Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Castigo
Lettura del testo

X

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

X

 

Quella via che si parte, ad angolo, donde Toledo comincia, che passa sotto l’edificio del Museo Nazionale, che rasenta i due giardinetti pubblici così poco soleggiati e così poco floridi, conserva il suo vecchio nome di Foria, nome borghese, ma nome incancellabile, poiché niuno chiama questa via col suo secondo vocativo di Cavour. Il suo lato settentrionale, il più frequentato da una popolazione affaccendata e frettolosa — poiché niuno penserebbe mai di andare a diporto, per Foria — è fatto di palazzi borghesi, dall’aria antica, dall’aria un po’ triste poiché dove il sole non entra, nel paese meridionale, ivi è la tristezza. I grandi cartelloni figurati, a tinte violente, che si stendono fra le tre anguste porte del teatrino Mercadante e che rappresentano le principali scene dell’Angelo della Mezzanotte, della Preghiera dei Naufraghi, o di qualsiasi altro dramma sensazionale, non giungono a ravvivare questo triste e scuriccio lato settentrionale di via Foria. Tutto il lato orientale, assai più basso di livello, diviso dalla via per i due giardini pubblici, resta celato e pare che quasi si disperda, inclinando verso via Tagliaferri, verso via de’ Vergini, dileguandosi dietro le acacie dalla inane e anemica ricchezza di fronde. La via Foria, dopo il caffè di Acetillo, a Porta San Gennaro, anch’esso un po’ scialbo, un po’ malinconico a malgrado della molta gente che lo frequenta, è spezzata due volte da via del Duomo, da via Garibaldi che sono sempre piene di persone e che vi costituiscono due sbocchi importanti, donde affluisce e riunisce la folla napoletana: poi si fa più larga, assumendo il nome di San Carlo all’Arena.

Non forse è stato cambiato questo nome in quello di via Cirillo? Forse: ma non se ne rammenta nessuno, più. Dopo un lungo percorso, la via fatta sempre più larga, ombreggiata da qualche misera pianta, fiancheggiata da due alte file di palazzi, abitazioni di proprietari borghesi, di magistrati, di vecchi avvocati, questa via, per la terza volta cambia di nome e si chiama del Reclusorio. Il vastissimo Albergo dei Poveri, edifizio elevato dalla pietà dei napoletani, ha dato questo titolo all’ultimo tratto di quella via cittadina. Ora dunque, come ho detto, a partire dal Museo Nazionale, questa via si viene sempre allargando e non le manca liberissima aria, chiarezza e talvolta anche un luminoso azzurro orizzonte; oltre Porta San Gennaro questa via acquista anche un aspetto aristocratico, tanto è severa la linea di quelle grandi case. D’altronde, la via di Foria, nei suoi tre pezzi, dal Museo al Reclusorio, è sempre in gran movimento: vi passa il tram, continuamente, per lungo; vi passano gli omnibus, a ogni momento; e carrozze di signore e carrozze da nolo la percorrono su e giù, in due file, senza posa. Le vie orientali, Tagliaferri, Cristallini, Vergini, Miracoli vi mandano gente, in gran numero: le vie settentrionali Costantinopoli, Porta San Gennaro, Duomo, Garibaldi, Ponte Nuovo, ve ne mandano, di gente, in grandissimo numero e la circolazione vi è talvolta molto lenta. Vi è un mercato, presso via del Duomo, vi è una caserma, oltre via Garibaldi; vi è, infine, tutta la vitalità fervida della esistenza napoletana, che mai non posa, che può rallentarsi, ma che non tace giammai. Ora, perché la via di Foria nei suoi tre pezzi, verso la città e verso la campagna, nel suo lato settentrionale scarso di sole, come nel lato meridionale nascosto dietro i giardinetti, nel suo aspetto borghese come nel suo aspetto aristocratico, perché è così triste, così infinitamente triste, che niuna tristezza di via regge al suo paragone? Via Costantinopoli è austera, non triste; le piazze deserte fra la Sapienza e i Santi Apostoli sono deserte, mistiche, ma non tristi: la sola, l’unica, veramente piena di tristezza incommensurabile è via Foria. Non è forse lo stesso allegro tram che mette tante lietezze alla Posta, a San Ferdinando, a piazza Vittoria, alla Torretta, quello che trabalza per Foria? Non sono le stesse sporche e traballanti, e pure tanto vivaci carrozze da nolo che sono una delle giocondità napoletane, quelle che ci vanno su e giù, come dappertutto? Non è la medesima gente che, agitandosi, mette a Foria lo stesso brio, lo stesso calore umano, lo stesso sfavillio umano che altrove? Non sono le stesse voci concitate, le stesse risa squillanti, le stesse grida dei soliti venditori ambulanti, gli stessi schioppettii di fruste, le stesse canzoni, lo stesso rumorìo di ruote che fanno risuonare la via di Foria, come le altre vie? Eppure, malgrado tutto questo, è impossibile, venendo da un’altra qualunque strada, entrando in Foria, non sentire sugli occhi, nel respiro, nell’anima, tutta la oppressione della tristezza. Donde? Forse dalla facciata alta dell’Ospedale degli Incurabili, che sovrasta a Foria, e che mostra, alle sue lunghe e strette finestre, dietro le inferriate, gli esangui volti dei convalescenti, dagli occhi ancora dolenti? Forse dall’immenso e maestoso edificio dell’Albergo dei Poveri, dove è raccolta tanta miseria, tanto abbandono, tanto dolore? Oh in tante altre vie vi sono degli ospedali e dei ricoveri di mendicità, e l’allegria napoletana si distende su tutte queste impressioni meste e le cancella, le annulla! È da un capo all’altro della lunghissima via che domina la tristezza, più forte della folla, più forte del chiasso, più forte dell’ambiente stesso napoletano: è dappertutto che emana questa tristezza e che si sovrappone alla gran risata onde tutta Napoli sembra scossa, alle sue ore. No, non è l’ospedale; non è il ricovero; non è la mancanza del sole; non sono i preti che passeggiano lungo i giardinetti; non sono i pezzenti di San Gennaro che si siedono sui banchi di legno e cavano fuori i polizzìni del lotto: non basta, questo, a rendere una strada spirante tale una tristezza invincibile da far dileguare il sorriso sulle labbra del viandante più ostinato nella illusione della sua felicità.

Eppure la via di Foria ha le sue grandi giornate di festa, Ogni volta che vi è un arrivo di principi, di sovrani, ogni volta che il Re giunge in forma pubblica, questo corteo passa per il Corso Garibaldi e per Foria, lentissimamente, onde non solo sieno favorite dello spettacolo regale le popolazioni di Toledo, ma anche quelle dei quartieri più remoti. Allora tutti i balconi degli antichi palazzi, tutte le finestre delle case più moderne sono affollate di pubblico impaziente, e le signore e le signorine si piegano, sulle ringhiere, a vedere se compaiono le corazze fulgide dei corazzieri e le livree rosse della gala regale. Foria così ha visto le entrate trionfali di Vittorio Emanuele, quella della giovanetta sposa Margherita, quella di Re Umberto, allora allora, scampato, alla Carriera Grande, dal pugnale d’un matto, e la gloriosa entrata dell’imperatore Guglielmo: e Foria se ne tiene di queste sue giornate di festa. Foria le ricorda nella sua storia. Foria, prevedendone qualcun’altra, fa invito ai suoi amici delle altre strade, perché vengano a vedere, dai balconi delle sue case, gli spettacoli solenni. Che importa ciò? Dopo un’ora, trascorso oltre il corteo, chiusi i balconi e serrate le finestre, Foria ricade nella sua grande tristezza; anzi, anche durante il passaggio dei soldati, dei principi, dei sovrani, fra tanta gente, tanti colori, tanti fremiti, tanti applausi, Foria resta triste. Non ha forse la via di Foria, ogni anno, nel calen d’aprile, due giornate di festa? Le corse al Campo di Marte sono una festa della bellezza e della ricchezza, della nobiltà e del popolo, la festa delle donne e dei cavalli, la festa fatta dal sole, dal cielo, dall’aria fine, dai fiori che sbocciano e dal vivo calore che corre nel sangue della gente; e tutto ciò che è bello, che è ricco, che vuole divertirsi, che ride, che freme, che scalpita, equipaggi e cavalli, donne e fiori, uomini e bimbi, tutto ciò, persone, cose, passa per Foria per andarsene al Campo di Marte, e da mezzodì alle sette, per due giorni, è questo immenso viavai così lieto, nelle ore di sole, come nelle ore crepuscolari. Come aspetta, Foria, queste due giornate di festa! Essa diventa un lungo teatro, di cui i balconi sono i palchetti, e assiste così, tranquillamente, alla rappresentazione del giocondo calen d’aprile, per sei ore di seguito, per due giorni. Che importa ciò? Le corse finiscono, gli equipaggi dai postiglioni che fanno risuonare le trombe passano al trotto serrato, scompaiono man mano verso Toledo; le signore si ritirano dai balconi, i cristalli si chiudono, è sera, la tristezza di Foria ricomincia. Forse, non è mai finita, neanche durante i due bei pomeriggi brillanti, sfavillanti, squillanti: chi ritorna dal Campo di Marte sente la sua ebbrezza farsi triste, a Foria. Gli è che quella è la via del camposanto: e che vi passano, ogni giorno, da trenta a quaranta morti, sempre, sempre, per quella via.

È vero, anche per la via di Toledo, nelle ore quando più si anima la signorile passeggiata degli equipaggi che vanno a Chiaia, a via Caracciolo, si incontra la croce che precede la confraternita, poi la lunga fila dei fratelli assai singolarmente vestiti e infine il gran catafalco ambulante coperto di velluto nero ricamato d’oro, portato a spalla dai becchini nascosti sotto la coltre, e il carro funebre dai sei magri cavalli bardati di nero, con le gualdrappe nere, con le piume nere sul capo. Che fa, questo? Le persone corrette salutano la croce, i credenti e più le credenti, oltre al salutare la croce e a segnarsi, dicono un requiem, e il morto se ne va, senz’aver punto disturbato i vivi. S’incontra qualche morto, nel pomeriggio, anche a Chiaia, anche a Salvator Rosa, anche alla Marina, ma è un caso isolato e lo spirito vi sorvola subito. Ma per Foria, tutti questi morti da tutte le strade di Napoli, alte e basse, vengono a passare: ma tutte le confraternite, bianche, bianche e azzurre, bianche e grigie, rosse, verdi, azzurre, violette, passano per Foria, precedute dalla croce, lentamente, tenendo il cero acceso; ma sia il carro a due cavalli di legno nero a fregi d’oro, sia il carro funebre a sei cavalli, sia la carrozza nera, semplice, dove è nascosto, sotto i fiori, un picciolo feretro di bambino, sia il gran catafalco tradizionale napoletano, con la cassa che sembra un cofano prezioso, tutti, tutti questi carri della morte passano per Foria, trasportando il loro lugubre carico. Uno, due, tre convogli funebri; lo spirito può non diventare tutta una tetraggine, può dimenticare la cupa impressione, ripreso dalla vita. Ma Foria ne vede andare al cimitero, più modestamente o più pomposamente, trenta o quaranta di morti: e questo, questo è sufficiente perché una strada, nelle sue case, nelle sue linee, nel suo orizzonte diventi triste sino all’infinito, triste come l’emblema stesso della tristezza.

Pure, come si giunge al Reclusorio, si parano innanzi agli occhi, fra le case che si fanno sempre più basse, due larghe vie campestri, ombreggiate di alti e nobili alberi: ambedue queste vie hanno la bellezza pura e pacificatrice della campagna, che succede alle sporche e rumorose vie cittadine. Sono ambedue attraenti, affascinanti, per la loro ampiezza, per la ricchezza altera dei loro alberi, per il misterioso invito campestre che esse esprimono e che si sente nell’intimo cuore: una di esse porta al Campo di Marte, dove si fanno le esercitazioni militari e le corse dei cavalli: un’altra porta a Poggioreale, dove è il camposanto.

Ambedue deliziose, malgrado che conducano, una ai ritrovi della forza, del coraggio, dell’abilità, dove la vita assume un carattere così simpatico di vigore e di valore, e che l’altra conduca alla casa dei morti: ambedue evocanti un desiderio di calma e di benessere, di solitudine amica delle anime stanche, di silenzio suadente i sensi ammalati dal rumore umano. La strada del Campo di Marte ha taciti allettamenti, come quella di Poggioreale: e questa grande strada, dove coloro che sono partiti compiono l’ultimo loro tragitto mortale, ha seduzioni scevre di qualunque tristezza. La via cittadina, fra il Museo e il Reclusorio, vi contrista fino all’abbattimento, poiché essa vi la continua immagine della fine, in una forma, ahimè, miserabile, grottesca e tragica. Invece, lassù, come la città finisce e si svolge il gran sentiero campestre, sparisce ogni tormentatrice sensazione del grottesco, si perde il ribrezzo dell’ultima miseria, e la tragedia della morte sembra invece la forma di un augusto riposo. Tutte quelle apparenze funebri per la via ombreggiata che quasi abbraccia il bel colle, in quella solitudine della terra, del cielo e delle piante, perdono ogni carattere di oppressione, non danno più spasimo e il viandante di Poggioreale guarda con occhio forse malinconico, ma tranquillo, ma serenamente rassegnato, quell’ultimo tragitto. La via di Poggioreale è così bella, così attraente che bene spesso gli amanti la percorrono, a piedi, tenendosi a braccetto, tenendosi per mano, ebbri di sole e più ebbri di amore; e la percorrono in una piccola e sgangherata, ma proteggitrice carrozza da nolo, stretti, guardandosi negli occhi, l’amante col braccio passato attorno la persona dell’amata. Questi amanti incontrano i morti, bene spesso, ma non impallidiscono, non si turbano, non ne hanno tristezza. — L’amore è forte come la mortedice Salomone. Ma, anche lassù, la morte è un passaggio quieto e senza dolore, nella grande pace universale.

Colui che, in pochi giorni di quel mese di maggio, aveva percorso varie volte quella via di Poggioreale, venendo dalla città, inoltrandosi al passo un po’ lento, della sua piccola carrozza da nolo, sotto i grandi alberi tutti rifioriti nel maggio, non conduceva con sé nessuna donna. Era un giovane, veramente: era nell’età in cui si crede che l’amore sia la più dolce illusione della vita: era nell’età in cui le parole di Salomone, che appassionatamente proclamano l’amore forte come la morte, entusiasmano. Ma niuna donna lo accompagnava. Egli compiva la sua lunga passeggiata, tutto solo, raccolto nei suoi pensieri, che non avevano il colore della gioia, né quello della tristezza, poiché il suo volto era smorto ed emaciato, come chi uscisse di malattia, ma non esprimeva, però, sofferenza. Mentre il cocchiere lasciava andare il suo cavallo alla leggera salita, senza frustarlo, colui che si faceva portare per la via di Poggioreale fumava silenziosamente, sogguardando ogni tanto il paesaggio. Se incontrava qualche convoglio funebre un po’ sbandato in quella solitudine campestre dove cessava la pompa cittadina, un po’ disordinato, coi fratelli che si raggruppavano chiacchierando, col cocchiere della negra carrozza che accendeva un mozzicone spento, avendo smesso la sua boria funeraria, colui che andava passeggiando, solingo, per la strada del camposanto, salutava, sollevando il cappello: ma voltava la testa in , perché passasse il corteo, tutto quanto, senza quasi vederlo. La grande strada si faceva nuovamente deserta, tutta piena di sole, nelle belle mattinate: tutta tiepida nei pomeriggi già vivaci del maggio — poiché colui percorreva quella via di Poggioreale talvolta di mattina, talvolta verso le quattro pomeridiane, nelle ore in cui è più confortante la passeggiata. Quando egli si ritrovava nuovamente solo, provava una soddisfazione tranquilla, che gli si rifletteva sul volto. I cocchieri da nolo napoletani sono molto familiari e molto verbosi: in un lungo tragitto, per una via deserta, dove non debbano badare alla gente e alle altre carrozze, si annoiano sulla loro cassetta ed è difficile che non tentino di appiccare discorso col passeggero, in quella forma sfrontata, tenera e rispettosa che essi hanno. Ma quando si porta un uomo taciturno e pensoso come Luigi Caracciolo, in una giornata che non è quella dei Morti, e che lo si porta al camposanto, e che lo si vede a occhi bassi fumare mezza sigaretta, lasciarla spegnere e buttarla via, che lo vede salutare la croce che passa, ma non aver la forza di guardare il convoglio funebre, il cocchiere intende e non parla. Uno di essi, solamente, più sfrontato, più tenero e più familiare, gli chiese, un giorno:

Eccellenza, chi vi è andato in paradiso?

— Una personadisse Luigi Caracciolo, senz’altro.

— Ah la morte è brutta, la morte è brutta! — disse a mo’ di rimpianto, sospirando, il cocchiere e frustando la sua bestia.

In quelle gite, Luigi Caracciolo, oltrepassata la chiesa bianca di S. Maria del Pianto, si faceva condurre sino al cancello superiore del camposanto. Innanzi alla gran porta, Luigi scendeva dalla carrozza e il cocchiere gli domandava, quasi sempre, se egli avrebbe tardato molto.

— Non so... non so... — egli diceva, con un gesto incerto.

Va bene, va benesoggiungeva il cocchiere per non aver l’aria d’infastidire il suo passaggiero — io aspetto.

E pazientemente il cocchiere levava al cavallo tutta la testiera, gli appendeva al collo un sacco di biada e lo lasciava mangiare, mentre egli, cavato uno strofinaccio, dava una pulita alle ruote. Luigi Caracciolo entrava, dal gran cancello, sulla prima spianata, ornata a destra e a sinistra di cespugli di tuye, di piccole palme nane e poi penetrava nel gran quadrato, circondato su quattro lati da un chiostro di cappelle, attaccate l’una all’altra, con un porticato per potervi accedere e passeggiare, al coperto, mentre in mezzo restava il giardino diviso ad aiuole, tagliato da quattro viali in forma di croce greca con la statua della Religione nel mezzo; e le aiuole erano divise in tombe, monotone, uniformi. Questo chiostro di cappelle appartenenti per lo più a confraternite, malgrado la beltà del suo porticato, malgrado il suo giardino nel mezzo, dove così folti crescevano i crisantemi fra le lapidi e le croci, aveva un non so che di volgare, non parlava tristemente al cuore, non aveva voce mistica per dire qualche profonda parola al cuore esitante. La medesima statua della Religione, stringente fra le braccia la croce, non pareva che una bianca donna di pietra, con le vuote occhiaie inespressive rivolte al cielo. Talvolta, un soffio di vento primaverile faceva ondeggiare, sulle aiuole dei morti, tutta quella vegetazione di piccole rose d’ogni mese e di pallidi crisantemi che si piegavano come le alte erbe di un gran prato: ma questo primo recinto non erasolenneidilliaco e non ispirava né la melanconia né il sorriso. Pure, fra quelle croci che portavano tutte il numero civico e a cui la pietà dei parenti poveretti attaccava un biglietto da visita col nome, talvolta una corona di perline bianche e nere, Luigi aveva sempre trovato qualche persona che pregava, che contemplava una di quelle fosse provvisorie, che ne puliva la croce, che ne strappava le male erbe; egli pensava che i vivi sono molto meno dimentichi dei morti di quello che si crede. Specialmente una fossa tutta coperta di crisantemi che portava sulla sua croce il numero 30333 aveva una visitatrice assidua; ed era una brutta e goffa fanciulla, di età incerta, da diciotto a trentadue anni, tutta vestita di lutto, ma assai poveramente: sotto il lungo velo nero che le scendeva dal cappellino e che tendeva al rossastro, si distinguevano due bellissimi occhi neri, ma carichi di una mestizia intensa, senza fine. In cinque volte che Luigi era venuto a Poggioreale, due volte aveva trovato la brutta ragazza vestita a bruno, seduta sovra una pietra, presso alla croce 30333. Le sue informi scarpe erano polverose: fuori non vi era traccia di carrozza; ella era certamente venuta a piedi. Ma non piangeva, non pregava. Stava , in compagnia di quella croce. Non levava neppure la testa, udendo passare Luigi.

Egli passava subito sotto l’arco di pietra, e penetrava nell’ampio giardino libero e fresco, passava sul colle tagliato da tanti piccoli e grandi viali salienti, scendenti, nascosti fra gli alberi, perdentesi fra i cespugli, dove, dappertutto, in quella primavera, risuonava un lieto trillo di uccellini. Ogni tanto, da un viale che si apriva, laggiù, si vedeva un gran pezzo di città e l’arco che fa la campagna vesuviana verso Napoli, e un lembo di mare; ma, attraversato quel viale, si rientrava in un giardino tutto fiorito, dove, veramente, le lapidi bianche dalle lettere nere e i piccioli monumenti, e le cappellucee, e le grandi cappelle nulla avevano di orribile, nulla avevano di tragico. Dietro i cancelli di bronzo, attraverso le porticine graticolate, si vedevano ardere le lampade votive: dall’alto dei monumenti pareva che guardassero le figure degli angeli, messivi a mistica custodia; delle corone erano appassite, sospese alle colonnine; su qualche tomba eravi il busto del morto, per lo più una figura femminile, una figura giovane, di fanciulla o di sposa, sparita nel fiore novello della vita, le lettere nere formavano parole e formavano iscrizioni, e dicevano il nome e gli anni e le virtù dell’estinto, e il dolore dei superstiti. Che faceva, ciò? Il colle aveva la grande bellezza calma dei giardini meridionali, nel loro miglior tempo, che è quello della primavera: aveva la serenità dei giardini abbracciati dal sole, irrorati dalle rugiade vespertine, carezzati da un alito caldo, e non troppo turbati dalla presenza umana; aveva la maestà placida degli ambienti dove le due grandi verità, la Vita e la Morte, si salutano e si baciano. Talvolta, un giardiniere appariva e spariva, col suo inaffiatoio, con la sua blusa azzurra che si perdeva fra gli alberi; talvolta si incontrava un custode che se ne andava alla sua strada senza neppure voltarsi indietro: poi, la solitudine. L’incontro delle due grandi verità, la Vita e la Morte, si faceva in un silenzio senza tristezza, in un ambiente vivo e pur deserto: e il misterioso bacio per cui il cadavere era ridato alla terra e la terra lo ridava in fiori, il misterioso bacio non aveva testimoni. Luigi bene conosceva la sua via. I tre viali, uno grande e due piccoli, che doveva percorrere prima di giungere alla sua mèta, gli erano noti, oramai, come le strade della sua città natìa e le tombe che doveva rasentare, cinque o sei, fra cui il monumento in granito della bellissima ballerina Amina Boschetti, gli erano così familiari che vi fermava lo sguardo e se ne rammentava i nomi, a memoria. Vi era il piccolo monumento al prete di Ariano, che fu anche un umile poeta del popolo, Pietro Parzanese; sulla colonnina che ne sostiene la testa in marmo di un vecchietto buono e pio, col lapis, quanta gente aveva scritto il suo nome, con qualche parola di ammirazione, poiché anche quell’umile poesia aveva avuto la sua popolarità; dei pugliesi, sovra tutto, che invocavano il compatriotta. Poi la tomba di una fanciulla, che aveva, in un medaglione di marmo, il ritrattino in fotografia della morta, coperto, sì, da un cristallo, ma così pallido, così scialbo, che i contorni si perdevano e i ricci della acconciatura pioventi, da dietro le orecchie sul collo, sembravano solo vividi; poi la cappella tombale degli Althan, alta, elegante, con le porte di bronzo scolpite; poi la tomba di una sposa che portava, oltre il nome e l’età, questi versi un po’ ingenui: Mi parve la speranza della vita Come una vaga nube indefinita Ma volgendosi in Dio la mia speranza Si cangiò in bene che ogni bene avanza. Poi, in un crocevia, circondato da un gruppo di alberi, tenendo innanzi due aiuole di crisantemi e di fiammanti gerani, chiusa da due porticine di ottone traforate singolarmente, sorgeva la cappella mortuaria di casa Dias. Qui Luigi veniva, da tre settimane: qui era venuto, in quelle tre settimane, cinque volte.

La cappella funeraria di casa Dias era grande, costruita sopra una architettura di tipo greco, ma confuso dal mal gusto moderno: tutta bianca, con un frontone dorico che portava la scritta in lettere nere: Ego sum resurrectio et vita, e sotto il nome di colui che l’aveva fatta costruire: Augusto Dias, il padre di Cesare Dias, sibi, suis, e l’anno in cui era stata edificata. La porta, a due battenti metallici, lavorati a strani trafori, luccicava, scintillava. Sul lato destro vi era una finestretta dai vetri colorati, dove era disegnato un Gesù che camminava sulle acque: e sul lato sinistro una pari finestretta dove era disegnata una Annunciazione: servivano per dar luce all’interno della cappella. A traverso i sottili trafori, accostandosi molto, ficcando acutamente gli occhi dentro, si poteva scorgere l’interno, cioè il pavimento di marmo bianco e in fondo l’altare per le messe mortuarie, coi due alti candelabri di argento. Ma non vi ardeva nessuna lampada. Bensì le aiuole, innanzi e sui lati, erano coltivate con cura, inaffiate ogni giorno: le due siepi di mortella erano tutte linde, come una capigliatura verde assai bene ravviata. La cappella non si doveva aprire spesso, come tante altre, massime quando è forte e ancora fresco il rimpianto dei vivi; ma era raccomandata, certo, al giardiniere. Altrove, vi era la lampada accesa, la lampada mistica che si consuma e non muore, che veglia come veglia il divino cuore di Gesù, che è il votivo ricordo dei superstiti agli estinti; qui, intorno alla funebre cappella dei Dias, i fiori freschi, dai colori lieti, che quasi abbracciavano il monumento in una cintura fiorita.

La prima volta che vi giunse, Luigi Caracciolo, fu dopo aver errato per più di un’ora, in tutto il camposanto, cercando dove fosse sepolta quella che egli aveva amata. Non voleva domandare. Quel nome non gli poteva uscire dalle labbra, come se un suggello le avesse serrate. D’altronde egli era venuto colà senza una volontà forte e salda, senza uno scopo preciso: cercava la tomba, ecco tutto. Nell’anima, vagamente, gli ronzavano le tristi e fatali parole di Hermione: va’, va’: non ti resta che far aprire la tomba di Anna e coricarti accanto a lei. Quando le aveva dette queste suggestive e misteriose parole, Hermione? Nel bosco, gli pareva: in un’ora notturna, tra l’ombra, tra il freddo, tra lo strazio che gli squarciava il petto, nei singhiozzi. Due volte egli aveva inteso risuonare quel mortale consiglio, alle sue orecchie, tristi e fatali parole di addio, ripetute da quella voce profonda: quella voce ora lontanamente, lontanamente risuonava nell’anima sua, riconducendovi la mortale suggestione. Va’, va’... ed egli era andato, egli era venuto qui, al bel colle mortuario di Poggioreale, obbedendo come un fanciullo malato, non sapendo bene altro che venire nel giardino fiorito dei morti e cercare quella tomba. Non ne chiese a nessuno dentro. I custodi nulla dicono, a chi non dice loro nulla. Non sono uomini malinconici quei custodi, certamente: perché il camposanto è così un gran giardino sopra un bel colle e perché essi sono uomini, infine: ma non parlano a chi non dirige loro la parola, sentendosi forse estranei a quegli ignoti dolori, e pur sentendo di non doverli turbare. Luigi nulla domandò. Girava, così, a caso, in quel giardino funebre tutto rose a piè degli alberi, tutto gorgheggi nelle foglie degli alberi novellamente giovani; forse, la tomba di Anna non esisteva? Forse, quella voce egli non l’aveva mai udita? Era un sogno, forse, il bosco ed Hermione, e il tetro consiglio? Non era mai venuto a Poggioreale, Luigi, poiché, come a tutti i giovani, la morte gli faceva orrore: e non avrebbe mai trovato questa tomba, forse, poiché tutto, forse, non era che un’allucinazione della sua testa malata. A un tratto, senza che più la cercasse, la cappella funebre gli si parò innanzi, con la sua scritta che esalta le virtù del Redentore, dicendo che esso solo è la risurrezione e la vita, col suo nome che era anche quello di Cesare Dias. E rientrato da quel vago sogno nella realtà, innanzi a quell’edificio, egli ebbe una immensa delusione. La cappella era serrata dalle sue sottili ma forti porte di ottone; le mura, intorno, erano salde. Dove era, dunque, Anna? Dentro. Chiusa. La cappella era serrata ermeticamente. Quella serratura di metallo doveva avere una chiave: ma non vi era la chiave. Dove stava Anna? In una cassa chiusa ermeticamente; la cassa deposta nella fossa di muratura e sopra, chiusa ermeticamente dalla lapide di marmo; e sulla lapide chiusa, la porta della cappella. Aveva sperato così, nelle nebbie fluttuanti della sua volontà, di trovare la tomba, di potersi inginocchiare, di poter baciare quella pietra, quella terra, di poter piangere, infine, vicino a colei che non aveva cessato di amare mai.

Va’, va’... a che era venuto? Tutto era chiuso, dal legno, dalla pietra, dal metallo, innanzi a lui, e il mortale consiglio era derisorio. Accostato ai battenti di ottone, ficcando lo sguardo per i trafori, aveva tentato di scorgere dove fosse l’iscrizione, se per terra o sulla parete, ma non aveva visto nulla. L’ultima ironia del suo destino si compiva ed egli che non aveva saputo farsi amare, egli che non aveva saputo amare, egli non poteva neppure abbracciare, con le tenaci braccia, la pietra mortuaria di Anna. Le sue labbra toccavano il freddo metallo ed egli ghignava d’ironia, su se stesso, sul suo grottesco fato, sentendo che non poteva neanche uccidersi, innanzi a quella cappella che era quella di Cesare Dias. Dove era Anna? dentro era sepolta la moglie di Cesare Dias, la nuora di Augusto Dias, il fondatore della cappella. Sibi, suis. Sarebbe stato ridicolo uccidersi innanzi. A che il tragico e pur poetico consiglio? Apri la tomba di Anna e coricati accanto a lei. A che? Egli era uno sciocco, un mediocre, un meschino; non un eroe da romanzo. A che? Inetto ad amare; inetto a vivere; inetto a morire.

Pure l’ostacolo servì a precisare la sua volontà; e una ribellione fece insorgere tutto il suo essere, contro quelle barriere mute ed immobili che lo separavano dal corpo dell’amata donna. Due volte era ritornato a Poggioreale, andando direttamente verso la cappella funeraria dei Dias, cercandola ansiosamente fra le piante, come si cerca la finestra della donna amata, guardando se per un miracolo ne fossero aperte le porticine di ottone; chiuse, chiuse, chiuse. Ardeva di sdegno. Come, neppure poter leggere il breve nome sul marmo della lapide? Neppure poter baciare le lettere di quel nome? Neppure poter dire quel nome, sulla pietra sepolcrale? Era uno sdegno cieco quello che lo assaliva; era come un flusso invadente, affogante di amore e di gelosia che gli stringeva la gola e la testa. Niente, niente, dunque, gli era lecito, poiché Anna aveva amato un altro uomo, poiché era stata moglie di questo altro uomo, poiché era morta per questo altro, poiché era sepolta nella tomba di questo altro, e questo altro, il marito, il padrone, il signore, l’amato, ne teneva la chiave. Niente, niente, per lui, neppure una preghiera sopra una lapide! Ah che destino crudele e buffo era dunque il suo, che specie di fato che lo faceva librare tra una visione drammatica e una realtà ridicola! Una collera furiosa lo teneva contro se stesso, specialmente. Non aveva mai voluto, doveva volere, una sola volta, adesso. E nella sua mente malata, nel delirio della sua spirituale impotenza, egli formò il piano bizzarro di farsi aprire quella cappella, di far sollevare la lapide di Anna, di fare scoperchiare quella cassa. Doveva farlo. Era un miserabile se non lo faceva. Doveva veder quel cadavere. Sottilmente, nell’anima, a rendere più ardente questo desiderio, si metteva questo fantastico dubbio:

— Forse Anna non vi è.

E il desiderio si faceva più tragico. Quella triplice ermetica chiusura del legno, della pietra, del metallo non nascondeva, forse, un segreto orribile, uno di quei segreti che fanno imbiancare i capelli di un uomo e che ne turbano per sempre la ragione? Quella triplice inaccessibilità non chiudeva, forse, il motto del grande enigma?

Non gli aveva forse suggerito, Hermione, con la sua voce che pareva venisse di lontano, di andare alla tomba di Anna, di far sollevare la lapide, di far aprire la cassa e sdraiarsi accanto all’amata? Qui era la parola, qui era la verità: egli doveva infrangere quegli ostacoli materiali per cercare la sua vita o la sua morte. I suoi occhi si fissavano magneticamente, quasi ipnotizzandola, sulla piccola serratura delle porte di ottone, come se il potere ardente della sua volontà avesse potuto vincere il legame materiale che le serrava. Ma il rovente sogno della sua fantasia si gelava innanzi alla immobilità delle cose ed egli partiva da Poggioreale più scorato, più abbattuto dei giorni in cui aveva inutilmente amato Hermione. Sentiva il fallimento della sua volontà, e si odiava, e si disprezzava: nella notte, vegliando, egli combinava mille progetti strani per farsi aprire la cappella, come l’amante che, non potendo vivere senza l’amata, ne progetta l’impossibile fuga, insieme. Forse... non lo avrebbe potuto aiutare qualcuno, a Poggioreale? Con il denaro? E il seguente trovando presso la cappella dei Dias il giardiniere che inaffiava le aiuole dei crisantemi e le siepi di mortella, lo interrogò:

— Siete voi il giardiniere di questa cappella?

— Sì, Eccellenzadisse l’uomo, continuando il suo lavoro.

— E la chiave l’avete voi?

— No, Eccellenza.

— E chi l’avrà?

— Il padrone della cappella, forse.

— Voi non l’avete mai vista aperta? Non ci siete mai entrato?

— No, mai. Mi regalano solamente per badare al giardinetto.

— Chi vi regala?

— Il padrone.

— Non ci viene mai, lui?

— Non lo saprei dire. Venne... sì, venne la vigilia dei Morti... ma, dopo, non l’ho più visto.

— E la chiave, la terrà lui? — e gli diede del danaro.

— Forse: ma perché non domandate al custode? Vi potrà informare meglio di me. Lo vado a chiamare? — disse tutto premuroso.

— Sì, sì, andate.

Dopo pochi minuti, il giardiniere tornò col custode. Gli aveva dovuto spiegare, per la via, quello che voleva il signore, perché il custode disse subito, con un ossequio riservato:

— Vostra Eccellenza è parente?

— Sì... un po’ parente... — balbettò Luigi, pallidissimo, sperando, credendo di aver già raggiunto il suo scopo.

— Voi vorreste entrare per pregare, è vero, Eccellenza? — chiese il custode, sempre con quel tono minore riservato, di coloro che vivono al cospetto del dolore e che, pure non dividendolo, hanno imparato a rispettarlo.

— Sì... per pregare un poco... — rispose Luigi, cavando del danaro, dal portafogli, e dandolo a quell’uomo che gli doveva aprire la cappella.

Quello riservatamente intascò e ringraziò. Poi, riprese:

— Si può fare... si può fare... per contentare Vostra Eccellenza.

Bene, prendete la chiave... — e fremeva d’impazienza.

— Io non la tengo la chiave.

— Come? E chi la tiene? — esclamò, disperato.

— Il cavaliere.

— Quale cavaliere? — domandò Luigi, non intendendo.

— Il cavaliere Dias.

— Ed allora come potrei entrare?

— Per servire Vostra Eccellenza, io scenderei a Napoli, cercherei del cavaliere e dicendogli che vi è un parente, mi farei dare la chiave... è sempre un gran favore... ma il cavaliere ha fiducia in me.

— No — disse Luigi, senz’altro.

— Non volete, Eccellenza?

— Non voglio.

— E perché?

— Se volessi così, chiederei da me la chiave. Non voglio.

— Allora... non vi è che fare — disse il custode, crollando le spalle.

Il giardiniere si era allontanato, per arare il giardino intorno alla cappella degli Althan.

— ... Non vi è proprio che fare? — chiese lentamente Luigi, a occhi bassi. — Non si potrebbe entrare diversamente?

E una grande ansietà gli si dipinse sulla figura. Il custode, perduto a un tratto l’ossequio e la riservatezza, lo squadrò con diffidenza. Era ben vestito, aveva la catena all’orologio: non poteva essere un ladro di morti.

— È impossibile, caro signoredisse il custode, non dandogli più dell’Eccellenza.

Impossibile? Solamente per dire un’orazione, dentro? Voi presente?

Impossibile — e lo guardava con curiosità. Non era un ladro: forse era un pazzo. Ne viene, qualcuno, talvolta, a Poggioreale: o ci viene chi vuol suicidarsi.

Impossibile, caro signoreripetette il custode, come se egli stesso volesse ostinarsi nella sua negazione.

— Volevo pregare solamente, niente altro — spiegò Luigi, andandosene subito.

Soffocava di rabbia. Per quattro giorni non andò più a Poggioreale; temeva del proprio furore amoroso e geloso, temeva della propria fantasia ammalata, temeva di sfondare con una spallata quelle porte, come un ladro che tenta un furto con effrazione. Infine, negli urti della sua collera, egli si decise di offrire a quel custode mille lire, diecimila lire perché, in qualche modo gli aprisse le porte della cappella Dias. Era una violazione, un sacrilegio, ma quale uomo resiste a lungo, innanzi a una grossa somma di denaro? Quel custode di cimitero era di umile condizione, forse povero: diecimila lire a lui dovevano sembrare una ricchezza, e non si trattava, infine, che di aprire le porte di una cappella, all’ignoto e prepotente desiderio di un uomo. Deciso questo, Luigi sentì a un tratto chetarsi la sua smania, sicuro che il suo progetto di corruzione sarebbe perfettamente riescito. Sì, sarebbe entrato: il custode gli avrebbe prestato una leva per sollevare il marmo funerario, e lui, Luigi, sarebbe disceso nella fossa. Diecimila lire! Forse aveva moglie e figliuoli, quel custode. Così prima di uscire, in quel pomeriggio estremo di maggio, Luigi mise quel denaro nel suo portafogli, sicuro di riescire. Altre volte aveva lasciato che la carrozza andasse al passo: quel giorno una fretta lo teneva e due o tre volte disse al cocchiere di correre. Non fumava. Non sapeva quello che sarebbe accaduto, precisamente: sapeva solo che se Anna era nella sua tomba, egli l’avrebbe vista. Ardeva di una passione lugubre e folle: e sentiva l’imminenza delle ore supreme. Entrò nel camposanto, camminando presto: andò direttamente verso la cappella dei Dias: avrebbe chiamato il custode, per dargli quel denaro, per promettergliene dell’altro, se non bastava. Vi giunse. Le porte di ottone della funebre cappella erano spalancate ed egli si arrestò stupefatto. Vacillava: pure fece per entrare. Ma sulla soglia apparve Cesare Dias: uscì dalla cappella e con la mano se ne tirò dietro le due porte, restandovi fermo, innanzi. I due uomini erano perfettamente soli. Si guardarono: fu una divorante occhiata, ma di quelle occhiate rosse di sangue. Poggioreale, tutto fiorito, era immerso in un grande silenzio. Talvolta, il venticello faceva piegare i crisantemi e le rose di ogni mese.

— Che fai, qui? — domandò Cesare, senza lasciare i due battenti della porta.

— Che t’importa? — domandò sdegnosamente Luigi, invece di rispondere.

— Questa è casa mia — disse Cesare, mordendosi il labbro.

— È la casa dei morti: è la casa di tutti.

— Altrove, sì: non qui. Questa qui, vedi, è casa mia: tu ci vieni: voglio sapere che ci vieni a fare.

Parlava con una voce sorda, fissandolo con quel divorante sguardo: e così Luigi gli parlava, così Luigi lo guardava. Intorno, perfetta solitudine e assoluto silenzio.

— Non mi rispondi? Che vieni a fare, nella mia casa?

— Non ti voglio rispondere, Cesare.

— Hai paura, eh?

— Di te, non ho pauradisse Luigi, lentamente.

— E allora parla, subito. Questa è la casa dei Dias: tu non sei né mio parente, né mio amico. Sei mio nemico. Perché vieni? Dillo subito.

— Perché lo domandi? Lo sai bene! — esclamò, con un supremo disdegno, Luigi.

— Vieni ad amare Anna, eh? — e la voce del marito era tremante e soffocata.

— Già — rispose l’infelicissimo innamorato, guardando le porte di ottone socchiuse.

Vattenedisse Cesare Dias, mordendosi il labbro sino al sangue.

— Che dici?

Vattene subito.

— Io? No.

Finisci di fare il buffone e il vigliacco, va’ via.

Ingiuriami come vuoi: tanto, non me ne andrò.

— Vuoi farti ammazzare come un cane?

— Sì: ma dentrodisse Luigi, indicando la cappella.

— Tu sei pazzo: torna a casa tua — disse Cesare, tentando di dominarsi.

— Fammi entrare e uccidimi purepregò l’altro, così disperatamente che Cesare lo squadrò, con un infinito disprezzo.

Nossignore: qui non si entra; vi è mia moglie: vattene.

— Tua moglie è morta; di che temi?

— È morta, ma è sempre mia moglie: e te ne devi andare.

— Sei geloso di un cadavere?

Sissignore, sono geloso di un cadavere.

— Tu non credi che sia morta, è vero? — disse lentamente Luigi.

— È morta, è morta, finisci di fare il pazzo. Voglio che te ne vada: le corna non mi piacciono, né in vita né in morte.

— Oh brutale, brutale! — disse l’altro, nascondendosi il viso fra le mani.

Brutale, sissignore: ma le corna, no. Hai capito?

— Tua moglie non mi ha mai amato, Cesare.

— Io non ne so niente.

— Mai, mai, mai.

— Chi ne sa nulla? Avrei fatto meglio a sorvegliare la mia casa e la tua, allora. Adesso sorveglio questa casa, qui, visto che vieni a portare l’amor tuo al camposanto.

Anna era innocente!

— Io non lo sodisse cupamente Cesare, tirando a sé le due porte per serrarle definitivamente.

— Perché non hai chiesto la verità ad Hermione?

— Alla duchessa di Cleveland? E che c’entra lei?

Hermione la sapeva, la verità.

Finisci, finisci di vaneggiare... finisci di far la corte alle tombe.

— Tu non hai mai creduto che Hermione fosse Anna?... — chiese Luigi, con la sua voce profonda, guardando le porte della cappella.

— Io? No, mai.

— Eppure... sembrava lei...

Sembrava. Anna è morta: la duchessa di Cleveland vive.

— Non ti ha fatto mai paura?

— Mai, mai.

— Sei un uomo forte, tu. Pure, la seguivi.

Seguivo te — ribatté Cesare, fattosi nuovamente aspro.

— Per gelosia di Hermione?

— Per gelosia.

Geloso della morte... geloso della morte... — mormorò Luigi, fra il rammarico e il ribrezzo, nascondendosi il volto fra le mani.

— E tu perché ti ostini ad amare una morta? Il mondo è pieno di donne giovani e belle, tu sei giovane, tu sei forte e perdi la tua gioventù e la tua salute ad amare un’ombra, un ricordo di donna, una creatura sparita per sempre! Non debbo essere geloso, io, quando tu continui a offendermi, innanzi alla immagine di Anna, che è la duchessa di Cleveland? Non debbo essere geloso, io, quando neppure la morte mi salva dalle beffe del mondo, che ti vede impazzire per lady Hermione, perché ella è l’immagine di Anna? Non debbo essere geloso, io, quando tu non lasci in pace neppure la tomba di mia moglie? Ah io non sono un sognatore, né un romantico, un allucinato, né un malato di cervello, hai capito? Io non credo ai fantasmi, non credo alle ombre, non credo ai miracoli dei morti che risuscitano, hai capito? Sono un uomo, io. So che mi hai offeso; so che hai continuato ad offendermi; so che mi offendi ancora: e non voglio, hai capito, non voglio! Vattene via: e trova un’altra donna, da amare.

— Non posso, Cesare.

— Tu sei pazzo: trova una donna; tenta di guarirti; ma lasciami in pace.

— Non posso. È una ossessione, Cesare.

Va da Charcot: fatti curare. Ci vuole una donna.

— È inutile: Ho amato Anna: l’amerò sempre.

— T’inganni; era un frivolo capriccio, tu non eri capace di amarla.

— E tu neppure.

— E io neppure, forse. Ma ciò non ti riguarda. Era un capriccio: lo dimenticherai facilmente: tutto si dimentica. Hai ventotto anni, cerca una donna.

— Io ho cento anni; io non voglio donne.

Luigi, Luigi, vattene, non tentarmi!

— Io ho dato la mia vita, a quest’amore: è il segreto della mia esistenza e della mia morte.

Anna non ti ha mai amato.

— È vero: ma non importa, l’amavo io.

Anna non ti avrebbe amato giammai.

— È vero; ma io l’avrei amata sempre.

Anna amava me, lo sai.

— Lo sapevo. Tutti quelli che amano veramente errano nella scelta.

— Sei uno scioccodisse Cesare, e la parola sibilò fra i suoi denti.

Ingiuriami, ingiuriami, hai ragionegemette Luigi, in fondo alla disperata miseria del suo spirito, con gli occhi fissi sulla porta della cappella.

Anna disprezzava gli sciocchi. Ella mi amava — gli disse freddamente, ferocemente Cesare Dias, guardandolo negli occhi.

— Lo so, lo so, me lo ha detto... — si lamentò l’infelicissimo.

— Ed è morta per me — finì di dire Cesare, orgogliosamente e ferocemente.

— Da me, da me, io avrò veduto almeno la sua morte! — esclamò l’infelicissimo, levando le mani al cielo, in atto di smarrimento. Il volto di Cesare si fece livido. Tale un impeto di gelosa collera lo soffocava, che non poteva parlare.

— Avrò avuto la sua morte, almeno... — ripeteva sommessamente Luigi, parlando a se stesso.

— Se ripeti ancora una volta questo, io ti ammazzogridò Cesare, per islanciarsi su lui, afferrandolo per le mani.

dentro, è vero? — chiese Luigi, indicando la cappella, senza opporre resistenza.

— Che dici? Che dici?

Dico che voglio morire, dove ella è, dico che mi do nelle tue mani, senza difesa, se tu me la fai vedere...

— No — disse Cesare, reprimendo un moto di orrore.

— Tu mi odii, tu desideri la mia morte, è vero? Apri quella cappella e fa sollevare quella lapide; io mi farò uccidere da te, innanzi a lei.

— No.

— Mi ucciderò da me, se me la fai rivedere.

— No.

— Te ne scongiuro, lasciami vederla un minuto; poi mi uccido.

— No.

— Ma chi sei tu, che ti opponi? Con qual diritto ti rifiuti? L’hai amata, forse? Hai spasimato per lei, due anni intieri? Hai sopportato il suo disprezzo, o, peggio, la sua indifferenza? L’hai amata, malgrado l’indifferenza? L’hai veduta morire, sentendoti morire accanto a lei? Hai pensato che il mondo fosse finito, perché ella era morta? Hai vissuto soltanto per amarla ancora, per delirare innanzi alla sua immagine? L’hai amata? Chi sei, tu? Che ti era, lei?

Era la mia donnadisse Cesare, senz’altro, a occhi bassi.

— L’hai amata?

Era la mia donna.

— È morta.

Era la mia donna.

— L’ami, almeno, l’ami?

Cesare tacque.

— Ti saresti ucciso, per lei, come me? Moriresti per lei, ora, come me? Moriresti, senza rimpiangere la giovinezza, la vita?

Cesare tacque: profondamente pensava.

— Vuoi morire, ora, innanzi a lei? Da’ la tua vita, come io do la mia, se tu l’ami.

Cesare taceva, pensando.

— Ah tu l’ami, tu l’ami, tu l’ami! — gridò Luigi, agli echi del camposanto.

— Io amo il mio onoreriprese Cesare, levando il capo, come se uscisse dai suoi profondi pensieri — il segreto della tua vita, è l’amore: quello della mia, è l’onore.

— Esso non ha sofferto macchia, Cesare, Cesare, credimi!

— Tu devi parlare così a me: ma io non ti credodisse, impallidendo ancora, parlando con quella voce sorda come sempre, quando confessava la sua tortura.

— L’ho detto a Hermione: l’ho detto a Hermione!

— Lo sosoggiunse Cesare, lentamente.

— Come, lo sai?

— L’ho udito.

Dove, dove?

— Nel bosco di Capodimonte: vi ho seguiti: vi ho spiati: ho udito...

— Tutto, hai udito?

— Tutto.

— Tu, dunque, sei stato testimone della mia miseria e della mia vergogna? Hai visto? Hai udito? Non hai inteso che io proclamava la innocenza di Anna?

— Sì: ma io non ti ho creduto.

— Io non sapevo che tu fossi , Cesare.

— Che importa? Si mentisce sempre. Non ti ho creduto mai, non ti credo.

— Avrei sofferto meno... se ella fosse stata mia... — balbettò l’infelicissimo.

— Come, meno? Che stai dicendo? Meno avresti sofferto?

— Non avrei avuto quest’incubo... quest’ossessione... — finì di dire Luigi.

— ... Non l’avresti avuto, dici? Sarebbe stato lo stesso. Quando una donna ci ama o l’amiamo, e che essa si uccide, credi, credi, l’ossessione è sempre la medesima — disse Cesare, con un tono profondo, narrando tutto il suo segreto.

— Hai ragionedisse Luigi, aprendo le braccia, desolatamente.

Tacevano entrambi; poi, Cesare parlò:

— Noi ci dobbiamo battere nuovamente, Luigi.

— Sì.

— Alla spada, come l’altra volta.

— Sì.

Credo che Carafa e Palliano mi assisteranno. Tu troverai.

— Sì.

— Per domani, è vero, Luigi?

— Sì: per domani.

Addio, dunque.

— Vuoi farmi una grazia?

— Non parlarmi così. Non ti sono amico. Mi sei nemico.

— Eppure voglio pregarti, voglio scongiurarti, Cesare, battiamoci qui.

— Qui, nel camposanto?

— Qui, dove siamo.

— Non si può.

— Perché, non si può?

— Qui si viene, morti: non ci si viene per morire.

Tentiamo, tentiamo!

— Io non voglio.

— Io morirò domani, Cesare: non puoi essere geloso di un morente.

— Non so nulla, di domani.

Morirò, morirò per le tue mani, hai ragione di farti giustizia. Fammi morire qui vicino, dopo averla vista.

Nossignore: mai, questo.

— Ah crudele, crudele, crudele!

— Ti decidi a esser un uomo? Addio.

Promettimi, se muoio, di farmi mettere qui.

— No; questo è il mio posto. Hai capito che fosse ella stata la tua amante, tu non sei nulla, nulla? Vattene. Ci batteremo domani. Addio.

— Io non credo che ella sia qui dentro, hai capito? — gridò Luigi.

Spero che tu non perda perfettamente la testa, sino a domani: va’, va’, addio.

A malincuore, dopo aver circondato di una occhiata, intensa di desiderio, la cappella di casa Dias, Luigi voltò le spalle e se ne andò, senza aggiungere una parola. Cesare Dias lo guardò andare via: restò solo: passeggiò su e giù cinque o sei volte innanzi alla cappella, quasi volesse essere sicuro che Luigi Caracciolo se ne andasse: si assicurò, prima di partire, che le porte della cappella erano perfettamente serrate: e se ne andò anche lui, per la porta inferiore di Poggioreale. Il crepuscolo si allargava sulla collina fiorita e nell’aria cheta crepuscolare restavano immobili i fiori delle tombe, le roselline di ogni mese, i crisantemi dalle lievi tinte gialle; e sugli alti rami degli alberi gli uccellini, col capo sotto l’ala, si addormentavano. Una immensa pace, quella della sera imminente e quella della più lontana ma non molto lontana notte si allargava sul bel camposanto: e alle dispute brutali e folli degli uomini, ai loro ardenti desiderii, alle loro brucianti gelosie, si sostituiva, nella solitudine, la serenità di coloro che nulla più sanno di speranza umana, di umano desiderio.

Per la via superiore di Poggioreale scendeva alla città colui che aveva amato invano: e sovra ogni pensiero, sovra ogni speranza, sovra ogni visione, sovra ogni sua follìa, eravi un unico desiderio più forte, più tenace, più invincibile. Per la via inferiore se ne tornava alla città, lentamente, colui che era stato amato invano: e senza speranza, senza fede, senza visioni egli non aveva che un saldo, incrollabile desiderio. Dove le due strade di Poggioreale si mettono nella grande via cittadina del Reclusorio, essi s’incontrarono e non iscambiarono che un’occhiata. In verità, chi avesse letto in loro, avrebbe visto la medesima ossessione, in colui che aveva invano amato, in colui che era stato amato invano: il desiderio di perire, l’indomani. Non quello di uccidere. Il desiderio di morire: l’ossessione unica.

.   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .

È inutile, Marco Palliano trovava buffa quell’avventura. Come, due volte? Tal quale come i Reali di Francia, allora? E se nulla di grave fosse accaduto, questa seconda volta, come era sperabile, questo duello si sarebbe ripetuto ancora? Si sarebbe forse avuto, ogni sei mesi, il divertimento di un duello Dias-Caracciolo? Cesare e Luigi si sarebbero forse battuti sino alla più tarda vecchiaia? Era forse il caso di fare un abbonamento? Proporre un accomodamento annuo ai maestri di scherma, ai medici, ai vetturini, a chi disponeva del locale? Si sarebbe realizzata una seria economia, facendo un cottimo. Tutta la sera, al teatro e al circolo, non fece che fare la burletta di questo certame, con Giulio Carafa: ma costui, che non era certamente uomo di umor tetro, non gli tenne bordone.

— Sei di cattivo umore? — gli chiese l’amico, alla fine.

— Già.

— Non ti rallegra, questa cosa buffa che andiamo a fare domani?

— No, non mi rallegra.

— Potevi negarti; negarti con entusiasmo.

— Non era possibile, per Cesare.

— Sicché tutto il nostro avvenire è impegnato, come padrini? — riprese a scherzare Marco.

— Così paredisse Carafa, finendo per dargli ragione, in quello scherzo.

E nella mente di Marco Palliano, che aveva sempre un grande orrore delle tragedie, non si potette cancellare questa impressione un po’ comica. Anche al mattino, malgrado che avesse poco dormito, il che lo rendeva profondamente infelice, sempre, egli ricominciò a scherzare, mentre Giulio Carafa si vestiva, mentre uscivano insieme, per andar a prendere Cesare. Anche il luogo del duello era un po’ buffo: il salone dell’osteria, ai Bagnoli. Ora, in un’osteria si fa colazione, ecco tutto! Era meglio ordinarla addirittura, la colazione. Quando mai un duello, in una taverna, è finito male?

— Sì, sì, uno ci è morto, una volta... — disse Giulio che aveva però dimenticato le sue preoccupazioni.

Avvelenato dall’oste, coi funghi, forse, ma non in duello.

Trovarono Cesare anche di eccellente umore: meglio dell’altra voltadisse sottovoce Marco Palliano. E con quest’altra volta, anche presente Cesare Dias, Palliano incominciò una serie di scherzi, che fecero ridere perfino colui che si doveva battere. La mattinata, invero, era così azzurra, così luminosa di sole, già calda, che il percorrere la via per andare ai Bagnoli, era già un conforto dello spirito e dei sensi. Pure, quando il cocchiere volle voltare per Mergellina, per raggiungere i Bagnoli, Giulio Carafa gli ordinò di andare per la grotta.

— Per la grotta? Ma non sai che è pericolante? — gridò Marco. — Se casca mentre passiamo, non facciamo né questo duello, né gli altri!

— Quali altri? — chiese Cesare.

— Quelli altri, che farai. Spero che non ti vorrai fermare a questo!

— Non dubitare: proseguiremodisse Dias, ridendo.

Giulio Carafa spiegò che per Fuorigrotta si abbreviava e che avrebbero visto il paesaggio di Posillipo al ritorno.

Dopo colazionesoggiunse Palliano.

Erano tutti tranquilli e sereni. La via diritta che oltre la grotta di Posillipo porta ai Bagnoli, attraversando la piccola valle, aveva anche la sua leggiadria quasi estiva, tra la collina di Posillipo che sul versante settentrionale si allunga verso il mare, e le pianure che vanno verso le azzurre colline di Pozzuoli e di Baia. Vi era un gran passaggio di carri: andavano lentamente, faceva un po’ caldo, nella carrozza chiusa.

— Se si aprisse? — propose il dottor Carli, che era con loro, un piccolo abruzzese fra il bruno e il fulvo.

Aprirono il landau. Sembrava, ora, una carrozza di scampagnata. Non si vedevano le spade, erano nascoste sotto un sedile della carrozza: era nascosta anche la valigetta del dottore. Fumavano. Chiacchieravano. Si parlava dei progetti di viaggio, per l’estate. Cesare Dias vantava la sua solita Engadina, il suo Saint-Moritz così gelido, aver freddo in estate e caldo in inverno: era la sua teoria. Il Carli la combatteva, a nome dell’igiene: in estate bisogna aver caldo, bisogna sudare, è il mezzo di star bene. Carafa andava in Inghilterra, Palliano, dove voleva la sua Lillina.

— Come, sei ancora con lei? — chiese Dias.

— No: è un’altra: ma la chiamo anche Lillina, per non confondermi.

— È una dinastia, allora — soggiunse Cesare.

Erano giunti. L’osteria è un corpo di fabbrica isolato fra gli orti: fa angolo sulla via di Fuorigrotta e verso il mare dei Bagnoli, da cui la divide la via maestra che risale verso Posillipo e discende verso Pozzuoli. Le altre due facciate sono sulla pianura verde dei Bagnoli e sugli orti pieni di insalate, di pianticelle di pomodori, di alberi di fichi e di pergolati d’uva. Il fabbricato è di un sol piano e vi si accede per una scala di tufo, di cui gli scalini sono tutti sbocconcellati. Sul pianerottolo vi erano due porte: una dava a certe stanze che sporgevano sulla via di Fuorigrotta: dalla porta aperta s’intravvedeva un largo letto e un cassettone, con una Madonna Immacolata, in abito azzurro e bianco, sotto una campana di cristallo. L’altra porta dava sul salone, così detto: una vasta stanza, due volte lunga quanto era stretta, che prendeva tutta la facciata occidentale verso il mare, con quattro balconi: che aveva un altro balcone, sul lato settentrionale, verso Fuorigrotta e un balcone-porta sopra una terrazza, verso il piano dei Bagnoli. Questo salone era piuttosto basso di soffitto, il che toglieva molto alla impressione di ampiezza. Nei giorni di festa vi erano due file di tavole, per il lungo, coverte solo dalla tovaglia e con la saliera in mezzo, aspettando gli avventori: ma in quel giorno, per dare spazio, molte tavole erano state tolte e altre erano state spinte verso il fondo del salone, sul lato di Fuorigrotta. E non vi erano altri mobili che queste tavole e delle sedie di paglia: lungo le pareti, dipinte di una scialba tinta giallastra, vi erano dei quadretti, sulla vita del primo Napoleone.

Dal balcone che si apriva sul terrazzino verso la pianura dei Bagnoli, entrava un grande raggio di sole, distendendosi sul pavimento, che era fatto dei soliti mattoni rossastri e freddi delle case campestri meridionali. La sala era ancora deserta; non si vedeva né l’oste, né un sol garzone, come se tutti fossero spariti, per una consegna. Mentre tutti si toglievano i cappelli e i soprabiti — erano in anticipo di dieci minutiCesare Dias era andato a fumare una sigaretta, a uno dei balconi che dava sulla spiaggia dei Bagnoli. Dinanzi a lui si stendeva lo strano paesaggio dal Capo di Posillipo sino alla punta verso Baia, un mare chiuso come un lago, del color dell’acciaio, spezzato dalla bizzarra isola di Nisida e dal suo lazzaretto: un mare triste e immobile, come l’ultimo lembo della laguna veneziana, presso il Lido. Sulla spiaggia due barche erano tirate a secco: un piccolo stabilimentuccio di bagni era in costruzione, ma non vi lavorava nessuno. E Cesare ripensò a una sua passeggiata amorosa, in una mattina come quella, con la contessa Lalla d’Aragona: ella aveva fatto il miracolo, per amore, di levarsi presto ed eran venuti in carrozza per la via di Posillipo, ed ella aveva gridato di gioia, vedendo il singolarissimo paesaggio fra il Capo e Baia: non lo aveva mai veduto, non aveva mai oltrepassato la villa Monplaisir, a Posillipo! Erano venuti qui, in questa osteria, a far colazione, come uno studente e una modista, per un novello idilliaco capriccio della contessa. Cesare sorrise: Marco Palliano, che lo aveva raggiunto, indovinò:

— Ti ricordi qualche cosa, eh?

— Sì.

Avventura dolce?

Agrodolce.

— Ecco Luigidisse Palliano, indicando una carrozza, che scendeva dalla via di Posillipo. — È certamente lui.

— Viene dalla via bella, per godere il paesaggioosservò Cesare, continuando a fumare la sua sigaretta.

La carrozza dell’avversario discendeva per la via a zig-zag dal Capo verso i Bagnoli e si vedevano bene ora le quattro persone, dai cappelli a cilindro: anche essi avevano aperta la vettura, non resistendo alla lusinga di una mattinata napoletana, a Posillipo. Adesso anche Giulio Carafa si era accostato al balconcino sporgendosi per vedere.

— Sarà meglio rientraredisse, badando sempre alle convenienze — abbiamo l’aria di esser giunti troppo presto, di aspettarli con impazienza o di supporli in ritardo.

Rientrarono. Il dottor Carli aveva fatto un’ispezione, oltre che nel salone, nelle altre stanze e a pianterreno: aveva trovato l’oste, giù, in cucina, con uno sguattero e un garzone occupati a cucinare e a rigovernare dei piatti come se nulla fosse. Aveva chiesto dell’acqua, per isciogliere le rosee pastiglie del sublimato corrosivo: e gliel’avevano data, in un secchiello. Mentre era dietro alla soluzione, la vettura di Luigi Caracciolo si era fermata innanzi alla porta, e per le scale salivano i quattro, senz’affrettarsi. Luigi era assistito dal principe Francesco Tocco Kantelm Stuart, un pezzo d’uomo grande e grosso, con una carnagione bruna da militare e un ruvido mustacchio pepe e sale: e lo assisteva anche Emanuele Capece, un piccolino, magro, dalla barbetta bigia e dagli occhietti vivissimi.

Con essi vi era anche il loro dottore, il Carrano, un uomo alto e magro, con una figura scialba, una barba rada e quasi incolore e un occhio bianco. Nel cortile il Carli lo chiamò, mentre Luigi Caracciolo e i padrini andavano su.

— Ah sei qui... meno maledisse il Carrano, con un filo di voce.

— Hai bisogno di qualche cosa? — disse il rude abruzzese, con la sua aria di buonumore.

— No... ma sai, è meglio di ritrovarsi con un amicodisse flebilmente l’allampanato medico.

— Che! Non accadrà nulla di maledisse il Carli, fregandosi allegramente le mani, mentre salivano ambedue per le scale.

Speriamo, speriamodisse il fievole dottore, alquanto rassicurato.

Entrando nel salone, dove si procedeva ai soliti preliminari del duello, si aveva la medesima impressione rassicurante. Fra tutti, non era un po’ pallido che Luigi Caracciolo; mentre la faccia aperta e colorita di Francesco Tocco, i vividi occhietti di Emanuele Capece, il volto tranquillo di Giulio Carafa e l’aria un po’ impaziente, ma di una innocente impazienza infantile, di Marco Palliano, formavano come un coro di espressione unisona: la fretta di finirla con una qualunque noiosa faccenda, un desiderio di tornare a casa, poi, tutti quanti sollevati e soddisfatti. La fisonomia di Cesare Dias era calmissima, non solo, ma senza che quella calma apparisse come il frutto di una tensione nervosa: egli non fumava più, per rispetto al momento, ma addossato allo stipite di un balcone, giocherellava con la sua mazzetta d’ebano dal piccolo pomo d’argento, battendola sovra un piede, battendo contro la gamba, senza neppure guardare quel che si facesse. Solo Luigi, come se fosse imbarazzato della sua persona e della sua attitudine, durante quel tempo, era uscito dalla porta-balcone sulla terrazzina che dava sulla pianura dei Bagnoli, aspettando che lo chiamassero. Non aveva detto una parola, dal momento che era entrato, aveva solamente salutato, di lontano, Cesare Dias e stretto la mano a Carafa e a Palliano, in silenzio. Subito, era uscito fuori.

— Sarà andato a scegliere il posto per la colazione: idea delicatamormorò Marco Palliano, incorreggibilmente gaio e più gaio del solito, quella mattina.

Intanto Giulio Carafa e Francesco Tocco misuravano il terreno e discutevano sui vantaggi e gli svantaggi di un raggio di sole. Si sarebbero messi più in qua: bisognava levare una tavola. E i due medici, pazientemente, senza neppur chiamare l’oste e il suo garzone, la trasportarono fuori il terrazzo. Appoggiato al parapetto, volgendo le spalle al salone, come se nulla vi si facesse che lo interessasse, Luigi Caracciolo guardava, assorto, verso la via di Posillipo.

— Hai un primo sentimentale... — disse sorridendo il Carli.

— Già: credo che sia un duello di amorerispose il debole uomo, dandosi un certo tono d’importanza.

Rientrarono. Si sorteggiava il comando dello scontro. La fortuna lo dette a Francesco Tocco e Giulio Carafa n’ebbe una leggera seccatura.

— Ti annoia di non comandare? — gli chiese sottovoce Marco.

— Sì, un poco.

Bah! Tutto finirà benissimo, lo vedrai.

— Lo vedrò, sperodisse Giulio, superando quel moto di noia.

Certo, nessuno si spiegava come sarebbe potuto finire tutto bene; ma ognuno ci sperava, ognuno ci credeva così, per quelle ostinate previsioni che invadono le anime umane in alcuni momenti e avvolgono in una corrente di ottimismo tutte le incertezze e tutte le diffidenze. Non un’ombra di preoccupazione in nessuno: e il Carli vivacemente, ma sottovoce, parlottava col Carrano di un caso chirurgico importante, all’Ospedale dei Pellegrini. Francesco Tocco, grande schermitore, cedendo alla sua passione predominante, s’indugiava con le spade, insieme con Giulio Carafa; e i due testimoni, Palliano e Capece, che non avevano nulla da fare, in quel minuto, guardavano, in un quadretto, Napoleone seduto e cogitabondo, in una sala delle Tuileries, mentre Giuseppina, col vestito aperto sul petto e sostenuto da una cintura sul seno, coi capelli di creola bizzarramente acconciati, piange e gestisce, poiché Napoleone le ha annunciato il ripudio: e i due testimoni sorridevano, scambiandosi delle riflessioni, sempre sottovoce. Sì, tutti chiacchieravan piano; ma era la sola concessione che facevano alla gravità del momento; del resto il loro ottimismo andava quasi crescendo, in ragione diretta dello scontro che si approssimava.

Ma tutto era stabilito ormai.

Luigi! — chiamò con la sua voce poderosa Francesco Tocco. Caracciolo comparve e, inteso da uno sguardo che tutto era pronto, si cominciò a spogliare, come faceva Cesare. Erano i personaggi di quella scena, collocati così: i due medici, il Carli e il Carrano, nel fondo del salone, fra il balcone che dava sulla via di Fuorigrotta e le tavole riunite. Sotto la tovaglia di una di esse, erano nascosti gli apparecchi chirurgici. I due testimoni, Palliano e Capece, per non fare ingombro, si erano messi sulla soglia della porta del salone, quella che dava sulla scala, e nella lunghezza del salone, quindi, non vi erano che i due avversari e i due padrini. Per quanto lungo, il salone, lo spazio non appariva grandissimo: ma bastava per un duello alla spada, osservò Palliano, giustamente, al testimonio di Caracciolo. Mai battersi alla sciabola, in una stanza: ma per la spada, basta una pedana di sala di scherma.

I due avversari, questa volta, non si guardarono neppure: e vi era sui loro volti una espressione di assoluta indifferenza. Non era che un po’ pallido, Luigi Caracciolo: ma Cesare Dias aveva il suo buon volto delle sue migliori serate, nella vita mondana, quando godeva raffinatamente e quietamente di quegli squisiti piaceri. E tutti, di nuovo, travolti dalla corrente dell’ottimismo, pensarono che ogni cosa sarebbe andata benissimo.

Francesco Tocco prese le punte delle due spade, le unì per un minuto secondo, le guardò con occhio carezzevole, poi le lasciò andare, comandando con la sua voce tonante:

— In guardia!

Luigi Caracciolo si mise in guardia malamente: Cesare Dias con lentezza, come faceva sempre. Tutti guardavano, attentissimi, ma senza nessuna ansietà e senza nessuna impazienza, poiché il primo assalto è per lo più una prova delle forze.

— Uno... due... tre! — contò, a voce tonante e spaziando matematicamente le parole, Francesco Tocco. — A voi!

Allora accadde questo. Dopo un tempo d’immobilità delle spade, in cui i due avversari si guardarono senza astio e senza curiosità, freddissimamente, Luigi Caracciolo, con un movimento improvviso e goffo, tirò un colpo diretto al petto di Cesare Dias. Costui, sorpreso, non arrivò a parare: e Cesare Dias prese il colpo in pieno. Fu un attimo. Il duello era finito.

Regnò, subito, nella stanza una confusione silenziosa: tutti si agitarono, pallidissimi, ma taciturni, quasi evitando di guardarsi. Reggendo Carafa nelle braccia il ferito, il Carli cominciò a versare sulla ferita l’ipercloruro di ferro, ma la emorragia era forte: dette l’acido gallico, per bocca, anche immediatamente. Il ferito aveva le palpebre abbassate, ma non era svenuto. Un momento levò le palpebre e si guardò intorno, come cercando: ma era uno sguardo velato e una ricerca fredda. Le riabbassò, quasi stanco di quello sforzo. Distesero un materasso sovra una tavola e con infinite precauzioni, il grande Francesco Tocco, smorto e con gli occhi pieni di lacrime, prese il ferito e ve lo mise a giacere senza cuscini, per cercare di non aumentare l’emorragia del polmone. Tutto questo in silenzio: i due medici, assorbiti, curvi sul ferito, il Carli che chiedeva sottovoce qualche cosa al Carrano e costui che gliela porgeva, diventato un po’ rosso sulle sue guance scialbe e incolori. Vacillando, Luigi Caracciolo era andato a sedersi sovra una sedia, in un cantuccio. Marco Palliano andava dall’uno all’altro, senza far nulla, senza domandare, ma con una profonda costernazione sul volto giovanile e fino allora così gaio. Più di tutti, egli aveva creduto che tutto finisse benissimo.

Il Carli, levandosi, fece un cenno, per fare allontanare Carafa e Tocco dal ferito. Dias respirava male, aveva bisogno d’aria. Tutti quelli che si affollavano intorno al tavolo del ferito si arretrarono, e Dias, levando le palpebre, fissò il raggio di sole che adesso si allungava, diritto, dal balcone del terrazzo fin quasi ai piedi del tavolino. Lo guardava con molta attenzione. Il Carli scioglieva dell’ergotina nell’acqua: con un cucchiaino gliela dette da bere, senza che il ferito levasse il capo. Adesso Dias si faceva pallidissimo: ebbe un deliquio. Da Carrano che gli porgeva le boccette, il Carli gli fece odorare del fortissimo aceto antipestilenziale, gli mise fra i denti stretti qualche goccia di cognac.

Trasportarlo? — osò domandare, sottovoce, Giulio Carafa.

Impossibilenegò risolutamente il medico.

A un tratto, il ferito rinvenne. I suoi occhi si volsero su Giulio Carafa come chiamandolo. Costui accorse: e chinatosi su Cesare Dias vide che costui gli faceva cenno, con due dita, per dire che era andata. Non interrogava il ferito: diceva, sapeva che era finita.

— No, no — disse Giulio, con un accento energico. — Non ti agitare.

Ma quello ebbe un’ombra di sorriso. Poi un piccolo rantolo gl’interruppe il respiro, e una schiuma rossa apparve intorno alle labbra. Il Carli, allora, diventò un po’ smorto e si rialzò un momento, tirandosi il fulvo mustacchio. Palliano e Capece erano in un angolo, immobili, senza parlarsi, a occhi bassi. Giulio Carafa non si toglieva da vicino al ferito che rantolava, con un fischio nella gola. Francesco Tocco era andato presso Luigi Caracciolo, che stava seduto e che lo guardò con aria smarrita.

— Ah, è troppo orribilemormorò Francesco Tocco, guardandosi il polsino della camicia e la mano tutta bagnata di sangue, poiché egli aveva sollevato il ferito.

Gli occhi trasognati di Luigi si riempirono di lacrime ed egli abbassò il capo un’altra volta. Francesco gli si sedette accanto, senza dirgli più nulla. Anche Marco Palliano ed Emanuele Capece si erano seduti, presso un balcone, guardando fuori, distrattamente, senza scambiare una parola, e nel silenzio del salone si udiva distintamente il rantolo di Cesare Dias, un rantolo breve e gorgogliante, ogni tanto interrotto da un sospiro, più lungo. Attorno al ferito non vi erano che Giulio Carafa, il quale si chinava ogni tanto su Cesare, quasi a interrogarne lo sguardo, la fisonomia: e i due medici che non si affaccendavano più tanto, dandogli solo, talvolta, a bere un cucchiaino di qualche cosa. E avevano tutti, coloro che si erano seduti e che tacevano, come coloro che erano presso Cesare Dias, l’aria immobile e angosciata — poiché la immobilità può essere angosciosa — di chi non può fare altro che aspettare. Nessuna confusione, più: nessuno scambio di parole sommesse, coi pallidi volti accostati: nessuno sguardo desolatamente interrogatore che incontra un desolato sguardo di risposta: non altro che un’angosciata e taciturna aspettazione, senza curiosità e senza ribellione. Quanto tempo passò così? Il ferito aveva chiuso gli occhi, cereo nel volto; e il rantolo, da gorgogliante, si faceva fischiante. Il Carli gli faceva odorare una fiala, ogni tanto: ma Cesare non si ridestava da quel torpore.

— Ah, è orribile, è orribilemormorò Francesco Tocco, rivelando quasi involontariamente la sua impressione.

Ma un certo movimento si fece intorno al ferito. Aveva aperto gli occhi: e lo sguardo aveva una vivace, confortante espressione. Carafa gli teneva la mano, gliela stringeva leggermente, sentendola di una temperatura ancora uguale. Pure, Cesare desiderava qualche cosa: il suo sguardo chiedeva. Fisso in quello di Giulio Carafa, intensamente gli domandava di esaudire il suo desiderio. Quale voce parlò nello spirito del frivolo mondano, tragicamente, quale mirabile intuizione egli ebbe? Certo che egli si staccò dal ferito, andò a Luigi e gli disse

— Vieni, ti vuole.

Luigi si accostò: la mano di Cesare Dias fece cenno agli altri di allontanarsi. Così, Luigi, piegato sul ferito, lo guardò e lesse, lesse bene la interrogazione che gli facevano quegli occhi, interrogazione ardente e disperata. Sommessa, tremante e concitata la voce di Luigi disse, nel volto di Cesare:

Innocente, Anna.

— Ah, va benedisse il morente credendogli.

Poi fece un moto convulso per levarsi; ricadde, sospirò profondamente e morì.

.   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .

.   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .   .

La Chimera, il bello yacht di lady Hermione, arrivò innanzi a Gibilterra in una mattinata di agosto. Da vari giorni, in quelle ore, una fitta ed ampia nebbia si levava sul mare, pericolosissima per le navi che entravano e uscivano dal porto inglese: anzi, quella Capitaneria del Porto aveva fatto grandi avvertimenti, per le debite precauzioni marittime, ai piroscafi da viaggio e alle navi mercantili. Quando la Chimera giunse, in quella mattinata, la nebbia era anche più profonda e più vasta sul mare: e il bello yacht si ancorò alla meglio, fuori del porto. Quel giorno, neppure il sole di estate giunse a lacerare il tessuto biancastro, umido e perfido della nebbia: e il crepuscolo della sera ve lo trovò. Fu alle sei pomeridiane che l’Australien, un piroscafo francese, uscì dal porto di Gibilterra, per il suo solito viaggio d’America; uscì prima con lentezza, manovrando con enormi difficoltà fra le navi ancorate; poi, fuori, affrettando il suo cammino. E l’investimento contro la Chimera non fu che un grande urto misterioso, in quei veli bianchi ed iniqui della nebbia; un enorme scricchiolìo e un enorme grido in quelle ombre, in quel biancore: un tumulto informe, una convulsione paurosa e quasi spettrale: così, sull’Australien, s’indovinò che la Chimera colava a picco. Impossibile salvare il bello e fragile yacht: difficile salvare qualche naufrago, in quella perfidia esiziale della nebbia. Tutto il porto di Gibilterra fu in gran rumore, per tentare il salvataggio del capitano, dell’equipaggio e sovra tutto di Sua Grazia, la duchessa di Cleveland; ma delle diciotto persone di equipaggio, solo tre furono salvate, due marinai e un mozzo: vivi. Il mare respinse gli altri cadaveri, nella notte e nel giorno seguente. E le famiglie inglesi Roseberry Stanhope, Darlington presero il lutto per la loro parente, lady Hermione, perita nel naufragio della Chimera. Lord Cleveland le ordinò dei magnifici funerali, nella loro casa di Londra, in Saint-James; in Battle Abbey, nel Sussex; a Roby Castle, nel Durham. E colui che errava, da tempo, per i mari, cercando Hermione, non trovò tomba su cui piangere colei che lo aveva amato invano e che egli aveva amato invano.

 


«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on touch / multitouch device
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2011. Content in this page is licensed under a Creative Commons License