Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Castigo
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IX

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IX

 

L’ampia terrazza di marmo bianco, su cui si aprivano i balconi della bianca villa, era costruita sovra uno scoglio a picco, e, affacciandosi alla nobile balaustra di marmo, si vedevano le acque intensamente azzurre di Posillipo battere contro la bruna e aspra pietra. Sul lato sinistro della terrazza, si apriva una scala di marmo bianco, discendente al gran giardino che abbracciava la villa da tre lati, scendendo dalla costa al mare, in un verde che pareva nero sotto il latteo chiarore plenilunare. Giù, la nerezza del giardino, verso la sinistra, era ancora spezzata da una scala di marmo bianco, i cui scalini si bagnavano nel mare, così che colui che era entrato nella villa e nel giardino dalla parte di terra poteva partire dal mare, senza che i viandanti di Posillipo lo vedessero uscire: o meglio, il misterioso visitatore della villa poteva approdarvi dal mare e così fuggirne, senza che niuno, di lassù, lo vedesse. Molte delle ville su Posillipo hanno una discesa al mare, ma quella di villa Alba ha la nobiltà dell’approdo del triste castello di Miramar, sulla ferrugigna costa adriatica, senza averne la tristezza. Bianca è la villa, bianca la terrazza, bianche le scale e l’approdo, e tutto verde cupo il giardino e tutto azzurro cupo il mare, onde da questi tre colori sorge un distacco pieno di viva bellezza e di ridente leggiadria. Villa Alba è lontana dalla città; è isolata, sulla bella costa; non ha altre costruzioni, d’accanto; e il capo, bizzarro capo di Posillipo, la fine del dolore, è poco distante; e il mare ha, veramente, colà, una tinta profonda di azzurro, che non avrà giammai il mare della città di Napoli, insudiciato, deturpato, avvilito dalla città. Laggiù nessuna sozzura cittadina viola la gran purità azzurra delle onde, e gli occhi e le fibre e i nervi, colà, s’impregnano di una immensa voluttà di colore. Così nel niveo chiarore del plenilunio, pieno di mollezza candida, più alto pareva il biancore dei marmi, più fitto e nero il verde del giardino, più bruna la vastità del mare, tagliata da un immenso, scintillante, tremolante cono di luce, la cui lontanissima punta d’argento si perdeva alla fine dell’orizzonte. Talvolta, una piccola barca passava nel raggio della luna, spezzandolo, mentre le due onde divise parevano nere e la barchetta si faceva d’argento. Laggiù, Napoli brillava di lumi, con una fascia luminosa che la cingea da Posillipo sino alle lontane campagne vesuviane: e tutte le case, sul lato meridionale, erano prese nella grande bianchezza della luna e le colline meridionali parevano più brune, nella loro vegetazione. L’aria era tiepida e immobile.

La duchessa Hermione passeggiava da un capo all’altro della terrazza, fermandosi ora a guardare il mare bruno tagliato dal gran cono di argento, ora immergendo lo sguardo nella verdezza scura del giardino di villa Alba: riprendendo, poi, la sua passeggiata, con quel passo lieve che pareva trasportasse, non portasse la sua persona. Lady Hermione era sola. Per qualche tempo, in quella sera, era stata sdraiata sopra una delle lunghe poltrone di broccato bianco che erano, in numero di tre o quattro, sparse per la terrazza e che si confondeano col biancore dei marmi; poi si era levata, e alla luce morbida e nitida della luna aveva letto, in piedi, qualche pagina di un grande libro appoggiato e aperto sopra un leggìo di legno scolpito: un libro di pergamena, a caratteri neri e rossi, con un segnalibro di seta rossa. L’Evangelio di Giovanni. Forse, gli occhi di lady Hermione si erano stancati di leggere a quel bizzarro e niveo lume di luna, poiché ella aveva appoggiata la fronte sulle pagine di pergamena, come se pregasse, o pensasse, o fosse colta dal torpore di coloro che restano troppo tempo alla luna. Adesso, passeggiava. Hermione era vestita di seta amaranto, di un amaranto cupo: il busto del vestito formava una tunica a pieghe, fermata alla cintura da un cordone di oro, e le pieghe istesse del busto, scendenti oltre la cintura, coprivano il cordone e ne lasciavano vedere solo i due capi: di sotto il sostegno d’oro, la gonna scendeva a pieghe monacali, sino ai piedi, un po’ lunga dietro. Così la figura perdeva le sue linee rotonde muliebri e aveva non so quale rigidità: il monile di perle, strettissimo al collo, metteva solo un biancore, sulla seta scurissima. Sul vestito, come se ella avesse freddo, portava un gran mantello di seta amaranto, dalle ampie maniche dove si perdevano le braccia e le mani; e nelle sue pieghe, quando ella, con un moto di freddolosa, vi si chiudeva, il mantello avvolgeva tutta la persona. Andando per la terrazza, la seta dell’abito e del mantello frusciava. Ella non portava nulla sul capo: e i suoi capelli erano rialzati in onde sulla fronte, semplicemente. Talvolta le mani bianchissime, ornate di anelli sino all’indice, uscivano dalle larghe maniche e s’incrociavano, abbandonate. Ella aveva sempre il suo sguardo velato da una nebbia, distratto, vagante: solo, era così pallida che il volto, dalla fronte al mento, era di un unito e perfetto colore d’avorio. Tre porte-fìnestre della villa Alba che davano sulla terrazza erano aperte e illuminate da una luce rossastra. Talvolta, nella sua solinga passeggiata, lady Hermione aveva voluto rientrare nel suo salone: ma se ne era pentita e aveva ricominciato la sua lenta via, su e giù, lungo la balaustra, fermandosi solo a guardare le lontananze del mare verso Napoli o le profondità del giardino, sotto il lato sinistro della terrazza. La sera era avanzata ed era attorno a Hermione la gran pace di queste notti pienilunari, fra la campagna e il mare.

Né ella, assorta forse in un suo pensiero, perduta, forse, in un suo sogno, udì un rumore di carrozza che attraversava la via, lassù, di Posillipo, un rumore che scendeva per il viale inghiaiato di villa Alba, fermandosi su una piattaforma, alle spalle della casa, innanzi alla porta. Hermione aveva gli occhi fissi sulle oscure linee lontane del mare, verso la città, dove brillava la collana di luce, da Posillipo alle negre e vulcaniche campagne vesuviane. Un servo, inglese, comparve sotto una delle porte-finestre e si avanzò verso la duchessa di Cleveland, che si arrestò nella sua passeggiata.

— Una dama chiede di parlare a Vostra Signoriadisse il servo in inglese.

— Una dama? Chi è?

— Vostra Signoria non la conosce.

— Ma ha detto il suo nome?

— Ecco il biglietto — e lo porse sovra un piattello di argento. Hermione lesse, sull’aristocratica piccola carta: — Laura Dias Acquaviva.

Ella non ebbe espressione nuova, sul volto smorto, negli occhi assorti e pure errabondi.

Vedermi? Perché?

— Per cosa di massima urgenza, Signoria.

— Per cosa di massima urgenzaripetette Hermione, piano.

— Venga.

— Qui, Vostra Signoria?

— Qui.

E, ritta in mezzo alla terrazza, Hermione, chiusa nel mantello, con le braccia prosciolte, con le mani prone, aspettò che la dama entrasse. Quando la signora, nel suo vestito bianco, coperto da un leggero mantello di crespo bianco, si avanzò, un po’ incerta, venendo dalla luce rossastra del salone che ella aveva attraversato, cercando a quel chiarore plenilunare la oscura e monacale figura femminile, immobile nelle pieghe seriche della sua veste, Hermione fece qualche passo verso la dama, incontrandola. Pure non si tesero la mano: guardandosi, si scambiarono la riverenza mondana. Poi, Hermione attese che la dama si fosse seduta in una delle poltrone di broccato bianco: ella restò in piedi, innanzi a lei, leggermente appoggiata al leggìo, dove stava schiuso l’Evangelio di Giovanni. Allora, si guardarono. Ed Hermione vide un volto di già florida bellezza bionda tutto sfiorato in un pallore malaticcio, un profilo consunto, due tristi occhi azzurri che avevano sfolgorato nella serenità e nell’orgoglio, una bocca che era stata rossa ed era esangue, caduta al pallore della malinconia e della infermità. Sovra tutto, vide in quello sguardo che si fissava su lei, un’ansia, uno sgomento, un rabbrividire di anima trepida in pericolo ignoto: vide uno smarrimento di chi ha perduto la volontà, che doma le paure e le incertezze: vide, attorno a quegli occhi, sotto quegli occhi, intorno a quella bocca, la traccia delle lacrime versate, lacrime lunghe, lacrime roventi, lacrime interminabili. Come si sedette, la dama, con un moto di stanchezza suprema: come incrociò le mani in grembo, intorno al suo ventaglio: come abbassò la testa bionda, i cui riccioli si disfacevano, sotto il bianco cappellino stellato di margherite, lady Hermione intese quale profondo senso di cordoglio emanava da quella creatura e aspettò, tacendo, che la dama parlasse. Laura Dias si guardò intorno, con un’occhiata smarrita, quasi volesse trarre dalla pace delle cose un senso di calma e quasi che non arrivasse a placare l’insanabile turbamento.

Che avrà ella detto, signora, vedendomi venire qui, senza che io abbia avuto l’onore esserle presentata? — ella cominciò, a occhi bassi, non reggendo a guardare il volto di Hermione.

— Nulla, signora. Se ella deve parlarmi, ha fatto benissimo a venire — disse freddamente Hermione.

Ma quella freddezza nulla aveva di scortese. Era un tono naturale, in una conversazione fra due dame che non si conoscevano. Ritta presso il leggìo, tutt’avvolta nelle ieratiche pieghe della seta di amaranto su cui biancheggiava, al collo, l’alto e stretto monile di perle che serbava anch’esso un carattere sacerdotale, la duchessa di Cleveland quietamente aspettava che Laura Dias parlasse. Costei stava affranta, nella persona, nell’espressione, negli atti: e due volte che i suoi occhi, quasi a riprendere forza, si eran levati sul pallido e bruno volto della duchessa, due volte i dolenti occhi azzurri si erano riabbassati, più sgomenti, più smarriti.

— Quel che mi deve dire, la turba molto, mi sembra? — chiese, a incoraggiamento della bionda creatura fatta più bianca e più trasparente della luna.

— Oh moltissimo... — sospirò profondamente Laura.

— Così? E allora, perché non rimette ad altro momento? Ella soffre, signora: e ciò mi fa pena.

Grazie, signora. Ma non debbo tardare. Soffrirei mille volte di più, se me ne andassi, senza averle detto nulla. Del resto... quello che più mi turba è la sua presenza, signora.

— La mia presenza?

— Sì: essa mi affascina e mi fa smarrire ogni pensiero di calma!

— Oh! così bizzarro effetto? — e il gutturale accento sassone fu più spiccato, in quella esclamazione di meraviglia: e la duchessa di Cleveland si chinò verso Laura Dias a investigarne, sul viso, le espressioni misteriose dell’anima.

— I suoi occhi... specialmente i suoi occhi... non posso sopportarne lo sguardo — si lamentò l’infelicissima.

Tutto questo è così stranomormorò la duchessa, quasi non si raccapezzasse, in quel malore che affiggeva la signora a lei sconosciuta. — E allora, perché non scrivermi?

Era inutile. Al gran male che mi ha colpito, signora, non vi era che un solo rimedio, tremendo, atroce, quello di affrontare un colloquio, con lei.

La bionda infelicissima rabbrividì, dopo aver profferito queste parole.

— Ha freddo, qui, signora? Vuole che rientriamo?

— No: qui respiro meglio. Di ... in quel salone illuminato da quella luce rossa, la mia paura crescerebbe.

— La sua paura?

— Oh una paura terribile, terribile, una paura che ha vinto il più indomato coraggio di donna, una paura terribile, terribile, che ha prostrato la più fiera anima femminile, una paura terribile e che nulla arriva a vincere, neppure la Sua presenza, signora, mentre io credevo di guarire, venendo qui!

— Ella ha paura di me?

— Sì, sì — e si nascose la faccia fra le mani.

— Io sono dunque, il Suo spettro?

Laura gemette, dicendo di sì.

I have seen a ghost disse Hermione, a bassa voce ripetendo le parole dell’esterrefatto Amleto sulla piattaforma di Elseneur.

— Ah, signora, signoraproruppe la infelicissima bionda, i cui occhi azzurri si erano dolorosamente cerchiati di rosso, per le lacrime — io credevo di aver perduto tutto, quando l’uomo che mi amava e per cui ho peccato mi ha detto di non amarmi più; io credevo di esser caduta nella voragine del nulla, quando mi sono accorta che il mio cuore straziato e vilipeso non poteva amare più: credevo di aver toccato gli estremi limiti del dolore e dell’espiazione, poiché la passione era morta: ma io tremo di spavento, pensando che Iddio l’ha mandata qui. Lei, Lei, Lei, perché non una delle mie fibre non rabbrividisca, perché io non senta che il Rimorso è seduto alla mia tavola e dorme nel mio letto!

— Ella ha peccato, signora? — domandò Hermione con tono grave.

— Ho peccato irreparabilmente.

— Contro un’innocente?

— Contro la più innocente fra le donne, signora.

— Non bisogna peccaredisse, gravemente, Hermione. — Il peccato deturpa, avvilisce e uccide.

— Ah sì, sì, sì! — gridò Laura, tendendo le braccia al cielo.

— Non bisogna peccareripetette Hermione, con tono così solenne che tutta l’anima di Laura fremette, al suono di quella voce.

— Ella era buona, ella era giusta, ella era pura ed è morta, è morta, è morta! — esclamò la plorante creatura bionda le cui sottili vene, oramai, sotto il tenue tessuto trasparente della pelle, non pareva trascinassero più sangue, ma lacrime.

— Chi è morta?

— Mia sorella.

— Le è morta una diletta sorella?

Diletta? Nel peccato, io la odiavo.

— Questa morte, l’affigge tanto?

— No: nel peccato, io ebbi la scelleratezza di goderne.

— Perché non porta l’abito nero, per la morta?

— Perché ne ho sposato il marito, signora, nel peccato.

— Subito dopo la morte?

— Poco tempo dopo.

— Oh ciò è così male, così male! — disse sommessamente Hermione, con quel suo accento sordo e tetro.

— Tutto è male, tutto quello che ho fatto è il Male istesso, signora.

— Ma ella è morta... Dio l’ha chiamata...

— No, Dio non l’aveva chiamata: non era la sua ora: aveva ventitré anni, signora; si è uccisa, signora.

— Si è uccisa? Allora qualcuno l’ha uccisadisse glacialmente e tetramente Hermione.

— Io, signoradisse Laura, aprendo le braccia, scivolando dalla gran poltrona di broccato bianco sul marmo bianco della terrazza, in ginocchio innanzi a Hermione.

— Perché s’inginocchia?

— Per chiedere perdono del mio delitto.

— A me?

— A lei. Son venuta per confessarmi e per chieder perdono.

— Perché a me? — gridò Hermione arretrandosi, levando le braccia, tremando tutta come se dovesse crollare.

— Così. Una voce mi ha detto: «Il castigo non è completo: la espiazione non è completa: va’, va’, va’, e chiedi perdono. Bussa a quella casa che è oggetto di ogni tuo sgomento, avvicinati a quella donna, la cui presenza ti fa gelare, come se tu fossi in agonia; piega la tua testa, piega le tue ginocchia, prostrati e resta prostrata sino a che Ella non ti perdoni». Eccomi, signora: sono qui, inginocchiata innanzi a Lei, io che non volli inginocchiarmi innanzi al cadavere di mia sorella!

— Eppure... era stata uccisa da Lei, la morta... — disse vagamente Hermione, con quella sua voce lontana lontana.

— Ah mi dica che mi perdona!

— Io? Ma non l’aveva Ella offesa crudelmente?

— Io le chieggo perdono, a Lei, così inginocchiata con le mani congiunte, piangendo!

— Io? Ma che le aveva fatto, la povera sorella? Era buona, era giusta, era pura, l’amava, perché darle il dolore supremo?

— Mi perdoni, mi perdoni!

— Io? Io? Io?

— Lei: qui, sono prostrata. Debbo io baciare la terra? Lo farò. Ma mi perdoni.

— Io non posso — disse sordamente Hermione. — Io non ho potere di far ciò. Dio non mi ha detto nulla. Forse, anche la mia anima è ingombra dal peccato. Può perdonare chi è senza colpa. Io... non posso. Si alzi: Sono una peccatrice anche io. Non posso.

— Oh Signore! — fece Laura, abbattendosi al suolo, in un supremo sgomento innanzi alle lugubri parole di Hermione. Poi, balzò in piedi, alta, tutta bianca, stravolta nel viso; si accostò a Hermione, con gli occhi folli.

— Sei tu, sei tu, è vero?

— Che dice? Io non la intendorispose la duchessa di Cleveland, sgomenta.

— Tu sei mia sorella!

— La morta? — chiese Hermione, con una paura orribile nella voce.

— Sì, sì, la morta! Non ti ho io riconosciuta? Tu hai la istessa faccia di quella notte... ti rammenti? di quella crudele notte in cui venisti a svegliarmi, nel mio letto... la istessa faccia convulsa, come allora, come ora... l’istesso tremito, perché tu tremi, vedi... ah, io ti ho riconosciuta, tu sei quella...

— Si calmi, si calmi... — diceva Hermione, veramente tremante, veramente convulsa.

— La tua voce... la tua voce... ah, io non l’avevo mai udita, ma è la sua voce.. Luigi ha ragione, se ti adora e se impazzisce... Cesare ha ragione se è geloso di te, come di una persona viva e se impazzisce di gelosia... Io ho ragione se tremo di spavento e di rimorso, innanzi a te... ho ragione di essere venuta qui, a chiederti perdono... perché tu sei quella.

Pace, pace, pace... — mormorò Hermione, toccando leggermente la fronte e i biondi capelli della sfiorita creatura.

— Ah! — gridò quella — è il tuo gesto... non negare più... non lo negare. — E restò, in piedi, tutta fremente, con gli occhi fissi su Hermione, torcendosi convulsamente le mani.

Dio, fatela quietare! — pregò Hermione, volgendosi al cielo, tutto chiarissimo nella luce plenilunare.

— Puoi negarlo, puoi? — disse la folle creatura, nell’angoscia.

Hermione non rispose. Pregava, forse con gli occhi al cielo, taciturna.

Dimmi... dimmi... dimmi... — balbettava nella sua convulsione, la infelicissima sorella di Anna.

— La prego... taccia... — scongiurò l’altra, poggiando la fronte sull’Evangelio.

— Tu non sei Anna?

— Si plachi... non pronunzi questo nome che la sgomenta...

— Non sei Anna?

— Abbia pietà di Lei... di me... — balbettò Hermione.

— Non sei Anna? Non sei Anna? Non sei Anna?

Preghiamo, preghiamodisse disperatamente Hermione.

La sua mano gelida, tutta coperta di gelide gemme, si distese e prese quella febbrile, ardente della misera Laura; con un lieve moto, tenendone appena le dita, la fece piegare, la fece inginocchiare; ella stessa si prostrò, accanto a Laura. La luna chiariva queste due figure femminili che oravano, una vestita di bianco, ma così consumata dal pianto, così languente, che quel candido abito pareva un funebre lenzuolo: una vestita di bruno, ma con tale impeto di preghiera sulla faccia, che la trasfigurava in una mistica, altissima espressione. Nella notte mite e blanda, al cielo biancastro per il raggio diffuso lunare, le due voci femminili si unirono, nella preghiera: una voce smarrita, di essere perduto nella profonda irreparabile desolazione, e una voce umile, ardente d’invocazione mistica, che pareva volesse vincere il Castigo, l’inflessibile Castigo. Insieme, le due voci muliebri dissero la Salutazione Angelica:

Ave Maria, piena di grazie...

Quando l’invocazione benedicente alla Madre di tutti i dolori fu finita, in un tenue mormorio delle due voci che umilmente e ardentemente oravano, Hermione suggerì :

Preghiamo, preghiamo ancora.

Insieme, con un più umile e più ardente slancio dei cuori, Hermione e Laura dissero l’invocazione al Signore:

Padre nostro, che sei nei cieli...

Così alta e bianca, la luna, nel latteo cielo e così pietosamente tremanti e scintillanti le altissime stelle!

Rimetti a noi i nostri debiti... — disse con un grido, levando le braccia al cielo Laura Dias.

Come noi li rimettiamo ai nostri debitori compì gravemente Hermione, abbassando il capo sul petto.

Insieme dissero, unendosi la piccola mano gelida tutta gemmata alla piccola mano bruciante di febbre:

Così sia.

Si levarono, segnandosi: si sedettero, una rimpetto all’altra, in silenzio, assorte. La pausa del raccoglimento fu lunga.

— Ella è ora più tranquilla? — chiese Hermione, a bassa voce.

— Sì, la preghiera esalta e pacificamormorò l’altra.

— Bisogna pregare molto, bisogna pregare sempre.

Quella la guardò, intenta al consiglio, con gli occhi di un fanciullo timido e trepido.

— Potrò salvarmi sempre, pregando? — e una ansietà era in lei.

— La preghiera non salva dal dolore: ma il vigore spirituale all’anima per sopportarlo. Credo... credo che le sia difficile più esser felice.

— Non mi è dato, più mai — rispose Laura, in una profonda e quieta desolazione.

— Ha detto che nessuno più l’ama? — ed evitò di pronunziare il nome della terza persona che era stata l’anima invisibile di quel colloquio.

— Nessuno, più.

— Né oggi, né mai?

— Né oggi, né mai: il cuore di quell’uomo si è chiuso per sempre, per me.

— E Lei non può amare più?

— Non più.

Fino alla morte, mai più?

— Mai più, mai più — confermò in una pacata desolazione, Laura.

— E allora rinunzi anche all’apparenza del peccato, lasci quest’uomodisse Hermione, con quella sua voce che pareva venisse non da lei, ma dalle lontananze dell’orizzonte, dalle altitudini del cielo.

Laura la guardò coi suoi timidi e trepidi occhi, dove si leggeva.

Rinunzi, rinunzisuggestionò, tristemente, Hermione.

— Ella, rinunzierebbe? — interrogò fiocamente la fragile, la infranta donna.

— Io? Sì. Ho già rinunziatodisse, con una tristezza immensa, Hermione.

— Farò come Lei — e piegò la testa, assalita da una novella onda di sgomento.

— Nella rinunzia può anche esservi una grande poesiariprese pianamente Hermione, ma sempre con quella sconfinata mestizia di chi parla delle cose morte e non può non rimpiangerle — e alla fine vi si trova, forse, una qualche dolcezza.

Alla fine? Ma la vita è assai lunga: e io ho ventitré anni!

— Io ne ho ventiquattro; e ho rinunziato. Ah certo, certo, è infinitamente amaro vivere nel deserto e nel silenzio del cuore, vivere senza speranza e senza desiderio, veder succedersi dei pallidi giorni e delle angosciose notti, senza fiamma, senza calore e senza refrigerio! Ma chi ha abusato della giustizia e della misericordia, chi ha chiesto troppo alla vita, chi ha calpestato la bontà e violato l’innocenza delle anime oneste, chi ha offeso, chi ha tradito, chi ha ucciso, non può che affrontare coraggiosamente questo problema oscuro della Rinunzia. Ah, certo, certo, ci vuole un gran viatico di fede, di pentimento, di umiltà, di preghiera, di pietà per gli altri, di oblio di sé, per vivere tutta, tutta la vita nella Rinunzia!

— Ella ha detto, forse? Non è sicura che si raggiunga, così, la pace e la dolcezza?

— Non ne sono sicura. Ignoro... ignoro anche io la fine. Io spero: spero che dopo la purificazione nelle lacrime e nella solitudine, venga la quiete e la dolcezza. Lo spero!

Speriamo! — disse Laura, desolatamente.

— Altrimenti la vita sarebbe una cosa miseranda e spregevoledisse tetramente Hermione. — Speriamo.

— Ah, io non troverò la forza, per compire il mio destino! — proruppe la infelicissima creatura. — io sono troppo debole: io chiederò alla morte la liberazione.

Credete voi che la morte sia una liberazione? — domandò Hermione, guardandosi intorno mentre parlava pianissimo, quasi le parole dette fossero l’espressione del più impenetrabile mistero,

— Che dice? — gridò Laura, indietreggiando, mettendo le mani innanzi come se chiedendo, non volesse, poi, né udire, né vedere più altro.

— Nulla, nulla.

— Ha parlato di morte? Che ha voluto dire?

— Nulla.

— Ha detto che la morte non libera, è vero, è vero? Lo ha detto?

Dimentichi quello che ho detto; fu una parola pronunziata in sogno.

— In sogno?

— Sì: parlo, talvolta, come se sognassi.

— Ah, io ho tanta, tanta paura di lei! — esclamò la infelicissima, con un impeto che le sgorgava dal cuore.

— Presto non avrà più pauradisse la duchessa di Cleveland.

Dovunque la vedrò, dovunque c’incontreremo, avrò paura, come ogni volta, come sempre, è impossibile che io domini il mio terrore, è più forte, è più alto di me!

— Lei non mi incontrerà più; non mi vedrà più.

— Lei è il mio Castigo, io non potrò fuggirla.

— Io fuggo.

Parte?

— Sì.

— Quando parte?

— Fra un’ora.

Dove va?

— Non lo so.

— Non lo sa?

— Lo saprò forse più tardi, in alto mare.

— In alto mare?

— Venga — disse Hermione, conducendo Laura presso la bianca balaustra, a picco sul mare.

E le indicò, con la mano, una linea sul mare, non molto lontana dalla riva di Posillipo.

Vede quella nave tutta bianca, su cui già batte la luna? Io partirò con quella nave, fra un’ora. È la mia nave: me la donò il duca di Cleveland nel giorno delle nostre nozze. È il mio bello yacht su cui posso viaggiare nei mari più difficili e più tempestosi, su cui posso restare sei mesi, un anno, navigando sempre, approdando talvolta, ma non scendendo mai a terra. Il mio bello yacht mi segue, dovunque io vada: se sono in un paese interno approda nel più vicino paese di mare e aspetta colà i miei ordini, anche sei mesi: se sono in una città di mare, approda in un seno isolato e deserto, pronto a partire sempre, da un minuto all’altro. Vede questa barca, quaggiù, ormeggiata alla scalinata di marmo? Vi scenderò fra un’ora: essa mi condurrà alla mia bianca nave e senza rientrare in Napoli, senza esser vista, senza esser seguita, io sparirò con essa. Fuggita, scomparsa, dileguata, Hermione Darlington, duchessa di Cleveland, essa e la sua Chimera.

Laura la guardava, con occhi pieni di una dolorosa stupefazione.

— La mia nave si chiama «La Chimera» — soggiunse Hermione, lentamente.

Torna al suo paese, è vero?

— Forse... forse ci ritornerò... forse.

— Sia dunque felice il suo viaggio!

— Il mio paese è tanto freddo... — disse vagamente Hermione, parlando come in sogno.

Felice il viaggio, felice la dimora!

— Il mio paese è tanto buio...

— L’allietino, alla fine, la pace e la dolcezza!

— Il mio paese è infinitamente triste... — e la voce di Hermione pareva un soffio.

— Qualcuno la seguirà, laggiù... — proruppe Laura, nuovamente trambasciata.

— Qualcuno?

— Qualcuno che l’ama.

— Nessuno mi ama, signora.

Luigi Caracciolo l’adora, signora.

— No, ne adora un’altra.

— Vi seguirà, per quest’altra... e colui che è geloso di quest’altra verrà anche lui...

Luigi non verrà, io gli faccio orrore.

— Come a me, come a me!

— Come a lei. La sola persona a cui non faccio orrore, è Cesare...

E il modo e il tono con cui quel nome fu finalmente pronunziato da Hermione, alla fine di quel colloquio, fu così bizzarro che sul volto di Laura già tanto pallido, così trasparente, si distese uno strato di pallore mortale. Non resse: si levò.

Addio, signoradisse, fievolmente, con le palpebre abbassate.

Addio, signoradisse Hermione, levandosi anche lei.

Ma Laura non resse: tese le mani e, chinandosi, fece per inginocchiarsi innanzi a Hermione. Quella glielo impedì, subito. Guardandosi negli occhi, i due volti si avvicinarono, e le labbra rosse e glaciali di Hermione baciarono quelle smorte e ardenti di Laura.

Obbediròdisse Laura, dopo il bacio, umilmente.

Se ne andò con un passo incerto, col capo basso, trovando istintivamente la via verso la porta-finestra donde emanava una luce rossastra. Hermione, senza seguirla, la guardava andar via. Quando Laura fu sulla soglia, ella le disse, da lontano:

Laura, si ricordi che abbiamo pregato insieme.

Quella si voltò e di nuovo parve, nel raggio lunare, più bianca, più alta, più sottile, consunta e sfinita, con le vene che portavano lacrime, invece di sangue. Supremamente, si guardarono: per sempre, si lasciarono.

.   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .

In inglese, lady Hermione dava le sue istruzioni ultime al suo fedele servo d’Inghilterra, che non lasciava mai e a cui ella affidava le missioni di massima delicatezza. Ella partiva, dunque: egli sarebbe restato ancora due giorni a Napoli a dare la consegna di villa Alba al suo proprietario. Tutto ciò che apparteneva, nella villa, a lady Hermione e che era rimasto indietro fino all’ultimo momento, poiché ella non sapeva farne a meno, il servo lo avrebbe raccolto e portato via, per terra, sino a Genova, e di a Gibilterra, dove il servo si sarebbe fermato ad aspettarvi la Chimera, un mese, due mesi, sei mesi, quando la Chimera vi fosse giunta, e, immancabilmente vi doveva giungere, quando che sia. Però, il servo non doveva dire questo nome di Gibilterra a nessuno che si presentasse a chiedere notizie di lady Hermione e della sua destinazione, nei due giorni che egli sarebbe restato ancora a Napoli. Quello ascoltava, imperturbabile, nel suo correttissimo atto di ossequio e di acquiescenza: Hermione sapeva ch’egli avrebbe obbedito, sino allo scrupolo.

Ella soggiunse, al servo che l’ascoltava nel più perfetto silenzio, ma con gli occhi intenti, che in quei due giorni in cui egli restava ancora a Napoli, a chiunque si fosse presentato per chiedere della duchessa di Cleveland, egli doveva rispondere che Sua Signoria era partita a bordo della Chimera, per ignota destinazione; e ove fosse lasciato qualche biglietto, qualche lettera, egli l’avrebbe portata a Gibilterra. Poi, pian piano, aggiunse un’altra istruzione, per un caso più imminente. Il servo rispose, in inglese, che aveva inteso tutto perfettamente, e che tutto avrebbe eseguito. Poi salutò e sparve, sentendo che Sua Signoria non aveva nessun altro ordine da dargli. La duchessa di Cleveland restò sola, nel suo salone, seduta presso il suo tavolino, con le mani abbandonate sul piano di legno e gli occhi bassi. Sotto il gran paralume di seta trasparente rossa, la gran lampada centrale del salone, sorgente da uno stelo di bronzo, dava una ricca luce che si faceva di un rosso vivo, un po’ abbagliante, gittando sui mobili una vivacità alquanto singolare e colorandoli bizzarramente. La duchessa di Clevelad due o tre volte levò gli occhi, li fissò sugli oggetti immobili e inanimati che la circondavano, come se volesse per sempre imprimersene nella memoria ogni linea, ogni tinta. Innanzi a lei era aperta una cartella di cuoio bruno, impresso a fantastici animali d’oro e vi erano dei foglietti di carta e delle buste, quelle buste lunghe e strette, che ella sola usava, su cui scriveva con quella sua forma di lettere quadrate, così squisitamente esotiche. Invero, sempre che i suoi dolci e fieri occhi donde era scomparsa ogni dolcezza e ogni fierezza, dove non era restata che la infinita tristezza delle cose morte, si chinavano sulla carta, vaganti, smarriti, il pensiero di scrivere li attraversava e la mano già andava alla penna d’avorio, dove era scolpita una Chimera alata. Ma subito quel desiderio s’immobilizzava: e la penna restava abbandonata, accanto al calamaio di un sol vivido frammento di cristallo di rocca, riempito di un inchiostro rossastro: nella fisonomia della duchessa, immobilizzato il desiderio, si diffondeva l’espressione di uno spasimo interno, poiché erano forse le parole di addio che pensava e che non scriveva, quelle che la facevano spasimare. Adesso, seduta, pareva così piccola, così piccola, tutta sola, in quella vasta stanza, su quell’ampio seggiolone di broccato oscuro, ferma, taciturna, soffocante anche le estreme parole di saluto, che salian dall’anima, desolatamente. Così piccola, così diminuita, così perduta di tutto, colei che se ne andava, sola, pel mare, sopra una nave diretta a un porto ignoto! Ed ella doveva sentire la sua piccolezza, in quell’abbandono in quella solitudine, poiché si raccoglieva, adesso, con le braccia strette alla cintura, con la testa china sul petto, desiderosa di esser più piccola ancora, di occupare il minore spazio possibile, come se, simile alla Portia di Shakespeare, la terra fosse troppo greve al suo piccolo corpo. Passò qualche tempo, così, immiserita, quasi tremante di freddo nel suo vestito e nel suo mantello di seta amaranto: e nelle sue mani intrecciate, le sue dita gelide che posavano sulle fredde gemme dell’altra mano, ricavavano un senso di più profonda glacialità. L’ora fuggiva sul capo della piccola, solitaria e gelida creatura, a cui l’amore non aveva voluto concedere le sue belle fiamme divoratrici: e come il freddo la intorpidiva ed ella si sentiva piccolissima, miserrima, ridotta a una fioca forma di esistenza, pensò che forse così la poteva cogliere la morte. Non voleva ciò. Reagì contro questo assideramento, con uno sforzo violento, come coloro che resistono al sonno sulle vette delle Alpi, dove sono le nevi eterne, poiché quel dolcissimo e profondo sonno è la prima ora della morte. Si levò, fece qualche passo. Di nuovo, levata la testa, in piedi, tutta chiusa nelle ieratiche pieghe del suo vestito e del mantello, rigida quasi, parve di nuovo alta e forte, forte contro la Sorte, sovra tutto forte contro se stessa. Col suo passo che scivolava sul marmo del salone, senza nessun rumore, essa fece il giro di quella stanza dove aveva passato vani mesi della sua esistenza, sognando, sognando di vivere, sognando di amare. Si accostò a ogni mobile un minuto, toccò ogni piccolo oggetto con le dita, lievemente, come una carezza, come un saluto: l’ombra oscura andava, fra quella luce rossastra, dividendosi in silenzio da tutto quello che l’aveva circondata, e che ella aveva amato, con quella intensa simpatia con cui si amano le cose, da chi ne intende la beltà e la simpatia. Ella passò nella sua stanza da letto, dove appena entrava un riflesso della luce rossa del salone, a traverso le tende; e l’ombra oscura si curvò sull’origliere bianco, baciandolo. Colà aveva sognato, sognato di vivere, sognato di amare. Un piccolo bacio fuggitivo, mentre il corpo già pareva si volesse abbandonare, su quel letto, al singhiozzo, al pianto. Tornò indietro, passò ancora per il salone; e vi si arrestò un momento, nel mezzo, lasciando venire a sé tutte le memorie: poi uscì sulla terrazza per andarsene, per partire.

Era l’ora più tarda, e la luna più alta, piegante verso l’arco del cielo, a dritta. Il gran cono d’argento, sul mare, si era fatto più lungo, più sottile, di un più fine argento. La Chimera, tutta bianca con un fanale rosso acceso, con la piccola bandiera ammainata dove, sul bianco, era ricamata in nero, una grande H, in segno che Sua Signoria era a bordo, si era avvicinata per quanto più poteva, a villa Alba; ma ancora la divideva un lungo tratto, che sarebbe stato percorso dalla piccola barca bianca, ormeggiata allo scalo di marmo, dove, sul mare, finiva il giardino di villa Alba. Tutto era pronto per la partenza; ma la duchessa di Cleveland indugiava ancora, come se volesse respingere il confine dell’ora, che urgeva.

Era andata due volte sino alla scala di marmo che conduceva al giardino, per partire; ma non ne aveva toccato il primo scalino ed era tornata indietro, chiamata da non so quale cosa obliata. Si buttò a sedere, sopra una di quelle chaises-longues di broccato bianco, più che seduta, sdraiata, coi piedi uniti, su cui cadevano le pieghe diritte della veste, con le braccia alzate e le mani congiunte dietro la testa, con gli occhi chiusi, con la faccia rialzata e la bocca serrata di chi frena un forte impeto di sentimento. Alta la luna, su quella figura oscura, solitaria, deserta, in quella villa bianca, su quella sedia bianca e fredda, su quegli occhi chiusi e su quella bocca dolorosa; alta e purissima, nella notte di primavera!

Non forse, anche una volta, l’invadente torpore del freddo, della solitudine, dell’abbandono aveva vinto la donna lasciatasi andare sul bianco giaciglio, al chiarore candido e sconsolato della luna? Non forse, anche una volta, più gelidi, più fitti, più avvolgenti, ella intese i veli tenui e pur tenaci di un sogno esiziale, mite ed esiziale, circondare la sua persona e la sua anima? Non forse, più dell’altra volta, ella sentì mancare ogni sua virtù, in una sconsolazione letargica, in un sopore rassegnato della volontà? E certo, dovette essere un impercettibile rumore quello che a traverso quei veli di sogno, gelidi e micidiali veli, giunse all’orecchio di Hermione: un suono lontanissimo e fievolissimo di orologio, un rotolio sordo di carrozza sulla via di Posillipo, o una voce umana parlante lontano, su qualche altra terrazza, in un giardino, sulla riva del mare: o forse, nessuna voce umana, ma il segreto appello interiore di ciò che mai non dorme, in noi. Hermione lasciò il suo giaciglio, rialzandosi con lentezza, come se quel breve riposo ne avesse maggiormente fiaccate le forze: si passò le mani sugli occhi, quasi a diradarne la nebbia torbida che li velava. E, pianamente, andò innanzi al leggìo dove stava aperto il grande libro di pergamena, dai grossi caratteri neri e rossi, dal segnalibro di nastro rosso: l’Evangelio di Giovanni. Ella lesse, pianamente, pianamente, le ispirate, profonde, vibranti parole con cui il più ardente e il più nobile fra gli Evangelisti narra la storia del Redentore, e ciò che pensò, e ciò che sentì il Redentore. Hermione leggeva attentamente, levando la mano, ogni tanto, per voltare il foglio gialliccio della pergamena, posandovi pacatamente il nastro del segnalibro, per continuare la sua lettura.

Ogni sera e ogni mattina ella leggeva gli Evangeli, così, per poco, a caso, cercando nella parola del Sacro Libro qualche intimo rapporto con lo stato suo morale e trovandovi sempre una luce limpida che le indicava la via. Che le disse, in quella sera, innanzi ai cieli teneramente stellati, sotto il raggio della luna, l’estatico Evangelista dalla fantasia fervida di visioni, dal cuore traboccante di fede? Quale fu la parola? Ella si segnò: chiuse il libro sul leggìo: baciò la croce, sul cuoio bruno della coperta, e sull’Evangelio serrato restò, di fuori, come una traccia purpurea, il segnalibro, fatto di un nastro rosso.

Hermione andò. Senza voltarsi indietro, senza affrettarsi, ma senza dubbiezza nel passo, ella percorse tutta la terrazza di marmo bianco, nella sua lunghezza. Aveva rialzato sulla testa, sui neri capelli, il cappuccio di seta amaranto che era attaccato al mantello; e ora si vedeva solo il viso bruno e l’onda nera dei capelli rialzati, incorniciati nella loro custodia di seta: claustrale figura che non aveva più la mollezza, l’ondeggiamento seducente dei corpi femminili; figura claustrale scendente per gli scalini di marmo bianco, lungo la balaustrata, con quella rigidezza monacale, dove già trionfa la morte della carne, la morte del sesso. Se ne andava, Hermione, senza dare più uno sguardo, un sospiro, un sorriso alla cara casa, alla diletta casa, dove aveva vissuto sognando, sognando di vivere, sognando di amare. Scendeva, sola, senza che niuno la salutasse, senza che ella salutasse niuno, poiché è così inutile l’addio della parola quando l’inesorabile addio è già sorto, inesorato, dalle cose finite, dalle cose morte. Ella si fermò nel giardino; un grande boschetto di oleandri vi era tutto fiorito; ed eran fiorite delle siepi di rose, tutte fragranti, in quella notte di primavera. Hermione non colse le rose: ma spiccò due o tre rami di oleandro, il roseo fiore così bello, così amaramente odoroso, contenente nella sua bellezza un tossico mortale. Quei ramoscelli dalle sottili e acute foglie verdi, di un color triste di bronzo vecchio, eran carichi di fiori ed eran bagnati dalla brina notturna. Hermione li odorò, quei fiori d’amore, che chiudono un veleno invincibile e fatale: lasciò anche il giardino, portandosi via quei rami. Come ella apparve sulla scalinata bianca dell’approdo, claustrale nelle pieghe della sua veste e del suo mantello d’amaranto, sotto il claustrale cappuccio, tenendo nelle mani i fiori degli oleandri, la barchetta bianca si mosse, al movimento dei due rematori inglesi, che aspettavano da due ore, e si avvicinò allo scalino, mentre uno dei due rematori si levava in piedi, per aiutare la duchessa a passare dallo scalino di marmo alla poppa della barchetta. Sua Signoria entrò nella barca, l’attraversò e si sedette a prora, di fronte a villa Alba, guardando il giardino, la terrazza e la casa. La barchetta era nel lunghissimo e sottile cono d’argento che formava il raggio della luna, sul mare. I rematori, coi remi sospesi, aspettavano un ordine di Sua Signoria.

Go — ella disse, a bassa voce, in inglese, senza levare gli occhi da villa Alba, mentre le sue mani stringevano i ramoscelli fioriti e ruvidi degli oleandri.

La barchetta si staccò dall’approdo, e, con un moto giusto ed alterno, navigò verso la Chimera, portando via Hermione. Passava, tagliandolo, nel raggio della luna, direttamente, facendo vieppiù tremolare, dietro a sé, tutto quello scintillìo di liquido argento, finissimo.

Nel momento che Hermione metteva il piede sulla poppa della barchetta, lassù, sulla via di Posillipo, si udiva veramente l’approssimarsi di una carrozza, un rotolìo sordo che andò sempre aumentando: la carrozza passò sopra uno di quei ponti che accavalcano le verdi valli del Capo, scendenti così dolcemente, in una gran ricchezza di fioritura, dalla collina al mare, riprese la via maestra, si fermò innanzi al cancello superiore di villa Alba. Un giovane scese dalla carrozza e, dopo aver esitato un minuto, suonò la campana. Il custode della villa uscì dalla sua casetta bianca e venne ad aprire il cancello, senza dir parola. Il giovane trasalì. Da una settimana veniva, tre o quattro volte al giorno, a bussare a quel cancello, e giammai gli si apriva, dicendogli il custode, attraverso le lance del cancello, che Sua Signoria non riceveva, respingendo persino la carta di visita, qualche biglietto scritto , in fretta, con cui il giovane scongiurava Hermione che lo ricevesse, solamente per un minuto. Quella sera, bizzarramente, come se il suo scomposto e smarrito desiderio avesse trovato il motto per far schiudere quella serratura, il cancello si spalancò ed egli ebbe, innanzi a quel gran viale verde che inclinava alla villa, un tremito di commozione. Domandò, per meglio accertarsi:

— Sua Signoria riceve?

— Sì, Eccellenzarispose il custode, richiudendo il cancello. Luigi si pose per il viale, sentendo crescere la sua emozione. Conoscevabene quella strada, fra gli alberi, tutta fresca nella notte, poiché l’aveva percorsa tante volte venendo da Hermione e tante volte insieme, con Hermione, tornando da una delle lunghe passeggiate che facevano insieme: e pure la nota via, così cara, così diletta, percorsa sempre con una divina speranza al cuore, non ebbe potere, con le sue ombre, con la sua frescura, di ridargli la calma. Rallentava il passo; tentava di raccapezzare qualcuno dei lunghi discorsi di amore e di dolore che aveva composti, per dirli a Hermione, quando ella gli avesse nuovamente spalancato i cancelli della sua villa; discorsi concepiti nella foga dolente dell’abbandono in cui ella lo aveva lasciato, nel bosco di Capodimonte, nella tetra vallata degli ontani, mentre la folla poco lontana vivamente gioiva nella lietezza del garden party; discorsi eloquenti di passione e di tristezza, che tutti convergevano al solo, unico bisogno di non perderla. Adesso, nel viale, camminando verso il bianco edificio che era villa Alba, non se ne ricordava più nessuno; quello spalancamento impensato, non sperato di cancelli gli aveva fatto disperdere ogni idea. Che le avrebbe detto? Che cosa offrirle, che cosa chiederle? Non sapeva più: era perso. Era bastata quell’apertura di porte, quella libertà di vedere Hermione, quella imminenza crescente della invocata visione, perché egli cadesse nello smarrimento mortale che lo soggiogava, accanto a lei. E in uno spasimo di disperazione, sentendo che egli non avrebbe trovato né una frase né un motto per poterle parlare, sentendo che egli avrebbe ancora avuto quell’immenso e implacabile sgomento della prima volta e delle ultime volte, ebbe un proposito disperato: cioè quello di prendere quella donna fra le braccia, appena entrato, senza parlare, senza udirne la voce, senza guardarne il volto, chiudendo gli occhi, stringendola, baciandola, prendendola bruscamente, brutalmente, come per un’avventura galante, quando il tempo stringe e le porte sono aperte. Chiusi gli occhi, prenderla, era il rimedio di Pietro Tornabuoni, rimedio volgare, basso, ma pure umano, ma in fondo al quale vi doveva essere la salvazione. Ora, già, mentre entrava nella villa, dal gran viale, salendo i quattro scalini del peristilio, sentiva vanire, vanire la sua selvaggia decisione: e quando il servo inglese, nell’anticamera, si avvicinò a lui, per prendere il suo bastone e il suo cappello, Luigi pensò:

— Forse, non ne avrò il coraggio...

E ad alta voce, domandò, di nuovo, quasi che non credesse a se stesso:

— La duchessa riceve?

— Sì, Eccellenza.

Di nuovo, a quell’affermazione, Luigi sentì cadere ogni sua risoluzione. Avrebbe parlato... sì, il parlarle non lo sgomentava, voleva parlarle soltanto, per pregarla che ella non lo lasciasse, non lo abbandonasse, così, poiché gli era impossibile di vivere senza lei. Avrebbe trovato una parola, specialmente se Hermione non lo guardava troppo, nascosta dietro quel leggero ventaglio di velo stellato, dietro cui celava il volto, spesso, quando erano insieme. Una parola, per farla restare! Il salone dove avevano passato tante e così dolci ore, accanto, era deserto: ma Hermione, talvolta, lo lasciava aspettare, lo trattava come un amico intimo, come un innamorato. Pure, a malgrado di quella vivida luce rossastra, egli ravvisò attorno a sé non so quale tristezza. E che Hermione non venisse, gli dava un’agitazione singolare. Forse, ella era sulla terrazza? Vi uscì. Deserta la terrazza. Chiuso il volume dell’Evangelio, sul leggìo. Un’atroce stretta al cuore gli impedì il respiro, innanzi a quel libro serrato. Egli ebbe la forza di rientrare nel salone: deserto. Conosceva bene la topografia della casa: fece capolino, con l’audacia dell’angoscia, alla camera di Hermione, dove si proiettava un poco di luce rossastra del salone: vide che la camera era deserta. Uscì nuovamente sulla terrazza, andò su e giù follemente, come se ella potesse nascondersi, su quella larga terrazza bianca, tutta chiara di luce lunare. Guardò a fondo, nel giardino. Ella vi discendeva, nelle belle sere, ogni tanto; vi erano anche discesi insieme. Ah, che terrore, che terrore lo teneva, girando come un pazzo, dal salone alla bianca loggia, dalla loggia al salone, non sapendo che fare e che dire, terrorizzato da quel silenzio e da quella solitudine, sentendo la immensa tristezza dell’ambiente. Infine, soffocato di angoscia, suonò il campanello del salone. Il servo inglese si presentò:

— Avete avvertito Sua Signoria che sono qui?

Il servo lo guardò, ma non si permise di sorridere.

— L’avete avvertita? — domandò, con voce concitata, Luigi.

— No, Eccellenza.

— E perché?

— Perché Sua Signoria non vi è.

— È uscita? Non mi diceste che riceveva?

— Tali furono gli ordini.

— È uscita? Debbo aspettarla?

— Sua Signoria è partita.

— Che dite? — gridò Luigi, prendendo il servo per un braccio, e scrollandolo.

— Sua Signoria è partita, Eccellenza.

— Non è vero! — gridò il disperato.

— Così è, Eccellenza.

— Non è possibile.

— Sua Signoria è partita.

— Ma quando? Ma quando?

— Non è passata un’ora.

— Non è vero: avrei incontrata la sua carrozza, per la via.

— È partita per mare.

— Come, per mare? Che dite, per mare?

— Lo yacht di Sua Signoria era qui da otto giorni, dirimpetto alla villa. Sua Signoria è scesa per la scala del giardino, all’approdo: una barchetta l’ha condotta a bordo della Chimera.

— Non capisco... non capiscodisse il disperato.

— La Chimera è ancora qui, forse: Vostra Eccellenza può vederla dal terrazzo.

Luigi si slanciò fuori. Lontano, nel raggio della luna, lo yacht bianco pareva una nave d’argento, dal sartiame sottile di metallo fine.

— Non è partita, non è partita! — e si spenzolava sulla balaustra, quasi volesse spezzare il muretto.

— Sta salpando, vede, Eccellenza?

Difatti, la nave d’argento descrisse lentamente una curva, abbandonò lo spazio di mare illuminato dalla luna, apparve nera con un piccolo fanale rosso.

Hermione! Hermione! Hermione! egli urlò, tendendo le braccia alla Chimera, che si portava via l’amor suo.

Parve, o forse veramente, un’ombra femminile ritta sulla nave, guardava a villa Alba? Ancora, mentre la Chimera filava più rapidamente, allontanandosi, il nome di Hermione uscì cento volte dal petto all’infelice, disperatamente, desolatamente, come se avesse potere di fermare la navicella che fuggiva. La voce si arrochì, si affiochì, l’uomo si buttò sulla balaustra di marmo, annientato. Il servo, muto, guardava e udiva, senza che nei suoi occhi passasse una sola espressione.

A un tratto, in quell’abbattimento desolato dove soltanto il nome di Hermione, ripetuto con un appello lamentoso, come un gemito fioco, dava il segno della vita in Luigi, a un tratto, in quel languore dolente, sorse una volontà irresistibile di non lasciar fuggire l’amor suo. Si levò, corse alle scale che davano sul giardino, le discese a metà; lo arrestò la voce misurata e rispettosa del servo inglese:

— Che vuol fare, Vostra Eccellenza?

Raggiungere la Chimera... con una barca... — gridò, quello, dalle scale.

— È impossibile raggiungere la Chimera, con una barca: è già troppo lontana.

— Con la barca di Hermione... voglio raggiungerla...

— La barca apparteneva allo yacht; l’hanno sollevata e sospesa al fianco della Chimera: è partita insieme.

— Con un’altra barca... con un’altra...

— Non ve ne sono qua intorno, Eccellenza: sino al palazzo di donnAnna, non ve ne sono.

— È vero... è vero — egli annuì, affranto di nuovo, risalendo con uno sforzo, i pochi scalini che aveva fatti.

E con gli occhi intenti, ardenti, si mise di nuovo a guardare lo yacht che diventava sempre più nero e più piccolo, nella lontananza.

— O Hermione, Hermione, Hermione... — mormorava con un lagno continuo, come quello di un bimbo.

Di nuovo, una insopportabilità di quella fuga sollevò la sua volontà.

Dove va la Chimera? — chiese al servo che aspettava, impassibile, correttissimo.

Quello non gli rispose.

— Non posso raggiungerla stanotte, la raggiungerò domattina: ditemi; dove va, ditemelo!

Il servo fece un gesto vago, largo: niente altro.

Sentite, sentite, è urgente, è necessario che io raggiunga la Chimera: tanti guai, tante disgrazie possono accadere... non sapete... ditemi, dove va?

— Io non lo so, Eccellenza.

— Come, non lo sapete? Siete il servo fedele di Sua Signoria e non lo sapete? Via, ditemelo: nulla vi accadrà per avermelo detto...

— Io non lo so.

— Lo sapete, lo sapete di sicuro e me lo dovete dire... è meglio dirmelo, capite... è meglio che io lo sappia.

— Vostra Eccellenza può comandarmi in tutto... ma io non so dove va la Chimera.

— Ve ne prego... ve ne prego... ditemelosupplicò l’infelicissimo, a quel servo.

— Mi è impossibile il dirlo a Vostra Eccellenzadisse recisamente il servo, ma senza scortesia. Vi era, piuttosto, nella recisione, il desiderio di sollevare Luigi da quella scena penosa.

— Ve lo ha proibito lei, è vero?

— Io non so dove è andata Sua Signoria: ma se lo sapessi ed Ella me lo avesse proibito, per nulla lo direi, Eccellenza.

— Ve lo ha proibito?

Eccellenza, io non so nulla.

Intese, finalmente, Luigi che non avrebbe tratto niente da quel servo: si sentì umiliato e vinto. Hermione aveva tenuto la sua parola del bosco di Capodimonte. Partiva, senza un motto di saluto, senza un addio, senza lasciar traccia, cancellando ogni segnale della sua presenza, mettendo fra sé e l’infelice amante pauroso, lo spazio del mare e la ignota destinazione. Spariva, indignata, certo, contro colui che per un anno aveva detto di amarla, mentre non amava che il pallido fantasma della morta, risorgente dalla sua tomba di Poggioreale. Spariva: sprezzando, certo, colui che non aveva potuto vincere l’oscuro sgomento che gli veniva da lei, sprezzando colui che non aveva saputo valersi del dono divino dell’amore. Non un saluto: spariva. E una ribellione contro se stesso, contro il destino, lo morse, lo esaltò.

— Voi non volete dirmi dove è andata la Chimera, vi capisco: o non lo sapete, o vi hanno proibito di dirlo. Ma io partirò, io son libero, io la cercherò dovunque, la Chimera, una nave si trova, io la troverò...

Credo che sia inutile, Vostra Eccellenza.

— Come, inutile? Inutile?

— Così ha detto Sua Signoria.

— Che ha detto?

— Ha detto, pensando: tanto, sarebbe inutile che egli raggiungesse la Chimera.

— Questo vi ha detto?

— Questo.

— Per ripetermelo?

— Per ripeterlo a Vostra Eccellenza.

Inutile?

Inutile, Eccellenza.

— Questa parola, propriamente? In inglese? Proprio questa? Non vi sbagliate?

— L’ha pronunziata in italiano: ed era la parola inutile.

— Sua Signoria aveva ragione egli disse, glacialmente, disperatamente.

Così, dunque, tutta la sua invincibile paura, in una parola immensamente triste, gli veniva rinfacciata, senza asprezza, tristemente, anzi, con un infinito rimpianto di anima femminile delusa. Ah, egli era venuto per otto giorni a bussare a quella porta, scongiurando per entrare: ma se ella si fosse mostrata pietosa, prima, lasciandolo entrare, sarebbe stato inutile, sarebbe stato come sempre, un bizzarro e doloroso dissidio fra l’amore e il terrore, fra l’uomo e il fanciullo. Egli aveva cercato lady Hermione dovunque, per parlarle, per supplicarla in ginocchio, di non abbandonarlo: ella non era apparsa, in nessun posto: ma se anche avesse potuto rivederla, in una casa, o in una strada, in una chiesa, o in un museo, sarebbe stato inutile, egli non le avrebbe balbettato che quelle ardenti parole attraversate, ogni tanto, dal gelido soffio di uno sgomento che nulla valeva a diradare. In quella sera era giunto alla villa in preda a un dolore vivissimo, volendosi uccidere innanzi a quel cancello che non si apriva più per lui: ecco, il cancello si era aperto ed era stato inutile, tutto il suo ardore era crollato, innanzi a quella facilità di vedere Hermione. Adesso, adesso ella era partita e con disperate voci egli la chiamava, dal terrazzo, le tendeva le braccia, la invocava, voleva seguirla, cercarla, ritrovarla... a che? Se per un miracolo novo dell’amore, la Chimera fosse ritornata indietro, e la bianca barca avesse deposto sull’approdo di marmo bianco la snella e seducente figura di Hermione Darlington, avvolta nella sua veste di amaranto, che cosa avrebbe saputo dire e fare colui che l’amava di nuovo? Nulla, ahimè, nulla! Egli l’avrebbe amata, l’avrebbe temuta, l’avrebbe adorata e avrebbe provato un fremito di ribrezzo udendola parlare di «altri tempi»: l’avrebbe baciata, nella follia della sua passione, ma quelle labbra lo avrebbero agghiacciato. Ecco, ecco, ella aveva ragione, la donna che era fuggita, per sempre, lei e la sua Chimera; aveva ragione di fuggire, senza lasciaresaluto, né traccia: aveva ragione di lasciargli detto, da un servo, che, tanto, «era inutile» che egli raggiungesse la Chimera. Inutile, inutile, inutile. A che aveva amato Anna Acquaviva? Quella era morta per un altro. A che amava Hermione? Il fato si burlava di lui, rendendo inutile, per la seconda volta, la sua passione.

— Sua Signoria aveva ragionedisse di nuovo, al servo, con una voce fievole.

Si sedette sovra una di quelle poltrone a sdraio.

Resto un poco, qui — riprese poi, con voce anche più fievole. Il servo s’inchinò e sparve. Luigi restò seduto, con la faccia fra le mani: ogni tanto, levava la testa e guardava ancora, all’orizzonte, lo yacht che diminuiva sempre di dimensioni. In cuor suo, ancora il nome di Hermione gli saliva alle labbra in onda di disperato affetto; ma la voce di quello che non può mai tacere in noi, gli diceva, subito: A che la chiami? È inutile.

Egli riabbassava il capo, oppresso per sempre da una fatalità che lo colpiva nelle sorgenti istesse della vita. Poi, un’acuta puntura lo trafisse, lo fece balzare da quella sedia, girando per la terrazza, rientrando in salone, rientrando nella camera di Hermione, vagando dovunque, fermandosi dovunque, con un affanno crescente. Cercava se ella, partendo, veramente non gli avesse lasciato nessun saluto, se veramente quella triste, crudele, profonda parola detta a un servo, fosse stato l’unico e ultimo ricordo che Hermione gli avesse lasciato, sparendo per sempre. Niente altro, niente? Cercava, macchinalmente, prima senza quasi vedere i mobili presso cui si fermava, senza quasi vedere gli oggetti che toccava con le mani: poi, ritornandovi con più ansiosa attenzione, avendo negli occhi l’angoscia della inutile ricerca. Nulla, nulla, non un rigo di lettera, non una parola scritta sovra una carta, nulla, nulla, il disdegno assoluto, l’assoluto disprezzo! Eppure, per un anno, ella lo aveva accolto, a Firenze, a Roma, a Napoli: lo aveva udito parlarle d’amore, senza offendersene, bizzarramente audace, bizzarramente riservata, bizzarramente tenera: egli aveva ben visto, al fuoco della sua passione, lentamente e stranamente infiammarsi la misteriosa anima di Hermione: ella gli aveva detto che lo amava, con la sua voce così grave e toccante nella sua pronuncia straniera; ella aveva lasciato che Luigi a poco a poco prendesse tutto il suo tempo, tutta la sua vita; ella gli parlava di amore, come un’amante e quando egli, perduta la testa nell’ardore del sangue giovanile, la stringeva fra le braccia, ella non si rifiutava, essa lo guardava, coi suoi grand’occhi distratti e vagabondi, pieni dell’intensità dell’attesa, e impallidiva Hermione, come la donna che sente il supremo appello della vita... Sì, sì, tutto questo non era un sogno, quella donna lo aveva amato, così, non era un sogno, ed Hermione lo aveva amato. Che profondo, insanabile, disperato rimpianto, lo teneva, pensando alla fatalità di questo amore perduto, di questo amore che era la sola sua ragione di vivere e che era sparito, laggiù, con la Chimera che si dileguava nello spazio! Che rimpianto, che rimpianto di cui niente e nessuno, giammai, avrebbe potuto consolarlo! Pure, Hermione era partita senza salutarlo. Sul grande tavolino dove ella soleva scrivere le sue lettere, con quella calligrafia quadrata, simile a certi caratteri esotici, non erano stati toccati i foglietti e le lunghe e strette buste: aprì uno per uno ogni foglio, cercò in ogni piega della cartella di cuoio bruno, a fantastici animali d’oro, impressivi sopra nella foggia spagnuola. Nulla: non gli aveva scritto. Ma lo amava ella, veramente? Se lo amava, perché se ne era andata, senza dargli l’estremo saluto? Quando si ama, non si parte così. Certo, per un anno, ella aveva dovuto sentire ogni giorno diventare più alto, più terribile l’ostacolo che li divideva: certo, nel bosco di Capodimonte ella gli aveva detto la grande verità e si era divisa da lui, per sempre: ma se lo amava, se lo amava, come aveva potuto andarsene, così, senza lasciar traccia e senza lasciar saluto? Sul gran tavolino egli aveva mosso ogni oggetto, aveva aperto ogni volume — vi era il volume di Shakespeare che conteneva Giulietta e Romeo e il Mercante di Venezia, vi era la Divina Commedia di Dante Alighieri — niente, non la più piccola carta, non un segno, in un libro, non una parola sottolineata, niente. E lo amava, ella andata via così, dicendo che tutto era inutile? Lo amava? No, no, era stata una illusione: la indulgenza, così lunga, di Hermione era fatta di cortesia e di curiosità. Chi sa quale ignota avventura tentava questa straniera dal cuore pieno di ombra, dalla esistenza così stravagante, dalla figura che era quella di una morta? Chi era colei? Egli non lo sapeva. Donde veniva, che voleva, dove andava? Niente egli sapeva. Aveva sopportato le sue visite: che è, poi, questo? Aveva detto di amarlo; ma se ogni volta che una donna dice questa parola e mentisce, cadesse una stella, in ben poco tempo si oscurerebbe l’incommensurabile firmamento. Cercava Luigi: nulla trovava. Entrò persino nella stanza da letto: osò avanzarsi in quella camera, dove ella non lo aveva mai lasciato entrare. Passò la mano sul bianco origliere tutto ricco di merletti, sulla coltre di broccato oscuro che lo copriva: a tentoni, nella penombra, nulla. Tornando indietro urtò in un mobile di legno: era l’inginocchiatoio: passò la mano sul cuscino di velluto dove tante volte la pia straniera aveva dovuto appoggiarsi, pregando: nulla.

Sicuramente, avanti di partire, ella aveva dovuto pregare, ma neppure in quel minuto di raccoglimento, l’anima di Hermione aveva pensato a lui. E in quella oscurità della camera, dove entrava solo un riflesso della luce rossastra del salone, egli ebbe un’allucinazione: gli parve di vederla e di vederla sparire, fredda e muta.

Così, la sua ricerca fu più ostinata, più ardente. Sentiva il bisogno di provare a se stesso la grande indifferenza di codesta fuggiasca: voleva dimostrare all’anima sua, così abbeverata di amarezza, che colei che era andata via sulla Chimera era una gelida disprezzatrice dell’amore: voleva, sì, voleva togliere dall’anima sua il rimpianto, il rimpianto che lo crocifiggeva, che gli dava il senso di una sventura irreparabile; voleva non sentire più, mai più, la nostalgia dell’amore di Hermione, intravveduto nelle ombre di quel cuore e perduto per sempre. Come avrebbe potuto vivere, pensando che ella lo amava e che egli l’aveva lasciata partire? Con quel rimpianto non poteva vivere. Voleva non trovare nulla: preferiva essere stato sventurato, grottescamente, anche la seconda volta, all’aver smarrito, volontariamente, la via della vita e della felicità.

Ora, aveva visto dappertutto, dovunque ella avesse potuto abbandonare un motto, un oggetto, un emblema. Nulla. Hermione aveva detto: Inutile. Era tutto. Non bastava? Inutile. Lo aveva salutato così per mezzo di un servo, non degnando di rivederlo, non degnando di scrivergli, mandandogli una sprezzante parola. Bastava. Quella donna non lo aveva mai amato. Era così. Egli non sapeva nulla di lei, chi fosse, donde venisse, dove andasse: non sapeva chi ella fosse: sapeva soltanto che non lo amava. Uscì sul terrazzo: aguzzò gli occhi. La Chimera era un punto nero sul mare. Ancora, egli chiamò Hermione! Tornò verso il centro della terrazza. Macchinalmente, guardò quelle sedie dove tante volte l’aveva guardata, così bella, così seducente; ora l’aveva perduta, per sempre. Si accostò al leggìo. Tante volte l’aveva vista appoggiata, colà, figura casta e pur irresistibile; tante volte l’aveva vista leggere, piamente, quell’Evangelio di Giovanni: mai più, mai più avrebbe visto le care labbra ripetere sottovoce le estatiche parole dell’Evangelista! La sua mano carezzò il cuoio che copriva il libro; al segnalibro era attaccato un piccolo oggetto. Era un anello d’oro: una fascia rotonda, eguale, d’oro. Le sue dita, assalite da un tremore mortale, sciolsero quell’anello d’oro dal nastro rosso a cui era sospeso: i suoi occhi, velati da una vertigine mortale, lessero, in giro, dentro l’anello, le due parole:

Addio, amore!

Gli mancarono, invero, le forze per slanciarsi un’altra volta sino alla balaustra del terrazzo: ma dal posto dove si trovava, i suoi occhi non videro più il punto nero: la Chimera era sparita. Le sue labbra non si mossero, a chiamare Hermione: le sue mani tenevano il piccolo anello del saluto, senza stringerlo. Luigi guardava, non l’orizzonte dove la sua donna, il suo amore, la sua felicità erano spariti, guardava non il mare maestoso nella notte, non il cielo stupendo tremolante di stelle, non la bianca faccia della luna che a destra declinava: Luigi guardava il suo dolore e gli pareva immenso. L’anello non aveva parlato, forse? Guardava il suo dolore, più grande del mare, più grande dell’orizzonte, più grande del cielo: sconfinato. Colei che era sparita, lo amava.

 

 


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