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II.
La lettera diceva così: «Carissimo amore, ho affrontato anche io Cesare Dias. Quale uomo! La sola sua presenza mi gela e basta che egli mi guardi coi suoi chiarissimi occhi azzurri, perchè la voce mi muoia sulle labbra; il suo silenzio ha per me qualche cosa di pauroso, e quando discorre, la sua voce incisiva mi ferisce, prima per il tono, poi per le dure parole che pronunzia. Pure, ho avuto l'audacia di parlargli del mio matrimonio, stamane, quando è venuto per la consueta visita; gli ho chiesto un breve colloquio, senza tremare, sebbene da tanti giorni la sua fredda cortesia di tutore abbia una tinta ironica, sprezzante. Laura era presente, taciturna, con la sua aria distratta, e ha fatto una lieve alzata di spalle, noncurante e sdegnosa; si è levata lentamente e se ne è andata, senza voltarsi, con quel suo passo lieve che pare appena sfiori la terra. Cesare Dias, seduto in una poltroncina, giuocando con una stecca di avorio, sorrideva senza guardarmi, e quel sorriso mi scomponeva le idee. Ma dovevo tentare, dovevo; lo avevo promesso a te, amore, a me stessa, e la vita mi era insopportabile, accanto a mia sorella che possedeva il mio segreto, che mi torturava col suo sogghigno di persona che non ha mai amato, che mi faceva fremere di vergogna e di spavento, quando pensavo che ella poteva narrarlo, il segreto di quella notte burrascosa. Cesare Dias sorrideva, fissando i bizzarri lavori della stecca giapponese, e sembrava non avesse nessuna premura di udir nulla da me. Ebbene, malgrado il mio turbamento, malgrado che mi trovassi in presenza di una persona che non amo e che non mi ama, malgrado l'abisso che divide il mio carattere da quello di Cesare Dias, io ho osato dirgli che ti adoravo, che volevo vivere e morire con te, che la mia fortuna sarebbe bastata alla nostra famiglia, che non avrei voluto e saputo sposar nessun altro che te, che infine, umilmente, devotamente, al parente più prossimo, all'amico più saggio, chiedevo di dare il consenso al mio matrimonio.
«Egli mi ha ascoltato, con gli occhi bassi, senza dar cenno d'interesse: solo, la stecca gli è restata immobile due o tre volte, fra le mani. Alla fine, ha detto seccamente: no. E allora ha avuto principio una scena atroce, in cui ho, volta a volta, tentato di pregare, di piangere, di ribellarmi, di proclamare la libertà del mio cuore, come avrei, fra poco tempo, proclamata la libertà della mia persona, e ho trovato sempre di fronte un cuore arido e duro, una volontà ostinata, e tutto un ragionamento perfido, falso, convenzionale, basato sul rispetto umano, sull'egoismo, sulla mancanza di sentimento. Cesare Dias ha negato il mio amore e il tuo; ha negato che esistano dei grandi amori, per cui si vive e si muore; ha negato che la passione sia indimenticabile; ha negato che non si possa vivere senza affetti profondi: il suo vocabolo è stato no, al principio del nostro colloquio, ha continuato a esser no, sempre no, facendomi le dimostrazioni più paradossali, più stravaganti e più ciniche; per convincermi che io m'illudeva, che noi c'illudevamo, e che era suo dovere opporsi a tale traviamento. Oh quanto ho pianto, come ho prostrato il mio spirito innanzi a quell'uomo che ragionava così freddamente, e come ora mi pento di essermi così umiliata! Mi rammento: quando la violenza della mia passione per te, amore, scoppiava in clamori, l'ho visto guardarmi con ammirazione di spettatore, come al teatro si ammira una scena drammatica e dopo si applaudisce l'attore che ha così bene recitato, fingendo la passione. Non mi credeva, e la collera mi ha due o tre volte fatto perdere il lume degli occhi, e sono giunta a minacciare di fare uno scandalo. – Lo scandalo ricade su chi lo fa, – ha detto lui, severamente, alzandosi per far cessare il colloquio.
«Se ne è andato: l'ho inteso, nel salotto, parlare quietamente con mia sorella Laura, quasi nulla fosse stato, quasi non mi avesse lasciato singhiozzando, quasi non mi udisse ancora disperarmi e invocare i nomi della Madonna e dei santi. Ma questa gente non ha viscere, e io sono circondata da persone che mi credono un'esaltata, una pazza.
«Amor mio, dolcissimo amore mio, eterno mio pensiero, è dunque deciso che dobbiamo fuggire. Bisogna fuggire, qui si muore, così. Tutto è meglio di questa casa che è una prigione: tutto è meglio della galera. Io non voglio più trascinare la catena. Sì, quello che fo, è così grave che mi sgomenta: la fanciulla che fugge di casa, secondo il comune giudizio degli uomini, si disonora, e malgrado la santità del matrimonio, dopo, non muore mai il sospetto. Sento che butto via tutta la mia vita, per un sogno d'amore. Ma anche il destino è stato così bizzarramente crudele pel mio cuore, dandomi una fortuna e togliendomi il padre, dandomi un cuore avvampante di affetto e isolandomi da tutti gli affetti, dandomi la più cara e insieme la più disamorata delle sorelle.
«Che posso io più sapere del giusto, dell'onesto, se le sacre voci dell'onestà e della giustizia non hanno accompagnato la mia adolescenza? Per chi debbo io sacrificarmi, giacchè coloro che mi amavano sono morti, e coloro che vivono non mi amano? Io ho bisogno di amore; l'ho trovato, mi attacco ad esso, non lo lascio più. Chi mi piangerà qui? Nessuno. Quali mani si stenderanno a richiamarmi? Quelle di nessuno. Che ricordi porto via? Niente di niente. Io sono una creatura solitaria e sconosciuta che fugge il paese glaciale del polo, in traccia di quel sole vivificante che è l'amore. Tu sei il sole, tu sei l'amore. Non mi giudicare male, io non sono simile alle altre fanciulle che hanno una casa, una famiglia, un nido: io sono invece una povera pellegrina senza tetto, senza ricovero, che cerca una casa, una famiglia, un nido. Io sarò la tua sposa, la tua amante, la tua serva, quello che tu vuoi, purchè io viva teco, sotto il tuo tetto, raccogliendo il capo stanco sul tuo petto: ti amo. Una vita intera nella santa atmosfera del tuo amore, mi farà perdonare questo errore, che commetto. Non mi perdonerà il mondo. Ma io sdegno le persone che non hanno saputo sacrificar tutto all'amore; e coloro che hanno amato mi compatiranno. Io non saprò più nulla, che il tuo amore non sia. Tu mi perdonerai, perchè mi vuoi bene.
«Dunque è deciso. Fra tre giorni da quello in cui riceverai la mia lettera, venerdì, lascia la tua casa, come se andassi a passeggiare, senza bagaglio, senza scialli, e fatti portare da una carrozza alla stazione. Ivi prenderai il treno Napoli-Salerno, che parte all'una precisa pomeridiana e arriva a Pompei alle due. Io non verrò alla stazione di Pompei, per non destare sospetti, ma starò girando per la città morta guardando le sue ruine: cercami dovunque, o piuttosto, no, vieni nella strada dei Sepolcri, accanto alla villa di Diomede, dinanzi a quella tomba di Nevoleia Tyche, una fanciulla pompeiana dolcissima, dice l'iscrizione. Ivi staremo sino al tramonto del sole e poi partiremo per Metaponto e per Brindisi, dove c'imbarcheremo per l'Oriente. Io ho del danaro: sai che Cesare Dias, per non avere noie, aveva lasciato nelle mie mani l'uso delle mie rendite, da due anni. Dopo... quando questi danari saranno finiti, ebbene, lavoreremo fino a che io abbia ventun anni. Hai dunque inteso? Non ti curare di come io potrò uscire di casa, andare alla stazione ed arrivare a Pompei senza farmi scoprire. È un mio piano semplice e audace che non posso comunicarti; debbo per forza eseguire quello e non un altro, perchè qualunque nostra riunione in Napoli ci esporrebbe a un grave rischio. Soli, partendo con treni diversi, perduti nella folla, come vuoi che ci scoprano? Ti meraviglia questa mia lucidezza di mente, questa calma, questa precisione? Sono venti giorni ch'io rifletto su questo piano, che non dormo di notte per istudiarne i particolari più minuti. Rammentati, rammentati: venerdì, alle dodici, partenza dalla tua casa; all'una, partenza dalla stazione; alle due e mezzo, convegno innanzi alla Tomba di Nevoleia Tyche; non dimenticare, per carità; se tu non dovessi arrivare all'ora detta, che farò, io sola, dentro Pompei, tormentandomi, morendo d'inquietudine?
«Dolcissimo amor mio, è questa l'ultima lettera mia che tu ricevi. Perchè, scrivendo queste parole, un senso di dolore mi vince e mi fa piegare il capo? La parola ultima è sempre triste, comunque si dica; e faccia Dio che io non debba rimpiangere questo tempo bello, anche nelle sue torture. Ma tu mi amerai sempre, anche lontani dalla patria, anche poveri, anche infelici? Tu non dirai che io ho voluto il tuo male? Tu proteggerai questa debole creatura esposta a tutte le miserie umane, forte soltanto del suo amore? Tu sei buono, sei onesto, sei leale; il tuo amore ha delicatezze fraterne, tu sarai ogni cosa, ogni persona per me, e il mondo, e Dio! Ah, io bestemmio, è vero, ma ti adoro, ma io non sento più che l'imperioso, il feroce desiderio di fuggire, di venire a te, di non separarmi mai più, di camminare con te, sino all'ultima ora! Bando alla mestizia: noi ci amiamo, la vita è nostra; infelici i cuori senz'amore e senza la speranza dell'amore! L'ultima lettera è questa, è vero: ma dopo incomincia il grande avvenire. Ricordati, ricordati dove ti aspetta – Anna».
Giustino Morelli lesse due volte la lettera di Anna, lentamente, come se ne imparasse a mente le parole. Era solo nella sua piccola casa: imbruniva. Poi abbassò il capo sul petto ed era smorto in viso: si sentiva vinto e perduto. Vinto e perduto, lui: vinta e perduta, Anna.
. . . . . . . . . . . . .
In quell'ora mattinale la chiesa di santa Chiara, tutta candida di stucchi, tutta ricca di ori, smorti e nobili, co' suoi marmi dolcemente bigiastri e con le sue miti pitture dall'alta volta, era quasi deserta: le vecchie devote erano sedute qua e là, strette nello sciallo di lana nera, e qualche donna del popolo, pregava inginocchiata, all'altare dell'Eterno Padre. Le due donne, Anna Acquaviva, e la sua damigella di compagnia, Stella Martini, eran sedute a metà della chiesa, cogli occhi abbassati sui loro libri di preci. Stella Martini aveva una di quelle facce scialbe e flosce di vecchie zitelle, che furono un tempo delicatamente graziose, e il cui fiore di bellezza si è appassito prima di trent'anni, che finiscono per rassomigliare a bambole vecchie, imbottite di cruschello, da cui il cruschello sia caduto; vestiva di nero e aveva un aspetto di rassegnata bontà, di pace spirituale. Anna indossava un abito di lana nera, con una giacchetta bigia all'inglese, e sui neri capelli raccolti strettamente sulla nuca da un grosso pettine di tartaruga bionda, posava un tocchetto nero, dall'ala grigia. Il pallor caldo del suo viso non aveva una goccia di sangue sotto la pelle, e ogni tanto ella si mordicchiava il labbro, nervosamente. Per molto tempo ella tenne il libro delle orazioni, aperto, senza voltare la pagina bianca: ma Stella Martini non se ne accorse; ella pregava fervidamente. A un certo punto, la fanciulla si levò:
– Io vado – disse, pur restando ferma, guardando la vôlta della chiesa.
– Non avete il velo? – chiese Stella Martini.
– No, vado così. Sto poco.
E con passo leggerissimo si allontanò verso l'alto della chiesa, sparendo in un confessionale, dalla parte opposta dove stava Stella Martini. Costei la seguì con lo sguardo; poi, pazientemente, abbassò il capo e si mise a recitare fra sè il rosario. Nel confessionale, il buon prete dei Verginisti, dal viso rotondo e roseo che avea conservato qualche cosa d'infantile nella vecchiaia, e dalla corona di capelli candidi, faceva le domande di rito, dolcemente, non meravigliandosi del tremore della voce che gli rispondeva, conoscendo bene il carattere della sua penitente, cercando di ricondurla ad una contemplazione pacifica dell'esistenza.
Ma Anna Acquaviva quel giorno rispondeva assai confusamente; spesso non intendeva il senso delle semplici parole, che il prete le rivolgeva; spesso un silenzio era la risposta, mentre un respiro affannava, dietro la grata; e infine quando il confessore le ebbe chiesto, con una certa ansietà:
– Ma che cosa avete dunque?
– Padre, sono in grave pericolo – rispose una voce sorda.
Invano egli, scosso, cercò di sapere: ella esitava a dare spiegazioni: udiva le esortazioni alla quiete, alla sincerità, senza mormorare altro che questo:
– Padre, mi minaccia una disgrazia.
Allora egli si fece severo, l'ammonì che era un peccato molto brutto venire lì a burlarsi della fede, quando non si voleva neppure chiederne gli ausilii nella sventura: che il Signore aborriva specialmente i sacrileghi che mescolano il sacro col profano, e che tengono tanto al peccato, nel momento istesso del pentimento. E le dichiarò che non poteva assolverla; ma capì che quell'animo fiero e impetuoso si era ormai chiuso alle letificanti dolcezze della religione.
– Tornerò – disse lei, levandosi risolutamente.
Per tornare da Stella Martini ella doveva ripassare innanzi al confessionale e il padre Verginista si piegò a vederne il viso e l'andatura: un dolore mistico gli restava nel cuore, per quell'anima smarrita. Ma ella non ripassò, ed egli pensò che la povera creatura se ne fosse andata via da un'altra parte. Infatti Anna Acquaviva, invece d'avviarsi verso Stella Martini, fece due passi indietro ed entrata in una cappella, sparve dalla porta della chiesa, che dà sul chiostro di Santa Chiara: la damigella, senza levar gli occhi, seguitava a pregare fervorosamente, aspettando che la confessione finisse. Anna scese assai tranquillamente gli scalini, attraversò il chiostro senza affrettarsi, senza voltarsi indietro, e uscita nella via di Santa Chiara, salì in una carrozzella da nolo, facendone sollevare il mantice, e dicendo al cocchiere di andare alla stazione. Aveva compiuto tutto ciò con molta calma, ma quando fu in fondo a quella nicchia oscura, trabalzata sul selciato di Trinità Maggiore, sola, libera, fuggita infine, si arrovesciò indietro, comprimendosi un fazzoletto sulle labbra per soffocare le folli grida di gioia e di angoscia insieme, che ne irrompevano.
Andava, andava, come in un sogno, scuotendosi ogni tanto all'idea bella e atroce che era proprio lei, Anna Acquaviva, che aveva abbandonato per sempre la sua casa e la sua famiglia, portando delle migliaia di lire nella borsetta infilata al polso, per gittarsi nelle braccia di Giustino Morelli: e nessun sentimento di paura la teneva più: ormai tutto era finito, non l'avrebbero più ripresa, era via, era via, nell'ignoto, essere sconosciuto e disperso nella sconosciuta folla. E in quel sonnambulismo di chi compie una grande azione decisiva ella era precisa e rigida nei movimenti, simile ad un automa. Alla stazione pagò il cocchiere, e macchinalmente chiese al bigliettinaio un biglietto per Pompei.
– Col ritorno? – domandò costui, naturalmente. Da Pompei si ritorna sempre nella giornata.
– No – ella rispose, sussultando simile a una sonnambula che si svegli.
Egli pensò che fosse un'inglese appassionata di antichità. Ella mise il biglietto nell'apertura del guanto, e senza sbagliare, come un congegno di orologeria perfettamente montato, si avviò alla sala di prima classe. Si guardò attorno con indifferenza, come se non fosso neppure possibile che Cesare Dias la raggiungesse in quella sala, o che qualche persona di sua conoscenza si meravigliasse d'incontrarla sola, colà: niente, niente, era immobile, senza più un sentimento, col bisogno di andare innanzi, niente altro. Non si sorprendeva neppure di esser sola, per la prima volta: e le pareva che da anni e anni viaggiasse così, anzi, che sempre nella sua vita non avesse fatto altro: e che Laura Acquaviva, Cesare Dias e Stella Martini fossero pallide ombre di un passato, anteriore anche all'esistenza, gente vista altrove. Ella andava ripetendo fra sè, macchinalmente, come il bimbo che non deve dimenticare una parola:
Ma salendo nello scompartimento di prima classe, vuoto, dette indietro sullo scalino: pareva che una forza l'avesse respinta. Qual mano misteriosa, dunque, le impediva di andare? Tremò, quasi desta dal sogno: e dovette fare uno sforzo per salire nel vagone, vincendo quell'ostacolo misterioso che le dava un brivido di paura, anche perchè ne sentiva l'impressione, senza distinguerne l'aspetto. E da quel minuto in cui la segreta voce del destino le era confusamente risuonata nella coscienza, ella visse in quel dormiveglia morale di chi attraversa una grave crisi: dormiveglia che ora la cullava in carezzose visioni di felicità, innanzi al ridente spettacolo della azzurra costiera napoletana, dove il freddo invernale si mitigava in un tiepido scirocco: e che ora si dileguava facendole fare un sussulto innanzi a un'oscura ma opprimente realtà. Filava, filava il treno mattinale fra la campagna e il mare, quasi rasentando le chete onde, passando attraverso le case bianche di Portici, attraverso le case rossastre di Torre del Greco, attraverso le case bianche, rosse e bige della popolosa Torre Annunziata, scivolando con poco rumore sulle rotaie bagnate dalla rugiada sciroccale: e Anna, stretta nel suo paltoncino, con la veletta abbassata sugli occhi, raccolta in un cantuccio, dietro il cristallo dello sportello, passava da una grande, confusa e dolcissima apparizione fiorita, di stelle, di carezze, di baci, a un freddo terrore di un pericolo imminente, che la faceva rincantucciare, più timida di una fanciulletta che si sia smarrita nella strada. Oh sì, nell'orizzonte chiarissimo ondeggiava il fantasma di un avvenire tutto amore, tutto passione, tutto tenerezza: un fantasma fiammeggiante di tutte le voluttà dell'anima e delle fibre; ma quando ella si scuoteva dalla contemplazione più estatica della grande luce, dentro sè udiva le implacabili parole della coscienza che mai non tace, in tutte le anime, pure ed impure, corrotte ed incorrotte, la voce profonda che è la verità istessa:
– Non andare, non andare; se vai, sei perduta.
E questo presentimento, in un'ora di viaggio, crebbe talmente, che quando il treno, oltrepassata Torre Annunziata, si mise per la bruciata e brunastra campagna che è quella vesuviana e che precede la gran rovina di Pompei, ella ne ebbe l'incubo, e la disperazione le fece torcere le mani intorno al manico della sua borsetta da viaggio. Erano sparite le verdi vigne e le ville che ridono fra i pampini: era sparito il mare lucidamente azzurro, dove le vele bianche parevano ali di bianchi uccelli fermi sulla cima delle acque marine: e si andava in un gran paesaggio desolato, dove pareva s'avanzasse minaccioso il vulcano, col suo eterno fuoco, col suo fumo che mai non cessa: ed erano anche spariti, per sempre, i fantasmi della felicità. Anna viaggiava sola, in una landa sterile, dove il fuoco era passato, distruggendo la vegetazione, distruggendo le case e gli uomini e i loro piaceri e i loro amori, che pareva non dovessero finire mai. E dentro a lei la voce diceva:
– Così è la passione: tutto distrugge ed ella stessa muore.
Tanto che pensò aver fatto una scelta malaugurata, andando a Pompei, la città dell'amore, distratta dal fuoco, perenne soggetto di ammirazione e di malinconia a chi la visita, avesse costui il cuore arido come la pomice. E fu assai smorta figura di fanciulla quella che scese dal vagone di prima classe: e incertamente, in preda alle dubbiezze desolanti di chi si sente lentamente cadere in un precipizio, ella si mise dietro a una famiglia di tedeschi, anch'essa discesa innanzi alla minuscola stazione, insieme con due preti inglesi.
Andava dietro, così, senza intendere più quello che succedeva intorno, fissando un occhio distratto sulle siepi polverose che chiudono lo stesso sentiero che conduce a Pompei; sui campicelli di quel bizzarro fiore che pare un fiocco di seta, sui campicelli che vanno dalla stazione all'albergo Diomede. Nè la comitiva, tedesca, nè i due preti guardavano quella solitaria viaggiatrice dal volto bruno e pallidissimo, dai grandi occhi bigio-neri che vagavano senz'interesse intorno, avendo quegli occhi lo sguardo interiore delle persone assorbite in una passione. Solo, quando tutti furono entrati nella sala terrena dell'albergo, così triste, così pieno di tristi mosche ronzanti, ella restò in un angolo, presso una finestra, guardando il sentiero che aveva percorso, come se attendesse qualcuno, come se volesse tornare indietro. E invero Anna, più che mai, si era messa a desiderare profondamente la presenza di Giustino, pensando che solo al vederlo apparire, solo all'udire la sua cara, tenera voce, tutte le dubbiezze sarebbero fuggite.
– Io lo adoro, lo adoro – pensava fra sè, assorta nell'idea della passione, cercando in essa il coraggio contro la sua coscienza. Si accorse di essere restata sola, in piedi: e un cameriere, sotto l'arco di una porta, osservava con indifferenza quella signora taciturna e immota, abituato alle stranezze dei forestieri. Ma ella capì che doveva andare, e attraversando, così, macchinalmente, un cortiletto oscuro, si mise per una scaletta che sale al primo piano dell'albergo e che, al secondo piano, spunta dirimpetto all'entrata di Pompei. Niente ella aveva udito: nè le offerte di qualche ristoro nella sala dell'albergo, nè quelle del venditore di coralli, lave e Guide di Pompei che ha una bottega colà, nè quelle di un bambino, sulla strada, che le offriva dei fiori di bambagia serica, in francese. Ella andava automaticamente, il suo cuore era preso da un solo, da un unico desiderio: veder Giustino, ecco la sua forza, ecco la ragione della sua vita, solo lui, l'amore, niente più, niente più: Giustino, Giustino, Giustino! Guardò al suo piccolo orologio di fanciulla, l'unico gioiello che aveva portato via: quanto tempo, ancora, per le due! Dopo aver preso i danari del suo biglietto, una vecchia guardia degli scavi, un ometto curvo e lento, si era avviato innanzi a lei, per farle spiegazione delle ruine. Anna lo seguiva, anch'ella debole e lenta, quasi le fossero mancate tutte le forze fisiche, mentre dentro fremeva la passione. E insieme, il vecchio povero uomo che faceva il suo mestiere, malgrado l'età e la stanchezza, e la giovinetta che si reggeva a stento, in un grande abbandono delle fibre, si misero per la bellissima, la dolcissima fra tutte le rovine dell'antichità, per la città sacra all'amore e al piacere, che pare ancora traspiri dalle pietre delle sue vie, dalle pareti rossastre dei suoi triclinii, dalla frescura taciturna delle sue terme, l'amore e il piacere. Lentamente, fra il tepore della mattinata sciroccale, essi andavano per gli alti marciapiedi, penetrando poi nei templi, attraversando le strette vie della Speranza, della Fortuna, dove così profondi solchi han lasciato nelle pietre i carri, entrando in tutte le case, uscendone, visitando le piazze, i mercati, le botteghe: il vecchio avanti, borbottando le sue spiegazioni, la giovinetta dietro, guardando ogni cosa con quelle occhiate vaghe, che pare abbiano una nebbia innanzi a sè. Due volte, la guardia disse:
– Adesso, visiteremo la via dei Sepolcri, e la villa di Diomede.
– Dopo – ella rispose due volte.
Due o tre volte ella si lasciò cadere sopra una pietra, stanca, e il povero vecchio si sedette un po' distante, abbassando il capo sul petto, addormentandosi. Anch'ella si lasciava prendere dalla prostrazione, avendo esaurito nell'atto dell'audace fuga dalla chiesa, nel viaggio, prima in carrozza e poi in treno, tutto quello che vi era in lei d'impetuoso, di tumultuario. Adesso si sentiva troppo sola, abbandonata, povera persona che portava, attraverso la città morta, tutta l'oppressione della solitudine, della stanchezza, e quando, dopo una lunga pausa di riposo, ella si levava di nuovo, un sospiro le usciva dal petto. Pure, riprendeva il suo cammino, dovendo far passare il tempo, volendo divorare le ore che dividevano venti minuti di cammino da Pompei: il vecchietto e lei camminavano per la via stretta fra i campi, senza parlare, sollevando appena un po' di polverio col loro passo. Tornò indietro, pian piano, avendo pregato il guardiano di tacere, presa ormai da un abbattimento mortale. E quando finalmente il vecchio le disse, per la terza volta:
– Adesso visiteremo la via dei Sepolcri e la villa di Diomede.
Ella rispose, fievolmente:
– Andiamo.
Le ore, lente, erano trascorse: ne mancava una sola all'arrivo di Giustino: con l'orologetto in mano, mentre la guardia le spiegava le magnificenze della villa Diomede, ella disse, fra sè:
– Adesso Giustino parte da Napoli.
Impaziente, non potendo più sopportare la voce, la presenza del vecchio, non sapendosi più dominare, lo licenziò: esitante, egli non voleva andarsene, le disse che non era permesso nè di disegnare, nè, specialmente, di asportare nulla. Ma lo diceva con timidità, umile, sapendo bene che era inutile far queste raccomandazioni alla pallida fanciulla dagli occhi sognanti; e andandosene, pian piano, si voltò indietro più volte, a vedere che faceva. Ella sedeva sopra una pietra, di fronte alla tomba della dolcissima liberta Nevoleia Tyche, aspettando: aveva le mani in grembo, la testa china; non la levò neppure quando passarono gli inglesi accompagnati da un guardiano. Quest'ultima ora le parve una immensa discesa, interminabile, in una grande ombra, dove il senso di tutte le cose si smarriva; il nome di Giustino, ripetuto continuamente, le serviva per sottile linea di luce. Non udiva, non vedeva più nulla intorno a sè; ogni nozione, di ogni cosa, era sparita. A un tratto innanzi alle palpebre abbassate, fra lei e la bigia tomba della libertà, si mise un'ombra. Era giunta senza far rumore; e giunta non aveva profferita parola. Ella levò il capo, e vide innanzi a sè Giustino, che la guardava con una infinita e disperata tenerezza. Anna, incapace di dir nulla, gli stese la mano e si levò; sorrideva così luminosamente che tutto il suo volto dalla bella fronte, dagli occhi scintillanti, dalle vivide guance dove era affluito il sangue, dalle rosse labbra, parea rifulgesse. Così seducente, nella ebbrezza dell'amore felice, Giustino non aveva vista mai la fanciulla, e una lieve contrazione attraversò il suo volto di buon giovane onesto. Estatica, essendo morti tutti i suoi dubbi, essendo ella risorta alla gloria del suo amore, Anna non si accorgeva della emozione dolorosa di Giustino:
– Mi vuoi bene molto?
– Molto.
– Me ne vorrai sempre?
– Sempre.
Era come un'eco molle e mesta; ma la fanciulla non se ne accorgeva, un divino velo di passione le era disceso sugli occhi. Andavano, andavano, ella stretta a lui, così immensamente felice che appena appena toccava terra, godendo quel minuto intenso di amore con tutta la forza sensitiva e sentimentale che possedeva, con l'abbandono più ingenuo a tutta la felicità di cui è capace una umana persona. Andarono, così, per le vie di Pompei, senza vedere, senza guardare. Solo essa ripeteva, sottovoce, nenia carezzevole:
– Dimmi che mi vuoi bene, dimmi che mi vuoi bene...
Due o tre volte egli rispose affermativamente con un semplice sì, detto molto sottovoce: poi tacque. E in un minuto di chiaroveggenza, non udendolo più rispondere, Anna si fermò, trattenendolo lievemente pel braccio, domandandogli, mentre lo fissava nei buoni occhi onesti:
– Che hai?
Era una domanda affannosa: la voce tremava. Egli chinò gli occhi:
– Niente – disse.
– Non sono triste – replicò lui, con uno sforzo.
– Non mentire!
– Non mento.
– Ah tu non hai bisogno di giuramenti! – esclamò con tanta sicurezza e con tanto dolore, che ella si convinse subito, intendendo la sincerità e non il dolore.
Ma rimase inquieta, con un'amarezza che le sorgeva dal cuore e le invadeva il sangue. Erano presso alla Via di Mare, donde si esce dalla città morta.
– Andiamo via, andiamo via – disse ella impaziente.
– Il treno per Metaponto non passa che alle sei: vi è tempo.
– Andiamo via: non voglio restare più qui; ti prego, andiamo.
Egli, rassegnato a una passiva obbedienza, obbedì. Tacevano. I due preti inglesi scendevano all'albergo Diomede e alla stazione, insieme con loro: Anna, intimidita, non osava più parlare d'amore con Giustino, ma lo guardava con certi occhi così amorosamente supplichevoli, che egli non poteva reggervi. Uscirono da Pompei, discesero la scaletta dell'albergo e si trovarono di nuovo in quella sala terrena, bassa di soffitto e piena del fastidioso ronzio delle mosche: i due preti si sedettero alla tavola sempre preparata, e mentre si allestiva il pranzo, uno leggeva gli Evangeli e l'altro la sua guida Baedeker. I due innamorati erano presso la finestra, guardando dai cristalli la via che conduce alla stazione: e Anna teneva sempre il suo braccio attaccato a quello di Giustino. Ed egli, confuso, inquieto, le chiese se volesse pranzare, così, volgarmente, come per dominare l'imbarazzo della loro posizione. No, non voleva pranzare, non aveva fame: dopo, più tardi – e la voce era nervosa, ella sogguardava i due ecclesiastici, infastidita.
– Vorrei... – soggiunse all'orecchio di Giustino.
– Che vorresti?
– Portami via, altrove, dove possa dirti una parola!
Egli titubò: ella, a un tratto, s'infiammò nel viso, intendendo: uno smarrimento che veniva dal pudore muliebre, la vinse. Ma Giustino, deciso, si era allontanato, per parlare con l'oste. Poi, era tornato:
– Vieni.
– Sopra.
– ... sopra?
– Vedrai.
Risalirono la scaletta, si fermarono al primo piano, e il cameriere che li accompagnava aprì loro la porta di un quartierino, composto di una camera e di un salotto; una grandissima camera e un piccolissimo salotto, ambedue con i balconi che guardavano la campagna e la stazione; il cameriere con la stessa sua aria indifferente li lasciò soli in quelle stanze, dove talvolta dimora due o tre giorni uno straniero appassionato di archeologia, o dove riposano, per qualche ora, delle straniere, aspettando il treno. Ambedue, rimasti soli in quel salotto, erano adesso pallidi, gravi, confusi. Ella si guardò intorno: il salottino era volgarmente ammobiliato da un divano di sargia verde, da due poltroncine di sargia, da un tavolino rotondo, nel mezzo, coperto da un tappeto di juta color nocciuola, da una mensola con un piano di marmo bianco, da qualche sedia di paglia; e questo ambiente, dove tanti estranei erano passati, le ispirò una diffidenza, un ribrezzo da non dirsi. Stando sotto l'arco della porta, gittò un'occhiata nella camera. Era vasta, con due letti in fondo, divisi da un tavolino da notte, con una toilette assai gramamente coperta di tendine bianche, un divano sempre di sargia verde e un armadio scuro: tutti questi mobili erano perduti nella vastità della camera che pareva nuda. Ella ebbe freddo al solo guardarla; eppure, nuovamente, le salì il rossore, al viso. Era agitatissima. Ma levando gli occhi in viso a Giustino, vide che costui la guardava con tanta pietà, che si sgomentò di nuovo, più intensamente.
– Che hai? – gli disse con voce strozzata.
Nessuna risposta. Giustino si era seduto e aveva nascosta la faccia fra le mani.
– Dimmi che hai – replicò ella, fremendo di angoscia e di collera.
Egli tacque; forse piangeva dietro il velo delle mani.
– Se non mi dici che hai, me ne torno a Napoli, Giustino! – gridò ella, al colmo dell'ira e dell'affanno.
Niente: taceva.
Allora ella abbassò la testa, pensò, con l'ardentissima rapidità dei minuti supremi.
E invece di andare, si sedette innanzi a lui e gli disse con tono calmo:
– Tu mi disprezzi, perchè sono fuggita di casa mia.
– No, Anna – mormorò lui fievolmente.
– Tu mi credi una miserabile... supponi che io sia una creatura perduta?
– No, cara, no.
– Forse... tu... ami un'altra donna.
– Non lo sospettare neppure.
– Avrai... forse... un altro legame, senz'amore?
– Niente mi lega, a nessuno.
– Nemmeno una promessa?
– Nemmeno.
– E allora perchè sei triste? Perchè tremi? Perchè piangi? Io dovrei tremare e piangere, eppure non piango, io, se non del tuo pianto, ignoto pianto che mi offende e mi dispera!
– Anna, ascoltami, per carità, per la memoria di tua madre, intendimi. Io sono disperato per te, per il passo che hai fatto, per il tuo avvenire che hai giuocato, per la infelicità che ti attende, domani, senza casa, senza nome, senza fortuna, perseguitata dalla tua famiglia...
– Se tu mi amassi, non penseresti, non diresti queste cose...
– Te le ho sempre dette, te le ripeto, Anna. Questa è una rovina che io ho fatta, io agonizzo da tre giorni sotto i rimorsi, e oggi stesso, innanzi a te che sei tutta la mia luce, mi è parso di trovarmi a una oscura catastrofe. Anna, Anna, oggi non perdono a me stesso, domani tu non mi perdonerai più... Oh amor mio, io sono un galantuomo, un cristiano, e ho potuto imporre prima a te, poi a me, tale peccato, tale errore!...
Parlando così, con uno strazio infinito, tutta l'onestà del suo bellissimo animo esulcerato dal rimorso e dall'amore, traboccava. Ella lo guardava, lo udiva, stupefatta, arrestandosi dinanzi a quella rettitudine, a quella virtù più forte dell'amore, ella che credeva solo nell'amore.
– Non ti capisco – disse, trasognata.
– Eppure bisogna, bisogna: se tu non vedi la ragione della mia condotta, mi disprezzerai, mi odierai, come un vile, come un ladro, Anna: tu devi usare di tutta la tua mente, di tutto il tuo cuore per apprezzare; non lasciarti trascinare dall'amore, sii calma, sii fredda...
– Non posso.
– Oh Dio! – disse lui, disperato.
Di nuovo tacquero. Ella, macchinalmente, per nascondere il tremore delle sue mani guantate, tirava i fili del tappeto di juta. Ella rifletteva, analizzava, cercava d'intendere, e sempre, sempre, aveva la medesima sensazione, la medesima idea, dolorosa, spasimante, insopportabile: e non potendo resistervi, la espresse, in parole, aspettando d'essere da lui immediatamente smentita, come egli aveva fatto sempre.
– Tu non mi ami abbastanza – disse lei, guardandolo negli occhi, senza batter palpebra, con tutta l'anima concentrata nella voce e nello sguardo.
– È vero: non ti amo abbastanza – rispose Giustino, decisamente.
Ella non dette un lamento; era colpita al cuore. Tutto il breve salotto, e l'albergo, e Pompei, e il mondo parve che le roteassero nel cervello, con un fracasso e un moto, vertiginosi: ebbe la sensazione che le si spezzassero le tempia; se le strinse fra le mani, istintivamente. Qualche striatura di rosso le apparve sotto gli occhi, verso le guance, e si andò sempre più dilatando.
– Sicchè – riprese ella, dopo una lunga pausa, con voce breve – sicchè tu mi hai ingannata?
– Ti ho ingannata – mormorò lui umilmente.
– Non mi amavi?
– Non abbastanza, per obliar tutto in questo amore: te l'ho detto.
– Perchè eri bella e buona, e mi volevi bene, e non ho visto il pericolo, non ho capito che tu ti davi tutta a questo amore, e che io doveva impedirtelo a tempo...
– Parole, parole: l'essenziale è, che non mi ami.
– Come tu vuoi, come tu meriti, no.
– Cioè, senza fiamma, senza entusiasmo?
– Senza fiamma, senza entusiasmo.
– Con che, allora?
– Con tenerezza, con affetto, con devozione.
– Non basta, non basta, non basta, – disse lei, monotonamente, quasi parlando in sogno; – non sai amare diversamente, di più, come me?
– No, non so.
– Non puoi, forse? Potrai forse domani, o in avvenire?
– Non potrò mai, Anna. Preferirò sempre il sacrificio al godimento, sempre il dovere amaro alla più dolce felicità.
– Miserabile e inetta creatura! – mormorò lei, con un immenso disprezzo.
Egli levò gli occhi al cielo, chiedendo forza per sopportare il suo martirio.
– Sicchè – ricominciò Anna, lentamente – se vivessimo insieme, tu soffriresti?
– Ambedue soffriremmo: e i tuoi dolori, di cui io sarei la causa, mi ucciderebbero.
– Dunque?
Innanzi a lei era la crudele, la terribile realtà: non vi era che una sola decisione da prendere, e così inaspettatamente crudele e terribile, che pur vedendola, ella indietreggiava, inorridendo. Certo le forze del suo cuore erano decuplate: in quel momento viveva così intensamente come se dieci esistenze giovani, forti ed esaltate, fossero raccolte nel suo corpo, nel suo cuore. Ma troppo era orrenda la verità e non volle dirla, non volle consacrarla con le sue parole, con la sua voce. Lo guardò, soltanto, quell'uomo che, per salvarla, le infliggeva una tortura ineffabile, ed egli comprese che Anna non poteva pronunziare un'ultima parola. Egli stesso... egli stesso, che in quel momento amava follemente quella fanciulla, malgrado tutto il coraggio delle ore supreme, egli stesso non poteva dirla, l'ultima parola, e la straziante verità li faceva tremare, come due morenti, all'agonia.
Ella si levò di scatto, andò alla finestra del salotto e appoggiò la fronte ai vetri, guardando la campagna pompeiana e innanzi a sè la viottola che portava alla piccola stazione. Due altre volte, così, macchinalmente in quella giornata che ormai declinava, ella aveva guardato il paesaggio silenzioso: ma nella mattinata, quando era sola, accanto a Giustino, ella possedeva intero l'inapprezzabile tesoro di un grande amore. Adesso... adesso tutto era finito, giammai più, giammai sarebbe risorto l'amore: finito, finito tutto. E provò in se stessa tale lacerazione di animo, che pose anche la bocca ardente ai vetri, per soffocare il suo strazio. Giustino non si era mosso dal suo posto, con la faccia fra le mani, irrigidito dalla fatalità: a un tratto, si trovò Anna alle spalle, che lo forzava a levar la testa, che gli parlava nel volto, con un alito caldo di passione:
– Come è possibile... come è possibile – balbettava Anna, smarrita – che tu non mi voglia più bene.... Come può esser finito questo amore.... Oh anima mia, anima mia diletta, tu vuoi dunque vedermi morire...
Giustino la guardava, perduto, senza rispondere.
– Eppure mi hai amata... – seguitava lei, ricordando – non puoi negarlo, lo so... Quando io ti appariva, io ti vedeva impallidire, pallida io stessa... se ti parlavo, la mia voce faceva scintillare di novella luce i tuoi occhi, come la voce tua mi si allargava carezzosamente nel cuore... tu mi cercavi dovunque, come io ti cercava, sentendo bene che il mondo era scolorato senza l'amore... e le tue lettere portavano l'impronta di una tenerezza infinita... ma è amore questo, è l'amore vero, grande, che non dimentica in un giorno o in un anno, per cui non basta una esistenza... Ma non è possibile, tu non hai potuto dimenticare, tu mi ami, tu menti adesso, non so perchè... ma dilla la verità, dillo che non ti sei potuto strappare dal cuore questa passione...
Egli affannava, sotto quel tumulto di parole, a quell'impeto disperato e socchiudeva gli occhi, perduto, perduto, sentendosi mancare tutto il suo disperato coraggio.
– Giustino, Giustino... per amor di Dio, pensa a quello che fai, rinnegando il nostro amore... pensa a due esistenze infrante, poichè tu stesso non puoi sopravvivere a tale catastrofe... Giustino, io mi uccido se tu mi lasci qui... io non posso restare un minuto, qui, senza spezzarmi la testa alle muraglie... andiamo via, andiamo via insieme, portami via, tu mi ami, partiamo subito, ecco l'ora...
Già pareva che quella forza di passione avesse vinto, perchè egli l'amava, infine, perchè era un uomo, coi suoi nervi, coi suoi sensi, col suo cuore amoroso: ma quando, di nuovo, ella gli parlò della fuga e quasi quasi lo trascinava via, il cuore gli si gelò dallo spavento innanzi a un avvenire d'infelicità: ed ei fece uno sforzo immenso per resistere.
– Non posso, Anna – disse, sottovoce.
– Dunque vuoi che io muoia?
– Tu non morrai: alla tua età si vive, anche vincendo un gran dolore...
– Tutto è finito per me, Giustino: è la catastrofe...
– Non vi sono catastrofi, Anna...
– Tu parli come Cesare Dias... – gridò ella scostandosi da lui – tu parli come uno scettico senza amore e senza onore... tu sei come lui, un corrotto e un sacrilego...
– Insultami, hai ragione di farlo...
– Io son disonorata, intendi? Io son fuggita dalla mia casa, dalla mia famiglia, da dieci ore; io son sola, qui, in una stanza d'albergo con te... Sono disonorata, disonorata, vigliacco che sei!... Tu puoi andartene alla tua casa, quietamente, dopo aver avuto un'avventura drammatica... ma io non ho più nè casa nè famiglia, intendi? Ero fanciulla onesta... adesso l'ultima delle ultime val meglio di me, poichè peccò per amore o per miseria... son perduta, così, senza essere una poveretta e senza aver avuto un amante...
– La tua famiglia sa dove sei e quello che hai fatto... sa che non ti macchia nessuna colpa... sa che fuggendo, hai obbedito a un movimento generoso del tuo cuore, per una persona che non lo meritava... ma che ti ha rispettata...
– E chi disse loro ciò?
– Io.
– Quando?
– Stamane.
– A chi l'hai detto?
– A tua sorella, al tuo tutore.
– Vennero essi da te?
– No: li cercai io, subito.
– E in che vi accordaste?
– Che sarei venuto qui e ti avrei salutata.
– E dopo?
– Che ti avrei lasciata.
– Quando?
– Quando Cesare Dias sarebbe giunto a prenderti.
– È un bellissimo piano – diss'ella glacialmente. – Piano di gente pratica e tranquilla. Bravo, bravo. Tu... sei corso subito dai miei parenti a scolparti, ad accusarmi: li hai rassicurati; bene, bene. Io sono una ragazza folle, che ha fatto una scappata giovanile, fortunatamente senza danno dell'onore: tu mi hai denunziata, invece di fuggire con me, e sei un galantuomo: benissimo. Tutto è combinato a meraviglia: io torno a casa, con Cesare Dias, quasi avessi fatta una innocente escursione, e chi s'è visto s'è visto. Tu hai ragione, Cesare Dias ha ragione; anche Laura Acquaviva, che non fugge, che non ama, che disprezza chi ama e chi fugge, ha ragione; tutti avete ragione. Io sola ho torto. Ah la buffa avventura! Tentare una fuga e non riescirvi perchè il rapitore vi ha denunziata alla vostra famiglia! Che commedia! Avete ragione, non vi sono catastrofi! È una soluzione ridicola, lo capisco. Io sono il suicida che ha mancato il suo colpo di rivoltella. E avete ragione: chi ha torto è colui che non sa fuggire o che non sa uccidersi, io sola ho torto. Tu... – e lo guardò in faccia, saettandolo con un'occhiata – tu, vattene.
– Anna, Anna, non mi scacciare così...
– Vattene. La tua parte di vigliacco è compiuta. Vattene.
– Non ci dividiamo così...
– Siamo già divisi: eravamo già divisi, sempre. Vattene.
– Anna, l'ho fatto per te, per il tuo bene; adesso mi scacci, dopo mi renderai giustizia: sono un uomo onesto, ecco la mia colpa...
– Ma che farai, qui, sola?
– Lasciami aspettare Cesare Dias...
– Se non te ne vai subito, apro il balcone e mi butto giù – disse con tale calma, che egli ne comprese la sincerità.
– Addio, dunque.
– Addio.
Ella era ritta in mezzo alla stanza, già in penombra pel tramonto, pallida, con certe sottili striature rosse alle guance, alle tempia: lo guardò uscire, lo intese discendere le scale, lentamente, col passo strascicato di colui che ha un immenso peso sulle spalle. Allora ella si accostò alla finestra, e un'ombra uscì sulla piazzetta innanzi alla porta dell'albergo: era Giustino. Stette fermato un poco, rivolto verso la strada maestra che da Torre Annunziata viene a Pompei, quasi aspettasse qualcuno. Lo vide Anna, poi, voltarsi verso le finestre dell'albergo e guardarle lungamente, non sapendo decidersi ad andare, ed infine, assai piano, invece d'imboccar la viottola per recarsi alla stazione, andarsene a piedi per la via maestra verso Torre Annunziata, ombra dolente ed oppressa, ferita a morte, sparente nella via deserta, nella sera che scendeva, come se entrasse in una perenne solitudine, in una tenebra perenne dominata dal silenzio.
Anna la seguì ancora, quell'ombra, fino a che non la distinse più, svanita. Allora tornò nella stanzetta e stramazzò sul divano mordendone i cuscini per non gridare, sentendosi la testa in fiamme senza poter piangere neppure una lacrima sola. Ardeva tutta, adesso, in preda a una febbre furiosa, con la pelle che parea crepitasse e scoppiasse sotto il battito delle vene gonfie di rovente sangue. E in mezzo a quella confusione di dolore dove ella volta a volta si lamentava come un fanciulletto a cui hanno commessa una grande ingiustizia, o sussultava di sdegno come una donna offesa in tutta la sua superbia, o tremava di vergogna all'idea dell'imminente arrivo di Cesare Dias, o rimpiangeva straziata tutto il suo amore dato a uno sconoscente, in mezzo a tutto ciò una frase sola, angosciosa, fatale, implacabile le si delineava nella mente: tutto è finito, tutto è finito. Sempre, nelle ore alte dell'amore o del dolore, quando tutta una battaglia di opposti sentimenti si combatte nel cuore e lo sconvolge, attraverso la lotta, attraverso la confusione della mischia, una frase si presenta, netta, precisa, con la limpidità luminosa delle mistiche visioni; ed in essa si raccoglie, si riassume, antica, breve, leggenda scolpita nel bronzo, tutto l'amore, tutto il dolore. Ah ella soffriva, sì, per tutte le sue fibre, gemeva per tutta la tenerezza, per tutte le delicatezze della sua anima offesa e calpestata; ma fra le sofferenze materiali e morali, fra la rovina di ogni speranza e di ogni desiderio, una frase la abbatteva, in una disperazione incommensurabile: tutto è finito, tutto è finito. La ripetette, involontariamente, anche a voce alta e le parve così triste e roca quella voce che ne ebbe paura. Tutto è finito, tutto: le parole di questa breve frase avevano una sonorità fatale, di martello che inchioda una bara, di pietra che ricade sopra una dischiusa tomba di pietra. Tutto è finito: vi era nella frase, l'ultimo saluto a tutto il passato, a tutto l'avvenire, il mormorio di una prece mortuaria, il rassegnato requiem dell'anima cristiana. E le tre parole, ogni volta che le apparivano lucide, rifulgenti sul fondo oscuro del suo spirito, quali il colpevole Baldassare le vide apparire sulla negra parete, irresistibilmente luminose, ogni volta le risuonavano implacata ripetizione di una sentenza. Pure, quando bussarono, levò la testa infiammata dai cuscini e guardò stranamente nel volto il cameriere, che portava una lampada accesa.
– La signora resta qui, stanotte? – chiese il servo, posando il lume sul tavolino.
– No... parto – rispose Anna guardandolo sempre coi suoi occhi folli.
– L'ultimo treno per Napoli è già partito; si può andare a Torre Annunziata, in carrozza – spiegò lui.
Ella non intese bene: le palpebre le batterono due o tre volte: si passò una mano sulla fronte che si arrossiva a striature, bizzarramente.
– Non so... verranno a prendermi... credo – mormorò, voltando la testa in là.
Il cameriere la lasciò sola nel salotto. A malgrado il paralume, la luce della lampada le faceva tanto male agli occhi, che non potette sopportarla. Si alzò, andò di là nella grande stanza da letto, oscura e fredda, dove non aveva osato entrare prima, vergognandosi nel suo pudore offeso. Oh era bene sola, adesso, poichè tutto era finito! A tentoni, andò a buttarsi sopra una poltroncina della grande stanza. Colà l'ombra, le dette senso più acuto di abbandono, di solitudine, quasi nulla esistesse in lei medesima e intorno a sè. Finito, tutto. Uno struggimento immenso adesso la consumava, senza che dai suoi occhi aridi e brucianti, escisse una lacrima, nè un singhiozzo dalla sua gola oppressa; pareva che nell'anima si compisse un'opera di distruzione, lenta ma sicura, ma interna, ma segreta, senza sfoghi, senza grida, senza lamenti. Tutto era finito: tutto finiva anche in lei, superstite dell'amore. Il lavoro del destino, tacitamente, si compiva e fiaccata ogni superbia, cessato ogni odio, in una rassegnazione consumatrice nel desiderio e nel presentimento vicino alla morte. Anna Acquaviva abbassò la testa, aspettando. Tutto era finito: anche lei finiva, dunque, per l'amore, poichè per l'amore non aveva potuto vivere. Sola, nell'ombra, in una volgare stanza d'albergo, fra sconosciuti, abbandonata da tutti coloro che aveva amati, punita di aver troppo amato follemente, punita di aver troppo chiesto alla vita, arsa da una febbre che le metteva il fuoco nel cervello e nel cuore, eppure accasciata e immobile come un cadavere, la fanciulla sentiva che sarebbe perita senza soccorso. E, immersa in quel silenzio, non ne chiedeva.
Colei che aveva peccato nella speranza e nel desiderio, era così castigata; la peccatrice del cuore, della fantasia, quella che aveva presunto troppo dell'esistenza e dell'uomo, colei che aveva esaltata la creatura effimera e mortale sino all'altezza del Creatore, sarebbe finita così, fra gli estranei. E non si doleva, non sapeva più nulla, non sentiva che una interna forza di consumazione che la rodeva distruggendone l'organismo medesimo della volontà e della forza. Nulla più sapeva. Aveva piegata la testa, chiusi gli occhi: naufragata. Non udì il trotto di una carrozza che veniva da Torre Annunziata, nè la fermata dei cavalli innanzi all'albergo; non udì schiudere la porta del salottino ed entrare qualcuno, precipitosamente, chiamandola:
Nessuna risposta. L'uomo si avanzò verso la camera oscura e chiamò ancora, con la voce che tremava leggermente, questa volta:
Ancora silenzio. Allora l'uomo, che aveva posato il cappello e mostrava una bellissima fisonomia di persona quarantenne, contratta dall'agitazione, portò il lume di là, posandolo sopra una mensola, cercando con gli occhi la fanciulla. Essa udì e vide: con una volontà immensa vinse il suo abbattimento, si levò, fece due o tre passi vacillanti e si abbattè ai piedi di Cesare Dias, dicendo:
– Perdonatemi, perdonatemi...
Vagamente, nella confusione della febbre, ella udì la voce di costui mormorare, per la prima volta impietosita:
E una forte mano sollevarla, poi posarlesi paternamente sui capelli: tutto questo assai indistintamente, in una nuvola fitta. Dopo, un grande intervallo di insensibilità malgrado le scosse di una carrozza che correva attraverso la notte, verso Napoli. Talvolta una mano gelida le prendeva le piccole mani brucianti, carezzandole, con una carezza di gelo; talvolta questa mano le si posava sulla fronte, quasi a temperarne il calore. Ella sentiva questa sola impressione di fresco, niente altro. Un peso di piombo era sulle sue palpebre chiuse: aveva del piombo sul petto, sulle braccia, sulle gambe, poi un fuoco, dovunque; le labbra gonfie e aride, le orecchie ronzanti; impossibile di pronunziare una parola, la gola serrata. La carrozza improvvisamente si fermò, delle voci si udirono, ella si sentì trasportare leggermente, su, su, su. E di nuovo, quasi sollevasse il peso di una montagna, con un enorme consumo di volontà, ella aprì gli occhi. E sotto l'arco della porta di casa sua spalancata, illuminata, vide un bianco viso di vergine circondato da un nimbo di capelli biondi, un candido viso sorridente. La malata, la fuggitiva, balbettò:
– Povera sorella!... – mormorò una musicale voce pietosa e due fresche labbra si posarono sulla guancia della inferma, della fuggitiva.
Poi, intorno all'anima e ai sensi di Anna si addensò una tenebra fitta, profonda.