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IV.
Per la prima rappresentazione del San Carlo, in quella sera di Natale, si dava la più drammatica opera di Meyerbeer: Gli Ugonotti. La prima serata del massimo teatro costituisce sempre un avvenimento per il gran pubblico napoletano, qualunque opera, vecchia o nuova, vi si dia: ma quando l'opera è di quelle che appassionano, l'interesse diventa grandissimo. Le duemila persone, fra uomini e donne, che costituiscono la vita mondana di questa città di mezzo milione di abitanti, si agitavano da qualche giorno, nelle visite, nelle conversazioni, nei caffè, in tutti i ritrovi, prevedendo che la serata sarebbe stata magnifica. Cantavano negli Ugonotti la De Giuli Borsi e Roberto Stagno: in quell'opera il pubblico li doveva udire per la prima volta, mentre già li conosceva, o per fama, o per averli uditi in altre opere. Così che, per tre o quattro ragioni palesi, o per moltissime ragioni nascoste, le duemila persone, in quel giorno di Natale, trasformarono le occupazioni, o gli ozii della loro giornata in modo da poter essere pronti alle otto, in marsina gli uomini, in eleganti e ricche vesti da ballo le signore; tutti sacrificarono o la passeggiata, o le visite, o l'ora del pranzo, o la siesta del dopo pranzo, per avviarsi al teatro. E tutto intorno all'arcata elegante del portico, vicino alle porte piccole e alle grandi, dalle sette e mezzo, sotto la luce divampante delle fiammelle a gas, era un formicolio di gente che arrivava a piedi, col bavero del soprabito rialzato, mostrando sotto il cappello di seta a soffietto, la faccia rasa di fresco, coi mustacchi arricciati, o la barbetta castana tagliata in punta; altri arrivavano, bene imbacuccati, in carrozza da nolo, e discendevano, con un leggero salto, innanzi alla porta, sulla piazza San Ferdinando, accanto ai pompieri; mentre sotto il portico, innanzi alla porta centrale, coi due battenti foderati di drappo rosso, arrivavano continuamente gli equipaggi signorili, si fermavano, la portiera della piccola ed elegante carrozza si schiudeva con un rumor sordo, e le signore, tutte avvolte nei mantelli di velluto rosso foderati di pelliccia, o nelle brevi mantelline bianche ricamate d'oro, col capo nascosto nelle leggere sciarpe di garza, posavano il gentil piede calzato di seta bianca, dalla scarpetta di raso bianco, sullo scalino, e in un sol movimento erano dentro. Le carrozze, al trotto, arrivavano sempre, ed era uno schiudersi e un richiudersi dei due battenti rossi, continuo; dall'apertura si vedeva il duplice bianco scalone e il gran pianerottolo vivido di luce, brulicante di gente, la quale ascendeva pian piano, già tranquillizzata, già assorbente da tutti i sensi, da tutti i pori, il piacere intellettuale e sensuale dello spettacolo, pregustando quello che avrebbe avuto nella sala: e gli eleganti, fermi sugli scalini, sul pianerottolo, col soprabito aperto che mostrava il candido petto della camicia, col cappello a soffietto inclinato sull'orecchio, fumando un'ultima sigaretta, guardavano le signore che giungevano, che salivano le scale rapidamente, col capo chino, tenendo raccolto lo strascico di broccato, e così, gli eleganti, i galanti, gli innamorati, preludiavano alle contemplazioni della sala.
Le fanciulle, senza strascico, vestite di abiti leggeri e chiari, con certi sciallini rosei o azzurri che stringevano loro le spalle, coi capelli intrecciati sulla nuca, o buttati giù sulle spalle, a onde crespe, sogguardavano obliquamente, con quell'occhio che pare immerso in un sonnambulismo, e che intanto vede tutto. Alle otto, sotto il porticato, per le scale, pei corridoi, la circolazione era difficile e da tutte le parti si udivan voci che chiamavano il custode dei palchi, mentre le signore raggruppate, appoggiate ai muri, formanti un quadro di stoffe seriche, di ricami, di merletti, di gemme, di teste incappucciate, aspettavano che si aprisse. Frettolosamente, uomini in marsina, col soprabito lungo aperto, andavano e venivano, portando un ventaglio, una pelliccia femminile: e dei servitori in livrea che avevano accompagnato sino al palco delle signore, se ne andavano, scialbi sotto l'alto cappello incerato, dalla coccarda lucida. Ogni volta che i battenti delle porte foderate di rosso, con l'occhio ovale di cristallo, si chiudevano, degli sbuffi d'aria calda ondeggiavano, e intorno al teatro era un romorìo sempre vivo di carrozze, di venditori di libretti, di trams che passavano, fischiando: sopra, dalle scale ai pianerottoli, ai corridoi, alla terrazzina, nasceva un silenzio, la gente si diradava, assorbita dai palchi, dalla platea, dal loggione. Alle otto e un quarto non vi era nessuno: San Carlo aveva preso tutta la folla mondana napoletana, col duplice fascino dell'arte e del piacere.
Nella sala, dalle sette e mezzo, era un ciarlìo sommesso di gente che arrivava, uno schiuder fragoroso delle porte dei palchi, un abbassar con un colpo secco delle panchine, delle sedie, un segar di violini e di viole che si accordavano, curiosamente. Alle otto meno cinque minuti, il gas si alzò; e dal maestoso sipario che il Sanquirico dipinse così largamente, con fare antico, al fondo rosso e oro – rosso austero e oro smorto – di tutta la sala, dalla nera e bianca falange di eleganti che si ergeva, fitta, dalle poltrone, alla gloriosa colonna di donne ingioiellate, nei palchi, dalla fittissima platea nereggiante di folla, alle estreme altitudini del lubbione, fu come un lungo sospiro di sollievo, e il brusìo della gente che erasi fatto forte, cadde a un tratto, nel rispettoso silenzio dell'aspettazione.
Nei palchi qualche signora si teneva indietro, contenta di esser giunta a tempo, ma non volendosi far vedere troppo presto, ancora chiusa nel mantello, guardando negli altri palchi, per vedere chi vi fosse; altre più impazienti, erano già al loro posto: e chi vestita di chiaro, fra le sete e garze, aveva l'aria di emergere da una rosea e azzurrina nuvola, chi vestita di nero velluto, scollacciata, sembrava una statua, sgorgante dalla linea netta di quell'abito. Dei grandi ventagli di piume bianche già ondeggiavano, con un moto assai molle: dalle poltrone, dove gli eleganti, in piedi, voltavano le spalle al palcoscenico, era un occhieggiare, un accennare, un ricercare con l'occhialino, ansiosamente, un girar la testa, ogni volta che un palco si schiudeva.
Adesso, a ogni rumore più forte, era un zittìo, come se l'opera fosse incominciata; e ogni tanto, vi erano dei minuti di profondo silenzio. La sala del San Carlo nella magnificenza della sua architettura, nella ricchezza dei suoi ornati, fulgidamente illuminata, piena zeppa, fa sempre questo effetto di stupefazione, sulla folla istessa che ne aumenta la imponenza.
Laura e Anna Acquaviva, accompagnate dalla loro damigella di compagnia Stella Martini, erano giunte in teatro alle otto, ed avevano preso posto nel palco numero diciannove di seconda fila. Le due sorelle erano vestite di bianco, di una seta bianca, fine e molle: ma tranne che nel colore e nella stoffa del vestito, esse erano dissimiglianti. Laura aveva fatto adornare il suo vestito di garze bianche, di lievi veli bianchi, in modo di avvolgere tutto il busto in una candida e verginale vaporosità, e gli stessi guanti sottilissimi, trasparenti, di seta bianca, erano attaccati con un nastrino bianco sull'alto del braccio, dove la leggera manica giungeva; i capelli fulvi e un po' ricciuti, formanti un nimbo dove la luce si frangeva sulla fronte e sulle tempia, erano rialzati sul sommo del capo, in un nodo che pareva di oro brunito, e il viso ovale e roseo, dai grandi occhi bigi e sereni, aveva una freschezza ammirabile. Anna portava il busto del suo vestito di seta un po' aperto, con un giro rotondo di trina bianca, che si arrovesciava infantilmente, lasciandole il collo scoperto: un nastro di velluto nero glielo cingeva; si vedeva un po' del braccio nudo, fra la manica e il guanto; tutto il carattere della sua persona era preciso, ben lineato, un bel corpo giovanile che si disegnava nitidamente, scultoriamente. I folti capelli neri lasciavano scoperta la fronte e le tempia, con una linea curva ferma e vigorosa: non un ricciolo, non una ciocca si abbandonava: i capelli erano poi raccolti dietro, sulla nuca, in una grossa massa che posava sul collo. Adesso, dopo la malattia sofferta, il viso di Anna si era un po' affinato, fatto più pallido, quasi spiritualizzato: più profondi i neri occhi buoni, e una piccola ombra vi rimaneva, sottolineandoli, parendo ella fosse stata segnata colà dal dolore, per sempre; e in tutta la sua fisonomia vi era qualche cosa di vago, di distratto, nello sguardo, nel sorriso: sembrava che l'anima non si fermasse mai più sopra niente. Ogni tanto ella si facea vento col ventaglio di pizzo bianco e restava immobile, cogli occhi levati, assorta; ma si scoteva subito. Stella Martini che l'accompagnava dovunque, e più volentieri di tutto al teatro di musica, perchè la musica ridestava tutte le memorie della sua vita sfiorita, si era messa un po' indietro: Anna aveva preso il primo posto, Laura il secondo; il posto in mezzo era vuoto. Subito gli occhialini dei giovanotti si erano rivolti su loro, così diversamente belle, così variamente seducenti: le figlie di Francesco Acquaviva non avendo parenti che le accompagnassero, solo al San Carlo era possibile vederle un poco: erano belle, attraenti, avevano una grossa dote: solo di una, della bruna, si diceva che era stravagante, che avea avuto un grande amore infelice, per cui era stata prossima alla morte; ma era una diceria incerta, niente altro. Le guardavano, perchè erano della loro società, degne di diventare delle belle spose; ma le guardavano fuggevolmente, poichè le fanciulle non si guardano, in teatro, nè altrove, se non quando si vuole sposarle.
Poi, apparve in un palco la bellissima contessa di Alemagna, la bruna dagli occhi azzurri e dalle spalle magnifiche, vestita di rosso vivo, con una collana di grosse perle: tutti si rivolsero a lei. L'opera cominciava, diretta da Carlo Scalisi: il pubblico era immobile, pietrificato nell'attenzione. Le donne nei palchi, non battevano palpebra, vinte immediatamente, nella sensibilità, dall'onda musicale. Nel palco Acquaviva si taceva; e le due fanciulle serbavano innanzi alla gente, lo stesso contegno silenzioso della casa, poichè Laura pareva che in privato e in pubblico non volesse mai dire nulla, che non avesse niente da dire: ed era così calma, pareva così felice, che Anna, piena per lei di una devozione e di una tenerezza, tanto più grandi perchè non si espandevano, non la interrogava, rispettando quella pace. Ora che il divo tenore Roberto Stagno si avanzava, per filare la romanza dove Raul parla della sua Valentina, vi fu un movimento in teatro, uno di quei lunghi ondeggiamenti della folla, che si commuove all'attenzione. Laura guardava in un punto della sala, naturalmente, e un impercettibile sorriso le apparve sul perfetto arco chiuso delle labbra; non così impercettibile che Anna non lo vedesse. Anna trasalì e seguì lo sguardo di Laura. In un palco di prima fila, al numero quattro, dirimpetto a loro, era apparso Cesare Dias, in marsina, portante sul viso bello e sfiorito di uomo quarantenne, la fittizia eccitazione delle sue serate, correttissimo, del resto, con quel misto di figura meridionale consumata dagli anni e dalla esistenza a oltranza, e di contegno inglese; con lui era un giovane gentiluomo. Si sedettero innanzi, subito, fra gli applausi che la folla profondeva a Roberto Stagno, artista squisito. Adesso Laura non guardava più, e invece Anna, assorbita, teneva gli occhi fissati sul palco di Cesare Dias. Costui parve sentisse il magnetismo di quella occhiata lunga, insistente, poichè si voltò a guardare: ma non sorrise, nè salutò, solo disse qualche cosa al suo compagno, che prese l'occhialino e lo puntò sul palco delle sorelle Acquaviva. Il giovane gentiluomo era di statura media e prestante: una barbetta bionda, tagliata rada sulle guance, gli dava l'aria di un ritratto antico del Tiziano. Sulla fronte molto bianca erano sprezzantemente gittati indietro i capelli biondo-castani, molto più scuri della barba, e gli occhi castani avevano molta dolcezza. Scambiava qualche parola, ogni poco, con Cesare Dias, ma non si voltava mai al palcoscenico; occhieggiava la sala mostrando di essere venuto colà per un interesse personale, senza curarsi della musica.
Anna guardava in quel palco; se lo spettacolo della scena la distoglieva, era per un breve momento: quasi a ingannare se stessa, prima degli altri, ella dava un'occhiata in giro, fissandosi qua e là, ma senza la vivacità di chi vede e di chi ammira. Ma quando, fatalmente, Anna ritornava con l'occhio al palco numero quattro, di prima fila, dove Cesare Dias, torcendo macchinalmente il nero mustacchio, ascoltava la musica, senza punto volersi voltare alla sala, ella restava immobile: e i bruni occhi man mano pareva diventassero più vividi nella loro nerezza, una luce li allargava, e tutta la fisonomia, pur restando pallida, ne era irradiata. Ella stessa, forse, non misurava la forza di quel misterioso fascino che le si addensava intorno e a cui si abbandonava, senza tentare di difendersi; era qualche cosa di avvolgente che nasceva da quella dolce musica dove pur fremevano, dentro la dolcezza, tante malinconie, donde sgorgavano, dalla dolcezza, grida strazianti di cuori angosciati: nasceva dal dramma che si iniziava sul palcoscenico, sospirato, pianto nella musica, e da quel fulgore di sala che aveva visto tante cose, che aveva racchiuso tante emozioni, e da quella gente agglomerata, piena di segrete passioni; nasceva da una causa interna, ignota ancora, ma così dominante il debole cuore di Anna Acquaviva, che ella, senza combattere, vi si lasciava andare. Erano, intorno a lei, dei veli leggeri e sottili che scendevano, scendevano, come un fumo chiaro, come una chiara nuvola e che si affittivano, si affittivano, sino ad avere una densità impenetrabile: ondeggiava, sì, intorno a lei, la nuvola luminosa di quel fascino, ma ella era presa, Anna Acquaviva, ella era assorbita e pur non sapendo nè come, nè perchè, pur non vedendo nulla oltre quella nuvola, sentiva avvinghiata per sempre la sua volontà, senza tentativo di liberazione, tremando di gioia a quella cattività.
– Quello è Luigi Caracciolo – disse ad un tratto Laura Acquaviva, quasi rispondesse a un'interrogazione.
– Chi? – domandò Anna, che non aveva udito.
– Luigi Caracciolo: quello che sta con Dias.
– Ah! – fece l'altra chinando gli occhi.
E di nuovo, come il fiore del girasole magicamente si volta sempre alla divina luce di Apollo, scaturendone la propria vita e l'azione della propria vita, restando, anche nell'ombra, rivolto verso l'occidente dove Apollo tramontò, rivoltandosi magicamente alla mattina, verso l'oriente dove Apollo deve sorgere ancora a dar fiamma di forza e di amore alle cose, così Anna Acquaviva si rivolse nuovamente al palco di prima fila, numero quattro, dove stavano insieme Cesare Dias e Luigi Caracciolo. Tutto il resto del teatro, dal palcoscenico alla platea, dalla platea alle ultimissime file dei palchi, le sembrava messo in gran confusione di colori e di linee, di luci tremolanti, di ombre scialbe e vaganti, dai profili indistinti, mentre tutto il fascio della luce le pareva rivolto in quel piccolo centro: e quel breve spazio dove due persone vivevano, era così lineato precisamente, così forte nel suo disegno, così staccato sul fondo scuro, che la stessa sua visione, nitida e tagliente, le faceva abbarbagliare gli occhi.
Ma sentivano, colà, il magnetismo di quegli occhi incantati, abbagliati? Cesare Dias, un po' sdraiato al suo posto, col capo appoggiato allo stipite del palco, col braccio allungato sul velluto rosso del bordo, ascoltava la musica di Meyerbeer, e solo sbadatamente, talvolta, si girava a dare un'occhiata alla sala, un'occhiata fredda, dell'uomo che sa di trovar sempre le stesse persone, allo stesso posto, che non se ne annoia, ma che non può dimostrare nè meraviglia, nè piacere.
Invece Luigi Caracciolo non si sdegnava neppure di dare la sua attenzione alla musica, di cui cominciava il finale del primo atto, dove già fioriscono dolorosamente le commozioni degli atti seguenti; Luigi Caracciolo, carezzante, ogni tanto, la barbetta bionda, mentre un fino sorriso gli si disegnava sulle labbra rosse che avevano del femminile, guardava le signore, e quando prendeva l'occhialino di madreperla iridiscente, lo fissava sul palco delle Acquaviva. Subiva egli il magnetismo? Chi sa! Guardava. Quando il sipario cadde e Roberto Stagno venne al proscenio, Luigi non levò le mani per applaudire. Guardava nel palco delle due fanciulle. Cesare Dias gli disse una parola; si levarono e uscirono. A un tratto, tutte le cose intorno ad Anna parvero scolorate ed ella si buttò indietro; il luminoso teatro si era trasformato in un grande vuoto oscuro, silenzioso.
– Stagno canta divinamente – osservò Stella Martini.
– Sì – rispose Laura. – Non vi pare che esageri?
– Non mi pare.
– Allora, è la musica che è un po' esagerata.
Anna non udiva, aveva gli occhi socchiusi. Nel teatro era un rumorìo, di nuovo, di porte aperte e richiuse, un fruscìo di persone che si muovevano, un maggior agitarsi di ventagli, un cambiar di posto di uomini, di signore, un alzarsi e abbassarsi di occhialini, mentre le poltrone restavano deserte. Il giro delle visite era cominciato; i mariti, i fratelli, uscivano dal proprio palco per lasciar posto ai visitatori, andando essi stessi a far da visitatori altrove, un chiacchierio leggero si elevava, mollemente, dai palchi di prima e seconda fila al lubbione, dove studenti, operai, commessi di negozio, s'inchinavano incuriositi, abbagliati. Tristemente, fra le palpebre socchiuse, Anna Acquaviva guardava quel palco di prima fila, vuoto, pieno di ombra, e le pareva di esservi entrata, in quella tenebra, smarrendovisi, in una notte lunga, simile al girasole che languisce, nelle interminabili ore che il sole scompare. A un tratto, sempre parendo di gittare così una notizia, a chi voleva o non voleva udirla, Laura disse:
– Luigi Caracciolo e Cesare Dias sono dalla contessa d'Alemagna.
Anna si volse subito, prendendo l'occhialino. Essi erano colà, da varii minuti, dirimpetto alla bellissima signora vestita di rosso, seduti uno accanto all'altro, in modo che si vedevano i due profili, il pallido e nobile profilo di Cesare Dias e il profilo giovanile, un po' insolente, di Luigi Caracciolo. La contessa d'Alemagna, una viennese assai intelligente, assai spiritosa, parlava loro vivacemente, battendo sul bordo del palco, a colpetti brevi e leggeri, il suo gran ventaglio di piume rosso fuoco; e doveva dire certamente qualche cosa d'interessante, poichè i due uomini sorridevano, si vedeva l'angolo del loro sorriso, e aggiungevano qualche parola di commento, ogni tanto, che la contessa d'Alemagna ascoltava con la sua aria intellettuale, riprendendo subito la conversazione. Le fanciulle Acquaviva non dicevano nulla, fra loro: ma mentre Anna aveva lasciato l'occhialino, deponendolo sulla sedia di mezzo, un piccolo strato di pallore si distendeva sulle guance brune, scacciandone quel po' di sangue, che il calore del teatro vi aveva chiamato.
– Vi sentite male? – le chiese premurosamente Stella Martini, impensierita, poichè era la prima volta che la fanciulla andava in pubblico dopo la malattia, la convalescenza e il lungo periodo di riposo.
– Nossignora, grazie – mormorò la fanciulla impallidendo sempre.
– È forse il caldo: aprirò la porta del palco – soggiunse maternamente la damigella.
– Laura, siedi qui – pregò Anna, levandosi.
Mentre la sorella si metteva al suo posto, Anna andò in fondo al palco, di cui Stella Martini aveva socchiuso la porta. La ragazza si appoggiò allo stipite, respirando lungamente, con gli occhi chiusi. La buona donna le prese la mano, che rimase inerte nel guanto di seta bianca, fra le sue.
– Grazie, molto meglio: era il caldo.
E tentò di ritornare innanzi, fatalmente attratta: ma Stella Martini la trattenne, temendo che il caldo la disturbasse di nuovo. Anna restò, respirando l'aria fresca che veniva dai corridoi. Lo scricchiolìo dei passi e il chiasso delle porte continuava: l'intervallo mondano del gran teatro napoletano si svolgeva, in tutta la sua leggiadra frivolezza e in tutta la sua sentimentale profondità.
– Vi piacciono assai gli Ugonotti, Stella? – disse Anna, per dir qualche cosa, per liberarsi, anche un minuto, dalla suggestione di tornare innanzi a vedere che succedesse nel palco della contessa d'Alemagna.
– Assai: e a voi?
– A me, immensamente.
– Temo – soggiunse la buona donna – temo che, dopo, vi piacciano anche troppo. Sapete... al quarto atto... non proverete forse una impressione molto forte?
– Non importa, Stella – replicò la fanciulla, con un pallido sorriso.
– Vogliamo forse andar via, prima del quarto atto? Se i vostri nervi ne dovessero soffrire...
– Io non soffro – mormorò ella, parlando a sè – o meglio, amo soffrire così.
– Abbiamo fatto male a venire – disse Stella, crollando il capo.
– No, no, Stella: lasciatemi stare, io sto bene, io sono felice, non mi levate di qui.
Se ne andò innanzi, al secondo posto, di fronte a Laura. Costei aveva continuato a guardare la sala co' suoi limpidi occhi, e non aveva udito nulla del piccolo dialogo, fra Stella e Anna. E quando Anna si fu seduta, le dette la notizia:
– Cesare Dias e Luigi Caracciolo non sono più dalla contessa d'Alemagna.
– Già – disse Anna, sordamente.
– Forse verranno qui – soggiunse Stella Martini che aveva ripreso il suo posto, accanto a Laura, adesso.
– No, no, l'intervallo è finito – disse indifferentemente la bellissima creatura.
– Finito – concluse Anna, con voce strozzata.
Di nuovo, silenzio nella sala, per il secondo atto.
Ancora qualche licenziamento discreto, nei palchi, una stretta di mano, una parolina sussurrata, lasciandosi. Qualcuno, più familiare, restava; insediato, deciso a non muoversi: restava chi per anni di amore, di devozione, di consuetudine, di tacita indulgenza del mondo aveva acquistato un diritto di passar la sua serata con la donna che aveva amato, o che lo aveva amato; restavano coloro che avevano così bene guadagnato, più del cuore della moglie, il cuore del marito, tanto da diventare indispensabili, più come amici che come amanti.
Dove si era seduta adesso, Anna Acquaviva, al secondo posto, vedeva meno bene il palco numero quattro, di prima fila; per guardarlo, doveva voltarsi un poco, lasciando vedere tutto il suo interesse. E mentre Cesare Dias e Luigi Caracciolo, di ritorno dalla visita fatta alla contessa d'Alemagna e da un giro pei corridoi, fumando una sigaretta, si rimettevano ai loro posti, mentre ella si sentiva riprendere da quella mano ignota, rapita in una speranza e in un desiderio, parve ad Anna che tutti la osservassero nel suo fatale acciecamento e sorridessero del sentimento, che ella non riesciva a celare. Per due minuti le battè il cuore così precipitosamente, sotto la gola, per la vergogna di essere stata sorpresa, che le sembrò di morire lì, mentre invece di arrossire, impallidiva. E a malgrado la nebbia, in cui le appariva la folla, a malgrado che i suoi occhi, guidati dal cuore, le mostrassero solo quello che le piaceva di vedere, quando, per darsi un'aria disinvolta, si fermava a considerare la gente estranea, a lei indifferente, il sottil velo si levava dalle cose circostanti che apparivano, nella loro verità, così chiare, così luminose nella loro manifestazione! E in un palco dove una snella donna stava assorta, udendo lo note del copri-fuoco famoso, senza scambiare una parola con suo marito. Anna ben vedeva dove i distratti e profondi sguardi della donna si posavano, così, naturalmente, attratti da un sol punto, anche essi; ma da certe palpebre abbassate di fanciulle immerse nel loro abituale sonnambulismo dei venti anni, ella bene vedeva, Anna, scivolare obliquamente la scintilla di un'occhiata, chi sa dove diretta; ma in certi palchi, dietro le candide spalle di una signora, dietro la testa immobile dalle ciocche brune capricciosamente pettinate, bene vedeva Anna il profilo di colui che le sedeva alle spalle, in penombra, vigile al suo posto, obbediente alla sua consegna, costante se non fedele, mentre la signora era serena, raggiunto l'equilibrio nella tranquillità del cuore e dei nervi.
Ah divine, divine sgorgavano le note di Meyerbeer dall'orchestra sapiente e dalle sapienti gole dei cantanti, ascendevano in fluttuanti onde al cielo alto della sala, frangendosi mollemente, carezzando le orecchie e le anime degli ascoltanti; ma indotti dall'amore, ma fatti più passionabili dalle suggestioni invincibili della musica, quanti volti concentrati in una sola espressione, quanti occhi immersi nel languore di una lunghissima contemplazione, quante rosee bocche ferme, taciturne, frenanti le dolci parole dell'amore, soffocanti le sillabe di un nome adorato, dandosi solo a un sorriso che aveva l'espansione di un fiore, fiore eterno dell'anima, fiore parlante dell'amore: quanti pallori che si allargavano sui volti impercettibilmente e li trasformavano, unico segnale di una emozione repressa: quanti vividi colori ascendevano alle candide fronti dando loro l'esaltazione di una celestiale speranza! Ella, sì presa dalla sconosciuta mano del suo destino, si perdeva nella contemplazione di quell'unico punto del teatro, le labbra un po' schiuse, gli occhi morenti di dolcezza, fremendo a ogni frase larga e amorosa della musica; ma intorno intorno, anche le altre, anche gli altri, tutti quelli che erano giovani o si sentivano ancora giovani, tutti quelli che avevano un cuore ardente, una fantasia mobile, dei nervi vivaci e la fede nel loro avvenire, tutti quelli che si pentivano della mala scelta, tutti quelli che avevano già errato, senza pentirsi dell'errore, ma pentendosi della persona, infine tutti i neofiti, tutti i catecumeni, tutti i peccatori, tutti i penitenti dell'amore sentivano la fatal legge della passione, nascente o morente, vigorosa o languida, fiaccola riattizzata dalla musica, dalla notte, dal calore, dal bisogno del cuore, vampa più alta per l'arte, per la bellezza, per la seduzione, per la ricchezza. Invero, quella gran sera, a S. Carlo, era un focolaio incandescente di passione, dove segretissima, dove trapelante appena, dove così manifesta che era impossibile non vederla, e la dolorosa sorpresa d'amore di Valentina, il dramma vibrante nell'anima di Raul erano due anelli di quella lunga e forte e salda catena passionale, che vincolava tutti i cuori colpiti dalla fatal legge. Non sola, Anna; forse, neppure prima, poichè ella non poteva sapere quanti sgomenti, quanti pericoli, quanti strazi nascosti, in tutti quei cuori. E un rivolgimento di gioia, di abbandono, si fece nel suo spirito. Le sembrò di non esser più colpevole, di essere stata assolta da ogni suo traviamento, di trovarsi, infine, innocente e ingenua nella legge comune, di fare, infine, quello che tutti gli altri facevano, molti assai meno innocenti di lei, molti avviantisi così a una tragedia imminente e irreparabile: ella non obbediva che al naturale sentimento del cuore, all'istinto che parla alto insieme al sentimento, nell'ora della giovinezza, quando e l'arte e la debolezza della vita sociale, e tutte le carezze dell'eleganza, rinforzano il sentimento e l'istinto dell'amore. Ella era giovane, ella aveva risalita la curva della vita, ella si sentiva rinata, rifatta nelle forze morali e fisiche, ripresa dal turbine vertiginoso dell'esistenza; non doveva arrossire, poichè tutti amavano come lei, e lei aveva il diritto di amare come tutti. Certo, come già le lacrime piangevano nelle voci di Valentina e di Raul, anche nell'amor suo, anche nell'amore degli altri, stasera, stanotte, domani, fra un anno, sarebbero scoppiati i singhiozzi della disperazione: e che importava? Nell'amore vi è chi possiede una divina incoscienza e vi si abbandona col fervore dell'ingenuità, con la speranza della virtù, con le meravigliose illusioni della giovinezza; e vi è chi conosce, chi sa perfettamente il proprio destino e vi s'abbandona egualmente, vedendo tutto e volendo accettare tutto, subir tutto, fino all'ultimo. Anna, non sola, e non prima, forse, in quella contemplazione della persona amata, vi si perdette dolcemente, senza rossori, senza rimorsi, con la sapienza dei cuori consci, con l'abnegazione altamente umana dei cuori sapienti. Invescatrice dolcezza, dolcezza stupefacente! La persona cara non sapeva o non voleva sapere, o era lontana da quel magico circolo passionale, e neppur questo finiva per importarle, tanta era la fiducia dell'amore in se stesso, tanta era l'allettante stupefazione che arrestava ogni giudizio della mente, che immobilizzava in una morbida meraviglia ogni potenza umana. Che tempo passò? Giammai ella lo seppe. Due volte sua sorella Laura le parlò: ella non intese; non rispose. Invero, la teneva lo stupore caldo e molle della incipiente passione.
A un tratto, volgendosi, mentre di nuovo il sipario scendeva, ella si vide innanzi la figura di sua sorella Laura: trasalì. Una fredda e pura sorgente parve attraversasse quel paesaggio, già tinto dei più vividi colori. Laura Acquaviva, in quel nebuloso abito bianco che poco concedeva alla moda muliebre dei teatri meridionali e tutto concedeva dalla poesia alla purità, conservava quella giovanile e serena glacialità datale dai chiari grandi occhi bigi, larghi occhi senza amore e pieni di limpida luminosità, dalla trasparenza della pelle, dal molle nimbo biondo dei capelli, dalle linee tutte caste, dalla bocca fresca, simile a un fiore mai schiuso. E Anna ebbe un moto di devoto rispetto, di umiltà terrena innanzi a sua sorella, che non si lasciava tangere dalla fiamma di quell'incendio, che si posava bella della sua profonda virtù spirituale, fuori della legge comune, anzi, superiore alla legge comune. Laura non guardava nessuno, non pensava a nessuno, fissava il palcoscenico, seguiva i passi della De Giuli Borsi, prendeva l'occhialino per osservare un'acconciatura, così serenamente, che ella sembrava la sola creatura umana, giovane e bella, che non sentisse nè la voce interiore, nè la voce dell'ambiente. Pure, quando due volte Laura parlò ad Anna, senza che costei le rispondesse, una lievissima ombra fugace appannò quel bianco volto; ma niuno la osservò. E mentre il sipario discendeva, ed Anna, uscita del suo incantesimo, rientrava in sè, un po' smarrita; Laura le disse, egualmente, nel tono di tutte le altre notizie mondane che le aveva date:
– Ah! – fece l'altra, non sapendo reprimere la contrazione del suo viso.
Ma ebbe la forza di non domandare dove fosse. Piombata da un cielo di dolcezza alla realtà della sua esistenza, dove ancora permaneva la traccia spirituale della sua follia, reagendo, ribellandosi al passato, volendo annullarlo anche fuori di sè, poichè in se stessa era morto, Anna non chiese. Levò il bianco ventaglio all'altezza del viso, e mandò indietro due lacrime roventi, che stavano per scenderle sulle guance. Impensierita, Stella Martini la guardava, temendo di far peggio, dicendole qualche cosa. Poi trovò:
– Abbiamo fatto male a venire, Anna – le mormorò.
– Non temete – rispose costei. – Sto bene, sono felice – soggiunse, enigmaticamente.
Bussarono pian piano alla porta: entrarono Cesare Dias e Luigi Caracciolo. Con due parole il tutore lo presentò alle due sorelle. I due uomini si sedettero, Cesare Dias accanto ad Anna Acquaviva, Luigi Caracciolo dirimpetto, accanto a Laura. La conversazione, leggera, si annodò subito sullo spettacolo. Sovraneggiando il suo turbamento, Anna sola discorreva, con Cesare Dias e con Luigi Caracciolo: Stella Martini non interveniva, e Laura con le palpebre abbassate, attenta, non pronunziava una parola.
– Stagno ha un talento d'artista... un gran talento – osservava Luigi Caracciolo, col suo sorrisetto blando, passando pianamente le dita intorno alla barbetta bionda.
– E tanto cuore... tanto sentimento – soggiunse Anna.
– Il talento d'artista basta – ribattè Cesare Dias, con un accento nel quale la cortesia temperava la secchezza.
– Del resto, il numero degli artisti di canto, sul palcoscenico, si va così restringendo. Una folla di mediocrità, con qualche cima, niente altro – continuò Caracciolo.
– Ah, io ho udito i grandi... – sospirò Cesare Dias.
– Già, già, tu hai dovuto udire Fraschini, Negrini, Nourrit... ai suoi tempi – disse sorridendo Luigi Caracciolo, con la fatuità di chi ha ventisei anni, e che crede debbano durare eternamente.
– Ero ragazzo, quando li ho uditi, è vero... il che non toglie che adesso io sia vecchio – terminò di dire Cesare Dias con quella velatura di malinconia che era così bizzara in lui.
– Che contano, gli anni? – riprese subito Anna. – Altre cose contano, più profonde, più intime, non gli anni, che sono un fatto esteriore e fallace.
– Grazie di questa affettuosa difesa, mia cara! – esclamò, ridendo, Cesare Dias – ma essa è dovuta alla vostra bontà d'animo.
– La gioventù irradia – disse Luigi Caracciolo, inchinandosi, per sottolineare il complimento.
Anna rimase interdetta, agitata. Nulla più le faceva perdere l'equilibrio che la conversazione mondana, basata sullo spirito spicciolo e sulla frivola galanteria.
– Non abbastanza – riprese Cesare Dias, per ispiegare il complimento e per dare sfogo alla sua filosofia. – Per quanto io stia spesso con queste mie due fanciulle, Luigi, che sono due fiori di gioventù, io non mi sento meno vecchio. Credo di aver cento anni, per lo meno. Quanti cambiamenti di governo ho visto? Otto o nove forse. Ho più di un secolo sicuramente, cara Anna.
E si rivolse a lei, con quel lieve, ironico sorriso che adoperava contro gli altri e contro se stesso.
– Perchè dite queste cose? Esse sono così tristi... – mormorò Anna.
– Diamine, si sa che sono tristi; la giovinezza è il solo bene che si rimpianga di tutta la vita.
– Ma non lagnarti, caro Cesare, sii giusto! Non vale più la sapienza che la prima ignoranza; non è meglio aver l'esperienza autunnale, che il naufragio nelle sciocchezze primaverili? Tu sei il maestro di noi tutti: noi lo veneriamo, signorina – e accentuò leggermente la frase, rivolgendosi ad Anna.
Sul volto di Anna passò un'ombra ed ella lasciò cadere il discorso.
– E voi che ne dite, saggia e tranquilla Laura? – domandò Cesare Dias, riprendendo la conversazione. – È meglio la gioventù o la vecchiaia? È meglio sapere, o meglio ignorare? Qui si sottopongono alla vostra ragionevolezza, cara Minerva, i problemi più ardui. Siete fanciulla, ma siete anche Minerva. Illuminateci. Debbo essere contento di essere il maestro, o è più felice il mio scolaro Caracciolo?
Laura pensò un minuto, co' begli occhi intenti, poi rispose:
– Meglio sarebbe esser giovani e sapienti.
– Il problema è risoluto – pronunziò Cesare Dias.
– E l'intervallo è finito: tutto viene a tempo. Buona sera, buona sera: ciao, Cesare.
Così si licenziò Caracciolo, correttamente, senza dare la mano che a Dias, il quale si era levato: parve avesse compreso, o sapesse che Dias restava.
Anna che aveva spalancato gli occhi, aspettando ansiosa, li riabbassò, tranquillizzata. La porta si richiuse senza rumore.
– Un grazioso giovane – osservò Cesare Dias.
– Grazioso – confermò Stella Martini, per cortesia, e perchè le era permesso di dare il suo parere.
– Nella mia qualità di centenario, resto qui – disse Cesare Dias, sedendosi di nuovo accanto ad Anna, nella penombra, mentre dirimpetto, accanto a Laura, vi era Stella Martini.
– Starete male, per vedere lo spettacolo – disse costei.
– Non voglio vedere; mi basta udirlo, questo quarto atto.
Anna non aveva risposto nulla, lei. Adesso, per cortesia, non si voltava tutta verso il teatro, per non dare le spalle assolutamente a Cesare Dias, e perchè le metteva un senso d'imbarazzo addosso, sentirselo lì dietro lei. Temeva di muoversi! le due sedie erano vicine e i due vestiti, il vestito nero, moderno ed elegante uniforme dell'uomo di società, così austero e così galante nella sua nerezza, e il vestito di seta bianca, la candida stola della fanciulla che va in società, si sfioravano. Ella aveva paura di urtare, col braccio destro, il braccio di Cesare Dias che teneva in mano il cappello piegato: ella non aveva mai più raccolto il suo ventaglio di pizzo bianco, caduto, per non obbligare Cesare a raccoglierlo. Ogni tanto, cautamente, col fazzolettino si toccava le labbra rosee, un po' riarse, quasi che la batista le rinfrescasse. Mentre Saint-Bris, agitato dal furore fanatico, narra ai signori cattolici gli eccessi degli Ugonotti e ne eccita con le fiere parole il furore, mentre il nobile Nevers, il marito di Valentina, si ribella all'idea dell'eccidio, mentre nel silenzio del teatro, agli orecchi della folla affascinata il gran poema musicale di odio, e di collera, di generosità, di amore, di pietà, si andava altamente svolgendo, Anna rabbrividiva, pensando che lo sguardo di Cesare Dias si fissava ogni tanto sui suoi capelli, sulle sue labbra, sulla sua persona, parendole di essere spettinata, di aver le labbra smorte, di essere mal vestita, goffa, in tutto quel bianco che l'anneriva; brutta brutta infine... Non era mille volte più bella la contessa d'Alemagna, la bruna dagli occhi azzurri, delizioso contrasto di fisonomia fra l'ingenuità infantile e la seduzione muliebre, la contessa d'Alemagna che Cesare Dias era andato a visitare, prima di venire nel loro palco, e che egli seguitava a guardare talvolta? Non erano tanto più belle le persone della loro società, che si mostravano in teatro quella sera, pensose fanciulle, spose sorridenti, donne a cui la piena maturità dava un'attrazione di più, e su cui Cesare Dias, ogni tanto, posava lo sguardo o puntava l'occhialino? Non più bella era forse, non più verginalmente bella e più poeticamente acconciata sua sorella, la savia Minerva? E non bionda forse, bionda, in una delle moltissime manifestazioni della biondezza, mentre si è bruna a una sola maniera? E Cesare Dias non l'aveva graziosamente chiamata Minerva, per il suo puro profilo, per la serenità del volto, per tutto l'incanto, che viene dalla bellezza senza emozione?
Anna chinava il capo quasi oppressa dal caldo e dalla musica, ma era invece un disdegno della propria persona che la umiliava. Lo specchio era alle sue spalle: si pentiva di non avervi dato neppure un'occhiata, entrando nel palco; le sembrava di aver dimenticato la propria fisonomia, e fantasticamente si raffigurava bruna e scarna, con un pallore terreo sulle guance, in quel bianco vestito che finiva di rovinarla. Giurava a se stessa che si sarebbe sempre vestita di nero, ormai: solo le bionde, le bianche, possono vestirsi di bianco.
Ah, già urlava la congiura scoppiante dai petti dei frati, delle donne, dei gentiluomini crocesegnati, quando Anna si sentiva affranta dalla malinconia delle persone umili, che riconoscono la miseria della loro figura o del loro carattere, una di quelle interiori mortificazioni di amor proprio, che i forti e i vanitosi non conosceranno giammai, e che sono il retaggio delle anime buone e semplici.
– Avete perduto il ventaglio – disse Cesare Dias, chinandosi a raccoglierlo.
E glielo porse: la guardava ridandoglielo, mentre una lieve punta di sorriso gli rialzava la bocca già stanca, sempre bella malgrado la stanchezza.
– Grazie, – rispose ella, prendendo il ventaglio.
Ma quell'atto, quelle poche parole, quel sorriso l'avevano così colpita, che dovette, dopo un minuto, posare il ventaglio di merletto sulla sedia, in mezzo: le dita le tremavano. Allora con un gesto distratto, Cesare Dias riprese il ventaglio, lo schiuse, e se lo agitò sul volto per aver meno caldo. A quel movimento di ala bianca parve fuggissero dalla fantasia di Anna tutti i biechi fantasmi di dolore, tutti gli umilianti confronti: ed ella seguiva il moto del ventaglio, sottecchi, palpitando come esso palpitava. Adesso Cesare Dias aveva appoggiato, per un minuto, il ventaglio al viso, fiutandolo.
– Che odore è? – chiese ad Anna.
– Eliotropio...
E posò il ventaglio. Mentre ella fremeva dal desiderio di prenderlo, lei, per toccare quello che egli aveva toccato, non osò: d'altronde il pubblico romoreggiava, chiedendo la replica del tetro, terribile finale della congiura; dai palchi anche si applaudiva, l'orchestra ricominciava, tutti si muovevano, si accomodavano meglio al loro posto, assaporando di nuovo quello scoppio truce di ira fanatica, preparandosi al successivo duetto di amore, che solo la fantasia di Meyerbeer poteva tentare, dopo il magistrale pezzo della congiura. Anche Cesare Dias si era rivolto un poco alla scena, muto e attento; pur tenendosi correttamente al suo posto, era così vicino ad Anna, che a lei pareva di udire il suo respiro. Da se stessa, dal suo cuore, dall'ambiente saturo di arte e di passione in cui trascorreva la sera, tale una lenta ebbrezza le saliva al cervello, che Anna non intendeva più nulla: e tutto il mondo dell'amore, vasto, incommensurabile, era raccolto, riassunto in quella compagnia così prossima, in quella vicinanza così immediata: e nell'anima estasiata segretamente, chiudente in sè il prezioso novello tesoro, nasceva l'illusione divina che, mirabilmente, i battiti del proprio cuore fossero i battiti del cuore di Cesare. No, Anna nulla conosceva più dell'ora presente, dell'ora avvenire, di gioventù, di vecchiaia, di bellezza, di seduzione, di teatro, di arte: Anna era immobile, con gli occhi bassi, affascinata, parendole di vivere ormai circonfusa in una gran luce, luce calda e carezzosa per tutti i sensi ammaliati, dove le giungessero vagamente all'orecchio le voci di una passione irruente e straziata; e tutto questo vagamente, confusamente, sentendo con precisione, con nitidezza una sola felice impressione: quella vicinanza. I suoi occhi erano chiusi allo spettacolo del palcoscenico, della gente, finanche alla visione di sua sorella Laura e di Stella Martini; un'eco lontana, ora flebile, ora grave era la musica: e ogni sua forza, ogni sua volontà si concentrava in quell'estasi, nel profondo desiderio che non finisse mai. Ella temeva di fare un gesto, di dire una parola, quasi che tutto quello fosse un sogno, e che si potesse dileguare al suono della voce: l'attimo era così bello, così intensamente bello, che la fanciulla, inconscia, pregava perchè esso si arrestasse. In quel novello entrare nel paese della passione, subitamente, col trasporto delle anime generose, che, quando hanno finito di amare, ricominciano ad amare, con l'abbandono magnanimo dei cuori destinati fatalmente all'amore, ella sentiva bene che un minuto divino era sospeso sul suo capo, divino minuto con la sua estasi nascosta, con la sua ingenua incoscienza di ogni male, con la sua cieca fiducia, con la sua folle speranza; e mentre, in una visione, il cavaliere ugonotto s'inginocchiava innanzi alla dama cattolica, bianco vestita, dai bruni capelli mezzo disciolti sulla nuca, dicendole dolcissimamente quanto l'amava, con una languida cantilena ogni tanto più forte, più vibrata, quando la innamorata Valentina disse anche lei il suo amore, mentre nel silenzio il duetto d'amore colpiva tutti i nervi, tutte le fantasie, tutti i cuori, Anna sentì lo struggimento supremo, la consumazione dell'anima che per sempre si è data.
– Potessi morire, adesso... – pensò.
Sentiva che sarebbe morta, così, in un divino momento, quando la passione, giovane ma forte, ancora non aveva subìto tutti i dolori, tutte le vergogne, tutte le infamie terrene: morire in pieno vigore, sì, ma in piena illusione: morire nel colmo della giovinezza, è vero, ma senza veder decadere il proprio ideale: morire, finire, amando, ma non veder finire, morire, l'amore.
Anche Raul, anche Valentina, tormentati da una passione irrefrenabile e impossibile, chiedevano al Cielo di morire, in quel divino minuto d'amore. Anna, torcendo lo sguardo dell'anima da un nero avvenire, ricolmo di lotte, di incertezze, di lacrime, sentì, nel massimo minuto dell'amore, il fascino della morte. Involontariamente guardò Cesare. Egli la guardò e sorrise: ella, come se fosse il suo fedele specchio, sorrise. Null'altro. E il sublime desiderio della morte disparve innanzi alla realtà di un misterioso sorriso, fiorito così, forse a caso. Ella provò la sensazione di essere bene legata alla terra, vincolata anima e corpo, incapace di staccarsi più dalle cose umane dell'amore. Cercò il suo sguardo di nuovo, come si cerca il sole dal fiore innamorato, ma non lo trovò più: egli era intento, pari a tutti, alla scena. E adesso mentre Raul si dava alla disperazione, volendo partire, mentre desolatamente, come un fantasma bianco e dolente, Valentina, stendendogli le braccia, pregando, buttandosi alle sue ginocchia, lo scongiurava a non partire, Anna sentiva dilatarsele l'anima in quelle voci d'artisti passionali, che così bene esprimono tal fiamma e tal combattimento. Il pubblico, stupefatto, ogni tanto tentava con un applauso di esprimere anch'esso la propria emozione, ma l'applauso era soffocato sul nascere da coloro che non volevano perdere una sola nota di quella fremente esplosione di affanno e di amore. Alle spalle di Anna, Cesare Dias, come se le parlasse all'orecchio, come se parlasse tra sè, disse:
– Quanto è bello!
– È bello – mormorò lei, come se rispondesse a lui, come se parlasse a se stessa, chinando il capo.
Non le era forse sembrato che la voce sempre metallica di Cesare Dias fosse un po' velata? Che aveva? Quale commozione sgorgava da quel cuore gelido, pieno di cenere, incapace di entusiasmo? Chi tentava nuovamente le porte di quell'anima, volendole far aprire col motto magico? Anna chiedeva a sè tutte queste cose, confusamente, senza darsi risposta, sentendo che quei momenti erano troppo preziosi per perderli in un'analisi. Che importava poi? Chi dà la sua vita alla patria, a una nobile causa, aspetta forse un ricambio, una riconoscenza? Chi dà la sua esistenza alla passione, chiede forse, prima di donarsi, se sarà amato, se divamperà l'anima sorella, o se i ghiacci del polo l'avvolgeranno? Pensare, giudicare, riflettere, a che? Ella era giovane e amava, non da quella sera, dal fatal giorno in cui aveva inteso nel freddo albergo di Pompei, dove giaceva abbandonata e morente, la voce di Cesare Dias dirle povera figliuola e la sua mano carezzarle lievemente i neri capelli: lo amava forse da prima, infine lo amava così, perchè questo era il suo destino: non doveva domandare, non doveva sapere, doveva amare. Ah, il minuto si prolungava così bello, avente adesso tutte le sue seduzioni umane e divine, sfiorando la terra, toccando il cielo. Che drammatiche strida desolanti uscivano dal petto di Valentina per fermare l'audace amante, che smarrimento di dolore in costui, che profonda disperazione in ambedue, e che palpito represso opprimeva la folla ascoltante! E non avevano anch'essi, Raul e Valentina, gittato la loro vita per il minuto divino? Oh, anni di sofferenza, per Anna, non avrebbero mai equilibrato la delizia di quel tempo, seduta accanto a lui, parendo dover così trascorrere tutta la lunga esistenza, silenziosa, godendo intensamente tutta la dolcezza della cara presenza, assaporando tutta la umana e celestiale felicità della vicinanza, socchiudendo gli occhi, non vedendo più niente e pure intendendo che in quel focolare di passione che era il San Carlo di quella sera, tutti gli amanti, speranzosi o disperati, morsicati dal dubbio o nobili di fiducia, tetri o lieti, avevano in cuore il medesimo sentimento di alta felicità, sorto dall'amore istesso, sviluppato dall'ambiente, elevato dall'arte ad altezza ideale. Un ultimo bacio, un ultimo grido e il bianco fantasma che si agitava sulla scena cadeva esanime; l'amante si precipitava nella battaglia cercandovi la morte. A un tratto, la musica tacque: un istante di silenzio nel pubblico attonito: poi, salì al cielo del teatro un applauso lungo. E vi fu come una fuga di tutta la gente dalla platea, dai palchi. Anna, stupefatta, sentiva che il minuto era finito.
– Avete la carrozza? – domandò Cesare Dias a Stella Martini.
– Sì, per le dodici – rispose la damigella.
– Se mi aspettate, vado a prendere il soprabito.
Le signore, in piedi nei palchi, indossavano i mantelli. Anche le Acquaviva si erano levate, quando Cesare Dias entrò, con la pelliccia già messa, e il cappello sugli occhi.
Aiutò prima Stella Martini, cortesemente, a mettere il mantello, poi aiutò Laura; in ultimo Anna.
Le fanciulle avevano certe mantelline di lana bianca orlate di piuma di cigno, fioccosa, alitante a ogni mossa, e sul capo dei veli di garza bianca, avvolti strettamente, messi all'orientale. Egli si fermò un momento a guardarle, quasi fosse un pittore.
– Dovreste farvi un ritratto così, care figliuole – disse. – Vi assicuro che state bene. Ve lo dice un centenario.
Laura sorrise, Anna abbassò gli occhi, turbata. E il suo turbamento aumentò quando vide che Cesare Dias, cortesemente e correttamente, offriva il braccio a Stella Martini. Che pazza speranza le era venuta di poter andar con lui? Egli aspettava che le fanciulle passassero innanzi; Anna prese, sospirando, il braccio di Laura e si avviò lentamente.
L'uscita da San Carlo, alla fine dello spettacolo, è sempre fatta mollemente, con brevi pause di aspettativa; non so quale stanchezza abbatte la folla, che va piano, portando in giro delle occhiate distratte e indifferenti. Le donne, scendendo, tutte imbacuccate, hanno perduto la svelta impazienza dell'arrivo; sembra che discendano, un po' malinconicamente, dal paese dei sogni in quello amaro della realtà. Abbassano il capo: il loro splendido sorriso è caduto; la fittizia lietezza è fuggita; ognuna ha ripreso il carico della sua pesante esistenza e lo sente di nuovo aggravarsi sulle spalle; in carrozza, a casa, lo troverà insopportabile. E coloro che le vedono passare, stando fermi in doppia ala, aspettandole, anch'essi nervosi e tristi, mordicchiando la sottile sigaretta, raccolgono un pallido sguardo, un pallido sorriso: essi stessi, amanti troppo felici che già sentono morire l'amore, amanti gelosi a cui un marito è tortura insoffribile, innamorati corrisposti ma contrastati da crudeli parenti, amanti non corrisposti, tutti, tutti, anche i gaudenti, anche gli scettici, anche gli esseri dalla brevissima vita sentimentale, sentono che un'ora cara è fuggita per sempre, e che quello è l'addio.
Sì, l'addio: la moglie va via col marito, la fanciulla va via col padre, tutte se ne vanno coi parenti, con chi ha diritto di accompagnarle: e chi ama e non ha diritto d'andare, resta sulla scala, a prendere lo sguardo smorto di addio, invidiando la carrozza che fugge, invidiando chi ha la felicità di passare la notte sotto lo stesso tetto, o nella stessa camera della donna che egli ama. Ah, si ha un bell'essere forti, saldi, contro le piccole e grandi traversìe, ma nulla più trafigge che il desiderio insoddisfatto, anche il più altamente spirituale. Talune donne, pietose, intendendo l'amarezza di questo addio, prolungavano di qualche momento il saluto, aspettando nel salone; altre, non reggendo alla nervosità, cercavano subito la carrozza, vi entravano rapidamente, senza volgersi indietro. Tutto questo si faceva correttamente e il dramma poteva parere anche una commedia, e la tristezza si poteva anche attribuire a stanchezza: solo chi amava, uomo o donna, sapeva. Le fanciulle Acquaviva, giusto, in piedi nel salone, aspettavano che il tutore trovasse la loro carrozza: egli tornò subito, aveva incontrato il servitore, la carrozza era lì, innanzi alla porta della sala.
Col cappello in mano, corretto sempre, egli aiutò a salire, Stella Martini, poi Laura, poi Anna; poi rinchiuse lo sportello. Nell'ombra, Anna si fece bianca come se svenisse. Tutto era finito, il minuto divino moriva, nella realtà; appariva già come ricordo, nella memoria.
– Fo una passeggiata, è una bella sera – spiegò lui. – Felice notte, signorine.
E si arrestò per far passare la carrozza. Nell'ombra una mano guantata di bianco si agitò, salutando debolmente. Mentre la carrozza correva, Anna ebbe un tale smarrimento, perchè egli non era venuto con loro, che si mise a baciare, nell'ombra, il ventaglio che egli aveva toccato. E la bella voce armoniosa di Laura, le chiese:
– No, non vi era – disse sordamente Anna.
– Come, non vi era?
– Per me, non vi era. È morto Giustino Morelli.
Laura fece una risatina breve. Anna aveva spiegato il ventaglio e lo teneva appoggiato sul viso, chiusi gli occhi, perduta nel sogno.