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III.
Anna Acquaviva era stata tre settimane in lotta con la morte. Febbre ad alta temperatura, abbattimento letargico, e al terzo giorno le striature rosse delle guance, delle tempia, si eran fatte di un rosso vivido; sul collo, sulle mani, sulle braccia eran comparse delle macchioline di un rosso acceso, dove più piccole, dove più grandi: le labbra, specialmente, e le palpebre ne erano cosparse. In breve tutta la pelle ebbe queste vivide macchie e la febbre purpurea si dichiarò in tutta la sua veemenza. Vale a dire che il sangue troppo ricco, troppo ardente, troppo precipitoso, aveva così fortemente scosso i tessuti delle vene, che questi tessuti indeboliti, quasi consunti, lo avevano lasciato trapelare, e tutto il bollente sangue era venuto sotto la pelle, a macularla. Al sesto giorno queste macchie si gonfiarono, divennero nerastre, come quelle di una echimosi: e quelle degli occhi, quelle delle labbra, quelle delle mani ruppero l'epidermide, in più punti, e lasciarono sgorgare un sangue nerastro. Mentre il grado della febbre non voleva diminuire, malgrado il chinino, Anna pareva sputasse sangue, pareva piangesse sangue; pareva che le sue mani, torturate, come quelle di Gesù, stillassero sangue. A goccia a goccia, dagli occhi chiusi in quell'invincibile torpore, dalla bocca tumida e schiusa ad aspirare invano l'aria che mancava al petto oppresso, dalle mani abbandonate sulla coltre il sangue cadeva caldo ancora, bruno, dilatantesi sulla pezzuola bianca con cui la silenziosa infermiera, Laura Acquaviva, lo rasciugava. La purpurea, in quel temperamento sanguigno, assumeva una forma violenta; e il volto tutto rigato da sottili strisce di sangue, restava acceso. La malata di nulla s'accorgeva, non apriva gli occhi, non chiamava; inerte, senza sentire tutta quella vita che fuggiva da lei, da ogni poro: solo ogni tanto, di notte, si lamentava sommessamente, con tale dolore, come se soffrisse senza poter dire dove e come, senza poter essere soccorsa. Allora Laura Acquaviva, la sorella, o Stella Martini, la damigella di compagnia, o suor Crocefissa, che vegliavano una notte per ciascuna, si piegavano sul letto della inferma, chiedendole pianamente che avesse, dove soffrisse, che cosa potesse darle sollievo. Niente, Anna rispondeva: e il picciolo lamento continuava, profondo, insistente, venendo dalle intime latebre: l'assistente si angustiava invano, cercando di sollevare la malata sul letto, di aggiustarle l'origliere, di adattarle meglio la vescica di ghiaccio sul capo; ella seguitava a lamentarsi pian piano, ma sempre, quasi che nulla potesse dar pace alle sue sofferenze. Anzi una notte, mentre parea riposasse più calma, dette un grido fortissimo, lungo, che risvegliò tutti: e innanzi alle tre donne esterrefatte, altre due volte, a intervalli di dieci minuti, Anna gridò ancora, lungamente come se vedesse uno spettacolo orribile, come se provasse una sofferenza intollerabile. Alle tre donne quei gridi parvero l'ultima voce della fanciulla, quasi rendesse lo spirito.
Ma non morì. La febbre purpurea digradò giorno per giorno, lentissimamente, ogni giorno un decimo di grado: le echimosi nerastre degli occhi, delle labbra, delle mani, cessarono di sgorgar sangue e rimasero vivide, come tante piccole ferite che si andassero cicatrizzando: le macchie di tutta l'epidermide s'impallidirono, s'impallidirono, sparvero: e il volto martoriato, rifatto buono, si coperse di un pallore mortale. Esangui le labbra, le gengive, le orecchie, glaciali le mani: e sotto i neri occhi che non si aprivano, adesso, per la immensa debolezza, appariva un'ombra violacea. Pure la lotta con la morte era finita: ma Anna Acquaviva vi aveva rimesso tutto il miglior sangue della sua giovinezza. Così un guerriero valoroso che sopravvive sì alla battaglia, ma che ne ritorna smorto come un fantasma, oggetto di pietà a coloro che lo amavano e che lo videro partire gagliardo e animoso.
Mentre il breve febbraio declinava al marzo, ella aveva vinta la morte, eroicamente; e ai primi tepori della primavera marzaiola napoletana, ella era cerea e sfinita, con un lieve soffio di respiro, che le passava fra le labbra secche e bianche, stanca di reggere il peso dei neri capelli sulla nuca. Con una infinita pazienza, Stella Martini cercava di pettinarglieli, senza che ella si levasse dal fianco destro su cui giaceva, posizione consueta ai convalescenti delle violente febbri: e fatte le due lunghe trecce, le disponeva lungo la persona della inferma: così le davano meno fastidio. Talvolta in questo sfinimento estremo, di sotto alle palpebre, che si tingevano leggermente di violetto anch'esse, scorrevano delle grosse lacrime attraverso le ciglia chiuse, lacrime che si disfacevano sulle guance, che bagnavano il collo: nè piangendo, la malata singhiozzava, o si lamentava o sospirava.
Era un tacito pianto lungo, lungo: tutte le lacrime che ascendevano senza posa dal cuore agli occhi, a guisa di onda quieta e continua, che sgorga sempre, fino a che non si inaridisca la sorgente. Allora una delle tre donne che assistevano Anna, la sorella Laura, o Stella Martini, la damigella di compagnia, o suor Crocefissa, la monaca, le rasciugavano pietosamente il viso, chiedendole che avesse, che volesse. Anna non schiudeva gli occhi, ma col segno di una mano, movendo un dito accennava che la lasciassero piangere, che le faceva forse bene, di piangere. Così aveva anche ingiunto Antonio Amati, il grande medico napoletano, che aveva salvato Anna Acquaviva da quella furiosa e bizzarra tifoide che è la purpurea: lasciassero fare alla inferma quello che le piacesse, senza contrariarla mai. Aveva perduto il sangue da tutte le vene, da tutti i pori: adesso quel resto di forza che era in lei, parea che si liquefacesse in quei fiumi di lacrime che versava, attraverso le palpebre socchiuse, senza singhiozzare e senza sospirare.
Come Veronica asciugò il volto del divino Martire, le pie assistenti si chinavano a tergere le lacrime: e obbedendo a lei stessa, al gran medico, non le dicevano parola di conforto. Forse non era neppure un dolore vivo che le faceva versare quei pianti silenziosi: era come uno sfogo tacito ed intimo, come l'ultimo e profondo tributo a una cosa morta, come la corona votiva che in segreto, a occhi bassi, a passi cauti, si va a deporre sopra una tomba ignota agli indifferenti, nota a chi ha amato e sofferto.
Cesare Dias, in quel periodo, abbandonando le sue consuetudini mondane, che gli prendevano molta parte delle sue giornate di celibe galante, era venuto due o tre volte al giorno al palazzo in piazza Gerolomini, a vedere come stava Anna. In realtà le due fanciulle non avevano altri parenti più prossimi che lui: e Cesare non era neppure un parente: era un tutore, un amico del padre, un compagno di avventure giovanili di Francesco Acquaviva. Ma la giovane moglie di Francesco Acquaviva era morta cinque anni dopo la nascita della seconda figliuola, Laura, che le rassomigliava perfettamente; e Francesco Acquaviva, vedovo prestissimo, di carattere vivacissimo, di temperamento ardente, aveva abbruciata la sua esistenza a tutte le fiamme mondane. Le due fanciullette che crescevano in casa, senza madre, con tutte le cure del lusso, non potevano essere un freno per il padre, che godeva la vita come se dovesse morir presto anche lui, come la sua bionda e candida moglie dai bigi occhi e dai bei capelli. Compagno suo, come fratello, ma freddo, ma composto, ma così materiato di scetticismo che stupiva ognuno, era Cesare Dias, il gaudente solitario e corretto, colui che pur amando le donne, il giuoco, i cavalli e i viaggi, pareva disprezzasse altamente tutto questo: e quando Francesco Acquaviva fu colto dalla malattia di cuore di cui doveva morire, nella sua stravaganza pensò che l'amico de' suoi piaceri, che il fratello delle sue cene fosse abbastanza saggio, in fondo alle sue follie, per poter sorvegliare le sue figliuole, per maritarle presto e bene.
Cesare Dias aveva compito il suo ufficio, non scevro di segrete noie per lui, con una correttezza di gentiluomo, senza mai eccedere nella familiarità, facendosi vedere scarsamente in pubblico con le fanciulle, pur vegliando su loro, tenendole a distanza, non parlando mai con loro della propria vita, tenendogliela nascosta anzi, seccato in fondo di questa tutela, desideroso di liberarsene, costretto a una quantità di occupazioni poco divertenti e non sentendosi affatto a suo agio con quelle ragazze. Tutore, lui, che non aveva voluto aver famiglia, che si mangiava tutto solo la sua rendita, che odiava tutte le relazioni sentimentali, tutti i legami in cui l'egoismo patisce, che detestava tutte le forme delle parentele, delle amicizie obbligatorie? Tutore, Cesare Dias, che aveva accomodato così bene la sua vita, in modo che non vi entrasse nè soverchio amore, nè soverchio entusiasmo, nè nulla che fosse fuori della correttezza – era la sua parola – correttezza – nè infine nessun carico di filantropia, di mutuo soccorso? Ah questa idea bislacca non poteva venire in mente che a quel pazzerellone di Francesco Acquaviva, stravagante marito e stravagantissimo padre! Cesare Dias l'aveva presa sospirando, questa tegola sulla testa: e anelava il giorno in cui le sorelle Acquaviva avessero trovato dei mariti degni del loro nome e della loro fortuna. Quando la gente che lo invidiava, gli diceva che era una fortuna per lui esser solo, senza obblighi, senza seccature, egli rispondeva con un sorriso un po' nervoso, uno degli scarsissimi suoi segni di emozione:
– Compatitemi, invece: ho due figliuole, me le ha lasciate in dono Francesco Acquaviva.
– Mah... si mariteranno presto – gli rispondevano.
– Speriamolo – mormorava lui come un padre inquieto.
Pure, quelle non erano due figliuole per lui: egli non le amava. Piovutegli dal cielo, conoscendole appena, avvolgendole in quel segreto disprezzo che hanno tutti gli uomini mondani per le fanciulle da marito, credendole due insignificanti e sciocche zitelle, non avendo, d'altra parte, nessuna tenerezza paterna nè fraterna in fondo al cuore per nessuno, e molto meno per le ragazze di Francesco Acquaviva, egli era stato diffidente con loro e si era chiuso in un contegno anche più serio del consueto. Poi, come il tempo passava, studiando i caratteri delle due fanciulle, quello di Laura così altero e chiuso, così taciturno e fiero, quasi che ella avesse vissuto tutta una vita anteriore di delusioni e di disinganni, quel carattere tanto naturalmente schivo di ogni peccato e di entusiasmo, gli era vagamente piaciuto, così, come colui che vede delinearsi in uno specchio mistico, fra le nebbie della fantasia, una figura indefinita ma rassomigliante alla propria, e si piega, sorridendo, incuriosito, per afferrarne meglio i contorni, e la visione subito sparisce, ma lascia un senso grato. Niente più che questo. Una indistinta ammirazione, che era dunque anche un'ammirazione di se stesso, un compiacimento del tutto egoistico; sensazione fugace di diletto spirituale, che si prova leggendo in un libro una idea che si è avuta, una volta, che si ha, che si ritrova espressa bene, degnamente. Non era neanche una simpatia; era una rassomiglianza. Invece il carattere di Anna, aperto, leale, turbolento, infiammabile per ogni cosa bella o brutta, buona o cattiva, ma che le eccitasse la immaginazione, capace di entusiasmarsi per una romanza, per un paesaggio, per un racconto triste, per un volto di sofferente, per una voce commossa, quel carattere sempre impetuoso, sempre generoso, che buttava via tutta la ricchezza del suo sentimento, alla ventura, gli sembrava così scorretto – ah era la sua parola, la correttezza – così stravagante, così fuori d'ogni regola, di ogni convenienza, di ogni criterio esatto della vita, che la fanciulla gli faceva sempre un effetto di antipatia.
In presenza di lei, per contrasto, egli assumeva un contegno anche più austero, pieno di severità per tutte le sciocchezze della esistenza, pieno di misterioso disdegno per tutta la rettorica umana, avente un aforisma di uomo scettico, di uomo tornato indietro da tutte le sentimentalità, a ogni scoppio del buon animo passionale di Anna.
Era un miracolo, se i due caratteri, ogni tanto, non si urtavano gravemente: talvolta ella si arrestava, presa da un segreto senso di rispetto, per quest'uomo che aveva forse sofferto e che aveva forse ragione di avvilire gli uomini e le lor passioni: talvolta era Cesare che taceva, sorridendo, pensando che non valesse la pena di riscaldarsi, per una creatura bizzarra, degna figlia di Francesco Acquaviva, che aveva gittato via la sua vita, al soffio di tutti i piaceri. Anna diceva, pensosa: forse, egli ha ragione. Cesare diceva, sdegnoso: che importa?
E così quando Cesare Dias seppe che la sua pupilla Anna Acquaviva si era innamorata di un giovanotto ignoto e senza danari, egli levò le spalle, mormorando: rettorica! Non credette neppure di dirle qualche cosa, sapendo che queste grandi vampe amorose sono attizzate dal vento della contraddizione; seccandosi sovra tutto di discutere, con una ragazza che non ragionava più. Quando Giustino Morelli gliene chiese umilmente la mano, dopo aver vinto le esitazioni della sua rettitudine, il tutore oppose a tutte le ingenue domande dell'amore la crudeltà dei sillogismi sociali, e pensò di aver vinto, quando vide andar via, pallido e rassegnato, il giovane innamorato. Una delle teorie di Cesare Dias era che la rettorica si combatte da se stessa: la rettorica sarà sempre uccisa dalla rettorica. Pensava che messo a posto dalla sua glaciale alterezza, quell'innamorato così timido e così dubbioso, nulla sarebbe più accaduto di grave; e andò ai suoi piaceri, ai suoi svaghi, senza occuparsene più oltre, con la sua stretta di spalle, moto familiare, dopo il quale egli riprendeva immediatamente la sua correttezza. Ma l'analisi chimica ignora l'irrompere spontaneo della vita, la critica ignora il genio, la ragione ignora la passione. Quando Cesare Dias seppe che Anna Acquaviva era fuggita dalla sua casa, che aveva abbandonato la sua famiglia, per darsi in balìa di un poveretto sconosciuto, egli restò stupefatto: ed ebbe innanzi a sè la visione di una forza ignota e veramente incommensurabile, che sollevava i cuori ad altezze vertiginose, e toglieva le persone alle volgari leggi dell'esistenza. Era un uomo che disdegnava le parole, che apprezzava solo i fatti, e veramente, egli era sgomento; una fanciulla che giuoca il suo onore e il suo avvenire così, è mossa da una leva possente, che deve essere rispettata. Ah, uno sconvolgimento si faceva nell'anima di Cesare Dias che aveva delle idee fisse e, degli aforismi prestabiliti, per tutte le evenienze della vita e che ora si trovava di fronte a una crisi morale e materiale, in cui sarebbe naufragata la felicità e forse la vita della fanciulla a lui affidata! Per la prima volta, mentre tanti volontari dolori egli aveva disseminati intorno, senza portarne nessun peso sulla coscienza, egli provò l'acuto rimprovero interiore, che inquieta assai più di una parola della gente. Avrebbe dovuto sorvegliare la fanciulla, essere più paterno, non abbandonarla senza guida alle lotte del sentimento, sorreggerla in quel pericoloso viaggio, che è la gioventù con l'amore.
Una pietà lo animava per questa creatura debole, senza principii, senza resistenza d'idee, senza fermezza di carattere, che al primo rumore della tempesta si piegava, già perduta, che dava il corpo e l'anima all'abisso, senza chieder soccorso. Pensava Cesare Dias, che se Anna Acquaviva fosse stata veramente sua figlia, egli avrebbe vegliato, perchè nella mente fantasiosa entrasse un criterio esatto e glaciale degli uomini e dei loro sentimenti: perchè nel cuore ardente della fanciulla si chetassero le fiamme della passione, e che ella vedesse che è impossibile di vivere ad altissima temperatura: se fosse stata proprio una sua figlia, egli le avrebbe fatta, come la sua, un'anima di bronzo. Aveva dunque mancato alla sua missione di protettore, di amico: eppure il morto padre, Francesco Acquaviva, aveva avuto fede nella sua saviezza di educatore, nella sua vigilanza affettuosa! Anna Acquaviva, di cui il carattere sempre vibrante gli aveva ispirato il disdegno delle persone pratiche, positive per tutto quello che è inutilmente sentimentale, adesso gli ispirava la compassione della persona intangibile, verso chi è esposto a tutti i colpi della fortuna, senza difesa. E mentre faceva il viaggio in carrozza da Napoli a Pompei, dopo aver rassicurato con poche parole Laura, dicendole che egli sapeva ove era Anna, in salvamento, e che andava a riprenderla, soggiungendole che bisognava perdonarle, perchè era una povera creatura in balìa del suo cuore, egli si prometteva di esser più attento, e sovra tutto di esercitare una influenza seria, su Anna Acquaviva, perchè la debole anima rivivesse in un ambiente austero e sereno, dove si potesse padroneggiare. Ah, se ella era fuggita di casa, era, probabilmente, perchè più forte le era parso l'amore di Giustino Morelli che l'amore di tutti loro; e pur troppo, sì, vi sono cuori che hanno necessità dell'amore, come il corpo ha necessità di pane! Non già, non già che Cesare Dias si fosse molto intenerito, non già che gli fosse nato nel cuore un novello affetto; molto era in guardia, da anni, contro le sorprese del sentimento, perchè una simpatia improvvisa sorgesse in lui. Ma era giusto, anzi tutto: riconosceva di avere mancato: riconosceva che Anna non aveva trovato in casa il vincolo, che la tenesse ferma: riconosceva che la infelice fanciulla era degna di pietà.
E seguendo l'intonazione del fatale giorno in cui egli aveva ricondotta la creatura smarrita e quasi morente, alla sua casa, Cesare Dias e Laura Acquaviva, e Stella Martini, le creavano attorno un ambiente silenzioso, calmo, indulgente, benevolo, come si fa per chi commise un grave ma generoso errore, di cui solo subisce il castigo. Laura Acquaviva, taciturna, pensosa, coi grandi occhi bigi che sembrava avessero visto e sognato altre esistenze anteriori, con quell'arco perfetto delle rosse labbra sempre chiuso, ella stessa andava e veniva nella camera dell'inferma, ombra sfiorante il pavimento, fermandosi ogni tanto a sorvegliare il torpore affannoso, o la veglia di Anna, non dicendole nulla, chiamandola solo per nome quando ella si lagnava, temperando la luce, lasciando che il silenzio, la penombra, il riposo facessero il loro effetto benefico sulla furiosa febbre, sul dolore morale della inferma.
Cesare Dias arrivava ogni mattina, entrava nella stanza in punta di piedi, chiedeva notizia all'infermiera solo con un cenno, si sedeva lontano dal letto, senza parlare. Se la malata levava la testa, se gli sbarrava in faccia i suoi occhi neri, che avevano sempre l'espressione di un indicibile smarrimento, egli la chiamava con la voce di quel giorno, le domandava come si sentisse: essa accennava che stava meglio, una lieve luce appariva sulla sua fisonomia, e poi ricadeva sull'origliere con le palpebre abbassate, improvvisamente, stanca, assorbita di nuovo nelle sue contemplazioni interiori.
Cesare Dias, senza farsi udire, si levava, se ne andava, parlando sottovoce anche nell'altra stanza, allontanandosi per ritornare più tardi, nel pomeriggio, tenendo sempre lo stesso contegno, anche la sera, quando la visita durava qualche minuto di più. In piedi, nel salottino innanzi a lui, era Laura Acquaviva, sempre vestita di bianco, di lana, con qualche cosa di monacale nel taglio dell'abito, guardandolo coi suoi fieri e grandi occhi bigi, che avevano pensieri profondi e sconosciuti, col nimbo dei fulvi capelli intorno alla bianca fronte; e pian piano, scambiavano qualche parola:
– Pare.
– Ha detto nulla?
– No.
– Io.
– Voi vi stancate.
– No, no – ripeteva lei.
E non dicevano altro. Spesso, di sera, Cesare Dias veniva in marsina: arrivava dal circolo, dove aveva pranzato, andava a una partita di bèzigue, o a una prima rappresentazione. Egli restava in piedi, col soprabito aperto ed il cappello in mano, sempre corretto: in quell'abito, in quelle ore serotine, con la lieve eccitazione del pranzo o della imminente festa, Cesare Dias era ancora bello: gli occhi, alquanto smorti, riprendevano un po' del loro splendore, si animava la tinta scialba delle guance, e i neri e lucidi capelli, la sola ricchezza giovanile che gli fosse rimasta, completavano l'illusivo aspetto del bell'uomo, ancora vigoroso nelle fibre: coloro che lo avevano visto di mattina, non riconoscevano più, alla sera, la pallida figura di gaudente, ormai annoiato anche dai godimenti; egli subiva in quelle ore una breve e fittizia esaltazione, come se una bevanda sorbita gli suscitasse nelle vene un rigoglio novello del sangue. Serenamente, biancovestita, Laura Acquaviva lo vedeva partire, senza domandare donde venisse e dove andasse: quando lo aveva salutato, ella ritornava in camera di Anna, lentamente, sfiorando il tappeto: Cesare Dias fuggiva alla sua notturna esistenza, dimenticando la noia e la stanchezza, ricercatore inquieto di nuovi e introvabili godimenti.
Cesare Dias intuiva che, volendosi tentare una guarigione morale della giovanetta, bisognava cominciarla in quel primo periodo di debolezza, in cui il suo animo era malleabile come la cera; se la fanciulla riprendeva tutto il vigore del suo temperamento, sarebbe stato impossibile trasformare il suo spirito. Giusto, Anna Acquaviva era in una prostrazione così grande, che passava le giornate intere immobile, con le braccia prosciolte lungo la persona, con le mani bianche e fredde, col capo sepolto nel guanciale, le due trecce sciolte sul petto: esangui le labbra, le guance, la fronte; senza vivacità di sguardo gli occhi. Quando le parlavano, rispondeva con un cenno degli occhi, con un moto della mano, con un lieve atto della testa: al più, con una parola, con voce fiochissima. Si dovevano chinare su lei per udire la sua risposta, sempre la stessa: – Come stai? – Meglio. – Che vuoi? – Niente. – Desideri qualche cosa? – No, grazie. – Dopo richiudeva gli occhi, abbattuta: non le dicevano più nulla, ma Anna sapeva che essi erano là, silenziosi, inchiodati sulle loro sedie, scambiantisi solo delle occhiate significative. Fu un progresso nella sua salute, un giorno, quando videro, Cesare Dias e Laura Acquaviva, che due o tre volte essa li aveva guardati, con una espressione così intensa di mesto pentimento, con una tale domanda di perdono di quei buoni occhi tristi, che non ci vollero parole per dire il suo sentimento. Poi, dopo, ella ebbe l'aria di voler restare sola con Cesare Dias, quasi che avesse da confidargli un segreto: lo seguiva con l'occhio: parea tendesse l'orecchio, ai passi altrui: ma lui, cautamente, non volle affrettare di un minuto la spiegazione. Difatti, fu un caso che restassero soli, una mattina, la inferma e il tutore. Egli leggeva il giornale, quando un soffio di voce arrivò al suo orecchio:
– Sentite...
Cesare Dias si accostò: i neri occhi chiedevan perdono, sempre, umilmente; e Anna balbettò:
– Che avrete pensato... che avrete detto...
– Non vi agitate, mia cara, parleremo poi – disse lui, benevolmente.
– Sono stata tanto colpevole... – singhiozzò l'inferma, facendosi sempre più pallida.
– Non parlate così, cara Anna: dite che avete commesso una follia giovanile, e niente altro.
– Dite le cose come sono, e non come voi le immaginate – replicò lui, con la sua freddezza dominatrice – una follia giovanile.
– Quel che voi volete – diss'ella, dominata, umilmente. – Ma se sapeste...
– So, so – mormorò Cesare Dias, con l'ombra di un sorriso. – Calmatevi, ne parleremo un altro giorno.
Era rientrata Laura Acquaviva: la sua presenza fece finire il breve colloquio. Anna, accasciata dallo sforzo, taceva. Ma nella serata, al poco chiarore di una lampada accesa innanzi a una immagine della Madonna Addolorata, in un momento che Anna si trovò in faccia i grandi occhi bigi e pensierosi di Laura, che parea le facessero una domanda, ella si scosse e tentò sollevarsi sul cuscino; attrasse a sè la sorella:
– Tu sei buona... tu non sai... – mormorò.
– Sii tranquilla.
– Sei innocente, Laura... ma sei sorella... non mi giudicare.
Il tono era un po' duro, ma la mano di Laura carezzava la guancia esangue di sua sorella, e costei, cullata da quella carezza, non disse altro.
Però da quel giorno, ritornando sempre più alla salute, il sentimento di umiltà e di contrizione innanzi a Cesare Dias, a Laura, crebbe, fu la nota iniziale della sua espressione.
Più costoro eran dolci con lei, di quella dolcezza compassionevole che si usa ai malati, ai vecchi, ai bimbi, più questa dolcezza di pietà era in contrasto con la freddezza, con la indifferenza passata, e più ella si sprofondava in un pentimento amarissimo. Si sentiva, innanzi a loro, che eran sani di corpo e di spirito, che andavano e venivano, che avevano il sangue tranquillo e la coscienza pura, fiacca di salute, turbata di spirito, il suo passato le faceva orrore, coi suoi inganni, con le sue pazzie, con le sue inutili e vergognose aberrazioni, con l'abbandono di ogni decoro femminile – per chi, per chi? Per uno sciocco senza cuore e senza coraggio, per un uomo che non l'amava, per una creatura inetta e crudele nella sua inettitudine. Quando faceva il paragone fra Giustino Morelli e le due persone, che ella aveva voluto abbandonare per lui: Giustino così timido, così misero nel sentimento, così pauroso della passione, ed essi così magnanimi, così dimentichi del suo errore: quando paragonava se stessa a quei due, così larghi di perdono a un'anima traviata come la sua, il pentimento si faceva più profondo. Anna avrebbe espiato, è vero: espiava di già, da quel giorno, soffrendo, raumiliandosi nella sofferenza, tutta immersa nella confusione dei cuori nobili, che riconoscono ed esagerano la grandezza del proprio peccato morale. Con le vene impoverite, con le fibre abbattute, coi nervi depressi, con l'anima inondata di lacrime, ella si sentiva una creatura miserabile, senza forza, senza coraggio, indegna di qualunque affetto: tutto quello che le si accordava, era una grazia. Ogni tanto, ella andava con uno sguardo da Cesare Dias a Laura Acquaviva:
– Voi siete buoni – mormorava più volte. Poi, questa frase istessa, il suono della propria voce, la commovevano talmente, che le veniva da piangere: e impallidiva, sempre più, con l'ombra nera sotto gli occhi che s'ingrandiva. – Così buoni... così buoni – ripeteva, con voce fievolissima.
Adesso il suo solo desiderio era un'obbedienza assoluta a quanto le avrebbe imposto il suo tutore, a quanto le avrebbe consigliato sua sorella.
Mani e piedi legati, ella si dava ai due esseri che aveva così crudelmente obliati, nei giorni della sua follia: e convalescente di un eccesso di vitalità, sfinita dopo la grande febbre, era per lei una dolcezza non voler più nulla, non saper più nulla, credendo solo nella saggezza e nella bontà altrui. Le pareva, lentissimamente, di rinascere a una nuova esistenza, quieta, placida, irresponsabile, in cui ella non potesse più decidere niente, passiva, in una passività senza sofferenza, in una tenerezza timida, in una dedizione di tutta se stessa alla benevolenza altrui. Così, ogni volta che le parlavano, sempre che le chiedevano il suo parere, la sua idea, sopra un balcone da aprirsi, su un mazzolino di fiori da togliere dalla stanza, sopra un biglietto da scrivere a un'amica che chiedeva notizie, ella diceva sì, chinando il capo, col motto, col gesto, con lo sguardo.
Sì, per quello che le diceva Cesare Dias, ingrandito ormai, nella sua fantasia, alle proporzioni di un'anima superiore, non attaccata dalle miserie umane, invincibile, troneggiante nelle sfere ideali dello spirito: sì, per quello che le diceva Laura Acquaviva, sua sorella, la purissima, la impeccabile, colei che sarebbe morta prima di macchiarsi; sì, per quella poveretta della sua damigella di compagnia, Stella Martini, così buona, così fidente, e che ella aveva ingannata così dolorosamente; sì, per la buona suora che l'assisteva, Marta del Crocifisso, che passava la sua vita nel sacrificio, nell'abnegazione, nell'altruismo più affettuoso; sì, per chiunque. Non avrebbe detto che sì, Anna Acquaviva: poichè ella aveva avuto torto e gli altri, tutti, avevano ragione.
Ella guariva. Le restava, della sua malattia, non altro che una immensa prostrazione di forze uno stordimento di testa, per cui non potea fissarsi sopra un'idea, un desiderio di non muoversi dal letto, dalla stanza, di non levare una mano, di tenere gli occhi socchiusi e il capo appoggiato ai cuscini. Cesare Dias veniva dopo colazione, alle due, l'ora in cui gli uomini mondani non hanno assolutamente nulla da fare, poichè le visite, le passeggiate non cominciano che alle quattro. Le fanciulle lo aspettavano ogni giorno, Laura con la sua aria distaccata da tutte le vili cose umane, senza mostrare nè ansietà, nè curiosità: Anna con un lieve desiderio segreto, poichè egli le portava un senso di vita tranquilla e forte, un efflusso della esistenza sociale, e sovra tutto perchè egli aveva l'aria così sicura, così imperturbabile, che ella si rincorava a vederlo, come i deboli si rincorano vedendo le persone sane e robuste. Egli parlava un poco, raccontava qualche storiella, diceva quello che era stato il ballo della sera prima, annunziava il viaggio di uno, il matrimonio dell'altro; ma sempre con quel suo fare tenuemente sdegnoso, di anima superiore che non si diverte, che non s'interessa, ma che non trova corretto di accentuare la sua noia e il suo disinteressamento: solo, qualche volta, egli si metteva a burlare il mondo e i suoi piaceri, e tutti i pari suoi, che facevano questa vita di burattini, e se stesso che subiva l'ambiente...
– Oh voi! – esclamava Anna, con una intonazione di rispettosa ammirazione.
Ella ascoltava volentieri quei discorsi, poichè la sua anima fatta fragile, aveva bisogno come le leggere farfalle, di poggiare su leggerissimi fiori: e quel ciarlìo elegante e freddo, quelle avventure senza fondo e senza interesse, quegli assiomi di un codice galante che eleva le apparenze a idoli, tutto questo frivolo bagaglio, la dilettava, nella sua fantasia indebolita: le piccole cose, adesso, attiravano il suo cuore rimpiccinito. Essa ammirava Cesare Dias, anche perchè, essendo un uomo forte e austero, si adattava a un ambiente che gli era tanto inferiore: gli pareva che egli fosse un'anima nata troppo tardi o troppo presto, diversa dal suo tempo, e il cui muto coraggio era di prendere in buona parte il suo tempo e le sue consuetudini. Quando egli manifestava il suo disprezzo per tutte le transazioni umane, pure ammettendo che tutti transigono a questo mondo: quando egli scherniva le follie umane, per cui si perdono le riputazioni e le fortune: quando egli diceva che la sola legge umana da rispettare, è il successo; quando egli diceva che tutte le generosità nascondono una segreta ragione di egoismo e che tutte le virtù dipendono da una debolezza del carattere o del temperamento, ella, colpita, avendo obliato, nella sua grande febbre, tutte le ragioni del sentimento che si oppongono a tali corrotte teorie degli uomini raffinati, abbassava il capo, senza più ribellarsi, dicendo, malinconicamente:
– Avete ragione.
Ora che ella si era levata, restavano spesso soli, in quell'ora pomeridiana. Laura li lasciava. Andava in un'altra stanza, a leggere; o riceveva qualche visita, nel salotto: o usciva, con Stella Martini. Infine il pretesto per andarsene lo trovava sempre. Era una creatura schiva, silenziosa, che non sapeva nè vivere, nè amare come gli altri. Era meglio lasciarla ai suoi gusti di taciturnità, di raccoglimento. Cesare Dias, un po' inquieto, chiedeva di lei ad Anna:
– Che ha?
– È buona... è buonissima – mormorava Anna, in preda all'emozione, sempre che si nominava sua sorella.
Cesare Dias la fissava, seriamente: faceva così ogni volta che il viso di Anna si tramutava, ogni volta che la voce di lei tremava di emozione: era tutta la mala inclinazione passionale del passato che riappariva, in quegli indizi, ed egli voleva castigarla, soffocare queste improvvise, improvvide emozioni che mostravano ancora mal difeso, troppo sensibile, il cuore della fanciulla. Ah egli voleva che ella avesse il cuore di bronzo, e non tremante a tutti i soffi dell'affetto! E sempre, quando sentiva che tutta l'anima debole e fragile di Anna vibrava, Cesare Dias, naturalmente serio e composto, diventava più freddo, più austero che mai: l'occhio suo si facea vitreo, e in quel silenzio, ella intendeva di essergli spiaciuta. Essa lo sapeva, di spiacergli ogni volta che col suo contegno gli rammentava la follia che aveva macchiata la sua coscienza di fanciulla per bene: quando impallidiva, quando abbassava il capo pensando, quando la voce si soffocava nella gola e le lacrime la velavano. Cesare Dias odiava tutte queste manifestazioni della fiacchezza sentimentale, che mostrano il cuore in preda a tutte le passioni. Talvolta, quando Anna Acquaviva, incapace di dominarsi, aveva nei buoni occhi amorosi il passaggio di una emozione, egli fingeva di non accorgersene, o le chiedeva:
– Che avete?
– Niente – diceva lei, timida, sentendo di spiacergli più che mai.
– Sempre la stessa, inguaribile – mormorava lui, crollando la testa, sfiduciato.
– Scusatemi, è più forte di me... – ella diceva, pregandolo, con lo sguardo.
– Nulla deve essere più forte di voi; voi dovete essere più forte di tutto e di tutti – era l'assioma di Cesare Dias.
– Cercherò – concludeva lei, contrita.
Un giorno di aprile, ritornando a casa da una passeggiata con Laura Acquaviva, la buona Stella Martini le portò dei fiori, dei bei freschi bocciuoli di rose maggesi, che in Napoli sono precoci. Anna non vedeva fiori da tempo, nell'inverno, poichè durante la sua malattia il medico, Antonio Amati, li aveva proibiti. Le due donne erano state fuori lungo tempo, Anna era rimasta sola, sdraiata nella poltrona, presso il balcone socchiuso, da cui entravano i tepori della primavera; le aveva attese con impaziente malinconia. Quando le vide ritornare a casa, Laura bianca e bionda, vestita di bianco, spirante giovinezza e serenità dagli occhi grandi e limpidi, Stella Martini con la sua scialba e floscia fisonomia, che le lacrime antiche parevano avessero vuotata, portanti ambedue le rose fresche, rose tutte bagnate, tutte fragranti, ella sentì disfarsi il cuore di tenerezza, di rimpianto.
Teneva in grembo le rose, le toccava, le avvicinava alla faccia, vi nascondeva la bocca, e diceva, sottovoce, grazie, grazie, quasi non sapesse dire altro, smarrita di dolcezza. Più tardi, venne Cesare Dias e la trovò immersa nella contemplazione di questi fiori, con quegli occhi amorosi dei momenti passionali; una lieve ombra passò sulla fronte del tutore.
– Vedete, mi hanno portato le rose... come sono belle!
– Ho visto – disse lui, seccamente.
– Non amate i fiori? Sono così freschi e odorosi! Spero che li amiate: io li adoro!
E nell'enfasi dell'ultima frase, socchiuse gli occhi. Chissà, egli intuì, forse, che quelle parole, una volta, dovevano essere state dirette a un uomo; egli riconobbe, malgrado l'infermità, malgrado l'espiazione, sempre la stessa Anna Acquaviva, che era fuggita di casa. Aggrottò le sopracciglia: e la sua mazzettina di ebano batteva sulla sedia un po' nervosamente.
– Volete una rosa? – chiese ella, per placarlo.
– No.
– E perchè?
– Perchè non amo affatto i fiori – replicò, duramente.
– Come, neanche per metterli all'occhiello, quando andate in società? – provò a scherzare, lei.
– ... non sono assolutamente necessarii. I fiori saranno belli: sono belli, anzi. Ma vi assicuro che non ho mai commessa la debolezza di piangere per essi, o di dichiarare che li adoro.
– Ho avuto torto... ho detto troppo – balbettò Anna.
– Dite sempre troppo. Vi manca completamente il senso della misura. Vi sono cose che una ragazza deve cominciare dal non dire: così, non le fa. Chi dice troppo, si perde.
Ah, all'udire quell'ultima parola, ella si fece bianca come il merletto della sua vestaglia. Era dunque venuto il rimprovero temuto da tanto tempo, aspettato con paura segreta: la parola le era stata risparmiata, per un breve periodo, ma, poi, era stata detta: Chi dice troppo, si perde. Una volta, sei mesi prima, ella non avrebbe tollerato da nessuno questo rimprovero, questo amaro ricordo della sua pazzia: ella avrebbe reagito, specialmente contro Cesare Dias, poichè lo aveva sempre ritenuto un cuore arido o inaridito: ma adesso! Così vinta dalla trascorsa malattia, dal dolore e dalla permanente espiazione, ella non trovò in sè nessuna fibra che si ribellasse, il sangue dormiva nelle vene, il cuore non era che pieno di pentimento. Chi dice troppo, si perde. Cesare Dias aveva ragione.
Pure, dentro sè, una tristezza nacque, come se in quel consenso Anna avesse rinunziato a qualche cara parte dell'anima: quella rinunzia parve avesse scavato un gran vuoto, nel cuore. La fisonomia di Cesare Dias si chiarì, in quel principio di vittoria.
– Anna, – egli seguitò – ogni volta che vi fate prendere da queste fisime sentimentali, che adoperate queste espressioni esagerate, che vi date a questi sfoghi di rettorica, vi assicuro che mi fate dispiacere. Ma che, credete che la vita passi a dire alla gente, alle case, alla campagna, ai fiori, che voi li adorate? Vi pare che l'esistenza debba avere questa forma convulsionaria, che voi le date? Vi pare che tutto consista in un pallore, in un sorriso, in una lacrima, in un bacio? Sapete, a che conduce questo regime? Voi lo sapete, a che conduce...
– Risparmiatemi, ve ne prego.
– Non posso, mia cara. Dovete prima convenire meco che il vostro criterio della vita è un po' folle, talvolta generoso, se vogliamo, ma conducente ai più gravi errori. Ho ragione?
– Voi avete ragione.
– Dovete convenire che, in tal modo, s'infelicita se stessi e gli altri e che l'obbligo nostro è di rendere felici noi stessi, e gli altri, per quanto si può. Tutto il resto è rettorica. Ho ragione?
– Voi avete ragione.
– Che infine, è meglio essere ragionevoli che sentimentali, meglio essere aridi che rettorici, meglio tacere che dire tutto il proprio cuore, meglio essere forti che deboli. Che ne dite? Non ho ragione?
– Voi avete ragione, sempre.
– Anna, sapete voi che cos'è la vita?
– ... non so... non so veramente...
– La vita è una cosa seria e sciocca, nello stesso tempo.
Ella non soggiunse nulla; abbattuta pensava.
– È seria, perchè noi nulla conosciamo oltre di essa, perchè ogni uomo e ogni donna, in qualunque condizione si trovi, assume delle responsabilità di onestà, di decoro, di dignità, di correttezza; infine, perchè quando si è ricchi e nobili bisogna esser morali a una certa maniera, e quando si è poveri e oscuri, si deve esser morali a un'altra maniera...
Egli vide che essa, rianimata da quelle parole più larghe, più affettuose, lo guardava con l'occhio vivido, udendo le cose che egli diceva, avidamente, quasi assorbendone le idee giuste e ferme: egli vide che poteva tentare il gran colpo.
– Giustino Morelli... – disse, piano.
– No! – gridò lei, stringendosi le tempie fra le mani, col viso diventato terreo.
– Giustino Morelli... – incominciò lui, più freddamente.
– Per carità, non lo nominate! – supplicò, affannando.
Cesare Dias ebbe l'aria di non aver visto, di non aver udito. Voleva andare sino in fondo, con coraggio, senza pietà.
– ... era una persona seria, un uomo onesto – completò lui, freddissimamente.
– Un'infamia, un tradimento... – mormorava Anna, quasi parlasse a se stessa.
– Anna, quello era un uomo onesto, lo dovete credere adesso, o lo crederete poi...
– Giammai, giammai.
– Lo crederete. Debbo rendergli giustizia, io, che sono uomo. Poteva uscire dalla oscurità, aver danari, aver una bella moglie, una moglie che amava, poichè egli vi amava...
– No, no.
– Ognuno ama come può, mia cara – ribattè Cesare, glacialmente. – Egli, dunque, vi amava. Ma per non farsi accusare di speculazione, per non avere dal mondo, e forse un giorno da voi, Anna, il rimprovero di aver fatto fruttare danaro all'amore, per non restare sotto l'accusa di aver sedotto una ragazza pei quattrini, per non farvi soffrire, almeno nei primi anni, della sua miseria e della sua oscurità, ha rinunziato, intendete? ha rinunziato per onestà, per virtù, affrontando la vostra collera e il vostro disprezzo per tutta la vita. Cara mia, quello è un martire del suo dovere, per parlare con una frase vostra... e invece voi... Permettete che vi dica una cosa dispiacevole in apparenza, amichevole in fondo?
Anna acconsentì, con la testa.
– Invece, voi non avete nessun criterio della serietà dell'esistenza; tutte le sue responsabilità spariscono innanzi al vostro capriccio, o alla vostra passione, per ripetere quello che dite; voi scavalcate ogni ostacolo; voi calpestate ogni riguardo, e arrischiate l'onore, la pace, la salute, così. La vita è una cosa seria. Anna.
Avvilita, con lo sguardo basso, ella non seppe fare altro che un gesto desolato delle mani, per dire di sì.
– Ed è anche una cosa sciocca, Anna.
Era il gentiluomo corrotto e raffinato, era colui che aveva bevuto a tutte le coppe, era il gaudente sempre annoiato e sempre curioso, quello che riappariva, dentro la tonaca del predicatore di morale... Anna sbarrò gli occhi, meravigliata e scoraggiata.
– Sicuramente, è una cosa sciocca, perchè il mondo è pieno di parenti crudeli, di falsi amici, di mogli che tradiscono i mariti, di mariti che piantano le mogli, di soci ladri, di banchieri furfanti: e tutti costoro, poi, sono alla loro volta giudici severi, dopo essere stati colpevoli: perchè tutte le apparenze ingannano, perchè tutte le facce mentiscono, perchè quando s'incontra veramente un uomo per bene o una donna per bene, nessuno ci crede, o chi ci crede fa delle restrizioni, o chi ci crede, li disprezza, senz'altro. Una sciocchezza, la vita! Ci priviamo, facciamo dei sacrifizi, rinunziamo – povero Morelli! – per raccogliere egualmente la disistima e il disdegno...
– Ma allora? – chiese dolorosamente Anna Acquaviva,
– Allora?... Bisogna aver la forza di guardare l'esistenza in faccia, di conoscere gli uomini e le donne quali sono, di misurare se stessi e di procedere avanti...
– Godendo o soffrendo? – e la domanda fu più ansiosa, poichè quella, invero, era la parola segreta, il nodo della questione, poichè Anna sentiva che, dopo quella risposta, il punto interrogativo della sua anima era soddisfatto.
– I forti godono; i deboli soffrono: ma solo i forti han diritto di trionfare.
Ella tacque. Era oppressa da quella filosofia così amara, così dura, così piena di uno sterile orgoglio, così trapelante l'egoismo e la crudeltà. Quell'edificio elevato innanzi alla sua fantasia dal discorso paradossale e velenoso di Cesare Dias, le faceva spavento e le sembrava di essere stata sepolta, sotto la rovina delle sue illusioni. Non intendeva più nulla, nel proprio cuore, e nel mondo intorno: una paurosa confusione aveva sconvolto ogni principio suo antico, ogni novella aspirazione di rigenerazione. Aveva dentro il cuore tutta una nostalgia di amore, di devozione, di tenerezza, di entusiasmo: provava una infinita malinconia a non dover spasimare più per nessuno, e non dover più spargere le sue lagrime per nessuno: si sentiva soffocare di affetto incompreso, mal collocato nel passato, non collocato nel presente; non corrisposto nel passato senza speranza di miglior presente, di migliore avvenire. Eppure, disordinatamente, ella sentiva che quel che aveva detto Cesare Dias, assai duramente, in una forma brutale, corrispondeva alla verità: verità perfida e triste, verità corruttrice e dissolvente, verità consumatrice, ma verità. Ella non sapeva più niente, aveva perduto la sua stella del polo, si trovava ravvolta in un gran turbine vertiginoso dello spirito. E colui che ve l'aveva immersa, le ispirava nel medesimo tempo paura, rispetto, e non so quale indefinita ammirazione. Egli aveva vinto le burrasche, era in porto; forse, attraverso il temporale, nella disperazione, egli aveva gittato alle onde furiose la sua preziosa zavorra: forse, senza salvarle, aveva veduto perire le sue persone più care; forse egli era un frammento sdruscito, una tavola rotta, un albero infranto e diventato inutile: ma che importa? Era alla spiaggia, spezzato, ma salvo; e poteva ammonire gli ingenui e fidenti viaggiatori, potea burlarsi degli audaci e dei superbi. Ella dubitava ancora, se fosse meglio perdersi nella tempesta, nobilmente, generosamente, dopo aver vissuto e aver amato, o se fosse più saggio sacrificare tutto per il piacere, per le apparenze salvate, per i godimenti di un mostruoso egoismo; era incerta e tremava di dovere sciogliere questo dubbio. Ma colui che lo aveva sciolto tanto fortunatamente, senza esitare e senza mostrare le sue esitazioni, colui che, se aveva errato, aveva nascosto i suoi errori o aveva saputo sfruttarli, colui che aveva vinto, infine, le pareva degno di ammirazione. Ella era in fondo a un precipizio, fra pietre, spine e rovi, al buio e nella solitudine, avendo per sostegno solo il proprio fragile errore: Cesare Dias era sulla montagna, fra l'aria e la luce, sotto il pio tremolare delle stelle, solo, è vero, ma avendo già strappato alla sfinge il suo enigma. E tutto quello che ella provava, confusamente, le venne alle labbra, in poche parole:
– Voi siete forte.
– Molto felice; quanto si può esser felice – concluse, lui, nel trionfo del suo orgoglio.
Un silenzio crebbe nella stanza, dove il mite tramonto primaverile metteva le sue prime tinte, delicatamente bigie. Anna macchinalmente giocherellava con le rosette fresche, coi vividi bottoni che già avevano spezzato l'involucro; ma non vedeva più le rose, nè i boccioli, ma tutti i fiori le sembravano appassiti e morti, oramai.
– Siete stato sempre felice? – domandò ancora Anna, tormentata dalle sue incertezze e un po' tremante nel chieder ciò, senza indovinare il perchè.
Cesare Dias levò il capo, si alzò dalla sedia, passeggiò per la stanza, tornò a sedersi; ma non rispose.
– Ditemelo, ditemelo, siete stato sempre felice? – pregò la fanciulla.
– Che è il passato? Nulla.
Di nuovo, silenzio. Ella alzò i timidi occhi dolorosi, e osò dire:
– E... avete amato?
Egli represse un moto di nervosità, fugacissimo.
– Chi dice troppo, si perde; chi vuol sapere troppo, soffre. Non domandate – sentenziò lui, gravemente.
Ella, senza chieder più nulla, prese una rosa e gliela offrì; una piccola rosa. Cesare Dias gliela tolse rapidamente dalle dita gracili e la mise all'occhiello. Da qualche minuto Laura Acquaviva, vestita di bianco, era entrata: vedeva e udiva.