccola. Badateci. La marchesa Lalla d’Aragona è tutto il contrario di me: sembra grande quando siede, sui suoi alti seggioloni. Notatelo: non balla, non passeggia, non si leva mai. Ah io sono piccola, piccola...
— Non è vero, non è vero — disse lui, guardandola innamoratamente, non sapendo neppure più dirle una galanteria, tanto l’amava.
Il cameriere giunse, con un vassoio, dove la bottiglia dal collo sottile e verde di Johannisberg era fra due bicchieri, di un giallo pallido. Luigi versò il vino color dell’ambra e l’offrì alla duchessa. Ella, prima di bere, guardò il suo innamorato, con un così sapiente sguardo e un così sapiente sorriso, che egli tremò di piacere. Hermione non bevette che un sorso; e gli restituì il calice. Egli, poiché fremeva d’amore, bevette il resto, cercando il posto dove quelle labbra si erano posate, sull’orlo del bicchiere.
— Spezzate la coppa — ella disse, con un riso di maga.
Sulla terra del viale, il calice giallo andò in frantumi.
— Voi conoscete questo bosco? — domandò la maga quando il cameriere si fu allontanato.
— Sì, lady.
— Mi conducete un poco, lontano da tutti?
Si allontanarono, mentre già le orchestre preludiavano al valtzer del cotillon, chiamando tutti coloro che si attardavano a merendare. Hermione e Luigi passarono accanto all’altura dove s’ergeva la tenda araba, accanto alla palazzina di Vittorio Emanuele, scesero pel viale che passa sotto il grande arco di muratura, il quale divide il parco dal bosco, sul suo lato orientale; la casa del guardiano del bosco era vuota, il guardiano era andato a guardare il ballo, invece di custodire l’entrata del bosco, o forse merendava anche lui. Si trovarono nella spianata donde si partono, da un semicerchio di verdura, i tre larghi viali inclinati, sotto l’arco verde degli alberi, nelle lontananze del bosco. Il viale di mezzo è più ampio: e due bianche statue pare che vi siano a guardia, coi loro bianchi occhi che non vedono, con le loro bianche labbra chiuse. Le ombre crepuscolari vi si faceano più dense e non una persona appariva, in quella solitudine: lontano, pareva che gli alberi si chinassero tanto da chiudere il passo. La duchessa e il suo innamorato stettero indecisi, un momento. Egli la guardava, con così supplichevoli occhi! Forse attratta dall’ampiezza, ella scelse il gran viale di mezzo; e come vi penetrarono, li accolse la sacra penombra delle piante che conforta gli occhi e il cuore; un fresco vivido carezzò le loro persone, tenuamente; e un gran silenzio parve cadesse dai fitti rami dei nobilissimi alberi. Giunse, fiocamente, un suono di musica: poi, si spense, mentre essi avanzavano, nella penombra, nella frescura, nel silenzio, nella perfetta solitudine. Perfetta solitudine! Non forse un’ombra andava, solinga e cauta, per il viale di destra, seguendo la loro traccia, ombra nascosta dagli alberi, ma tenace e dagli acuti occhi? Un’ombra terrea, un fantasma, un uomo? Nulla sapevano essi: Hermione e Luigi si sentivano soli e liberi. Ella, con le braccia abbandonate, trascinava il suo ombrellino di trina bianca, la cui punta d’argento strisciava sul terreno, con un leggero fruscìo: e lungo la veste di seta bianca ricamata di giallo, dalle dita quasi stanche pendeva il mazzetto di bianchi e gialli crisantemi. Luigi non le parlava: la emozione che provava gli impediva di incominciare un discorso qualunque; e gli sembrava che una parola d’amore, in quel minuto divino, ne avrebbe spezzato l’incanto. Tutto era sparito: il garden party, e la sua folla, e la curiosità della gente, e la gelosia di Cesare Dias: tutto era sparito, ogni tristezza del passato, ogni terrore del presente, ogni dubbio dell’avvenire: non vi era che il grande bosco ombroso, vividamente fresco, deserto, pieno di silvestri e vibranti odori, scendente sempre verso una più vasta ombra, verso una solitudine più completa, e, accanto a lui la donna che egli amava con tutto l’ardore dei suoi sensi, la donna bella e affascinante, bianco vestita, inebbriante di gioventù, di grazia, di eleganza, la donna che aveva voluto venire, con lui, sola, a quell’ora, in quella solitudine, Hermione, Hermione dagli occhi così dolci e fieri, dalle labbra fatte più per il bacio che per il sorriso e per la parola, Hermione, Hermione, l’adorata donna, tutta sola, con lui. E nel turbine amoroso che gli sconvolgeva il sangue, egli non seppe dire che il suo nome:
Ella che camminava a occhi bassi, levò lentamente le palpebre e lo guardò. Così profondo e oscuro, quello sguardo! Le labbra di lei erano leggermente schiuse, come per respirare meglio quell’aria così vivida e così fresca: e pareva che volessero parlare, quelle labbra, o forse, baciare. Egli, tremando, prese la mano guantata dalla sottile seta bianca e la baciò: ella non la ritrasse: solo chinò gli occhi, di nuovo. La piccola mano rimase in quella di Luigi: ed essi s’internarono ancora, nel bosco più oscuro, dove solo il rumore dei loro passi ridestava gli echi silvestri. Certo, vi era un altro passo, poco lontano dal loro, accanto, ma diviso dalla fitta tenda degli alberi: ma un passo tanto cauto, ma un respiro così soffocato! Essi non potevano nulla udire. Li teneva quel momento di amore. Erano dimentichi. Ella istessa, in quell’ombra, era o sembrava pallida di emozione.
Erano giunti, adesso, a un’altra più piccola spianata donde si partivano, in varie direzioni, dei viali più stretti, più erbosi, assai più somiglianti a veri sentieri campestri, troppo diritti forse, ma in cui già si sentiva la libera semplicità delle vie fra i campi, umide per le nascoste piccole sorgenti d’acqua, tutte fresche nell’ora solitaria vespertina. Un banco rustico era in un angolo del crocicchio, sotto un grande albero frondoso: e il legno del banco già quasi era invaso dalle alte erbe primaverili e alle sue spalle, nel prato, vi era una fioritura di anemoni e di margherite. Hermione si fermò come indecisa.
— Restiamo qui, un poco? — pregò Luigi, cercando di trarla a sedere.
— No, cerchiamo ancora, una campagna più naturale.
Ma quando ebbero camminato ancora un poco, e girato senza più conoscere la loro strada, per tre o quattro viottole sempre più anguste, sempre più erbose, Hermione e Luigi si trovarono nel bosco più fitto, sotto l’ombra degli ontani, in un terreno senza traccia di sentiero, scendente a una piccola valle, fra due alte coste tutte coperte di una vegetazione fiorita, mentre la terra molle quasi si piegava teneramente sotto i passi.
Era un paesaggio di bosco profondo e solingo, dove scarsamente penetrava il sole, anche nelle ore più alte: e dove regnava, quindi, quella finissima aria inebbriante nella sua freschezza, che sembra si respiri da tutte le fibre: dove regnava quella sacra penombra verde che riposa gli occhi e non rassomiglia a nessun’altra luce di stanza socchiusa, di camera dove siano delle lampade temperate dai paralumi, di serra, di giardino, la sacra penombra delle piante, dei rami, delle foglie, delle erbe, confortante alla vista e penetrante nel sangue per ogni poro.
Ogni tanto, scossi da un rumore, Luigi ed Hermione si voltavano, interrogando la fittezza bruna dei cespugli e le altitudini delle due coste verdi, fra le quali andavano: poi intendevano che era il loro passo, risuonante in quell’intenso silenzio di bosco. Andarono, ancora: passarono dalla piccola valle a una vallata più ampia, attraversarono un piccolo ponte sovra un ruscello e infine, sotto un folto gruppo di ontani, sedettero, sopra un tronco d’albero che giaceva lungo disteso per terra. Intorno, intorno, salivano alberelli e alberi, vedendosi appena appena, a traverso i loro rami, un cielo di un bigio quasi argenteo, tanto era delicato. Pallida era, lady Hermione: ma sulla sua fisonomia era la espressione di una serenità completa: e la bocca leggermente schiusa, lasciante vedere i minuti denti bianchi, pareva respirasse quell’aria con un immenso diletto. Ah! colui che le era accanto, nulla sapeva del paesaggio, e dei prati, dove le bianche sibille che danno il responso dell’amore, e dei grandi ontani che salivano dalla valle alla costa, e delle acque scorrenti sotto le erbe, come l’anima fresca della terra, e dei ronzii così bizzarramente musicali, che fanno sognare gli amatori delle grandi foreste. Non poteva, colui che era accanto ad Hermione, sentire la intensa freschezza vivificatrice di quell’aria, e la verde carezza di quella luce di bosco profondo. Egli non poteva altro pensare che di essere solo, con una donna che egli adorava: e che quell’ora gli apparteneva. Tante volte erano stati soli, insieme, poiché Hermione nulla pareva temesse, dalla solitudine: ma non così, non così! Soli, ma nelle stanze dove una visita potea essere annunziata, dove un servo sempre poteva entrare: soli, ma nelle vie della città; soli, ma in una galleria, in un museo, sovra una terrazza, in una stazione di ferrovia; soli, sopra un verone innanzi al mare, ma avendo sempre intorno la gente, o il pensiero imminente della gente, o il vago, confuso, piccolo timore della gente. Soli, sì, talvolta, nella sera, nella notte, senza nessun pensiero latente della gente, ma avendo Hermione, intorno a sé, non so quale invisibile difesa. Oggi, no. Era quella l’ora desiderata da quasi un anno, l’ora grande e alta, che è la visione di tutti quelli che amano profondamente e che consumano la loro fantasia e il loro sangue in questa visione: l’ora suprema che a nessuna delle altre ore amorose, forse dolci, forse acute, rassomiglia e che gli amanti bene conoscono: l’ora che segna il massimo grado di spasimante piacere, d’inebbriante dolore a cui può giungere la limitata e misera tempra umana. Quella era, la nobilissima ora che era sua, che aveva meritata per il suo amore, per i suoi tormenti palesi e nascosti, per la sua pazienza, per la sua ostinazione. Soli, perfettissimamente soli, nel crepuscolo che già si faceva sera, nella selva profonda, senza un ricordo del mondo, nell’oblio immenso di ogni cosa che l’amore non fosse. Stavano, intorno a loro, i begli ontani dalla gran linea di ricchezza vegetale e umilmente crescevano le margherite dai cuori d’oro, nell’erba; e correva l’acqua limpida e vivida sotto le foglie; e ronzavano le libellule dalle ali lievissime, vitree; e li avvolgeva la sacra penombra e la carrezzante aria verginale del bosco che giammai arse nella passione del sole. Sedevano, accanto; e agli occhi dell’uomo innamorato pareva che, nell’ora suprema, Hermione non avesse più, intorno a sé, quella misteriosa difesa che rigettava, tacitamente, ogni ardore dell’amante. Egli teneva la mano di Hermione fra le sue: ella la lasciava così, pallida nel volto ma serena. Poi Luigi la cinse alla cintura, con un braccio. Ella ebbe un fugace sorriso tranquillo. Ma non forse, nei cespugli cominciava a soffiare la brezza della sera, poiché i rami frusciarono? Non udivano essi.
— Hermione, Hermione, mi volete bene?
— Io, Luigi?
— Voi, Hermione: tu, tu, amore mio, mi vuoi bene?
— Io? Sì, io — diss’ella, con una voce strana, con un tono strano.
— Mi vorrai sempre bene?
— A me lo domandate? Lo volete sapere da me? — chiese ella stranamente, piegandosi verso lui, guardandolo negli occhi.
— A te, a te... — egli balbettò, senza intendere il mistero della domanda, senza notare questo mistero.
— Io vi rispondo, io, badate, solamente io posso rispondervi: sì, vi vorrò bene sempre.
— O tenerezza mia, io ti adoro... — e la baciò sul collo, dove la zona di seta ricamata di giallo lo cingeva.
— Ditemi, Luigi: chi adorate voi? — chiese Hermione, col singolar tono sordo, che dava un fascino grandissimo alla sua voce.
— Te, te, adoro soltanto, sovra ogni cosa, sovra ogni persona — e tentava di raggiungere le sue labbra, schiuse come un fior di melagrano.
Ella ebbe un lieve moto, ma non scortese, per non farsi baciare.
— Hermione, la diletta, l’adorata Hermione dal nome soave.
— Hermione Darlington, duchessa di Cleveland? Hermione che si chiamava Roseberry, quando era fanciulla?
— In tutti i tuoi nomi, creatura adorata — e giunse a baciarne le labbra fugacemente, sentendo da quelle freddissime, gelide labbra, venirgli un gelo mortale, ma tentando di superarne l’orrore.
Non scricchiolavano, peste, le foglie cadute sulla terra molle, sotto ìl passo di qualche cauto o trepido animale, nel bosco, fra i cespugli folti? Ella, poiché Luigi non aveva inteso il profondo senso delle sue domande, poiché egli aveva visto solo l’interrogazione monotona amorosa di quelle interrogazioni, lo guardò in faccia, gli lesse negli occhi il lampo di una passione indomabile, e gli disse, Hermione, con un velo di tristezza nella voce:
— Voi mentite, Luigi, voi non mi amate...
— Come puoi dubitare, come osi dubitare?
Egli ebbe un sorriso trionfale. Ora l’abbracciava, stretta a sé, sentendo che doveva vincere quella sfiducia, che per la prima volta si manifestava e che era, per lui, forse il segnale della vittoria.
— Non mi amate, non vi credo — ella disse ostinatamente.
— Hermione, Hermione, io ti adoro...
— Voi ne amate un’altra...
— Un’altra? — e il cerchio delle braccia che cingevano Hermione si rallentò.
— Sì, un’altra — ella insistette, tristissima, sempre più pallida.
— Chi, altra? — gridò lui, sgomento.
— Quell’altra, Luigi — e aveva una tristezza infinita, nella voce.
— Hermione, Hermione, non parlare così...
— Voi amate, Luigi, voi amate Anna Dias che si chiamava, col suo nome di fanciulla, Anna Acquaviva.
Egli sciolse le braccia e chinò la testa.
— Lo negate? — chiese ella, con un tono singolarissimo di ansietà.
Non rispose, l’infelicissimo amante.
— Lo neghi, lo neghi, Luigi? — ella insistette, toccandolo sulla spalla, facendo che egli si volgesse a lei.
Ebbene, ebbene, guardandola nel volto ovale e bruno, dove brillavano dolcemente e fieramente gli occhi neri, dove bizzarramente rideva la bocca rossa e tumida, vedendo quel viso, quella figura, quella espressione, udendo la domanda fatta con quella voce, l’infelicissimo amante sentì la sua anima perdersi in una lenta vertigine, dove era sparito il senso del presente, sentì lo smarrimento della follìa avvolgerlo con tanta dolcezza che egli rispose, follemente, alla ostinata interrogazione della donna:
— Ah, io lo sapeva — diss’ella, subitamente desolata.
— Anna: te!
— Ah! — ella esclamò, disperata senz’altro.
Quanto era pallida, quella donna, in quell’ombra crescente del bosco, nell’aria che si faceva fredda, nella solitudine! Pallidissima: con gli occhi neri che avevan perduta la loro duplice espressione di dolcezza e di fierezza, e parevan velati da una nebbia torbida: con la bocca schiusa dove biancheggiavano, quasi lucenti, i denti. Luigi provò, fra il folle smarrimento, un acuto brivido di paura.
— Non sei tu Anna, forse? Non sei tu? Io ti adoro, siamo soli, dimmi che sei Anna, dimmi la gran verità! — e la stringeva convulsamente, la baciava sulle pallide guance, sulle pallide e fredde palpebre, la guardava, col lampo della frenesia, negli occhi.
— No, no, no... — balbettava ella.
— Tu, tu, lo so che sei Anna, ti ho intesa dal primo giorno. Dio ti ha rimandata in terra, e tu non sei morta, lo so, lo so, che sei Anna, se no, vedi, non ti amerei, non ho amato, non amo, non amerò nessun’altra donna al mondo: ma dimmelo tu, tu stessa, che sei Anna.
— Taci, taci — ella gridò, nascondendosi il volto fra le mani.
Un profondo silenzio regnò nel bosco oscuro.
— Ho paura — ella rispose, battendo i denti.
— Di che?
— Di ciò che mi dici...
— Io non faccio che ricordare — egli mormorò, tristissimamente.
— Appunto per questo ho paura.
— Tu paura, Anna, che non hai temuto di ucciderti?
— Non dir più questo nome, non evocare più questa morta, Luigi!
— Non posso, è il mio amore che lo pronunzia, è la mia anima che scoppia in un sol grido.
— Chiamami Hermione — ella disse, dolcemente.
— Perché?
— Chiamami Hermione — ella insistette, con molta dolcezza.
— Ma tu sei la mia cara morta! — egli esclamò, desolatamente.
— Non puoi chiamarmi Hermione? Non puoi dirti che mi chiamo così? — ella domandò, ansiosamente, chinandosi a lui.
— Penso che sia un inganno, una menzogna.
— Non posso — egli disse, con uno sforzo, tremando al cospetto della realtà.
— Eppure è il mio nome, Hermione — ella disse, dolcissimamente.
Egli ebbe di nuovo, al cuore, la stretta feroce della realtà.
— … sì, ma il mio cuore ti dà quello di prima...
— Non puoi dimenticarlo, quello di prima? — ella domandò con infinita dolcezza.
— Non posso: mi riapparisce sempre, non posso — egli singhiozzò, ricondotto lentamente e desolatamente alla realtà.
— Non puoi credere che io sia Hermione, Hermione Darlington, duchessa di Cleveland, non lo puoi credere? — disse con incommensurabile dolcezza.
— Un minuto, posso crederlo: poi, per sempre, tu sei Anna, per me.
— Cerca, cerca, Luigi, di pensare che i morti non ritornano: che gli spiriti sono nella eterna notte della pena, o nella eterna luce del godimento, che Dio non fa miracoli più, per coloro che perirono...
— Sì, sì, io lo penso — egli disse, a bassa voce, vagamente, tetramente — ma non ne sono certo.
— Perché non ne sei certo, Luigi?
— Perché noi ignoriamo tutto, della nostra anima; perché noi tutto ignoriamo, di ciò che è dopo la morte: perché tutto può essere vero, dove è l’ombra, dove è il mistero.
Ella tremò, come se dovesse crollare, in quel grande bosco, muto, triste e freddo:
— Sei tu certa — egli le chiese, vagamente, tetramente — di essere Hermione e non un’altra? Ne sei certa come della luce del giorno? Rispondi. Sei certa di non esser vissuta prima, altrove? Non hai mai rammentato un paese che non hai mai visitato? Non hai mai riconosciuto una persona che non avevi mai visto? Non hai mai sentito, di nuovo, l’affanno di un sentimento che ti era ignoto? Sei certa tu, di essere tu e non un’altra? Di’, sei certa?
Hermione taceva; le sue mani, in quelle di Luigi, erano glaciali.
— Vedi, vedi, vedi? Tu sei inglese e fuggi l’Inghilterra e vai vagabondando per l’Italia, innamorata dei suoi paesaggi, dei suoi quadri, delle sue tenui primavere, dei suoi autunni pieni di rose; tu sei inglese e adori l’amore, e adori la passione, e la chiedi a tutte le cose umane, e lasci me, dalla seconda sera in cui ti ho conosciuta, dirti che ti amo, che ti adoro, che muoio di passione per te; tu sei inglese e non cerchi che il caldo, l’azzurro, i fiori, le immagini di Maria dipinte dai nostri artisti, preganti nelle tele dei mistici italiani; tu sei inglese e sei buona, hai gli occhi neri, le labbra rosee, il volto pallido nel color dell’avorio; tu sei inglese, ma tu riconosci qui la tua patria ideale, ma la tua anima qui si vivifica, ma le tue fibre qui si sentono carezzate dal soffio amoroso: tu ti ricordi, qui, Hermione Darlington...
Nel bosco nero e freddo ella tese disperatamente le braccia al cielo e singultò, senza piangere, senza parlare.
— Chi sei tu? Io non lo so. La gente dice che tu sei la duchessa di Cleveland; tu hai laggiù un marito, una famiglia, dei servi, dei castelli, delle terre, tu sei nata colà, ti hanno iscritta, nella tua nascita e nel tuo matrimonio nei registri della tua parrocchia: tu hai tutta una esistenza colà, d’infanzia, di giovinezza, di lusso, di mondanità, di amore, non so, ma tu l’hai questa esistenza! Ebbene, ebbene, ciò non prova nulla: la tua figura è quella di un’altra, la tua anima è avvolta nell’ignoto e ogni tanto inconsciamente questo ignoto sale alle tue labbra, e ogni tanto tu tremi innanzi a non so quale rivelazione che ti apparisce e sparisce! Chi sei tu? Hermione? Per me, tu sei Anna. Né tu sei certa di essere Hermione. Nulla è falso, nel dominio dell’anima: tutto vi può esser vero, tutto, specialmente quello che non conosciamo...
Ella singhiozzò senza piangere.
— Senti, senti — egli riprese, con un maggior affanno nella voce — dal primo minuto che ti ho vista nella tua carrozza, lungo l’Arno, venendo tu dalla notte, rientrando nella notte, io ho avuto questo dubbio profondo ed acuto, io ho chiesto a Pietro Tornabuoni se tu eri quella e non un’altra, e nelle ore più inquietanti dei nostri colloqui, quando io fremeva di amore e di paura, sì, perché io ho sempre avuto paura, l’ho domandato a te, chi eri tu, chi eri... Non ho mai, mai intendi, assolutamente creduto che tu fossi Hermione Darlington, mai ho potuto crederlo, sicuramente! Per questo ti ho amata...
— Per questo? — ella singultò senza piangere.
— Tu sei Anna, per me: e il mio cuore ha amato una donna soltanto. Chi ama, vede; chi ama, sa; chi ama, indovina. Se ti ho amata, è perché eri quella; io sono una creatura frivola e corrotta, ma non ho tradito Anna, ma ti ho ritrovata, ecco, ma ho seguitato ad amare, ecco tutto!
— Così è — ella disse: e il suo petto era scosso dai singhiozzi, senza che i suoi occhi potessero versare una lacrima.
Poi, si levò, la donna: e nella notte, nel suo vestito bianco, parve più alta. Ella stese a Luigi la sua gelida mano, nuda dal guanto e tutta scintillante di fredde gemme. Disse:
— Addio.
— Perché, addio? — egli gridò, levandosi, disperato.
— Debbo andare, addio — ripetette la fredda e stanca voce.
— Vengo con te.
— No; tu non verrai; addio.
— No; tu non mi seguirai; addio.
— Hermione, resta, resta, non mi lasciare!
— Tu non l’ami Hermione Darlington, perché la invochi? Luigi, addio.
— Anna, Anna, non mi lasciare!
— Non ti amava Anna: perché la invochi? Io debbo andare, addio.
— Chiunque tu sia, sei l’immagine della mia donna, non mi puoi abbandonare!
— La tua donna è nella tomba, addio.
— Che farò senza te? Oh non mi fuggire, non mi fuggire, chiunque tu sia, non lo so, non mi lasciare!
— Addio, Luigi — ella disse, con velo di dolcezza sul gelo della voce.
— Laggiù...
— In Inghilterra, è vero?
— Forse; non so.
— Ma perché non resti, poiché io ti amo, poiché mi ami? Che importa la vita, che importa la morte? Io ti amo, resta, resta con me...
E l’aveva abbracciata, la teneva stretta. Ella restava immobile, freddissima.
— Perché restare?
— Io ti amerò tanto, io riscalderò il gelo del tuo cuore e della tua persona... io sarò il tuo innamorato... il tuo amante...
— No — ella disse, crollando il capo.
— Ma perché, ma perché? Che importa la vita, che importa la morte? Ti voglio come sei, per quel che sei, morta, viva, risorta, donna, ombra, Hermione, Anna, non lo so, ma ti amo, ma ti voglio mia...
— No: tu non puoi avermi — ella concluse, gelidamente, profondamente.
— Ma perché, se ti amo, se ti adoro, se ti desidero?
— Perché tu hai paura — ella concluse gelidamente, profondamente.
Egli tremò tutto; le braccia che cingevano la bianca donna dal volto bruno, si sciolsero, egli cadde sul tronco d’albero.
— Non dire questo: non mi avvilire — egli gemette.
— Hai paura da un anno: mi ami, ma ti faccio orrore.
— Oh Dio, oh Dio! — egli si lamentava, innanzi alla innegabile verità.
— Sei stato una creatura frivola e corrotta, Luigi, ma ti ha colpito una grande fatalità; tu non puoi amare che Anna ed ella è morta, è morta, è morta; non puoi amare che lei, nel ricordo, nel passato, nella tomba. Sei un uomo inetto ad amare, inetto a vivere. Non ti resta che a far aprire la cappella di casa Dias e a coricarti, come Amleto, nella tomba di Anna. Questo ti resta: va’, va’, addio.
— O Hermione, Hermione, io ti amo!
— Non tradire — ella disse, piano, misteriosamente. — Va’, va’ a cercare quella morta, addio.
Ella, pian piano, senz’altro, si allontanò; prese la sua via all’oscuro, nell’ombra fitta del bosco, fra le piante alte, come se vedesse la strada, con uno spirituale sguardo: la veste bianca fu prima una macchia candida, poi, allontanandosi, allontanandosi, fu un velo, una nuvola, niente più: il suo passo fu prima un lievissimo fruscìo, poi più nulla.
Solo, nell’ombra, nella notte, nel bosco deserto e freddo, l’uomo piangeva, senza levare la testa, senza sapere più nulla, salvo che la sua infinita e inconsolabile miseria.
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Nel grande piazzale, al gran raggio della luce elettrica, fra un cerchio di fuochi di bengala, accesi in tutti i boschetti, si ballava, fantasticamente, l’ultimo galop del cotillon e il brillante, inebbriante garden party finiva con uno spettacolo così bizzarramente nuovo e leggiadro che non so quale follìa finale animava quel ballo. La duchessa di Cleveland passò sola lungo il prato, avviandosi al cancello del parco e la luce elettrica la colpiva in pieno.
— Eccola che posa da fantasma — disse fra sé Giulio Carafa a vederne il volto pallidissimo, gli occhi velati di una nebbia, la fisonomia immobile. Ma egli continuò a ballare.
La duchessa di Cleveland trovò innanzi al cancello la sua carrozza: ma colui che l’aveva seguita, Cesare Dias, sempre, a una certa distanza, si fermò e la salutò. Un profondo saluto: ella sorrise. Egli sorrise. La duchessa sparve. Laggiù, sotto gli ontani, nel freddo, nelle tenebre, l’uomo piangeva, poiché veramente, non gli restava che farsi aprire la tomba della sua donna morta e sdraiarvisi accanto.