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CUORE DI PORCELLANA.
Me ne duole per voi, ottimi e capricciosi lettori, ma questa storiella che debbo raccontarvi è vera, perfettamente vera, vera da cima a fondo. Le storielle vere hanno il potere d'irritare sommamente i lettori che non possono fare le loro osservazioni, dare dello stupido allo scrittore, poichè si trovano in faccia alla verità. Ho sempre un po' di paura quando incomincio a narrarle, e vorrei andarmene per le lunghe. So che oggi vi annoierò o vi farò irritare; nè posso evitarlo. Quando una di queste storielle chiede la sua vesticciuola per uscire a fare un giretto nel mondo, bisogna dargliela e lasciarla partire. Invano si vorrebbe metter fuor di casa la sorella maggiore, o la minore, o il fratellino: è lei che deve andar via. È ostinata, cocciuta, invincibile: e non resta che benedirne melanconicamente il volo, seguirla con l'occhio sinchè scompare, per rimanere impensierito della vita breve ed infelice che avrà.
Ecco, io non faccio mai preamboli, e questo qui mi pare abbastanza lungo e noioso. Risolvermi a parlarvi d'Alfonsina sarebbe bene, raccorciando la storiella, copiando dalla verità. Quest'Alfonsina era una ragazza provinciale, di Salerno. Suo padre era impiegato all'Intendenza di Finanza - ella aveva due sorelle e due fratellini, ancora piccini. Di estate ella andava a passare quindici giorni, dal venti agosto al cinque settembre, in un villaggio presso Salerno, in una casa baronale che faceva inviti molto larghi. Ci andavano gente da Cava, da Potenza, da Napoli, da Castellammare; ci andavo anche io. La scusa era la festa e fiera di Sant'Anna che si celebrava coi soliti fuochi d'artificio, mortaretti, bande musicali, pranzi spaventosi e balli popolari. In fondo ci divertivamo come tanti giovanotti allegri, che eravamo, in compagnia di molte ragazze che ridevano dalla mattina alla sera. Quest'Alfonsina ci veniva, ma non le piaceva fare il chiasso: noi la chiamavamo la sentimentale, come usa nella borghesia meridionale, specialmente in provincia, per indicare una fanciulla malinconica. Ella non si dispiaceva del nomignolo. Questa creatura aveva venti anni, era di statura media, magra, le spalle un po' aguzze, il giro della vita assurdamente piccolo. La testa era anche troppo piccola, come quella di un uccello, ed afflitta da una massa inconcepibile di capelli castani, d'un colore morto e che si abbandonavano volentieri sul collo; una bocca minuta, che si storceva un poco nel sorriso; un nasino senza carattere, gli occhi tranquilli e castagni, ma un po' cisposi. La mattina li lavava col vino e non ci sembrava più. Pallida molto, le gengive smorte, anemica come una candela di cera. Belle le mani, sottili e fredde. Portava spesso un vestito blu cupo, con una grande cravatta di merletto bianco che serviva ad ingrandirle un po' il busto, che era meschino. Aveva anche un abito di lana bianca per i ballonzoli della sera ed uno di seta nera per la Messa della mattina. Anzi, era troppo lusso per la figlia di un impiegato, ragazza povera e senza dote. Era buona come tutte le fanciulle quando non hanno ragione di essere cattive; parlava con molta soavità e alzava gli occhi al cielo con una certa grazia. In fondo, era alquanto stupida. Si occupava vivamente, con un'assiduità disperante, di un suo eterno lavoro, a stelline di frivolità, lavoro leggiero, bellino ed inutile. Portava in tasca, in una scatoletta, il gomitolo del refe e la spoletta di avorio:, appena arrivata in un sito, la cavava di tasca e ricominciava i suoi giri rapidi, i suoi nodellini brevi, tutt'assorta in quella frivolità. Ne voleva fare tutto un corredo, tutta una casa, all'ardore con cui lavorava.
Questa ragazza, come tutte quelle di provincia, era innamorata. E seguendo una regola generale, era innamorata d'un giovanotto che non le volevano dare. Il giovanotto si chiamava Giovanni, era basso, tarchiato, robusto, rosso, con una criniera nera, le mani un po' pelose, il collo bruno - era maleducato, ricco e cretino. Sorvegliava i suoi coloni, andava a caccia, guidava il suo calesse, mangiava forte e beveva molto. Anche lui era innamorato di Alfonsina; con un grosso amore di asino per una cosina gentile e delicata. Le scriveva delle lettere piene di punti esclamativi, di frasi scelte nei romanzi di Mastriani, che aveva tutti letti. Lei, dicono, di notte ci piangeva su, il che poi le rendeva gli occhi cisposi al mattino. A Salerno parlavano tutta la sera, lei da un terrazzino, lui da una scaletta di servizio; quando pioveva lei s'imbaccucava in uno scialle, ma ci prendeva certe costipazioni che le rendevano il nasino rosso come il fuoco, gli occhi lagrimosi e le labbra scottate. Lui no, perchè era avvezzo all'umido dei pantani dove andava a caccia. I genitori di lui proibivano il matrimonio; solito dramma in moltissimi atti, di dolore. Alfonsina raccontava i suoi dispiaceri alla frivolità, poichè quando ci lavorava, muoveva lievemente le labbra. Giovannino bestemmiava coi villani. Malgrado le proibizioni, si vedevano in chiesa, alla passeggiata, al teatrino, in certe riunioni di famiglia, in cui pietosi amici offrono un terreno neutro agli innamorati infelici. Anzi, nell'estate, si vedevano per quindici giorni di seguito, nel castello baronale; era la loro luce, la loro felicità quella quindicina. Giovanni sfoggiava cravatte incomprensibili, polsini abbaglianti, un costume da caccia nuovo; Alfonsina lasciava cadere sulle spalle le sue grosse treccie castane, che erano la sua sola seduzione e si faceva piccina, debole, più smorta ancora, piena di brividi, perchè quel giovanottone fosse lusingato nella sua parte d'innamorato protettore. Noi reggevamo il moccolo gaiamente, ma anch'essi lo reggevano a noi. Erano servizii scambievoli che ci rendevamo. La sera, erano coppie innamorate, sotto il portico, nel giardino, sul terrazzo.
Le penombre erano piene di pericoli e di amore; le mamme chiudevano gli occhi. A cena, alla grande cena, volti pallidi, e volti rossi, mani tremanti che non reggevano il bicchiere o disappetenza delle ragazze, appetito dei giovanotti. Tutto candidamente, onestamente, con fine di matrimonio, come sempre in provincia. Alfonsina non mangiava, il che faceva ringalluzzire Giovanni; ella si faceva trasparente; se le accendevano una candela alle spalle, sarebbe sembrata di porcellana. Una sera egli l'aveva incontrata fra due porte e l'aveva abbracciata baciandola ruvidamente sul collo; gli era quasi svenuta nelle braccia. Lui guardava orgogliosamente i propri polsi poderosi e schiattava dal ridere, dicendo: Se la stringo troppo, vedete che la spezzo. Questi brutali complimenti li rendeva sempre più innamorati.
Ma il papà e la mamma tenevano fermo a non volergli far sposare quella ragazza pezzente. S'era sperato lungamente che dopo il matrimonio della sorella di Giovanni, le cose si sarebbero potute accomodare: Alfonsina aspettò pazientemente altri due anni. Ma dopo, fu peggio. Ogni mese la madre di Giovanni gli trovava una sposa nuova: lui rifiutava, gridava, rompeva le sedie. O Alfonsina o la morte - e bestemmiava, dando calci nelle casse. Alfonsina, facendo la frivolità, doveva ripetere: o Giovannino o la morte. Continuavano a parlare dal terrazzino. Poi ci fu un caso grave: vale a dire una proposta di matrimonio per Alfonsina da parte di un impiegato del Dazio di consumo. Fu tranquillamente respinto dalla ragazza e fu bastonato dal giovanotto: uno scandalo enorme in cui spiccava grosso e grasso l'amore di lui, alto e sottile come una fiammolina inconsumabile l'amore di lei. Ma se Alfonsina rimaneva quieta, aspettando tacitamente e fedelmente un giorno, quel giorno, Giovannino diventava aspro, col sangue alla testa per la minima cosa, gridando, urlando, stringendo le pugna. Si faceva un villano. Qualche volta la sua collera si riversava sull'innamorata. La tormentava con una gelosia feroce, le rinfacciava la guerra civile della propria casa, gli anni perduti dietro lei. Alfonsina lasciava andare la frivolità e piangeva silenziosamente. Una sera, in un ballonzolo, arrivò a darle un pizzicotto così tremendo che lei strillò come in agonia e tutti se ne accorsero. Lui, furibondo, la piantò. Per tre mesi bevve molto, andò a caccia e si spassò con le contadine, diventando bestiale. Lei non dormiva più la notte, e quando le portavano le notizie, tremava e sospirava. Poi Giovannino, ripreso dalla tenerezza, si rappaciò, promise di sposarla presto. Ma la tresca con Fortunatella, la moglie del colono, non fu spezzata: si parlava di un bambino. Per dissuadere Alfonsina dall'aspettare più Giovanni che diventava un mascalzone, ci si misero in mezzo amici, amiche, confessori. Lei diceva di sì col capo, ma significava no. Era un'ostrica calma, col suo volto dilavato e le vene senza sangue. Aveva la fermezza della passività. Curvava il capo e non si muoveva più. Lui a riprese, quando era infastidito di Fortunatella, cercava di far la pace con Alfonsina e ci riusciva, ma le cose non duravano molto così bene. Lui la maltrattava nelle lettere, come quando schiaffeggiava Fortunatella. Era una guerra d'ogni giorno - e guai se qualcuno osava gironzare intorno all'Alfonsina. Erano minacce spaventose. Questa vita durò dodici anni. La fanciulla oramai viveva di anima, tanto era stecchita e meschina.
Poi un giorno, i briganti si presero Giovanni; dicono che fosse un agguato tesogli da un colono furioso d'essere stato maltrattato; alcuni dicono preparato da un altro amante di Fortunatella. I briganti chiesero trentamila ducati di riscatto e tagliarono le orecchie del prigioniero. Poi gli tagliarono il naso ed il dito mignolo, e chiesero settantamila ducati, poi, come invece del danaro, vennero i bersaglieri, lo ammazzarono con una pugnalata nello stomaco.
Fu allora solo, che la pallida Alfonsina dagli occhi cisposi, si decise a sputare quel po' di sangue roseo che le rimaneva nelle vene e partì un anno dopo di lui.
La donna dall'abito nero e dal ramo di corallo rosso.
Sentite ora il mio segreto, uno spaventoso segreto che mi rode l'anima. L'ho taciuto sinora per l'orrore della mia mostruosità. Ma dentro, lo spasimo mio assume mille forme, io sento due martellini battermi sul cuore mortificandolo di colpi; io ho una vite d'acciaio che mi rotea nel petto come un cavaturacciolo; io ho un migliaio di spilli ficcati sotto il cranio; io ho un chiodo confitto nella tempia dritta. Eppure, in questa lunga agonia, io non posso morire; dalla febbre il mio sangue si rinnovella, dalla tortura le mie fibre si disseccano, ma si rinvigoriscono dall'incitamento; la forza dei miei nervi si raddoppia. Morire no, non mi è concesso. Altri dovrebbero morire, meco. Scrivo il mio segreto non per sollievo perchè non ne spero, ma perchè si sappia la verità del caso mio.
Sentite. Non è vero che io sia pazza; io vivo, sento, ricordo e ragiono. Quelli che mi tengono imprigionata, nel manicomio, s'ingannano.
Mai ho posseduto tanta lucidità di mente, tanta solidità di cervello; mai ho contemplato con tanta serenità di dolore la mia sventura. Non sono pazza. È inutile la doccia sulla testa, il camerotto foderato di materassi, il bagno caldo, la sorveglianza continua. Questo non può guarirmi, perchè non sono pazza. Per me non ci vuole il medico, ma il prete. Deve venire il prete con il libro santo dei Vangeli, con la stola ricamata d'oro, con l'acqua benedetta. Deve leggere le preghiere per scongiurare gli spiriti maligni, mettermi sul capo la stola e aspergermi di acqua santa; deve battersi il petto, inginocchiarsi, pregare l'aiuto del Signore su me. Poichè io non sono pazza, ma qualcuno si è impossessato di me; io non sono pazza, ma qualcuno è entrato in me, vive con me. Dentro l'anima mia vi è un'altr'anima. Dentro la mia volontà vi è un'altra volontà. Dentro la mia ragione vi è un'altra ragione. Bisogna esorcizzarmi, bisogna cacciar via la mia nemica, togliermi quest'altra anima che mi riempie di terrore. Noi siamo due...
*
* *
Quanto tempo è che ho veduto lei, l'altra, per la prima volta? Non so, la data non potrei dirla, perchè mi sfugge. Certo era un tramonto più rosso d'autunno; io correva nelle vie infangate, affrettandomi a una casa dove qualcuno che mi amava moriva. Correvo col capo chino sotto la pioggia mormorando le parole di consolazione e di perdono prima di giungere. D'un tratto, alzando gli occhi sotto la luce rossastra di un fanale a gas, vidi camminarmi accanto una figura femminile. Era una donna di mezza statura, col volto pallido e allungato, sciupato dall'età, dalle sofferenze; ma in quel volto consumato ardevano gli occhi neri, bruciavano di sangue le labbra. Era vestita tutta di nero, il nero dei suoi occhi; portava al collo, come spillo, un ramoscello di corallo rosso come le labbra. Camminava accanto a me, guardando la terra; un sol momento mi alzò gli occhi in viso, ma li riabbassò subito. Io fui colpita da questa apparizione e distesi la mano quasi per toccarla, ma ella si allontanò rapidamente. La seguii quasi per istinto senza saper perchè, presa da necessità di andare dove andava lei, di fare quello che lei faceva. La seguii con gli occhi fissi nella sua figura bruna, raggiungendola ogni tanto per vedere quello sguardo nero e ardente, quelle labbra febbricitanti, quell'abito nero come l'occhio, quel ramo di corallo rosso come le labbra. Ella se ne andò per le strade con il suo passo ritmico, fermandosi innanzi alle mostre delle botteghe, salutando qualche creatura ignota, fermandosi a discorrere con qualche essere volgare. Io feci, dietro a lei, tutto quello che essa fece. Ella prese la via del teatro, salì le scale, entrò in un palco e si pose immediatamente a dardeggiare la folla col suo sguardo nero. Si pose subito a ridere con le sue labbra di sangue; io in un palco dirimpetto a lei, imitandola, guardai sfacciatamente la folla, e risi, risi sempre. D'un tratto ella scomparve, io m'abbandonai in un'atonia come se mi mancassero gli spiriti, poi mi risvegliai nell'amarezza saliente dei rimorsi. L'amico che m'aspettava, a cui dovevo portare le parole di consolazione e di perdono, era morto, solo, mentre io rideva al teatro.
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Io non amava quell'uomo. Anzi non amavo nessuno in quel tempo. La mia indifferenza in fatto di sentimento era serena: non amavo, non avevo il rimpianto dell'amore, non avevo il desiderio dell'amore. Poi quell'uomo era un essere volgare e miserabile di cui io vedeva tutta la miseria, tutta la volgarità. Il suo amore fatto di vanità, di capriccio, di puntiglio, non aveva il potere di irritarmi, ma aveva il potere di nausearmi. Le sue parole mi lasciavano inerte, le sue lettere non mi scuotevano, le sue mani che stringevano le mie non mi facevano impallidire. Odiarlo non potevo, e amarlo neppure: tutta la meschinità, tutta la bassezza del suo spirito, la misuravo. Egli, divorato dal desiderio, ch'era vanità, fremeva di rabbia, fremeva di falso amore, e pregava e scongiurava, versava lagrime di dispetto. Io mi rifiutava; tranquilla, immobile, sorridente, quasi insolente, m'immergevo sempre più in quella indifferenza che è il dono dei forti. Finchè lui un giorno, in una scena di collera, mi disse:
- O domani o mai più.
- Mai più - dissi io freddamente.
Il domani, nel pieno meriggio d'inverno, io passeggiava nella campagna trasalendo d'emozione per la maestà del fiume che se ne andava lento al mare, per gli anemoni crescenti nell'erba umida, per i piccoli salici neri che si piegavano brulli, quasi spinosi; per gli uccelli che stridevano sul mio capo nella profondità dei cieli. Queste sensazioni giungevano squisite, soavi ai miei nervi equilibrati. Ero quieta. Quand'ecco nelle lontananze della sponda, nella gialla lucentezza meridiana, ella m'apparve col suo viso smorto, disfatto, dove vivevano soltanto i carbonchi dei suoi occhi e la bocca rossa come un granato; vestita di nero, portando al collo un ramo di corallo rosso. Questa volta non mi guardò. Tutto il mio essere sobbalzò a lei. Mentre si dirigeva lentamente alla città, io la seguii passo per passo come una bestia ubbidiente. Vedevo con paura che ella andava al luogo del convegno con quell'uomo, ma istintivamente non potevo manifestare questa paura. Vidi con spavento che quell'uomo era là, che mi aspettava, che sorrideva di orgoglio. Egli non vedeva il fantasma che gli si accostava, vedeva me che m'accostavo a lui per seguire il fantasma.
- Grazie - disse l'uomo trionfante.
Il fantasma sorrise dolcemente, ed io, che volevo urlare di dolore, sorrisi di dolcezza.
- Ti amo - mormorò il fantasma.
Io, che sulle labbra mi si affollavano gli insulti, dissi a voce alta:
- Ti amo.
- Mi amerai sempre?
- Sempre - rispose il fantasma.
Io, che agonizzavo, risposi:
- Sempre.
- Lo giuro sulla Madonna - susurrò l'ombra.
Io, che avevo il terrore del sacrilegio, bestemmiai:
Ora mi dicono pazza. Pensate che ho trascinato due anni la catena di un amore falso e volgare, che ho mentito due anni, che ho tollerato due anni la menzogna, perchè non mi amava, come io non l'amavo. Pensate al disgusto, al ribrezzo, alla stanchezza di due anni, ai giuramenti bugiardi fatti e ricevuti, ai trasporti fittizii, ai baci inutili e fiacchi, agli entusiasmi posticci, a questa commedia piena di fango. Era per lei tutto. Per fare quello che ella faceva, per dire quello ch'ella diceva, per seguirla, per imitarla. Era l'incantesimo di questa fata, di questa strega, di questa maliarda. Era il fascino, il filtro; avvinghiata ad essa che rappresentava la bugia e il tradimento, io sono stata la bugia e il tradimento.
Nel tempo, accade altro. Un altro uomo mi amava veramente, con la lealtà spirituale delle anime elette; io lo amava con l'umiltà profonda del cuore che cerca riabilitarsi. Le nostre anime vibravano all'unisono nell'armonia potente dell'amore; si fondevano meravigliosamente nell'armonia dell'amore; era un affetto solo, completo, tutto divino e tutto umano. Ma la celestiale fusione durò poco. In un'ora suprema, mentre egli mi parlava soavemente, vidi comparire fra noi la donna dall'abito nero, che portava al collo un ramoscello di corallo rosso. Questa volta i soavi occhi lampeggiavano malignamente, le sue labbra di garofano sogghignavano. Egli mi parlava d'amore ed ella ghignava, ghignava.
- Non ti credo - rispose a quell'uomo che diceva la verità.
Così l'amore nostro divenne uno spasimo. Dietro il volto di lui, onesto e buono, io vedeva l'ovale sciupato della donna che ghignava; egli diceva un sì franco, sincero, e l'eco del fantasma era un no duro; egli mi accarezzava col suo sguardo innamorato, ed ella lampeggiava ferocemente gli occhi.
- Non ti credo, non ti credo - ripetevo a quell'uomo, io diventata malvagia e scettica.
Poi egli non credette più a me, mi vedeva sempre distratta, assorbita, scossa da subitanee paure, o perduta in esaurimenti mortali.
- Tu non mi ami, tu sei lontana di qui; la tua anima è assente; oh ritorna, ritorna! - egli mi supplicava.
Eppure ci amavamo; la maga pallida, dalle labbra di carmino, che ci scherniva, si metteva fra noi e ne faceva gelare il sangue, e rendeva deboli i nostri baci e fioche le voci. Io soffriva infinitamente più di lui, io che vedevo la maga sedersi accanto a noi, io che sentivo lo spavento di questo spettro salirmi al cervello e farmi delirare. Io che giunsi fino ad essere gelosa di quel fantasma a cui mi sembrava che egli dirigesse le sue parole di amore; io, che in uno scoppio di gelosia furiosa, gridai:
- Tu m'inganni, tu ne ami un'altra, tu ami una donna pallida, sfinita, cogli occhi neri, le labbra sanguigne, la veste nera, il ramo di corallo rosso. Tu m'inganni, tu mi tradisci, tu ami l'altra!
Egli mi guardò trasognato.
- Tu sei quella - disse semplicemente.
Mi condusse allo specchio; vidi nel cristallo una faccia smorta, consunta dall'età, dalla sofferenza, due occhi neri, ardenti, due labbra brucianti, una veste nera, un ramo di corallo rosso. Vidi la sua figura, che era la mia figura; urlai come una bestia:
- Non sono pazza, non è la mia testa che devono curare, ma è la più fiera nemica che è entrata in me; il fantasma si è messo nell'anima mia. L'altra non vuole andarsene, vuol vivere in me, così siamo due; bisogna esorcizzarmi; chiamate un prete, e dica sul mio capo le parole sacre della preghiera che libera le anime!