Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Ella non rispose
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Parte Prima

“Che farò senza Euridice?”

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Parte Prima

 

“Che farò senza Euridice?”


 

 

«Roma, notte di maggio

 

«Non vi conosco: non mi conoscete. Non vi ho vista, mai. E vi vedrò, io, forse, mai? Voi, forse, non mi vedrete mai. Eppure la mia anima, inattesamente, si è legata, salda, alla vostra, in un vincolo tanto più tenace e stretto, in quanto che oscuro, fantastico e misterioso: e io sento di amarvi, con tutte le mie forze, come se il vostro volto di donna — siete voi giovane? bella? Non lo so: non vi conosco — come se questo volto chiuso nell'ombra, mi fosse seducentemente noto da mesi e da anni, come se il fascino della vostr'anima, da mesi e da anni si esercitasse su me e mi tenesse e mi avvincesse. Chi è mai, la donna che riceverà la mia lettera? E la riceverà, essa, giammai? I veli impenetrabili vi covrono, vi stringono, o Creatura del mio amore: e innanzi a quest'ostacolo singolare, che io non so superare, che non supererò, forse, mai, io fremo, per voi, di ammirazione, di emozione, di adorazione, per la sola cosa di voi che mi sia nota, irresistibilmente nota, invincibilmente nota: la vostra voce. il colore dei vostri occhi scintillò, balenò, mai innanzi ai miei occhi: la espressione fiera e dolce del vostro sguardo, venne mai ad esaltare il mio cuore: il sorriso amabile e disdegnoso delle vostre labbra, mi fece languire di speranza o di tristezza: ma io ho udita la vostra voce, ed essa vibra in me, ed essa palpita in me e i flutti di una emozione salgono dal mio cuore al mio cervello e si diffondono, pervadendolo, in tutto il mio essere. Voi cantavate, ieri sera, due o tre ore fa, o Donna: e io vi ho udita cantare. Con una nitidezza lampante, io ho, nella memoria, in questa notte di maggio, che è succeduta alla mia Grande Sera, tutti i segni mortali che hanno accompagnato il vostro canto: quel canto che ha evocato, dal fondo del mio gelido e muto cuore, il mio amore puro e forte, per voi. Erano le dieci di sera; sera già tiepida e odorosa di primavera italica, nelle calende di maggio: io, immoto, fumando, guardavo e non vedevo il mio domestico raccogliere i miei abiti, in un grande baule, poichè, l'indomani, come di consueto, io dovevo partire, per Parigi e per Londra: da quei gesti eguali e monotoni del mio servo, arrivava a me la pacata contentezza per la mia imminente assenza, per la imminente lontananza, sebbene in paesi conosciuti e visitati tante volte: l'assenza, la lontananza, costante nostalgia della mia anima inquieta! Con un moto istintivoqualcuno, forse, mi chiamava, nella mia vita interiore? — io mi son levato e sono escito sulla terrazza della mia piccola casa, della nostra piccola casa, ove le mani gentili e il gusto gentile di mia sorella Lisa, coltivano rose e lilla: ho appena sogguardato nella larga via Boncompagni, ove s'indugiavano, nella sera fragrante, dei passanti, ove qualche veste bianca di donna si allontanava, lungo le sontuose ville e i graziosi villini: io ho guardato, invece, a lungo, il cielo di primavera che s'incurvava su Roma, con qualche fioco scintillìo di stelle. A un tratto, voi avete cantato. E tutta la vita si è arrestata, in me. Non lontano, poco lontano, voi cantavate; nella medesima linea della mia terrazza, ma nella grande villa, circondata da un folto, da un florido giardino, che segue la mia piccola casa e il mio giardinetto; la voce vostra esciva da un ampio verone aperto, non lontano da me, ma a me invisibile, perchè nella istessa linea di facciata; largo verone schiuso sui palmizi e sulle odorose aiuole del vasto giardino e da cui la vostra voce, nel silenzio della sera, giungea chiarissima. Qual voce! Grave, sonora, penetrante, toccante: talvolta elevantesi in una limpidità cristallina, talvolta languente, velata e bassa, quasi sfiorita, quasi sfinita: una voce un poco triste, sebbene giovanile, per momenti, e, dopo, molto, molto più triste: una voce che si slanciava, come un grido di liberazione, che si smorzava, come in un sussurro di inguaribile malinconia: o Donna, tale una voce, evocatrice, invocatrice, che mi basta, qui, confusamente scriverne, per sentirmi struggere di amore. Voi cantavate la più nobile, la più espressiva, la più armoniosa aria che io abbia mai udita: l'aria in cui più il lamento di un cuore trafitto, è sublime nella sua dignità e nella sua misura: l'aria di Orfeo che piange, che chiede, così austeramente, così dolcemente la sua Euridice e in cui Gluck ha messo le purissime lacrime e l'inconsolata mestizia di chi ha perduto il suo unico amore. Che farò, senza Euridice?… Così, ansiosamente, con uno slancio frenato dalla dolcezza, chiedeva, nel canto perfetto, la vostra voce, no, la vostr'anima dolente.... .…Dove andrò senza il mio bene? domandava, con espressione di spasimo represso, la vostra voce vibrante del più alto ardore.... Allora, o Donna, io non ho saputo più nulla di me e del mondo: la mia vita si è chiusa nella vostra voce, si è chiusa nell'ansietà vostra misteriosa, si è chiusa nell'anima vostra palpitante, misteriosa.... La notte si fa alta, come è alto il silenzio, a me intorno. O Donna, io non vi conosco, non so donde veniate, dove andiate: non so se siate libera o prigioniera: non so niente di voi, Signora, ma voi mi avete vostro, o Signora, o Sconosciuta, vostro, o mia Signora, per oggi, per sempre, io, Vostro, io, lo Sconosciuto

 

 

«Roma, quattro maggio

 

«Da iersera a stasera, una duplice vita si agita e tumultua, in me, e fieramente combatte, in me che, sino a ieri, trascorrevo dei giorni calmi e simiglianti, in piccole gioie inespresse, in tenui malinconie vanenti: da ventiquattr'ore io sobbalzo dalle più acute voluttà sentimentali alle glaciali aridità della ragione: io sento pulsare il mio caldo sangue, nelle mie vene — quando mai, così? Mai! — e tumultuare il mio cuore, sotto la mia gola, mentre, dopo un istante, i fiotti dell'amarezza mi sommergono in un mortale sfinimento. È la giornata di un folle, quella che ho vissuta, da iersera a stasera; è quella di un folle innamorato, che freme e spasima per un fantasma.... Poichè io non sono certo che voi esistiate, o Donna del mio amore! Ma se colei che, l'altra sera, con la sua voce grave, dolce e gemente, ha picchiato alle porte del mio cuore, e le ha viste schiudersi, ed Essa vi è penetrata, Signora di me, se questa creatura esiste, come io dubito talvolta, giacchè la mia ragione, ogni tanto, ghigna su me, suggerendomi che io abbia solo sognato, il gran grido di Orfeo che cerca Euridice: se colei che mi ha preso l'anima e i sensi, invincibilmente, nel suo appello amoroso e triste, nella notte di primavera ha, ieri mattina, non tanto presto, raccolto da un'aiuola del suo giardino la mia lettera, se Essa, la Sconosciuta, ha letto la mia prima lettera, se costei che io amo, costei che io amerò sin quando i miei occhi morenti contemplino il loro ultimo sole, ha udito la mia prima parola, bisogna che Ella sappia, ancora, tutto, di questa prima giornata di follia, di questa prima giornata di amore. Leggete ancora, o Donna del mio sogno sentimentale — ho sognato, forse? Forse voi siete un fantasma! — e sappiate che cosa sia una possente realtà amorosa....

«Sapete Voi che abbia mai fatto, io, ier notte, quando ebbi finito di scrivervi, convulsamente, in preda a un'alta allucinazione, la mia prima lettera? La lessi, in un impeto di entusiasmo, sentendo esaltare tutta la mia essenza mortale, alle mie medesime parole; la rilessi, dopo; e qualcuno rise, in me, rise di me, rise delle mie pazze parole! Buttata sul mio tavolino, innanzi ai miei occhi, la mia lettera vi giacque, un poco, mentre io lottavo contro le beffe della mia ragione: a un tratto, io vinsi lo scherno interiore, presi la lettera, uscii dalla casa mia, ove quietamente dormiva la mia dolce sorella Lisa, e i miei servi riposavano. Eran le tre della notte. Non un'anima, in via Boncompagni; non un passo; non un rumore. Cautamente, due volte, girai intorno al cancello ermetico che cinge l'ampio giardino dove, tra gli alberi ombrosi e le larghe aiuole, si cela, in fondo, la nobile villa dove voi cantavate, ieri sera. Scovrii ove il cancello si schiude, quando gli equipaggi vi debbano entrare; scorsi ove si prema il campanello, per suonare; arrivai a leggere, sovra un pilastro del cancello, sovra una placca lucente, le parole: villa Star. Girai, ancora, e nella stretta via adiacente, trovai una porta più piccola, quella di servizio forse: il nome, ripetuto: Star, la stella, la stella! Niuna ne brillava, in cielo; tutto era serrato, tacito, buio, sulla terra, in quell'ora notturna. Per un attimo, esitai: ma immediatamente dopo, introdussi una mano e un braccio fra due ferri del cancello e lanciai, con forza, dentro la mia lettera. Essa non cadde molto lontana: la vidi biancheggiare, ai piedi di un albero. Puerilmente, mi venne una voglia immensa di riprenderla, di riaverla: scossi la serratura del cancello come un fanciullo, come un ladro.... E fuggii, di corsa, per la via, rientrai in casa mia, a traverso il suo silenzio e le sue ombre, mi buttai, angustiatissimo, sul mio letto, soffocando nei guanciali il mio tumulto morale e fisico: non mi calmai che assai lentamente, assai più tardi. Verso l'alba ho dormito e vi ho sognato, o Donna, o Fantasma: e perchè l'enigma soave e crudele ancora mi perseguitasse, nel sonno, nel sogno, vi ho vista apparire, ora lontanissima, inafferrabile, sparente, ora vicina, quasi tangibile, ma col viso rivolto altrove; ora vicina, ma con un volto di cui, nel mio incubo, non giungevo a scorgere i tratti, e me ne dolevo, e gemevo, nel sonno....

«Alla prima ora mattinale, io era sulla mia terrazza, allo spigolo estremo, verso villa Star — qual nome scintillante, la stella! — e sporgendomi molto, ho visto, sotto l'albero, ancor biancheggiare la mia lettera. Niuno l'aveva presa, a quell'ora, naturalmente; ma un'immensa delusione mi colpì, nel cuore istesso, come un colpo inimico: pensai che quella lettera sarebbe restata colà, a marcire, sotto la rugiada, a ingiallirsi, sotto il sole, a disfarsi, nella terra umida, o che, forse, il rastrello di un grossolano giardiniere l'avrebbe portata via, spazzandola fra le foglie cadute. Richiusi rudemente i vetri della mia terrazza, sdegnato contro il mio destino, sdegnato contro il mio sogno e contro me stesso, e volli tutto obbliare, e volli ripigliar, subito, il mio consueto progetto di partenza, e andai a svegliare vivamente la mia cara Lisa, e detti degli ordini, minuziosi, rapidi, precisi, al mio servo, per questa partenza. Monotonamente, frenando, con un tenace sforzo di volontà, tutto quanto vi era di desolato e di ardente, in me, per il mio sogno disperso, per il mio sogno distrutto, io compii una serie di atti ragionevoli, usuali, quelli di qualsiasi altro uomo pacifico, che parte tranquillamente per Parigi e per Londra, che ricerca delle carte, ne lacera e ne conserva, che scrive dei bigliettini di congedo, che parla al telefono, con l'ufficio dei Wagons lits, che fa dei telegrammi e che decide, infine, di andar a colezione da una sua antica e buona amica, come fa ogni anno, prima di partire, per un senso di gentile gratitudine, a un amore spento, tanto tempo prima.... E, a un tratto, poichè l'ora volgeva quasi al meriggio, distrattamente, di nuovo, escii sulla mia terrazza fiorita, distrattamente, i miei occhi fissarono il giardino di villa Star. La mia lettera non era più sotto il grande albero. Qualcuno l'aveva raccolta e portata via; qualcuno, in una passeggiata mattinale; qualcuno.... Voi, Voi, Donna mia, mia Signora, voi, solo voi, ne sono stato certo, fulmineamente, certo come della mia morte! È nelle vostre mani, la mia lettera: sono sotto i vostri occhi, le mie profonde e schiette parole; è nella vostr'anima, la voce vibrante del mio altissimo amore, o Creatura cara, infinitamente cara, come è nella mia anima, vibrante, la voce vostra che chiede dolorosamente, teneramente, di Euridice, del suo bene....

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«Dove siete voi, a quest'ora di notte, in quest'ora della vostra rivelazione inaspettata, o Anima? Io spasimo, in questa sera di maggio, bella come l'altra, anelando di udirvi; io sono in ascolto, da tre ore; come un ebbro, come un folle, io v'invoco, da tre ore, e voi non mi rispondete, e mi vien da piangere, e mi vien da gridare. Voi non rispondete al mio appello angoscioso; la vostra divina voce di donna, non si fa udire, animando la sera di primavera: villa Star ha i suoi veroni aperti e illuminati, ma è muta, e pare deserta, e la sua luce, in tanto silenzio, mi fa paura. Dove siete, o Anima? E vi siete mai stata, in codesta villa e vi avete mai cantato? Io ho molto cercato e molto saputo, in questo pomeriggio; io so che villa Star appartiene a una vecchia, molto vecchia dama inglese, che l'ha comperata e abita da tre anni; lady Roselyne Melville ha settantacinque anni; è vedova, da venti anni, del diplomatico, dell' ambasciatore Melville, che fu, a Roma, accreditato per vari anni; i suoi figli, le sue figlie, sono persone mature che vivono in Inghilterra, in India, nel Belgio; essa non ha nepoti, che si sappia e che sien mai venuti in Roma. Vive con una dama di compagnia, cinquantenne; ella riceve, per lo più, nelle tarde ore pomeridiane, le sue antiche amiche della società romana; non riceve mai di sera.... Dove siete, dove siete, Cuor mio? Perchè non mi rispondete? Perchè non cantate? Perchè mi lasciate disperare, solo, in questa seconda notte dell'amor mio, solo, senza voi, senza la vostra voce sublime? Debbo io, dunque, morire senz'avervi mai vista, senza avervi neppure più udita? Io muoio, senza voi....

«.… mi lascerete voi morire? Colui che vi ha amato, senza conoscervi, senza vedervi, che vi ama di un amore intenso, di un amore che mai, certo, avrete incontrato su questa terra, di un amore che non incontrerete mai più, nel vostro viaggio mortale, questo sconosciuto che gitta, innanzi alla vostra immagine, tutto stesso, tutta la sua esistenza, deve, dunque, perire, miseramente, così? O Sconosciuta, in nome di quel Dio che voi, forse, venerate e a cui io mi rivolgo, in questa notte d'inutile, di sterile, di opprimente attesa, in questa notte di lunga straziante delusione, in nome di quanto avete di più caro, nella vostr'anima, o Sconosciuta, apparite, apparitemi, domani, dopo aver udito questo grido di ambascia! Domani, per pietà, per compassione, per umanità, perchè un uomo giovine, forte, nella pienezza delle sue energie e nel maggior impeto del suo amore, non muoia per voi. Per il vostro Dio che è, forse, il mio, se voi non siete un'ombra fuggente, se voi non siete una creatura della mia fantasia, se siete un essere reale, se siete una donna, se avete un'anima di bontà, se avete un cuore di tenerezza, se avete raccolto la mia prima lettera e sapete di me e del mio delirio, se, al medesimo posto, domattina, voi raccoglierete questa seconda, in nome di Dio, in nome della pietà umana, in nome dell'Eterno Nostro Giudice, apparite, apparite allo Sconosciuto, perchè egli non muoia senz'avervi veduta

 

«Roma, cinque maggio

 

«Diana, era molto tempo che la mia indifferenza non mi faceva metter piede in una chiesa. Ma il miracolo nuovissimo, inaudito che, stamane, ha salvato la mia vita mortale, che ha dato una forma reale al più assurdo fra i sogni, che ha esaltato il più puro e il più impetuoso fra gli amori, meritava che tutto, in me, si prosternasse innanzi a un Dio clemente. Sapete voi, Diana, dove sono andato, con animo pio, a ringraziare Colui che vi ha mandata sulla terra, che vi ha fatta apparire, a me, nell'aspetto idealmente vero, stamane, che mi ha permesso di bearmi nella vostra visione, come nessun altr'uomo si è beato, mai nella contemplazione del vostro volto, o mia stella mattutina, Diana, Diana? Io sono entrato in un'assai piccola chiesa, non molto lungi di qui, in santa Maria della Vittoria, che è di casa Colonna e che rammenta la battaglia di Lepanto e l'eroismo del loro antenato Marcantonio, in quel di cruento trionfo contro i turchi. Era mezzodì; la piccola chiesa era quasi vuota; qualche vecchia dalle vesti nere di divota, mormorava orazioni; il marmoreo biancore della santa Teresa del Bernini che smarrisce, quasi, la vita, sotto lo strale dell'amor divino, era toccato, appena, da una striscia di sole. Io mi sono inginocchiato, come nei giorni più innocenti della mia infanzia e come in quei giorni, il mio cuore era candido e mondo, perchè era pieno di voi: ho chinato il mio viso sulle mie mani, come quando una mistica commozione penetra in noi e bisogna velar gli occhi e guardare solo in stessi: ho concentrato tutte le mie forze spirituali, in un solo slancio di gratitudine, in una sola frase pronunciata, ripetuta, fra me, a Dio che scruta i cuori e i sensi: Ella esiste, io l'ho vista, io posso vivere, io posso amarla, io l'amo.... Vagamente, lentamente, mentre mi levavo, mentre mi segnavo con l'antico gesto infantile, mentre salutavo l'altare, prima di uscire, io mormoravo, ancora, in me, come il cristiano seguita a mormorare le sue preghiere, la frase in cui è assorto da stamane, tutto il mio essere: Ella esiste.... posso amarla.... io l'amo.... Un ultimo sguardo sul volto bianco, trasfigurato, morente in una gioia spirituale incomparabile di santa Teresa. Ella è estatica, la grande spagnuola dall'animo che era un focolare di amore: così son io, estatico. Altri, messo a contatto di una felicità suprema. trema, grida, piange di contento; altri s'inebria di una letizia che non conosce freno. Io dal minuto che non obblierò mai, in cui vi ho vista, per la prima volta, sono stato invaso da un senso completo di beatitudine, da un'estasi perfetta. La mia incertezza crudele, la fiamma che mi bruciava, l'angoscia dell'attesa, l'orrendo sospetto che tutto questo fosse un delirio della mia mente, avean talmente esasperato la mia anima e i miei nervi, che la desiderata, invocata e pure inaspettata felicità di scorgervi, nella vostra figura mortale, nella vostra beltà toccante, nel fluido avvincente della vostra malinconia, ha avuto, in me, una reazione profonda e soavissima ed è una estasi singolare quella che fa trascorrere flutti di dolcezza nelle mie vene e io vivo in questa estasi, come fuori del mondo....

«Voi siete bella e siete triste, Diana. Quello che la vostra voce mi aveva detto, l'altra sera, in espressioni di calmo e lungo e inconsolato dolore, con le parole del poeta greco ramingo, chiedente a tutti i Numi la sua Euridice, con le armonie austere e amorose di Gluck, quello mi han ripetuto i vostri occhi oscuri, grandi, pensosi, su cui, ogni tanto, così altieramente abbassate le palpebre, quasi a nascondere alla folla il vostro sguardo e il vostro pensiero; quello mi ha detto la vostra bocca giovine, florida, e che non rammenta più di aver sorriso, un tempo.... Per così pochi momenti io ho potuto fissare, di lontano, ma non tanto lontano, questi vostri occhi cosi nobilmente tristi, quella bocca bella che non volete schiudere, più, al riso! Mi son innanzi, questi momenti di tanto bene, e forse valgono un secolo di contemplazione.... Tutta la mia mattinata era trascorsa in un continuo salire e discendere, dalla mia casa, nella via, con futili pretesti, che davo a me stesso o con nessun pretesto; e ogni mia fuga precipitosa, ogni mio lento passeggio, aumentava la mia sorda impazienza, accresceva il rombo della mia inquietudine interiore. La mia seconda lettera, puerilmente lanciata, nella notte, fra i ferri del cancello di villa Star, alla mattina, era stata presa, portata via; e la mia incrollabile convinzione, la mia grande illusione era che Voi, Voi, l'aveste raccolta e letta! E voi tardavate ad apparire e lo scoramento mi vinceva sempre più e ricominciavo a non credere più alla vostra esistenza, e mi ritenevo uno sciocco, un pazzo.... Quando, a un tratto, dal mezzo della via, io ho visto schiudersi il cancello di villa Star, aprendosene largamente i due battenti: un sontuoso equipaggio accostarvisi dalla piccola via adiacente: scendendo gli scalini del vestibolo, una vecchia signora, dai capelli bianchi e lucidi, come l'argento, diritta nelle sue vesti chiare, lady Roselyne Melville ha traversato il giardino: un uomo, alto, magro, adusto, dal volto scarno e raso completamente, un uomo già avanti negli anni, l'accompagnava; poi venivate voi, alta, snella, in una veste di un grigio delicato, con un cappello nero, che gittava un'ombra sui vostri capelli biondo castani, ondulati dalle tempie alla nuca; nelle vostre mani guantate di bianco, voi stringevate un fascio di lilla bianchi. Il signore ha aiutato lady Melville a salire in vettura, con gesti rispettosi; ha anche aiutato voi, senza dir verbo; infine, è salito anche lui e la vettura è partita. Fermo, inchiodato, in mezzo a via Boncompagni, io ho vissuto uno dei più colmi momenti della mia vita. Tutto ho scorto e inteso e compreso: la vostra gioventù, la vostra beltà, la vostra tristezza, la grazia composta e un poco orgogliosa, la sobria armonia delle vostre vesti e dei pochi vostri adornamenti: e il sorriso benigno, quasi materno di lady Melville, mentre si volgeva a parlarvi e l'atto affettuoso, compiacente, con cui l'ascoltavate: e lo sguardo freddo e duro del gentiluomo che vi mirava, sanza parlarvi. Lady Melville non è vostra madre, ma vi ama: quell'uomo è, forse, vostro padre, ma vi guarda così rudemente! Sobbalzò, in me, mi sconvolse, il vano desiderio di seguire la vostra vettura: ero a piedi, come un povero, come un mendicante. Ma vi ho aspettata, Diana, due ore, due ore, nella via, non osando allontanarmi, andando e venendo cento volte, trasalendo a ogni rumor di ruote, ora fermo all'angolo dell'hôtel Excelsior, fremendo, per tutti i miei sensi, che non mi sfuggisse il vostro ritorno. Non mi è sfuggito. Quando la vostra vettura è tornata, io era presso villa Star: voi mi avete visto, notato, allora. Prima, no: allora, sì, sì! Mentre, in piedi, attendevate che lady Roselyne scendesse lentamente di vettura, i vostri occhi si sono posati sui miei. Mi è parso, mentre io soffocava di emozione, che più si addensasse di un pensiero triste, il vostro sguardo: mi è parso che ancora più le linee della vostra bocca stupenda si serrassero, sul vostro segreto sentimentale. Avete sollevato al vostro viso i lilla bianchi e li avete odorati, a lungo.... Diana, sono un presuntuoso, sono un fatuo, sono un fanciullo che spera e crede, sono un uomo che sogna: ma ho creduto che quel gentile gesto fosse a me diretto, che volesse dirmi qualche cosa, non so che, non so bene, qualche cosa di oscuro, ma detto tacitamente da voi a me, detto, in quell'atto vago e pure espressivo, da chi ha letto le mie due lettere, dalla Sconosciuta allo Sconosciuto, da colei di cui già conosco l'adorabile nome, Diana, nome stellante.... Avete odorato i fiori e mi è parso veder trascolorare il vostro fine volto, come se mi diceste, così, in quel mutamento, in quella emozione, una cosa molto bella, molto triste, molto misteriosa, è vero, è vero, Diana? Così siete sparita. Ma nella forma spirituale, nella vostra forma fascinante di realtà, voi siete, oramai, tutta nel mio cuore, tutta nella mia anima e io sono come il tempio vostro, Diana, e mi sento sacro per una divina presenza.

«Paolo».

 

 

«Sei maggio

«.... alla vostra cintura alta e molle di seta bianca, sul vostro vestito bianco che era, mi è parso, di lana leggera, voi portavate, un'ora fa, o Diana, quando i miei occhi si sono beati della vostra visione, Diana, cuor del mio cuore, voi portavate, sul lato sinistro, tre stupende rose bianche. Perchè i fiori che vi adornano, Anima cara, sono sempre bianchi? Il vostro viso, un'ora fa, era bianco come la vostra veste: o, meglio, era bianco come le vostre rose fresche, candido e magnifico come esse erano, malgrado che questo volto divino non avesse neanche una goccia di sangue. Non ho mai veduto un viso più avvincente, nella sua bianchezza nivale! Sovra esso, i vostri occhi erano come due larghe viole vellutate, oscurissime: e la bocca vi si delineava così nettamente, nel suo disegno porporino giovanile, che ancora mi abbaglia e mi fa struggere.... Mi avete voi ritrovato, col vostro sguardo, un'ora fa, avete avuto voi il rapidissimo tempo di scorgere lo sconosciuto vostro innamorato, colui che sempre vi aspetta, che sempre ha il compenso della sua umiltà e della sua pazienza, perchè voi gli comparite, a un tratto, innanzi, come chiamata, dal suo muto, possente desiderio sentimentale, gli comparite, d'improvviso, come un essere fantastico, e pure come la più seducente fra le donne? Chi sa, chi sa, chi sa, se mi avete scorto! Non so nulla, io, misero! Ero sul marciapiede dirimpetto a villa Melville, mentre voi, escita tutta sola dal vestibolo nel giardino, vi siete fermata, fugacemente, a salutare, a parlare, con la signora che vi aspettava, in automobile, fuori il giardino: una signora che non conosco, come non conosco lady Melville, come non conosco, ahimè, nessuno, nessuno che vi conosca! Mi è sembrato.... ho sognato, forse.... forse, mi sono illuso, che i vostri occhi di viola bruna si posassero su me, un attimo: ma posso io credere, alla mia illusione, al mio sogno? Con voi, con la dama, l'automobile è partita velocemente e appena se ho potuto notare il suo numero, per mia fortuna. Più tardi ho cercato, in un elenco, il nome della proprietaria: è la marchesa Sergianni, di Perugia. Mia sorella Lisa, la cara sorella mia, che ha passato una o due stagioni a Perugia, a una vaga richiesta mia, mi ha risposto, che conosce, un poco, la marchesa Sergianni: ma che, a Roma, l'ha vista raramente. Io, forse, potrò sapere qualche cosa di più preciso, su voi, fra qualche giorno.... forse.... se Lisa vorrà cercare la marchesa.... se io potrò indurla a tanto, senza confessarle il mio interesse.... Oh Diana, tutto quanto vi attornia, mi è ignoto; ogni passo che io tento di fare, verso voi, mi è inibito da questa mia ignoranza; ogni mezzo che io vorrei tentare per avvicinarmi, un poco, solo un poco, se non alla vostra amata persona, alla vostr'anima, al vostro cuore, mi pare periglioso e inetto; e voi dovreste sapere quello che mi è costato di tempo, di furberia, di indagini minuziose e caute, solo la conoscenza del vostro nome, Diana Sforza, la vostra qualità di ospite, in casa Melville. Posso, così, dirigervi una lettera, mettendola alla posta, inviandola per un mio servo, senza buttarla in giardino, come le due prime. Tutto è così incerto, fra me e Voi, tutto è così deludente! Le due prime lettere, gittate, così, come quelle di uno studentello a una sartina, le avete mai avute, le avete mai lette, sapete perchè vi amo? Sono esse nelle vostre mani, è il segreto mio amoroso, solo da voi appreso e custodito? Sapete voi come s'iniziò e come crebbe questa follia, che mi riempie di gioia spasimante? Chi, chi mi accerterà di questo? Chi mi assecurerà che voi sapete chi sia il giovane uomo, dall'aria assorta e pure inquieta, che voi incontrate sempre nella via, quando escite e quando rientrate in casa: che voi sapete che è lui, che è colui che vi ha amato, in una sera di maggio, in Roma, perchè così appassionatamente cantavate, nel silenzio, che vi ama e vi amerà sempre? Forse voi non avete raccolto letto le mie prime due lettere; forse voi mi guardate come il più indifferente fra i passanti, perchè nulla voi conoscete di me: e tutto è un vano delirio della mia immaginazione.

«Diana, io sono un uomo e mi angustio e patisco profondamente, per amor vostro. Non posso continuare così, senza giungere alla disperazione. Io debbo sapere se, almeno, la mia parola, dal primo mio grido di misterioso entusiasmo, per la toccante voce muliebre che mi ha fatto balzare dalla mia indifferenza, sia giunta sino a voi: se tutte le altre mie lettere, vi sieno arrivate fra le mani. Non chiedo altro. Che altro posso io mai domandare, a voi, stella mattutina, porta del Cielo, da voi che non mi conoscete, per cui io sono l'estraneo, il viandante, colui di cui non si sa il nome, la patria, che incontrato da voi un momento, fuori della folla, è, subito dopo, travolto dalla folla. Io non posso nulla chiedere e nulla volere da Diana Sforza, a cui il nome di Paolo Ruffo è ignoto, a cui è ignota la persona di Paolo Ruffo. Posso, solo, domandare l'anonima pietà verso l'anonimo passante che soffre. Diana, anche voi avete dolorato e avete pianto in segreto, lo dicono i vostri grandi occhi, nel cui fondo bruno resta una tristezza antica: la vostra bocca fiorente non sorride mai, o rarissimamente, perchè qualche cosa di crudele spense, in voi, la volontà di sorridere; il vostro cuore ha sentito le trafitture di cui mai non si guarisce, intieramente. Per tutto questo, Diana, uditemi bene. Un'ora dopo che questa lettera, al vostro nome e cognome, sia stata portata, a villa Star, da un mio domestico e sia stata consegnata a voi, ospite cara ma libera delle sue azioni, in casa Melville, io vi farò portare un grande fascio di rose rosse, da un fioraio con una mia carta da visita, ove avrò scritto, solamente: hommages. Sono i candidi fiori, quelli che voi solamente e unicamente amate, è vero? O, forse, questi fiori sono scelti così, a caso, da chi ve li offre? Io non so. Ma io voglio mandarvi delle vive rose rosse, delle rose rosse quasi cupe, e fragranti come tutte le altre rose, prese insieme: esse saranno il simbolo della fiamma che mi vivifica e mi consuma, per voi: esse imbalsameranno la vostra stanza e la vostra persona, come io vorrei velare, fra i mistici profumi dell'incenso, voi e il vostro nido. Quando abbiate avuto questi fiori, Diana, io vi prego, io vi supplico, io vi scongiuro, in ginocchio, portate, domani, quando io possa vedervi, una di queste rose alla vostra cintura: io intenderò che sono giunte, sino a voi, tutte le mie lettere. Niente altro! Niente altro! Non temete di questo vostro gesto, che sarà solo quello della umana pietà: esso non mi dirà che voi mi amate, non mi prometterà che voi mi amerete, non mi darà la prova della vostra compiacenza per tanta mia adorazione, non me la prometterà, questa superficiale compiacenza, neanche, per l'avvenire. Diana, Diana, un uomo onesto, retto, buono, io, io, che vi scrivo, quest'uomo soffre mille tormenti per la sua mortale incertezza: se voi avete un cuore aperto alla compassione di donna, di cristiana: se voi sentite il vincolo sentimentale fra tutti quelli che soffrono: se, rammentando le vostre ore nascoste di patimento, voi volete che altri, per voi, sia consolato: per tutto questo, Diana, vogliate lenire le sofferenze mie, dare qualche ora di riposo al mio spirito tumultuante! Una rosa rossa, domani, sulla vostra diletta persona mi dirà, strettamente, un solo monosillabo: mi dirà che tutte le mie lettere vi sono giunte. Null'altro! Ma io saprò anche un'altra cosa bella: cioè che il cuore di Diana Sforza sente la pietà, che la sua anima splende di bontà e che, colui che pensa e sogna e scrive di lei, che colui che l'ama supremamente, può adorarla anche per queste altre sue virtù.

«Paolo».

 

«Sette maggio

 

— «Non siete escita, stamane, dal cancello di villa Star: pure vi ho veduta, non un poco, ma lungamente. Eran le dieci di mattina: voi siete discesa a passeggiare, in giardino. Non eravate sola. Vi accompagnava quel gentiluomo — sono certo, oramai, che non è vostro padre: egli è inglese, si vede: voi siete italiana — che era con voi e con lady Melville, nel primissimo giorno in cui mi siete apparsa. Stamane, eravate vestita di un azzurro pallidissimo, come è il cielo di autunno, dopo una lunga pioggia; un aereo cappello bianco, di velo, mi pare, era posato sulla vostra capigliatura ondante, biondo castana, che mollemente segue le linee della testa e va a raccogliersi in un grosso nodo lucente, sulla nuca. Passeggiavate, voi e il signore inglese — un vecchio, infine, malgrado la robustezza della sua magra personalentamente, a passi eguali: malgrado che voi siate alta e slanciata, l'uomo, più alto di voi, curvava un po' la testa, verso voi, guardandovi. Voi non lo guardavate, mai: guardavate innanzi a voi, o, talvolta, fissavate uno sguardo distratto, come mi sembrò, sovra un albero, sovra una pianta. Ogni tanto — e io spiavo tutto questo dallo spigolo della mia terrazza, che affaccia sul fianco del giardino Melville — il signore inglese e vecchio, vi diceva una parola, senza sorridere, quasi senza muover labbro, quasi senza attendere risposta: voi avete risposto, mai. Una sola volta, avete fatto un cenno di adesione, con la testa. Insieme, avete passeggiato, in giardino, avanti e indietro, sempre nelle medesime attitudini: poi, voi, avete risalito gli scalini del vestibolo a colonne, che è davanti a villa Melville. , vi siete fermata un poco, come pensando, e avete levato gli occhi, dalla mia parte. Credo, credo che, allora, vi siate accorta di chi vi seguiva, di chi vi spiava, quasi, dall'angolo della sua terrazza, fra i penduli geranii rosa di sua sorella Lisa. Credo.... Non so.

«Diana, sono certo che le mie rose rosse vi sono state consegnate, ieri, con la mia carta da visita. Ma, stamane, voi avevate fra le mani un fascetto di mughetti bianchi, sorgenti fra le loro verdi foglie chiare: e ne aspiravate il profumo ogni tanto. E io sono il più sventurato fra gli uomini.

«Paolo».

 

«Lo stesso giorno

 

«Diana, Diana, che è accaduto, ieri, oggi, di ridicolo, di deludente, di affliggente e d'irreparabile? Un'ora fa ho ricevuto, qui, a casa mia, villa Ruffo, una carta da visita di lady Roselyne Melville, a me precisamente diretta. Diceva, in francese, sulla carta da visita: Merci, pour les belles fleurs. Null'altro. Le mìe infelici rose rosse non vi sono dunque arrivate: l'errore stupido, odioso, di un fioraio, di un servo di casa Melville, le ha date alla vecchia dama inglese. Che avrà pensato, lady Roselyne? Niente, forse. Tranquillamente, correttamente ella ha ringraziato il gentiluomo italiano, suo vicino — ella deve saper di me — di questo atto di omaggio mondano, senza chiedergli spiegazione. Queste grandi dame inglesi, sono così avvezze agli atti di rispetto, ai gesti di cortesia, malgrado la loro grave età, che essa non si deve esser punto sorpresa: e non ha chiesto nulla al donatore. O poveri miei fiori fragranti, o povere mie rose rosse, che dovevan dirvi il mio ardore e la mia sofferenza, che chiedeano una mite risposta confortatrice, poveri fiori parlanti e, ora, chi sa dove messi, in un salone banale, da un cameriere! Tutto questo è grottesco, è umiliante, è esasperante e io mi sento così smarrito.... così perduto....

«Paolo».

 

«Nove maggio

 

«Non vivo più, da due giorni che non vi vedo escire da casa, neppure per una passeggiata in giardino; non vivo più, per questi due lunghi, eterni giorni, in cui siete scomparsa, Diana! Tutto è buio e freddo, a me d'intorno, poichè la mia stella mattutina non brilla più nel mio cielo d'amore, o Diana! Tutta la mia infrenabile ansietà si rivela nei miei occhi, nelle mie parole, nei miei gesti: e non si stancano i miei occhi di guardare, di fissare, di spiare villa Star e ogni mio detto tende a indagare, a scovrire le ragioni della vostra sparizione e ogni mio gesto è fatto per sapere.... per sapere.... Come narrarvi la via della Croce che io ho percorsa, che ho rifatta, due o tre volte, in queste quarantott'ore atroci, aggirandomi intorno alla casa che voi abitate e dove cento volte ho pensato che voi non siate più, e qualche volta, anche, ho pensato che non vi siate stata mai; mi sono aggirato cautamente, come un ladro che preparasse un suo piano delittuoso, stringendo sempre più i cerchi della sua volontà criminale, intorno al posto ove sia racchiuso un prezioso tesoro.... Oh la gente del vicinato, di tutta questa regione di via Boncompagni, già mi segue con un occhio fra sorpreso e beffardo, quelli che mi conoscono, da anni, e con uno sguardo di sospetto, i nuovi vicini! Io non vivo più: e compio una serie di atti automatici, i comuni della vita, in uno stato di profonda distrazione: e faccio una serie di atti disordinati e confusi, fra lo stupore rispettoso del mio domestico Vincenzo e la meraviglia un po' malinconica di mia sorella Lisa; ora io sono muto e assorto, ora scosso da urti nervosi, giungendo, persino, a inaspettati scatti di collera, e infine, m'immergo, sono vinto da uno sfinimento mortale. Non vivo più, sono fuori della vita, e intanto la vita mi stringe e mi tortura: non vivo più, perchè non vi vedo più, perchè io, come un pazzo, ho messo tutta la mia esistenza mortale nelle vostre mani che, sempre, la lasciano sfuggire, perchè voi non mi amate, perchè voi non mi conoscete, perchè non sapete chi io sia, perchè mi siete lontana pochi passi e pure così distante, così immensamente lontana, come se viveste in un altro pianeta. Un dubbio tremendo mi trafigge: ed è che io, col mio folle amore, con le mie audaci lettere, con i miei audaci fiori, con questo mio assedio incessante, intorno a villa Melville, di cui tanti si sono accorti, di cui, forse, già tutti sanno, intorno a voi, vi abbia indotta a fuggire. Diana, chi sa dove son finite le lettere che vi ho buttate in giardino, chi sa mai dove son capitate quelle indirizzate al vostro nome, quando io l'ho conosciuto: chi sa mai chi le ha raccolte, chi le ha ricevute, chi le ha aperte, chi le ha lette, e ha riso di me e si è indignato contro me: chi sa mai, accanto a voi, dietro a voi, quali occhi estranei, severi, sprezzanti le hanno lette: Diana, quelle rose rosse, quei fiori di amore ardente, chi sa, tutti, costà, tutti, non so chi e tutti quanti, si saranno accorti, non è vero, che eran destinati a voi e non offerti a lady Melville: erano i fiori di uno sconosciuto: di un insolente, che osa scriver d'amore a una fanciulla che non conosce, che ha osato insistere, con le sue lettere, cinque o sei volte, in pochi giorni, che ha avuto l'imprudenza, l'impudenza d'inviarle dei fiori e ha sperato, questo pazzo, che la fanciulla se ne adornasse, come per un compiacente segno di risposta.... Chi, chi vi ha fatta scomparire, per sottrarvi a me, chi, un parente, un'amica, un innamorato geloso, chi, o semplicemente lady Melville, o semplicemente quell'uomo, quel signore con cui vi ho vista due volte, dalle tempie brizzolate e dallo sguardo così duro, che non è vostro padre, ma che, per la sua età, sulle soglie della vecchiaia, come è, v'impone rispetto e soggezione? Diana, chi vi ha tolta a me? O, forse, assai più spasimante, per me, è il sospetto che voi, voi sola, annoiata, offesa da me, voi sola, per vostra semplice e libera e unica volontà, solo per punirmi di tanta mia follìa, vi siate sottratta alla mia adorazione? Ah sì, sì, deve esser così, me misero, che vi ho ferita nella vostra virtù e nella vostra riservatezza, col mio amore improvviso, fantastico, assurdo, con le mie lettere confuse, convulse, ingenue e sfrontate, puerili e troppo appassionate, con le mie inaudite pretese di esser visto, d'esser considerato, d'esser compatito, con i miei infelici fiori che vi chiedevano, nientemeno, di rispondermi, questo domandavano, a voi, Diana Sforza, così lontana, così alta, per un umile viandante, per un uomo qualsiasi perduto nella folla! Non vi sono nulla, Diana, e volevo grandi cose, da voi, così, solo perchè vi amo, con questo magnifico e ridicolo pretesto, volevo tutto, da voi, infliggendovi questo mio sentimento così violento, accerchiandovi con tutti i mezzi che avevo disponibili, chiedendo persino, persino, pensate mai, che voi mi rispondeste, con una rosa rossa, mia, nelle vostre mani, alla vostra cintura.... No, niuno vi ha costretta a fuggirmi: siete voi, voi sola che avete voluto rigettarmi nella folla, nell'ombra, donde non avrei mai dovuto escire. Questa è la nuda, la micidiale verità!

«Paolo Ruffo».

 

 

«Roma, dieci maggio

 

«Stamane, Lisa mia, la mia diletta sorella ha avuto pietà di me. Tante volte le è accaduto di consolare il suo grande e forte fratello, a questa gracile creatura, così fervente di tenerezza! Quando ella mi ha visto, stamane, dopo tre notti d'insonnia, smorto, stanco, sfinito, ella si è fatta pallidissima e mi ha detto con quella voce insinuante:

«— Paolo, tu soffri e non vuoi dirmi di qual male....

«Io mi son sentito frangere il cuore alla sua compassione; l'ho abbracciata e sulla sua spalla ho pianto tante, tante lacrime amare, che eran chiuse dentro me e mi soffocavano. Lisa, sensibilissima, sagace in tutte le forme della consolazione fraterna, mi ha lasciato piangere, carezzandomi i capelli, asciugandomi delicatamente il viso cosparso di lacrime, con un suo molle fazzoletto. Poi, ha soggiunto, a bassa voce:

«— Dimmi, Paolo, quello che io posso fare, per te....

«Lisa mia è una creatura eccezionale. Io ho trentadue anni: ella ne ha ventotto: io sono sano e robusto: ella è gracile e tenue. La cara madre nostra era nel pieno fulgore della sua beltà e della sua salute, quando mi ebbe: era già minata mortalmente, quando ebbe Lisa e questa nascita abbattè le sue forze declinanti: ella si spense un anno dopo la nascita di Lisetta. È un fiore fine e fragrante: ma questa fanciulla cresciuta senza madre, ha un'anima ferma e diritta, nella sua bontà, nella sua indulgenza, nella sua carità. L'amore le si è offerto, lusinghiero: ma, ella, di libera volontà, non ha gradito l'offerta; forse, ella aspettava, nel segreto della sua anima, qualche altra cosa, qualche altra persona: tranquilla, ella conserva il suo segreto, nel più intimo di stessa, e di non parla e non lascia che si parli, e prodiga a me, prodiga a quanti essa ama, non molte persone, i più ricchi doni della sua anima, così, naturalmente, come una limpida sorgente montana. La sua fraterna pietà, stamane, è venuta in tempo a scamparmi da un accesso di tetra disperazione. E quando ella si è offerta, così generosamente, di aiutarmi, come ella meglio poteva, perchè io avessi modo di consolarmi, io ho avuto il coraggio di chiederle ciò che più mi stava a cuore, cioè che ella andasse dalla marchesa Pia Sergianni, a domandar di voi, Diana, a saper tutto di voi, Diana, che siete sparita....

«— Perchè vuoi tu questo, Paolo? — Lisa mi ha chiesto, fissandomi coi suoi chiari occhi affettuosi e leali.

«— Perchè l'amo! — ho proclamato io, con tale accento impetuoso, che la mia Lisa ha chinato gli occhi, tutta pensosa.

«— Andrò — ella mi ha detto, senz'altro.

«Ma la marchesa Pia Sergianni è fuori Roma, oggi: ella rientra solo domattina. E la mia tenera sorella solo domani potrà visitarla, parlarle di voi, udire di voi, ripetere a me, tutto, darmi, infine, il balsamo di qualche notizia. Non prima di domani! E stasera, quando avrò finito di scrivervi queste mie parole così tristi, quando avrò portato io stesso, alla posta, questa mia lettera, perchè vi giunga, così, fra le altre e non attiri l'attenzione e voi non possiate neppure respingerla, che farò, io, dopo? E stanotte, come dormirò? Domani: quante ore di tormento, di mortale tristezza mi dividono, da domani? Domani! E se non avessi la forza di vivere, sino a domani

«Paolo Ruffo».

 

 

«Dieci maggio, di notte

 

«O Diletta, o Adorata, o mia Unica, o cuor del mio cuore, vi ho udita, vi ho udita, vi ho udita! Avete cantato, mi avete parlato, mi avete risposto! Tre giorni di disparizione vostra, tre giorni senza luce e senz'aria, per me, tre notti senza sonno e senza riposo, tutto, tutto è cancellato dal mio cuore che palpita di una gioia piena, tutto è cancellato dai miei nervi esasperati e io sono in uno stato di fervore, di ebbrezza! Diana, stella del mio firmamento, stella dell'alba e del crepuscolo, voi vi siete degnata di parlare al vostro sventurato amatore, col vostro canto, perchè egli rinascesse alla vita, alla lietezza di vivere, alla felicità: io m'inginocchio, davanti a voi, immagine ideale della felicità, m'inginocchio per ringraziarvi, con quanto è in me di più puro, io mi prostro, in atto di devozione, dinanzi a voi, Diana, che mi avete parlato! Che facevo io, mai, un'ora fa, quando, a un tratto, ho avuto il dono grande della rivelazione? Tutto avevo fatto e tutto ricominciavo a fare, per obliare, almeno un poco, l'acuto dolore dell'intima ferita che sanguinava, in me: io avevo tutto tentato e tutto cercavo di tentare, ancora, per dimenticare, per stordirmi, per addormentare la puntura profonda: ero uscito a cercar degli amici e, poi, li avevo lasciati frettolosamente; ero penetrato nel mio club e ne ero venuto via, d'improvviso; ero entrato in un teatro, restandovi solo pochi minuti: e, infine, di nuovo, io ero rientrato in casa, verso le undici, snervato, esausto, ma sentendo, più che mai, vivido il mio male; un solo male, un unico male, Diana: la vostr'assenza. In casa mia, disteso fra i molli cuscini di un canapè, leggendo, fumando, pensando, tornando a fumare, un torpore mi aveva abbattuto. Quando come la gran parola di Cristo a Lazzaro, la vostra voce attraversò lo spazio, attraversò la notte e mi risuscitò.... Cantavate, come la prima sera: cantavate con quella voce toccante che mi fa tremare di tenerezza, con quella espressione così intensa e così contenuta che mi ricerca quanto di più sensibile e di più fremente ha l'anima mia.... Cantavate, Diana, l'antica e amorosa e suggestiva melodia di Giambattista Pergolesi, il maestro che è vissuto per l'arte, per l'amore e pel dolore, il maestro che ha esalato nella musica quanto egli ha patito: l'antica melodia amorosa che Liszt amava, Liszt, il grande innamorato e che Liszt ha trascritto, nota a chiunque, questa melodia, ricerchi nella musica un contenuto più intimo e più profondo: l'antica melodia di Nina, che è inferma, che pare dorma, che forse è morta! Dicevate nel bel canto italiano lento e soave, insieme: Tre giorni son che Nina.... A letto se ne andò.... O amore mio incomparabile, voi siete stata malata, per tre giorni, come Nina, come la dolce Nina di Pergolesi, voi Diana, povera cara inferma e io non l'ho saputo, io misero, io, ignorante, io non ho potuto saperlo, e sono stato infelice come non fu mai tanto creatura umana, non vedendovi, mentre voi pure soffrivate, per un malore misterioso e io vi ho torturata, con le mie lettere, Diana, perchè non posso vivere senza vedervi, senza udirvi. Cantavate, o Creatura perfetta, nella vostra immensa pietà, nella vostra immensa bontà, quella musica obliata da tutti, che è un poco triste, anzi, nel fondo, molto triste, la cantavate per dirmi che la vostra sparizione era stata forzata, per dirmi che eravate guarita e perchè io rivivessi al suono della vostra voce, al fascino che agirà, su me, sino alla morte e oltre la morte, il fascino della vostra voce! Oh quante cose in quella dimenticata melodia pergolesiana, quante cose fatte per dare un balsamo alla ferita che porto nel fianco, quante cose, Diana, avete voluto esprimere e quante cose io ho inteso, e io son vivo, io son risorto, io vi adoro, io sono pronto, di nuovo, a soffrire per voi, a spasimare per voi, poichè io so che voi mi siete pietosa, e che il mio male è noto al vostro animo nobile e voi volete consolarlo. Come lenta e poi più rapida, quella musica di Pergolesi, come molle prima e poi più vibrante, e, infine, col grande grido straziante: Svegliatemi Ninetta.... che ha fatto turbinare, intorno a me, la notte e il suo firmamento e la terra: Svegliatemi Ninetta, poichè, forse, Ninetta dormiente non si sveglierà mai più, da quel sonno troppo lungo.... No, Diana, no!

«.... Voi avete finito di cantare e io, per molto tempo, ancora, udivo in me la vostra voce e ne era colmo il mio cuore e ne eran ebbri i miei sensi. Sono disceso in via Boncompagni e umilmente, nelle ombre notturne, io sono venuto innanzi al cancello di villa Melville, in atto di adorazione. Il grande verone era schiuso, come di consueto: l'ho mirato, a lungo, dalla via, sperando vedervi apparire la donna divina, che mi aveva tolto alla mia disperazione, con un tenero atto di carità: ho teso l'orecchio, a lungo, a lungo, aspettando, chi sa, la sua voce sublime si elevasse, di nuovo, nella notte. Nulla, più. Il miracolo era compiuto e finito. Mi sono chinato e piamente ho baciato la fredda serratura del cancello, che cinge la casa ove siete ospitata, Diana. Sono rientrato: ho scritto, scrivo, tremando, sempre, di una emozione che non ha nome: poichè è la felicità istessa di cui mi è apparsa l'immagine, nel vostro canto, che era diretto a me solo, solo a me, poichè voi siete, o Donna, la medesima dolcezza, perchè voi non potete veder soffrire nessuno, o Anima, perchè voi avete voluto spargere l'olio che risana sulle mie ferite, o Samaritana mia, o Ninetta, o povera cara inferma, che è guarita, che non dorme, che non vuol dormire, come l'altra, quella di Pergolesi! Ah voi vivete, o rara beltà, o rara bontà, o regina fra le regine, a cui mi prostro, adorando.

 

«Paolo Ruffo».

 

 

«Roma, undici maggio

 

«Mia sorella Lisa è rientrata, oggi, verso le sei e mezzo, dalla sua visita alla marchesa Pia Sergianni. Io l'aspettavo, cercando vincere la mia ansietà, andando e venendo, senza scopo, dal salone di casa nostra al mio piccolo studio: con mio stupore, quando ella è entrata in casa, non mi ha raggiunto subito. Ho atteso, qualche minuto, sempre più inquieto, irritato, anche, contro Lisa, per il suo indugio: ella ha bussato discretamente all'uscio dello studio, è venuta a sedersi dirimpetto a me, dall'altro lato della mia scrivania. Ella volgeva le spalle al grande balcone schiuso, forse espressamente: era l'ora del crepuscolo: e io non potevo scorgere bene le linee del suo viso. La sua mano lunga e bianca batteva, leggermente, con le dita, sul tavolino:

«— Ebbene, Lisa? — le ho chiesto, impazientissimo.

«— Ebbene, Paolo? — ella mi ha risposto, molto calma, troppo calma, per la mia crescente inquietudine.

«— Che hai saputo di Lei?

«— Poco....

«— Poco? Perchè, poco?

«— Perchè ho chiesto poco alla marchesa Sergianni — ella mi ha detto, a voce più bassa.

«— Hai creduto di chieder poco? Così hai creduto, Lisa? — ho esclamato, io, frenando a stento uno scatto.

«— Per delicatezza, Paolo — ella ha risposto, con tanta tenera soavità che la mia collera, subito, è caduta.

«— Lisa, Lisa mia, ti scongiuro, dimmi tutto! — ho implorato, io, desolato.

«— Interrogami — ella ha mormorato, senza guardarmi.

«— Perchè questa parola così strana, di mia sorella Lisa, mi ha dato un colpo anche più forte di tutte le altre sue risposte? Perchè non voleva parlare, Lisa? Perchè voleva essere solamente interrogata? Che cosa mai temeva di dire, se avesse troppo parlato, lei?

«— Ella si chiama Diana Sforza, è vero? — ho chiesto, affannoso, quasi convulso.

«— Sì: Diana Sforza, di Perugia.

«— È nobile? È ricca?

«— Molto nobile, Paolo: molto povera: poverissima.

«— E la sua famiglia?

«— Padre e madre sono morti, a Perugia. Ha due fratelli, più piccoli di lei.... due sorelline.... tutti poverissimi.

«— E chi si cura di lei, di loro?

«— Un tutore.... credo.

«— Quel signore, forse, che ho visto con lei, a villa Star?

«— ....no — ha detto Lisa, vagamente, volgendosi a guardare la luce del tramonto, nel vano del verone.

«— E chi è mai, colui?

«— ....non so. Non conosco — ha detto Lisa, lasciando cadere il discorso.

«— Ma che è, lady Melville, a Diana Sforza? — ho ripreso io, ansiosissimo.

«— La sua più grande amica, la sua migliore protettrice. La conosce da molti anni, in Roma: Diana era bimba....

«— Ah! Comprendo. Queste inglesi sono così fedeli! E la marchesa Sergianni?

«— S'interessa molto a Diana Sforza, perchè è sua compatriotta: ma non può molto, per lei....

«— E che dice, di Lei?

«— Che è una creatura perfetta, per la sua beltà e per la sua virtù: ma che è sventuratissima....

«— Perchè, sventuratissima? Come, sventuratissima? Parla, Lisa, parla!

«— Perchè è molto povera, Diana Sforza, ed è così fiera.... e ha una lunga famiglia, dietro lei.... ed ha già venticinque anni.... ed è così sola, infine, nella vita, a combattere....

«— E che altro? Che altro?

«— Niente altro, Paolo.

«— Possibile, Lisa mia?

«— Possibilissimo, caro Paolo.

«Un breve silenzio: e io proruppi:

«— Tu mi nascondi qualche cosa, Lisa! Tu non vuoi parlare....

«Mia sorella si curvò, un poco, a traverso la tavola che ci divideva, toccò fuggevolmente con la sua mano fraterna la mia, con una piccola carezza:

«— Io ti voglio tanto bene, Paolo, fratello mio!

«— E io, io, Lisa mia, ti amo tenerissimamente.... — ho esclamato, convulso.

«— È vero? È vero? E, allora, udresti una mia semplice parola e seguiresti un mio semplice consiglio, Paolo? — ella ha detto, guardandomi, fissandomi, con i suoi buoni occhi pieni di dolcezza, ma, anche, così suggestivi.

«— .... Non so, Lisa.... non so.... non posso promettere — ho risposto io, al massimo dello sgomento morale.

«— Lascia Diana Sforza al suo destino — ella ha detto, con la sua voce più ferma.

«— No! — ho gridato io, con forza. — Io l'amo!

«— Dimenticala: parti, come dovevi partire una settimana fa; parti domattina; parti stasera; parti senza volgerti indietro, senza scrivere una parola, senza dare un saluto; parti, Paolo....

«— Io l'amo.... io l'amo.... io l'amo.... — non ho saputo mormorare altro, io, sordamente, tetramente.

«— Non devi più amarla; devi dimenticarla; devi partire....

«— Perchè, Lisa, perchè?

«— Perchè è troppo tardi — ella ha detto, gravemente, guardando il cielo violaceo del crepuscolo.

«— Oh Lisa, non farmi morire, dimmi tutto!

«— È troppo tardi — ella ha replicato, senza sorridere, senza guardarmi, fissando il cielo.

«— Lisa, io voglio saper tutto! Io muoio, se non mi dici tutto!

«— Io ti ho detto tutto — ella ha risposto, solennemente.

«Si è levata, si è allontanata, senza voltarsi, col suo passo tranquillo, sparendo dai miei occhi....

«Io ho qui trascritto fedelmente, parola per parola, il terribile dialogo fra me e mia sorella. Credo in Lisa come nella verità istessa: credo nella purissima coscienza di Lisa, più che nella mia; credo nell'affetto tenace, previdente, efficace di Lisa, per me.... Ma quanto ella mi ha detto, della verità, è cosa tanto tremenda, per il mio amore, è tale una devastazione del mio cuore, è tale una rovina e una morte del mio sogno sentimentale, che io non posso assuefarmi, rassegnarmi, perire, così, senza un'altra parola, l'unica parola capace di darmi il colpo supremo. Diana, se il vostro aspro destino vi mena, oramai, lontana, per sempre, dal vostro povero innamorato ignoto e se costui, con tutto il suo vano, il suo inutile amore, non può, ahimè, strapparvi a questo destino che egli non sa, ma di cui sente la crudeltà: se io, Diana, non ho modo di conquistarvi, di prendervi, di tenervi stretta al mio petto, stretta al mio cuore forte e fedele; Diana, se è troppo tardi, se è veramente troppo tardi, per il mio amore, per me, nella vostra vita: se questa fatal cosa, troppo tardi, deve recidere tutti i fiori della mia adorazione, se deve far inaridire tutte le sorgenti fresche limpide del mio amore, se deve distruggere quanto il mio amore e il mio sogno avevano creato, in me, attorno a voi, per voi, Diana, ebbene, siete voi che dovete dichiararmelo. Voi sola dovete dirmi: uomo che m'ami, sappi che è troppo tardi, per amarmi. Ho acquistato il disperato diritto di saperlo, da voi stessa: l'ho acquistato con questo sentimento violento e pure tenero di adorazione, per voi; l'ho acquistato per questa mia devozione immensa, a voi: l'ho acquistato col dono che io vi ho fatto, ciecamente, follemente della mia vita interiore e della mia esistenza mortale. Diana, rispondete! Se è troppo tardi, se è veramente troppo tardi, se io debba sparire — e non ero che un'ombra! — dal magico cerchio ove voi vivete, se io debba, con le mie mani, uccidere l'amor mio, se io debba dimenticarvi, se io debba lasciar questa mia casa, dove vi ho così singolarmente amata, per rientrarvi chi sa quando, se io debba lasciar questa via, testimone del mio grande ardore sentimentale, se debba lasciare Roma istessa per molto tempo, forse, voi dovete impormelo. A voi sola, io crederò: a voi sola, io obbedirò. Ascoltatemi bene: voi avete una veste bianca, in cui mi siete apparsa, in uno dei brevi, fuggevoli giorni della mia morente felicità amorosa: domani, indossatela: ma stringetela alla vostra cara persona con una sciarpa nera, con una cintura nera. Non tardate, ve ne scongiuro. Quanto più presto sia possibile, dite a costui che vi rammenterà, dolentemente, per tutto il corso dei suoi giorni, che voi siete schiava di una volontà superiore. Io vedrò il volto di ineffabile bellezza: vedrò la veste candida: ma vedrò anche la cintura nera, cioè il segno del cordoglio e della prigionia. Io chinerò il capo sul mio lutto sentimentale e vi obbedirò, senza volgermi indietro, e sparirò, Diana....

«Paolo Ruffo».

 

 

«Roma, dodici maggio

 

«In quest'ora estrema, Diana, che Iddio possa benedire, con tutti i suoi più alti compensi, la vostr'anima di verità, di virtù e di abnegazione. Vi ho scorta, stamane, verso il meriggio, discendere lentamente gli scalini del vestibolo di villa Star: eravate sola: siete penetrata nel folto del giardino, siete scomparsa, per poco e siete riapparsa, sempre sola. Eravate tutta vestita di bianco, come in quel giorno: una sciarpa nera cingeva la vostra snella persona. Io, attonito, smarrito, ho compreso. Eravate fasciata di lutto: e avete voluto dirmi che è tardi, che è veramente troppo tardi, per me. Quanto era infinitamente triste il vostro viso, stamane, Diana! Addio, dunque, Diana, amor mio unico, amor mio ultimo!

«Paolo Ruffo».

 

«Parigi, quindici giugno

 

«Nobile damigella, permetta a un suo lontano ma caldo ammiratore di offrirle le sue più schiette congratulazioni, per le sue nozze imminenti. Io mancherei non solo a uno stretto dovere di cortesia, ma tradirei un impulso del mio animo, se in questa tanto fausta occasione, io non le facessi subito giungere, fra tante altre parole gratulatorie che Ella, certo, va ricevendo da ogni parte, anche la parola mia di fervente felicitazione. L'accolga, io ne La prego e la gradisca: voglia non confonderla con tante altre indifferenti, fredde, di un arido carattere mondano. Chi le scrive, è, in tutta sincerità, lietissimo dell'alto destino che vien fatto alla sua bellezza, al suo fascino, alla sua virtù.

«Io ignorava, sino a due giorni fa, tale splendido evento. Io era, solo, in un teatro di genere allegro, l'altra sera: avevo ascoltato, piuttosto distrattamente, un primo atto di una pochade che mi era sembrata grottesca: nell'intervallo, scorrevo, con l'occhio, il New York Herald, cercando ove si parlasse della società romana, e, così, cercando, cercando, io vi ho letto questa notizia che oso, qui, riprodurre, parola per parola, senza nulla aggiungere nella mia fedele traduzione: Sono fissate per il venticinque giugno, in Roma, le nozze fra una delle più belle e delle più virtuose damigelle dell'alta società italiana, la signorina Diana Sforza, di Perugia, discendente diretta di quell'importante ramo degli Sforza che si stabilì in Umbria quattrocento anni fa, e l'illustre gentiluomo inglese, sir Randolph Montagu, primo consigliere all'Ambasciata inglese di Vienna, ora in licenza a Roma. La seducente fidanzata è orfana, da tre anni, dei suoi genitori ed è la primogenita fra vari fratelli e sorelle: è una sua amica affettuosa, lady Roselyne Melville, che, adesso, la ospita, in Roma e le fa da seconda madre. Le bellissime nozze, infatti, si celebreranno a villa Melville. Lo sposo appartiene a una molto antica e molto cospicua famiglia inglese: ha, in diplomazia, un posto eminente, potendo essere, fra pochissimi anni, ambasciatore del Regno Unito. Niun dubbio che lady Diana Montagu porterà, nella sua nuova posizione, all'estero, tutta la magia della sua beltà e della sua grazia italiana. Confesso, qui, gentile signorina, che ho riletto quattro o cinque volte questa notizia così inaspettata, sebbene magnifica: si può dire che io ne abbia imparato i termini a memoria, uno per uno, in quell'entracte. Il secondo atto di quella buffissima farsa, essendomi parso tragico, io ho abbandonato il teatro e senza fermarmi, come di consueto, in un restaurant di notte, o in un caffè dei boulevards, io sono direttamente rientrato all'Hôtel Crillon ove dimoro, da oltre tre settimane, Le ho subito diretto, nobile signorina, una prima lettera di felicitazione: ma essa a rileggerla, mi è sembrata monca, non esprimendo abbastanza la mia gioia per la Sua grande gioia. L'ho lacerata: anzi, ne ho lacerate altre due o tre, anch'esse confuse e manchevoli. Così è trascorsa la notte, fra la mia impotenza a dirle quanto io sia estremamente contento del suo matrimonio e come io auguri alla futura e molto prossima lady Diana Montagu, ogni maggiore splendore di lusso e di potenza....

«Dopo una notte insonne — si dorme così male, in questo rumoroso Parigi! — ieri mattina, verso mezzodì, io mi sono recato al Jockey Club di cui non faccio parte, sebbene ne potessi aver diritto, per il mio nome di famiglia, ma dove vado, spesso, a cercare di qualche amico. Colui di cui ho domandato, ieri, con una sorda e celata ansietà, è il duca di Campobello, un gran signore siciliano, cosmopolita, la cui spiccata specialità è di conoscere tutta, tutta la storia mondana moderna, in ogni suo intrigo e in ogni suo raggiro: adopero queste due parole poco oneste e Gliene chieggo scusa, ma è per dirle la importanza del duca di Campobello, come cronista di tutte le cronache palesi e segrete dell'alta società internazionale. Egli fa sempre colazione al Jockey Club: infatti ve l'ho trovato, molto amabile: e ho finto di far colazione con lui — non si ha mai fame, a Parigi! — perchè egli potesse informarmi, molto meglio del possente giornale americano di Parigi, sulle grandi nozze Sforza-Montagu. Egli mi ha messo al corrente, minuziosamente, con quella precisione e quel sereno cinismo che lo distinguono: e la storia di queste magnifiche nozze che formano e formeranno, cara signorina, la Sua perfetta felicità e, quindi, anche la mia, mi è nota in ogni suo dettaglio. Il duca di Campobello ha cominciato per rimpiangere, così, fuggevolmente, che una stupenda fanciulla, di un così gran nome, piena di tutte le virtù, dovesse lasciar l'Italia, per sempre, giacchè, nessun italiano, nobile o non nobile ma ricco, ricchissimo, avesse mai pensato di sposarla, essa, che non aveva un soldo di dote, essa che aveva, in fondo affidati a lei, fratelli e sorelle senz'avvenire e senza fortuna.... Ma ha subito soggiunto che il matrimonio di Diana Sforza con sir Randolph Montagu, era uno di quei miracoli grandi della sorte, di quelli che, ogni tanto, si narrano, come una storia fantastica; che solo la immensa amicizia e la immensa protezione di lady Roselyne Melville avean potuto pensare, sognare, tentare, riuscire in una simile partita e vincerla, per dare a Diana Sforza una posizione alta e solida, per mettere la sua famiglia, così povera, in una strada di benessere e di dignità sociale. Il duca di Campobello immaginava che, certo, la leggiadria, la nobiltà morale, la fierezza di Diana Sforza avean sedotto il diplomatico inglese: ma che questo innamoramento era anche dovuto, sovra tutto, alle suggestioni della vecchia dama inglese e ai contatti mondani che ella aveva procurati fra sir Montagu e la signorina Sforza. Le giuro che solo in quell'istante, in un barbaglio di ricordi, io ho raffigurato chi fosse il Suo sposo: colui, colui che ho scorto, tre o quattro volte, accanto a Lei, io in villa Star, in vettura, in automobile: colui che, per la sua età apparente, per i suoi capelli brizzolati, per le rughe del suo magro volto, io scambiai, un istante, per suo padre. Frenando, alla meglio, il mio sussulto interiore, io ho detto al duca di Campobello, che, certo, il Suo sposo doveva avere molti più anni di Lei, signorina.

«— Moltissimi — ha replicato Campobello, freddamente. — Forse trent'anni più di Lei....

«Campobello è un uomo precisissimo. Dirimpetto a noi, a un'altra mensa, facevan colazione, insieme, consiglieri e segretari di ambasciata, stranieri e francesi. Vi era, anche, Francis Normand, che è un annuario vivente della diplomazia. Campobello gli si è avvicinato e gli ha chiesto, sottovoce, l'età di sir Randolph Montagu, primo consigliere all'ambasciata inglese di Vienna. Normand ha pensato, un poco, prima di rispondere: poi, ha detto una cifra, sottovoce, al duca di Campobello. Costui, trionfante e discreto, nel suo successo di cronista, è ritornato da me e mi ha mormorato:

«— Trentuno di differenza: lei, venticinque: lui, cinquantasei, scoccati. Io aveva indovinato.

«— È un vecchio.... — un vecchio.... ho balbettato io, soffocando ogni altra espressione.

«— Un vecchio, sì.... ben conservato.... pare che il claret e il wisky conservino.... Vecchio: ma, fra dieci anni, Diana Sforza sarà ambasciatrice. E, più tardi, amico mio, qual vedova…!

«Io nulla dovevo udire, più: e nulla più ho chiesto di sapere, dai miei amici del club. Sono rientrato nel mio albergo e ho tentato di raccogliere i miei ricordi e le mie impressioni. Ella sa bene che chi sottoscrive questa lettera, è quel giovane che, a un tratto, fu vinto da una follìa bizzarra: colui che osò innamorarsi di Lei, nobile signorina, sei settimane fa, in Roma in una notte di maggio, sol perchè la Sua voce profonda, penetrante, toccante, era giunta sino a lui e aveva penetrato e toccato il suo cuore, per sempre; è quel giovane audace, che Le scrisse delle lettere convulse ma sincere, di amore, dopo di averla vista apparire, tre o quattro volte, in un giardino, in una via, in vettura, in automobile; è quell'audacissimo giovine che Le mandò delle rose rosse e La pregò di adornarsene; è colui che l'assediò, ovunque, per giorni e giorni, solo per saper qualche cosa, di Lei, solo per scorgerla, un istante. Costui, è quello che Le scrive: costui, colui che, audacissimamente, nel fuoco del suo sentimento, sperò, sì, sperò, fortemente, credette, sì, credette, che questa sua passione d'amore, pura e schietta, sorta come una vampa da un cuore che parea deserto e morto, per sempre, sorto da un'anima che non aveva finito di voler amare e di voler essere amata, credette, egli, che questa fiamma avrebbe acceso l'animo Suo. Sì: Paolo Ruffo ha creduto fermamente che un giorno, non lontano, Diana Sforza lo amerebbe. E Diana Sforza deve assolvere questo peccato mortale di orgoglio amoroso; Diana Sforza deve compatire e indulgere a questa superba certezza, perchè è quella che hanno tutti i veri, tutti gli autentici innamorati: deve perdonargli la sua alta speranza, la sua alta certezza.... Giacchè egli era giovine, come era giovine, come è giovine Diana Sforza; giacchè egli era della sua stessa razza e della sua stessa patria; giacchè egli era sensibile e ardente come Diana Sforza era, quando, nella notte di maggio, la sua voce fremeva e bruciava di amor contenuto, invocando Euridice, invocando il suo bene; giacchè un potere ignoto e possente aveva condotto, l'uno verso l'altro di lontano, di così lontano, in un incontro impensato e travolgente, le loro vite; giacchè tutto era favorevole, perchè l'animo puro e tenero di Diana Sforza si commuovesse all'amore intenso, devoto, invitto di Paolo Ruffo.... tutto!

«Tutto? Nulla! Colei che il pazzo, il fanciullo, lo sciocco che sottoscrive questa lettera, ha così puerilmente, scioccamente e vanamente amata, era, di già, in quell'ora del loro destino, la giovine fidanzata di sir Randolph Montagu, inglese, patrizio, diplomatico, enormemente ricco, vecchio, egli che aveva trentun anni, già, quando la sua fidanzata è nata; colei che in quella notte fatata, in quella notte fatale, così malinconicamente cantava il lamento di Orfeo, non cantava per attrarre e tenere, per sempre, il cuore e i sensi di Paolo Ruffo, ma per meglio sedurre, col suo fascino, sir Randolph Montagu, colui che dovea darle, fra poco, ricchezze, onori, omaggi di re e di principi; e quell'uomo che, sempre, appariva accanto a Diana Sforza, freddamente rispettoso, rivolgendole di raro la parola, non sorridendole mai, guardandola appena, quell'uomo, quello straniero, quel vecchio, era il suo fidanzato, da mesi, forse, e sarà il suo sposo, fra giorni, e i fiori candidi di cui la fanciulla si adornava, eran quelli offerti da lui, ogni giorno, i fiori del fidanzamento.... Nulla, nulla, nulla più per l'inetto, per il misero, per il miserabilissimo Paolo, la cui modesta fortuna basta appena a far fare una vita dignitosa a sua sorella Lisa e a lui: nulla per Paolo, giunto invero, troppo tardi, col suo amore inane, col suo amore inutile, col suo amore che niente altro potea essere, per Diana Sforza, che un amore! Ah io non sono neppure giunto troppo tardi, non è neppure questione di tempo, per il mio povero, stupido e nudo amore, è questione di denaro! Io ne ho così poco! E sir Randolph Montagu è ricchissimo. Io ho creduto, in Roma, alle oscure parole di mia sorella Lisa, che un ostacolo singolare, insormontabile, mi dividesse, per sempre, dalla donna che amavo e che non dovevo amar più: idiota, che sono, ingenuo e idiota! Innanzi alle mie semplici e umili preghiere, innanzi alle mie supplicazioni, ma, sovra tutto, per liberarsi di me, cara signorina, Ella mise l'ultimo giorno in cui io la vidi, la cintura nera del gran divieto. E io adorai ciecamente la sua virtù e dolorosamente benedissi la sua virtù e credetti al Grande Ostacolo, chi sa mai quale! Ecco l'ostacolo: il denaro. Questo diceva la nera cintura di Diana Sforza, che io tenni per un segno di tenerezza umana, di pietà umana. Diceva, la cintura nera di Diana Sforza: Tu non hai denaro: tu non puoi sposarmi: tu non devi amarmi. Così sia!

 

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«Ho pensato che io, forse, avrei dovuto fare, anche da lontano, un dono alla novella sposa, che tanti ne riceverà, da parenti e da amici. Infine, un vincolo sentimentale, un vincolo ideale mi legava ad essa: un vincolo conosciuto solo da noi due, ma intimo, vita della vita interiore. Un dono era, è necessario alle nozze di Diana Sforza! Ma dove mai trovare un gioiello così prezioso, degno di poter far parte di quelli, fulgidissimi, che saranno dati, a Lei, e di cui si adornerà lady Diana Montagu e rifulgerà la sua bellissima testa sotto i diamanti, come un angolo di firmamento, e le sue perle saranno meno bianche del suo collo! Un gioiello, un gioiello, un ex-voto, io debbo offrirglielo, prima che Ella vada sposa e ci lasci per sempre! Eccolo, dunque. È questo infrenabile, inguaribile sdegno contro la mia sorte, contro la Sua sorte; è questo invincibile disgusto della vita, delle sue laidezze, delle sue bassezze; è questa nausea di tutti i sozzi contratti umani, per cui la bellezza si vende, l'onore si vende, l'amore si vende.... Oh che orrore, che orrore, Diana, che orrore, vendervi a un vecchio, a uno straniero.... vendervi, come una cortigiana....

«Paolo Ruffo».

 

 

«Roma Parigi, 2470, 15 17 giugno, ore 7 mattina

«Signorina Diana Sforza

«Villa Melville, via Boncompagni

«Roma»

 

«Un disperato vi chiede perdono.

«Paolo Ruffo».

 

 

«Parigi, diciassette giugno, ore 7 di sera

 

«Diana, parto fra due ore per Roma. Vengo a buttarmi ai piedi vostri, a batter la fronte sulla terra, per chiedervi, di nuovo, il perdono a così ignobile e ingiusta mia offesa. Ma sono un disperato: vi perdo e non posso vivere, senza voi: mi sento morire e non muoio. Forse, se vi rivedo, Dio permetterà che io muoia innanzi ai vostri occhi.

«Paolo».

 

 

«Roma, diciotto giugno

«Diana, sono giunto, sono qui: stanco mortalmente, di tutte le stanchezze: tutto il mio furore, tutto il mio sdegno è mutato in dolore; tutte le mie maledizioni sono lamenti; tutte le mie imprecazioni sono gemiti: tutti i miei propositi terribili si sciolgono in sordi singhiozzi, in lunghe lacrime: e io, uomo, a trentadue anni, piango tutto il pianto che si è accumulato, dalla prima giovinezza, io piango tutte le lacrime che, da anni, da anni, eran ricadute sul mio cuore e vi avevan formato nel suo fondo, un lago oscuro dalle acque amare. Io son solo, in questa mia casa, donde Lisa è lontana, a Rieti, presso una nostra vecchia parente, a trascorrervi il tempo della mia assenza: son solo, in questa casa muta, deserta, ed essa mi sembra quella donde un morto, una persona carissima, sia uscito, ieri, chiuso nella sua bara, al suo gran viaggio: son solo con questo pianto che niuno rasciuga, che niuno consola; son solo, con questo mio duro e aspro dolore; come la più abbandonata, la più misera creatura umana, io son solo con queste mie lacrime, le più antiche e le più segrete, che sgorgano e non sollevano il mio petto oppresso e non placano il male che mi trafigge! Diana, Diana, che profonda ammirazione e che profonda pietà, per voi, Anima grande, per voi che, come Ifigenia, andate al sacrifizio e non sospirate, e non gemete, sulla vostra giovinezza, sulla vostra beltà, voi, eroica come la vergine greca, eroica più di essa, poichè voi gittate la felicità di una intiera vita, per i vostri fratelli, per le vostre sorelle.... Ed essi non sanno tutto questo, ed essi non intendono come sanguini il cuore vostro e son contenti e sorridono, e ridono, che vi menano al sacrificio! Ma io solo vi comprendo, io solo so che sia di spaventoso, di terribile, questo dono intiero che voi fate, di voi, sposando un vecchio, uno straniero, esiliandovi dal vostro paese, andando lontana da quelli che amavate, con costui che non amate, che è un vecchio, un estraneo, uno straniero! O Diana, creatura di sublime bontà, io ho osato insultarvi, vilipendervi in una lettera che era un impotente grido di gelosia, un rauco grido di sdegno, ma voi avete tutto inteso, voi sapete che quella mia lettera, come le altre, più di tutte le altre, prese insieme, era una violenta lettera di amore, la lettera di un disperato che non sa uccidersi, di un morente che non può morire, la lettera di chi si vede strappato, brutalmente, l'amor suo e urla e clama.... Diana, mai vi ho tanto amata, come in quella orrenda lettera che se ha offeso mortalmente il vostro pudore verginale e la vostra dignità di donna, essa vi ha detto che solo una folle passione che mi ha travolto, in quell'ora tremenda, solo la vertigine dell'uomo che si sente mancar la vita, ha potuto guidar la mia mano incosciente! Diana, io era a Parigi, fra il tumulto e la indifferenza di quella città infernale e seducente, che non giungeva a vincere la mia immensa e tacita tristezza: quando ho saputo che vi rubavano al lontano amor mio e al mio sogno pur vivo nel mio cuore, che vi strappavano al vostro paese e alla vostra famiglia, io ho smarrito la vista e l'udito delle cose reali e il mio sangue è diventato piombo fuso, nelle mie vene, per una collera pazza contro il destino, per una gelosia ferocissima contro questo gelido vecchio che vi rapiva, via, alla mia adorazione e alla sempre viva speranza e allora le parole di orrore sono sfuggite alla mia anima, sono sfuggite alla mia penna, febbrilmente e non ho avuto pace sin che la mia sciaguratissima lettera non sia partita per l'Italia, fremente di tutto il mio spasimo.... Ma poche ore dopo, come in una mistica visione il vostro volto mi è riapparso, bianco come un petalo di rosa bianca, e i vostri cari occhi eran più oscuri e più tristi che mai, e come un fine nastro sanguigno, era la bocca vostra senza sorriso.... allora, allora, io ho sentito frangersi il mio cuore, nel mio petto, di tenerezza, di compassione, di rimorso e vi ho domandato perdono, prostrato dinanzi a voi, con l'anima riboccante di dolore, innanzi a voi, Ifigenia, Ifigenia, che rinunciate all'amore, che rinunciate alla gioia, che vi votate a un eterno sacrificio, voi vergine pura e voi madre dei vostri orfani fratelli, delle vostre orfane sorelle, voi che non conoscerete, mai, mai, nella vita, la soave carezza dell'amore e il bacio inebbriante della passione, o Ifigenia....

«Piango su voi, Diana: Dio vi dette un gran sangue e un gran nome, ma per peccati che vi sono estranei, che voi ignorate, egli punì i vostri e voi, affliggendovi con la povertà: Dio vi donò una beltà ammaliante e adornò la vostr'anima, rendendola fulgente come una gemma sacra, ma vi tolse vostro padre e vostra madre; Dio vi concesse una gioventù dolce e forte, insieme, ma vi affidò la sorte dei fratelli, delle sorelle, che a voi si volgono e voi chiamano e voi dovete condurli, nella vita, a un destino di bene e di gioia. Piango, su voi, Anima cara, perchè il vostro sangue e il vostro nome vi costringono a non diminuirvi, a non discendere; perchè, ahimè, la vostra beltà e la vostra virtù debbon diventare, per i vostri, la fortuna che è loro mancata; perchè la giovinezza vostra deve prendere il posto austero di coloro che sparvero, perchè, purtroppo, purtroppo, tutto di voi non è più vostro, è di casa Sforza, della grande casa Sforza, che languisce, che perisce, tutto di voi non vi appartiene, più, è dei giovani Sforza, è delle damigelle Sforza, che non possono, non debbono vivere nella mediocrità, nella oscurità, nella miseria.... Piango su voi, Diana, che di tutte le cose pure, alte, splendide onde siete ricca, nel vostro cuore e nella vostra persona, venustà, fascino, grazia, gioventù, voi dovete fare una offerta sovra un altare crudele, a quel Dio maledetto ed esecrato da tutte le anime nobili, a quel denaro che è la forma del Male e del Bene, sulla terra, ma per me, per voi, è solo il Male, tutto il Male! O mia Diana adorata, voi siete simile al giovinetto Giuseppe, della Bibbia, mercanteggiato e venduto dai fratelli....

«Piango su me.... Che sono io, mai, per voi, io, Paolo Ruffo, di Rieti, gentiluomo discendente da una casa antica assai, ma che è venuta perdendo, lentamente, la sua immensa ricchezza, la sua possanza sociale: una casa illustre che ha visto appannarsi il suo splendore, così, per ragioni misteriose e, forse, naturali; che è decaduta non sino alla povertà, non sino alla ristrettezza, ma a una agiatezza borghese: che era alleata a tutte le grandi famiglie del patriziato romano, e che, a poco a poco, ha celebrato nozze sempre meno importanti e i cui due ultimi discendenti, Lisa ed io, non avremo famiglia, forse, preferendo la solitudine e la fine del nostro nome, a nozze meschine o grossolane? Che sono io, mai, per voi, per chi vi circonda? Una nullità. Che sono io mai, per voi, col mio povero amore, non sostenuto dalla fortuna, dal fasto, col mio povero amore che ha tutto il suo vanto nella sua schiettezza, nella sua intensità e nella sua tenacia, che è profondo e ardente, questo amore e tutto ciò è vano, è inane, perchè è l'amore e nulla più? Che cosa può fare, a voi, questo mio inutile amore, se non turbare, forse, col suo cupo lamento, col suo grido di ambascia, la mesta serenità del vostro sacrificio, che cosa può mai servire, alla vostr'anima, questo amor solitario e palpitante, di cui voi sentite, costantemente, intorno a voi, la vibrazione e ciò forse pesa al vostro animo, ebbro di una completa rinuncia? Su questo povero, povero amore, io piango e su me stesso, su quest'uomo che ebbe una fortuna così dispari al suo nome e al suo posto, in società e che non seppe accrescerla col suo sforzo, col suo lavoro: uomo debole che non seppe rompere il cerchio delle sue consuetudini, in cui si è cullata e addormentata la sua volontà; uomo fiacco che non sentì la responsabilità della vita, che non seppe crearsi una carriera, una reputazione, una ricchezza, magari strappandola agli altri, con la violenza del suo desiderio e della sua cupidigia. Ah io avrò attraversato la vita pensando, sognando, cercando solo di evitar il male, ma incapace di fortemente fare il bene, io mi sarò sempre più abbandonato al sogno, dove si chetavano, tacevano, le mie nostalgie, i miei rimorsi, i miei rimpianti.... Sino a che una notte, una voce mi abbia risvegliato, dal mio sonno, ed abbia, a un tratto, esaltato tutte le mie facoltà, in un sentimento di me più forte, e mi abbia messo innanzi all'alto bisogno di esser un uomo, di agire, di vincere, di farmi amare da voi, Diana, di avervi per mia sposa, per mia signora, per mia compagna e per mia amica, tutta voi, per me, per tutta la vita.... e io non so far nulla, non posso far nulla, Diana, per combattere e strappare il grande premio della vittoria: io non ho energia, audacia: io non ho abbastanza denaro, sovra tutto, e non so guadagnarne e non so prenderlo agli altri, disonestamente: io non ho abbastanza denaro, per darvi una vita degna del vostro grado e della vostra beltà: io non ho abbastanza denaro, perchè voi possiate, mia sposa, rifare l'esistenza dei vostri, che, da voi, la sperano e l'attendono.... E piango, vedete, come un uomo imbelle che sono, piango invece di tentare un colpo audace che travolga, altrove, la corrente del destino, piango come una infelice creatura oppressa da una potenza ineluttabile; piango, invece di levarmi, di scuotermi, di ridere, di sghignazzare, su me stesso, sul mio folle amore, che nulla poteva sperare da Diana Sforza e che diventa ridicolo, grottesco diretto a colei che sarà lady Diana Montagu fra una settimana e partirà, con suo marito, e io non la vedrò più! Non so voler nulla; non voglio nulla; tutti hanno ragione, contro me; tutto è giusto, contro me, perchè io ho dimenticato di vivere, ho dimenticato di agire, io sono un miserabile a cui non restano, nell'ora più angosciosa della sua vita, che le vili lacrime di una femminetta del popolo.... vili lacrime brucianti.... vilissime lacrime....

«Paolo».

 

 

«Roma, diciannove giugno

 

«Diana, volete fuggire con me? Volete voi abbattere, di un sol colpo, i veli bigi sempre più folti, che son saliti a cingervi, ad avvolgervi, a celarvi, per sempre, l'aspetto della felicità? Volete voi vivere e amare ed essere amata, come mai altra donna fu amata? Fuggite con me, Diana. Intorno a voi, che io non ho ancor riveduta, si sente il movimento delle vostre imminenti nozze e, ad ogni istante, io sobbalzo di angoscia e d'ira, per ogni nuovo indizio. Non importa! Fuggite con me, domani. Nella notte di domani, Diana! Fuggiamo via, lontani, lontanissimi, ai confini del mondo, in tale incommensurabile distanza, che non ci giunga mai più, sino alla nostra morte, notizia della nostra patria e delle nostre famiglie. Domani notte, insieme, Diana! Togliete dal dito l'anello che vi ha dato quel vecchio, quello straniero e buttatelo via, come se fosse il cerchio infranto della vostra prigionia: non guardate i gioielli smaglianti, le vesti nuziali, i doni squisiti: non guardate più nulla, dietro a voi, intorno a voi: guardate innanzi a voi, ove è l'amore, l'amore, Diana, l'amore che vi tende le braccia, per serrarvi e tenervi a , stretta sul cuore, per sempre. Diana, Diana, non rinnegate la vostr'anima e la vostra fede, dandovi a sir Randolph Montagu; non distruggete il vostro cuore e la vostra coscienza, non infrangete la coppa del bene, ove è la divina bevanda dell'amore: Diana, non rinunciate alla sola cosa nel mondo che ci fa più grandi di noi stessi, alla sola cosa che ci avvicina al cielo, alla sola cosa che slancia le anime e i sensi fuori del grossolano involucro terrestre, l'amore, Diana, l'amore, che è stato donato alle più umili, più semplici creature umane e voi sola, voi sola, dovreste rinunciarvi? Diana, fuggiamo, domani notte, insieme. Non voltatevi indietro. Agite da anima libera: agite da cuore libero: cercate la vostra vita, dove essa è. Non vi voltate, non vi voltate! Obbliate quello che foste, quello che siete: obbliate gli sterili doveri familiari: obbliate gli aridi obblighi sociali: obbliate tutti gli egoisti che vorrebbero far di voi la lor vittima: obbliate tutti costoro che sarebbero, domani, degli ingrati. La parola che avete data, la promessa che avete fatta, tutto dovete dimenticare. Senza voltarvi indietro, uscite da villa Melville e venite, via, con un uomo che vi ama, che v'invoca, che vi vuole, che vi deve avere, perchè voi gli foste destinata dal Signore, perchè tale è la Sua legge, perchè io vi amo, perchè io ho, su voi, il sacrosanto diritto dell'amore. Diana, non vi condannate, da voi stessa, alle pene dell'inferno, sulla terra: non dannate la vostr'anima: non sposate sir Randolph Montagu, non partite per l'Inghilterra, fuggite con me, che sono giovane, che sono forte, che vi adoro, che vi rapirò, via, in un roveto ardente di passione e voi nulla più saprete del tempo e dello spazio....

«Diana, domani notte, da mezzanotte in poi, tutta la notte, nella piccola via adiacente a villa Melville, un'automobile bruna vi attenderà, sino all'alba. Io sarò colà, ad aspettarvi, tutta la notte. Lasciate trascorrer la serata: salutate il vostro fidanzato e uditene il passo, nel giardino, quando andrà via: salutate lady Melville e aspettate che ella si sia ritirata e coricata e addormentata. Quando tutto sarà silenzio, in villa Star, mettete un mantello sulle vostre spalle, un velo sulla vostra testa e attraversate la villa, con passo cauto: scendete in giardino e aprite il piccolo cancello, nella via Sallustiana. Io sarò colà, nell'automobile. Partiremo subito; fuggiremo a una velocità fantastica: saremo al mare, a un porto d'imbarco, in poche ore, quando ancora, a villa Melville, non si saranno accorti della vostra fuga. E niuno ci ritroverà, mai più.... Diana, nessuno vi ama, intorno a voi: non i vostri fratelli e le vostre sorelle che vi vendono, per aver il prezzo della vostra persona: non lady Melville, che vi a quell'uomo orribile: non lui, quel gelido e cinico vecchio; nessuno, nessuno vi ama e io solo vi amo, io solo vi adoro, e vi aspetto domani notte, per portarvi via, nelle mie braccia. Diana, venite a colui che solo vi merita!

«Paolo Ruffo».

 

 

«Roma, venti giugno

 

«Vi ho cercata, affannosamente, stamane dopo mezzodì, Diana, e non vi ho trovata, e non vi ho vista, mentre so che siete escita, stamane e dopo mezzodì, due volte, con lady Melville, con sir Montagu, e non vi ho incontrata, e non so dove siete andata, dove, dove? È per questa notte, Diana, che io vi aspetto, nella piccola via Sallustiana, all'angolo inferiore di villa Star, in un'automobile bruna, che sarà ferma, con lo chauffeur che fingerà di dormire.... È per questa notte, che voi dovete fuggire, con me, Diana, per non uccidere la vostr'anima e non deturpare il vostro corpo, sposando Montagu.... È per questa notte, che io vi attendo, che io vi attenderò, sino all'alba, che voi veniate a cadere, silenziosa e tremante, nelle mie braccia, sul mio petto forte, fido e fedele.... per questa notte, sino all'alba....

«Paolo».

 

 

«Stesso giorno

 

«Diana, è già sera: fra poche ore saremo nel cuor della notte. Amore mio unico, io spasimo fra una divina speranza e una tremenda incertezza: fra poche ore, la mia vita e la mia morte saranno decise. L'uomo che vi ha portato, da ieri l'altro, le mie lettere, i miei biglietti, Vincenzo, il mio domestico, mi vede pallido e assorto e smarrito: nulla mi chiede, m'obbedisce, rapidamente, in silenzio: sa, ha compreso, sa che quest'ora è suprema: tace, mi guarda negli occhi, per servirmi meglio, più presto.... sa! Diana, ricordate: nella piccola via Sallustiana, all'angolo inferiore del giardino Melville: dovete fare dieci passi, uscendo dal cancello di servizio: Diana.... non so più che cosa dire.... non so più....

«Paolo».

 

 

«Ventuno giugno, mattina

 

«Diana, vi ho attesa tutta la notte. Non siete venuta: non siete venuta! Sono rientrato in casa mia, mentre il sole sorgeva: e ho chiuso le imposte, ho fatto l'ombra profonda, il grande silenzio, attorno a me e ho invocato il sonno, fratello della Morte, ed esso si è abbattuto, su me, pesantemente, atterrandomi. Non siete venuta. Forse, avete avuto paura: forse, non avete saputo escir di casa: forse, non avete trovato modo di aprirvi il passo, di schiuder le porte, senza rumore: forse.... Stanotte, Diana, vi aspetterò novellamente, da mezzanotte all'alba, allo stesso posto, Diana, pietà di voi, pietà di me!

«Paolo».

 

 

«Ventidue giugno, mattina

 

«Nulla, nulla, nulla! Interminabile, angosciosa, folle, folle notte d'inutile attesa! Io sono un pazzo. Solo un pazzo può pensare, volere, agire come me. Da quando, mai, sono io un pazzo? Forse, da tre giorni solamente, in una febbre di amore e di dolore che mi brucia le vene, e in questo delirio febbrile, io pretendo che voi rompiate le vostre nozze con sir Montagu, che voi rinunciate alle sue ricchezze, al nome suo, a una grande posizione, da tre giorni, sono pazzo, pretendendo che vi disonoriate, per me, fuggendo meco, voi che non mi amate. Da tre giorni? Io, forse, sono pazzo da quella sera, a Parigi, in cui lessi che vi maritavate e nulla più intesi e seppi, di tutto quello che mi circondava.... Da allora, soltanto? O, forse, sì, senza forse, io sono pazzo da quella sera fatale in cui vi udii a cantare, per la prima volta. Ah Diana, io son pazzo e non posso vivere senza Euridice, e non voglio vivere senza Euridice! Diana, per la terza notte, per l'ultima, io vi aspetterò, nello stesso posto, alle medesime ore, nell'automobile: l'ultima notte. Se per l'alba Euridice non sarà venuta, se voi non venite a me, Diana, prima dell'alba, per fuggire meco, io, in quella via solitaria Sallustiana, all'angolo del giardino di villa Star, mi tiro un colpo di revolver.

«Paolo».

 

 

«Roma, ventitrè giugno

 

«Alle quattro antimeridiane di questa notte, io ho guardato ancora il mio orologio, per la millesima volta: sono escito dall'automobile: il mio chauffeur si era addormentato pesantemente, dopo aver tanto vegliato: io ho camminato, un poco, avanti e indietro, nella deserta via Sallustiana. Ero tranquillo, indifferente, gelido nel sangue e nell'anima: guardavo il cielo, donde mi dovea venir il termine fissato. A un tratto, i lievissimi chiarori dell' alba, appena appena percettibili all' occhio umano, salienti dall'orizzonte, laggiù, verso Roma bassa, hanno armata la mia mano decisa e ferma. Chi, in quell'istante, mi ha chiamato nella mia vita interiore? Qualcuno mi ha chiamato: e io ho interrotto il mio gesto, intento, attento, se, di nuovo, la voce che non risuona alle orecchie mortali, ma che vibra nell'anima, ancora mi chiamasse. Ho levato gli occhi: e quello che non avevo mai visto, in tre lunghe notti di attesa, di ricerca, di spionaggio, attorno a villa Star, quello che non avevo mai, mai scorto, spiando nel grande giardino ombroso, spiando i veroni, i balconi e le finestre di villa Star, che, sempre, eran state chiuse e oscure, per tre notti, quello io ho scorto, nell'istante in cui doveva finire questa mia odiosa, questa mia esosa vita. A quel minuto ultimo, un balcone del secondo piano, sull'angolo di villa Star, sporgente su via Sallustiana, si era soffuso di un mite chiarore, come per una lampada interna, non troppo lontana ma velata. Era alto, quel balcone: i cristalli ne eran chiusi: ma la luce interna, tenue, nelle ombre ancora folte della notte, si delineava precisamente. Il mio sguardo attirato da quella luce, con un'ansia misteriosa e crescente, il mio cuore che, quasi, non aveva più forza di palpitare, dopo tre notti di spasimo solitario, ha avuto come un sussulto di risurrezione: e io ho tremato, ho tremato come all'approssimazione di qualche grande cosa.... In quell'alone di luce, qualche cosa di più chiaro, di bianco, ma di più preciso, è apparso e si è venuto delineando, malgrado la lontananza: era la vostra alta e snella persona, vestita di bianco: era il vostro volto bianco: eravate voi, Diana, che mi siete così apparsa, che avete appoggiata la vostra fronte al cristallo nitido e che siete rimasta, così, qualche tempo, non so quanto tempo, innanzi al mio sguardo vinto e avvinto. Io non potea distinguere, se i vostri occhi fossero a me rivolti, se mi vedessero, mi guardassero: io non poteva distinguere la espressione del vostro viso: io era così lontano, voi così in alto, la notte era così oscura, la luce della vostra camera così fievole e il cristallo del balcone così scintillante: solo le linee del vostro caro volto, solo le linee della vostra cara persona, e, anche, soffuse nella luce interna, vaporose, sfumate, mi riempivano gli occhi e riempivano di voi tutti i miei sensi, tutte le mie fibre, tutto il mio animo sospeso e preso. Quanto, quanto tempo è durata questa penetrazione soave, dolce, forte, possente, che voi avete fatta, in me, da lontano, nella notte tragica, voi, fantasma vanente dietro un cristallo, in me uomo di nervi e di sangue e di carne? Come in un sogno, a un tratto, la visione vostra si è arretrata, è sparita: la luce si è fatta anche più fievole, come se si allontanasse: è sparita. L'alba era sorta: e io era salvo dalla morte, per voi.

«Diana, io, ora, so che non mi amate: ma so che avete avuto di me una irresistibile pietà. So, son certo, che non mi amate, perchè non siete stata scossa, turbata, vinta dal mio violento desiderio di passione, di ebbrezza, perchè voi avete resistito al torrente impetuoso del mio amore, che voleva travolgervi: ma so, son certo, che il mio delirio amoroso ha intenerito la vostra sensibilità: so che non mi amate, ma che credete nella forza del mio amore: so, dunque, che avete creduto alla mia volontà di morte e non avete voluto che io morissi. Diana, se ancora pochi minuti voi aveste tardato, quello che io avevo promesso, alla mia disperazione, era compiuto: ancora pochi minuti e le guardie notturne, rientrando, stanche e sonnacchiose, sarebbero inciampate, nella fredda luce mattinale, in un cadavere, , in terra, giacente poco lontano dal giardino di villa Star e il mio chauffeur risvegliato, smarrito, nulla avrebbe saputo dir loro. Ma i minuti estremi non eran trascorsi e come se li aveste contati, uno per uno, voi, lontana, voi, distante, voi, estranea, voi che non mi amate e che non mi conoscete, voi che non mi parlerete mai e la cui mano non si stenderà mai a toccare la mia voi siete comparsa, quando la Morte era già dietro la mia spalla e stendeva la mano su me: e voi avete distolta quella mano, solo comparendo dietro un cristallo, con la vostra fronte pensosa, di cui io ignoro il pensiero, coi vostri occhi tristi di cui non so il segreto, con la vostra bocca serrata di cui non vedrò, forse, mai il sorriso. Voi non mi amate: ma, voi, per pietà di una povera creatura umana, giunta, spinta, sospinta dalla sua volontà tragica, al passo estremo, voi, solo per compassione, avete vinto la morte. Io sono salvo: io sono vivo: io vi amo: ma la mia profonda commozione, per voi, è tutta fatta di una incomparabile tristezza.

«Diana, la vostra bontà è un prezioso tesoro, una delle tante gemme smaglianti di cui si abbellisce la vostr'anima. È a questa bontà che io debbo di respirare ancora, di vedere il sole, di pensare, di vivere: solo a questa bontà. Per essa, voi avete obbliato che questi giorni sono gli ultimi della vostra esistenza incerta, penosa, povera e che, fra due giorni — due giorni, due! — tutta la vostra sorte sarà mutata; per essa, Diana, voi avete scordato le feste che già vi circondavano, le grandi feste che vi si preparano; per questa bontà, voi avete dimenticato che, di un colpo solo, la Fortuna vi mette in cima a ogni più alto desiderio realizzato. E avete vegliato, una intiera notte, voi, Diana Sforza, la fidanzata di sir Randolph Montagu, la sua sposa di domanidopodomani! — avete vegliato per Paolo Ruffo, il vostro folle innamorato, uno sconosciuto, un passante; avete vegliato per colui che soffriva, che soffocava le sue grida e i suoi gemiti da tre notti, che agonizzava, nella terza notte, laggiù, nell'ombra, nella solitudine, serrando i denti, serrando i pugni, in fondo alla sua automobile: voi, Diana, stella mattutina, vergine purissima, avete vegliato, non nella veglia della fidanzata felice e tremante di speranza, ma nella veglia di chi sa che, di ora in ora, la Morte si appressa a qualcuno, vicino. Avete vegliato, perchè Paolo Ruffo, che non vi è niente, che non vi sarà mai niente, non morisse: per esso, voi avete tenuto l'occhio sulla sfera dell'orologio e vi siete levata, e siete apparsa, e avete guardato, nella via, cercando l'ombra nell'ombra e apparendo, solamente, avete riannodato il filo della mia vita. Per la bontà vostra, io vivo.... Ah Diana, Diana, che grande cosa è la bontà: ma essa è nulla, nulla, nulla per l'amore!

«Io tremo di emozione, benedicendovi: io ricorderò sempre la grande veglia, in cui la pietà vi ha tenuta desta e vigile, vi ha dato il modo di compire un miracolo, solo con la vostra presenza di fantasma, con la vostra presenza aerea: ricorderò, sempre! Ma nulla eguaglia, in questo giorno, la mia tristezza. Voi avete spezzata la mia volontà di morte: e di questa misera vita, senza voi, io non so che fare: e di me, misero, senza voi, io non so che accadrà. Siate sempre esaltata, o creatura di ogni bontà: ma io non posso più morire e senza Euridice non posso vivere....

«Paolo Ruffo».

 

«Roma, ventiquattro giugno

 

«Dice il mendicante, sulla via pubblica, fra un piccolo gruppo di curiosi, che aspetta l'uscita degli sposi dall'Ambasciata inglese e anche il mendicante che è , da due ore, seguita ad aspettare e pensa e più che pensare, conta, misura, calcola, dice questo smorto e tacito mendicante, che supputa delle cifre, nella sua mente, fissa in un sol pensiero: «Quanto può valere la veste di crespo roseo, coperta da una tunica di prezioso merletto bianco e stretta alla persona da un gallone orientale, d'oro e di argento, questa veste squisita e sontuosa con cui, ora, poc'anzi, donna Diana Sforza, è entrata, nell'Ambasciata inglese, per isposare, civilmente, sir Randolph Montagu e ne verrà fuori al suo braccio, fra poco, forse, diventata lady Diana Montagu? Quella veste non può costare meno di mille lire. E quel filo di perle che donna Diana Sforza aveva al collo, un sol filo di grosse perle, stretto sul soggolo di velo bianco che le covriva il petto e il collo e dietro, mi pare, fermato da una fibbia rotonda, uno smeraldo circondato di brillanti? Quel filo non può valere meno di otto o diecimila lire, insieme al fermaglio. E gli orecchini di smeraldi, circondati di brillanti, così larghi che parea facessero curvare il bel viso, per il loro peso, quelli non possono costare meno di cinquemila lire. E ho visto luccicare, anche, sui guanti bianchi dei braccialetti carichi di gemme preziose, come luccicava, anche, il pomo dell'ombrellino di merletto bianco, quell'ombrellino che ella, nella carrozza, teneva un po'abbassato, un po' troppo abbassato, per non farsi scorgere dalla gente, in via Venti Settembre.... Tutto ciò, braccialetti scintillanti, pomo d'ombrello luccicante, doveva valere, almeno, due o tremila lire. Chi sa quali anelli mirabili, per le pietre preziose, per la fattura, adornavano le mani di donna Diana Sforza: ma ella aveva i guanti e io non li ho visti gli anelli e non posso valutare quanto costassero....Ora, lassù, per firmare l'atto nuziale, con cui ella diventa lady Montagu, donna Diana toglierà i suoi guanti e mostrerà le sue candide mani, su cui, forse, si aggravano gli anelli più ricchi di pietre mirabili. Chi sa se il suo volto non sia anche più bianco delle sue mani, mentre si curva, lassù, nel salone dell' Ambasciata, a firmare: ella aveva un volto così bianco, così trasparente nella sua bianchezza, come non ho visto mai, mentre entrava nel vestibolo dell'Ambasciata, e io, da mendicante ostinato e audace, ero giunto fin quasi allo scalone, per vederla meglio! Non ho visto i suoi occhi, nascosti sotto l'alterigia delle sue palpebre socchiuse: ho visto, solo, l'oriente lucido delle sue perle magnifiche e il raggio verde degli immensi smeraldi, alle sue piccole orecchie: quindicimila o ventimila lire, tutto insieme.

«— Le due sorelle di donna Dianaseguita a dire, il mendicante, che è stato ricacciato nella via Venti Settembre, cortesemente ma fermamente, dal portinaio dell'Ambasciata inglese — sono molto vezzose: una, Oliva Sforza, ventenne, pare, è una bruna dal viso d'un avorio vivo, colorito di salute e di giovinezza: l'altra, Anna, che avrà forse quindici anni, è una bionda dai capelli che vanno al rosso, dalla carnagione lattea, dagli occhi sinceramente azzurri: ambedue hanno quella perfetta distinzione di linee, di attitudini, di gesti, della loro antica razza, del loro bel sangue. Le loro toilettes, uguali, poichè esse erano, all'uso inglese, le damigelle di onore della loro sorella, erano in crespo bianco, molle, con ricami fini in argento: sulle loro teste giovanili eran posati dei grandi cappelli, coverti di leggere, volitanti piume bianche: avevano dei sautoirs di oro e perle sul petto e delle sciarpe di crespo, che si gonfiavano, come ali, sulle loro persone. Questi due vestiti, certo, non potevano costare, coi cappelli, coi gioielli, con gli ombrellini, meno di cinquecento lire ognuno: e pare, cioè, non pare, è certo, che sono un dono dello sposo, sir Randolph Montagu, alle sue giovani cognatine. I due fratelli di donna Diana, Fabio e Piero Sforza, erano, anche, nel corteo: uno ha diciassette anni, l'altro tredici. Molto graziosi, molto seri, ambedue: ed elegantissimi, poi! La madrina della sposa, lady Roselyne Melville a cui dava il braccio lo sposo, sir Montagu, era maestosa, nella sua veste sontuosa di broccato violetto: portava, addosso, un centomila lire di gioielli, come han detto, nel cortile dell'Ambasciata, gli astanti, che la conoscevano, che lo sapevano: dopo, il mendicante è stato pregato di uscir fuori e nulla ha potuto udire, più. Però, prima di esser messo gentilmente alla porta, come meritava, in fondo, perchè un mendicante non ha nulla da fare, in un corteo di sposi immensamente ricchi, fra la sposa, le sorelle, la madrina, cariche di gemme singolari, in un lusso possente e innumerevole, questo mendicante ha potuto squadrare e non brevemente lo sposo. Era di una suprema eleganza inglese, sir Randolph Montagu: indossava un costume bleu scurissimo, e la sua redingote dal taglio perfetto, aveva i bottoni di oro: il suo panciotto era bianchissimo: la sua cravatta era di un raso grigio argento, legata e annodata artisticamente, con una grossa perla nera, come spillo: i suoi guanti erano di un giallo pallido, opaco. Così pare ci si sposi nel peerage d'Inghilterra. Il suo volto era più rigido, più pietrificato che mai: i suoi occhi di un colore metallico azzurrino, erano freddi e fieri: i suoi gesti rari e composti. Egli ha cinquantasei anni: ma, poc'anzi, in quella penombra del cortile ne mostrava sessanta, giusto trentacinque anni più della sua sposa. E il mendicante seguita, seguita a calcolare, nella via, dove già la gente si dirada, dove egli rimane solo, ad aspettare, perchè è un mendicante tenacissimo e audacissimo, ad aspettare che lady Montagu infine riappaia....

«Quando riapparirà, lady Montagu, non solo ella non sarà più la signorina Diana Sforza, ma ella non sarà più povera. Sir Randolph Montagu ha centocinquantamila lire di rendita e questa sua gran fortuna gli farà fare dei passi anche più rapidi, in diplomazia: fra pochissimi anni sarà ambasciatore e, quindi, ambasciatrice lady Montagu. Egli possiede, in Inghilterra, un castello, nel Sussex, Montagu Castle: egli possiede una vasta casa di campagna Springfield Court, presso Chelmsford; egli ha terre, boschi, stagni, mulini: egli ha una collezione rarissima di stampe; egli ha cavalli e cani magnifici, laggiù, nel suo paese. Naturalmente, quando è in Roma e a Berlino, per il suo ufficio diplomatico, il suo lusso è quello di un ricco straniero in viaggio: in Inghilterra assume quell'aspetto impressionante delle grandi case di laggiù. In quest'ora, dunque, la fidanzata nobilissima, bellissima e poverissima, Diana Sforza, detta Euridice dal mendicante, nel suo accesso di frenesia amorosa, diventa una grande dama straniera, con una rendita grandissima, che è di suo marito, è vero, ma di cui ella dispone, per una forte parte, liberamente, per , per i suoi, senza doverne dar conto: tanto ella deve alla magnificenza signorile del suo sposo. Quando ella sarà in Inghilterra, volta a volta, una sua sorella, un suo fratello, saranno suoi ospiti; chi sa che, in queste dimore, costoro non trovino da appoggiare anche più fermamente la loro vita personale. Gli inglesi sono amici e protettori impareggiabili, quando diventano amici e protettori. La casa Sforza, di Perugia, che era perduta, ritorna al suo antico splendore: Oliva e Anna Sforza, Fabio e Piero Sforza sono, di nuovo, dei signori, oltre il loro nome e oltre il loro sangue.... Quanto è mortalmente pallida questa sposa, nella sua veste troppo rosea per il suo pallore, mentre discende lo scalone dell'Ambasciata, maritata, ormai, al braccio di suo marito, sir Montagu! Gli sposi discendono con lentezza, avanti a tutti gli altri: lady Montagu appena appoggia la sua mano sinistra, nuda del guanto, sul braccio di sir Montagu: questa mano è meno pallida del suo viso, sotto il suo cappello piumato di tenui piume rosee: e i due non si guardano, non si parlano.... Vede, vede tutto, il mendicante dalle guance roventi per tutto il suo sangue, che è, in un fiotto, salito al suo cervello, il mendicante dagli occhi ardenti come bracia: lady Diana lascia pendere la mano destra lungo il suo vestito e il fascio di fiori d'arancio pende, quasi cade dalle dita che appena lo rattengono: un ramoscello di fior d'arancio è all'occhiello di sir Randolph Montagu.... Egli è il marito, il signore, il padrone di Diana Sforza. Vorrebbe, vorrebbe gridare, gridare altamente, clamorosamente, il pazzo mendicante, gridare Euridice, con un urlo che rintroni sino al cielo e faccia volgere il viso alla pallida e tacita sposa. Ma niuna voce esce dalle labbra del mendicante: ma la pallida sposa non trasalisce, non si volge, non si vuole volgere. Ella sa, sa che il mendicante è : ma ella non può fargli, oramai, più nessuna elemosina....

«E vada sulla sua via larga e luminosa, la bellissima sposa, il cui volto è pallido come per morte, i cui occhi nulla voglion guardare, le cui labbra non sanno più schiudersi al riso; vada sulla sua via, ove troverà i più delicati piaceri, i più vibranti godimenti, le gioie più squisite, che la consolino del suo cuore gelido, della sua anima gelida, della sua vita senza amore: vada e goda e dimentichi e si esalti nelle feste della vanità e dell'ambizione; e dimentichi il mendicante che ella lascia, confitto a un angolo di via, misero, derelitto, senza più coraggio di morire, senza più coraggio di vivere. Dimentichi lady Montagu, la superba dama straniera, quando sotto la piccola corona scintillante, sotto le tre piume bianche, ella si siederà, a Corte, sovra uno sgabello, accanto ai re che discendono dai Plantageneti e le parrà di esser al fastigio della sua fortuna, dimentichi che quando ella era solo Diana Sforza, ed era bella ed era povera e così appassionatamente cantava, in una notte di primavera, un uomo le dette la sua anima e il suo sangue, così, per amore.... dimentichi il mendico, Paolo Ruffo. Come Issione, costui, folle, ha cinto con le sue braccia una nuvola, credendola una forma umana, credendola una donna, e la nuvola è svanita e le braccia stanche d'Issione ricadono, vuote, ed è vuoto il suo cuore e tutto è vuoto, intorno a lui. Vada, vada, si allontani, sparisca la pallidissima sposa, senza voltarsi indietro, senza volersi voltare, preferendo obbliare, obbliare presto, obbliare subito che, nella folla, nell'ombra, nel silenzio, rimane colui che seppe solo amarla: vada, sparisca come ha fatto, un'ora fa, sparisca per sempre dalla esistenza di questo miserissimo. Nessuno sa bene se Euridice, che cedette all'appello di Plutone, avesse mai amato Orfeo, che tanto l'amava: nessuno sa bene se, forse, ella non preferisse il bruciante Inferno e il suo Re rosso, e le ricchezze fantasiose sotterranee, al poeta tenero e profondo, al paesaggio idilliaco di Grecia. Ella si volse indietro, Euridice: e restò con Plutone. Nessuno lo sa, se ella avesse mai amato Orfeo. Io lo so: Euridice non amava Orfeo. E il resto è silenzio.

«Paolo Ruffo».

 

 

«Roma, ventisei giugno

 

«Le mie energie sentimentali fiaccate, le mie forze morali vinte, i miei sensi smarriti non mi hanno permesso, o Creatura del mio sogno, o Signora della mia vita, di assistere alle vostre nozze religiose. L'uomo è un povero essere caduco: talvolta, in un furore di amore o di odio, egli si sorpassa: ma, subito, paga lo scotto della sua superbia fugace. La settimana di passione che io ho trascorsa, in una febbre che ha bruciato il mio sangue, questa settimana in cui ho creduto toccare la felicità suprema, portandovi via, meco, per sempre e in cui, invece, ho sfiorato, con la mia, la mano della Morte, questa settimana alta e terribile, in cui amandovi come giammai, più, nessun uomo vi amerà, nel mondo, come cento uomini presi insieme non saprebbero amarvi, vi ho perduta, sotto i miei occhi, vi ho perduta, dai miei occhi, questa settimana ha devastata tutta la mia esistenza. Io sapeva, ieri, sapeva che stamane e oggi, due volte, voi vi sareste unita, religiosamente, a sir Randolph Montagu, la prima volta per lui, che è anglicano, che resta anglicano, nella chiesa inglese di via Nazionale, e la seconda volta, più tardi, per voi, che siete cattolica, che restate cattolica, in Santa Maria Maggiore, nella nostra grande basilica. Tutto sapevo: ma non ho avuto stamane, la forza fisica il coraggio morale di sollevarmi dal canapè, ove ero gittato, sfinito, per ore e ore, solo, chiuso nella mia camera, in penombra, senza dormire, senza sognare, senza pensare, immerso in un mare senza fondo di tristezza, senza lacrime, senza singulti, senza gemiti. Sapevo che l'ora pesante sul mio capo e pure fuggente, vi toglieva a me, per sempre, sapevo che l'ora di questo fatal giorno, il secondo, faceva sparire Diana Sforza dalla mia vita, l'allontanava, per sempre, da ogni mia speranza e da ogni mio desiderio: ma non avevo più slancio amoroso soffio di volontà, che mi spingessero verso la maestosa basilica, a scorgervi, nelle vostre vesti candide, sotto il vostro velo bianco, inginocchiata dinanzi all'altare, stendente la mano nuda all'anello nuziale. Nel mio stupore doloroso, spente tutte le mie facoltà, ho appena potuto, a tratti, immaginare la scena mistica, per cui Iddio istesso, nella sua misteriosa volontà, vi toglieva a me: e tutto si confondeva nella debolezza della mia mente esausta. E tutto era inutile, anche: tutto era inutile, persino il mio dolore solingo, deserto, inconsolato: tutto era inutile, anche il mio folle amore: e voi, ieri, nel vestibolo dell'Ambasciata inglese, passando al braccio di vostro marito, come un fantasma, con occhi senza sguardo, non volgendovi a me, non volendo volgervi, volendo cominciare, con quei passi, una via infinita e da me lontana, senza salutarmi, senza conoscermi, mi avevate detto che tutto era inutile, in me, l'amore, la passione, il dolore, la disperazione. Perchè amare, perchè soffrire, perchè spasimare? Io non sono venuto in chiesa, per soffrir solo, per spasimar solo, finchè si consumasse la mia vita o il mio dolore....

«Ma l'aereo appello che sembra una voce del cielo, ma l'appello interiore che pare venga da una voce profonda, senza parole, che mi fa trasalire, ogni volta, sino alla radice della mia anima, ha, a un tratto, scosso la mia debolezza mortale, mi ha tolto al silenzio e all'ombra della mia camera deserta, della mia casa deserta e mi ha spinto e sospinto nella via, un'ora fa. Come un trasognato, ma in preda a una suggestione invincibile, io mi sono avvicinato alla grande automobile da viaggio che era ferma, innanzi al cancello aperto di villa Melville. Lo chauffeur e un domestico aggiustavano delle borse da viaggio e degli scialli, da uno sportello aperto: all'altro sportello, eravate ferma, voi, in piedi, tutta chiusa in un ampio mantello da viaggio, leggero, di un grigio plumbeo: sul vostro capo una tocca di velluto nero, serrata da un velo di merletto bianco, ad arabeschi. Eravate sola, attendendo, con le mani guantate di bianco, appoggiate sul vostro ombrellino da viaggio: eravate sola e avevate la persona volta verso me, che mi avanzavo. E, allora, mi avete guardato, a lungo, come io vi ho guardato, a lungo, immobile, io, a pochi passi: e ho visto quello che non dimenticherò mai, nella mia vita, che rivedrò, nell'ora della mia morte e morrò tranquillo. Nei vostri occhi fieri e tristi, due grandi lacrime sono apparse, hanno coverto il vostro sguardo che mi fissava, sono sgorgate, si sono sciolte sulle vostre guance delicate e il vostro velo se ne è imbevuto e si è attaccato alla vostra pelle. Avete pianto, Diana, guardandomi: pianto così, semplicemente, lealmente, nobilmente, non celando le vostre lacrime, lasciandole scorrere, due grandi lacrime, non asciugandole, lasciando che bagnassero il vostro viso. Io volea gittarmi ai piedi vostri, nella via, per baciar l'orlo del vostro vestito: ma vostro marito, vestito da viaggio, è giunto, dalla villa Melville, più rigido e più glaciale che mai. Avete volto il capo e il viso, ove si eran disseccate le lacrime e siete partita, con lui, senza più. Che importa? Avete pianto, Diana: sulla vostra gioventù, sulla vostra bellezza, sul vostro esilio, sul vostro sacrificio, avete pianto: sopra ogni cosa cara, la patria, la famiglia, l'amore, avete pianto. E solo quando mi avete scorto, infine, sono ascese dal cuore agli occhi vostri, e sono sgorgate, le due grandi lacrime; come se io solo fossi degno di vedere il vostro dolore, come se io solo potessi intenderlo e compatirlo, come se io solo, di lontano, in silenzio, potessi pianger con voi. Diana, non posso dimenticarvi: Diana, non posso non amarvi: Diana, vi amerò tutta la vita. Voi avete pianto!

«Paolo Ruffo».


 


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