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I.
SUL TAMIGI.
Una grande pioggia flagellava Londra, in quel pomeriggio di dicembre. Invano il fumo di centinaia di migliaia di comignoli cercava di elevarsi nell'aria, combattendo contro quel diluvio di acqua che piombava dalle nuvole nere. Il fumo era disperso dalla pioggia e ricadeva sulle case, facendole, sui tetti, più nere, più umide, più sudicie.
Nelle vie popolose di Londra quel temporale non impediva che la gran circolazione si sviluppasse in tutte quelle strade e stradette: i veicoli e la gente andavano in giro, dovunque, sotto il flagello della pioggia. Mille tranvai, omnibus, carretti, carrozze di ogni forma, sbucavano da tutte le parti, fuggivano in tutte le direzioni: e i robusti grossi cavalli, avvezzi a quelle vie bagnate, non mettevano piede in fallo. I padroni giravano, avvolti negli impermeabili, col cappuccio rialzato sul cappello: alcuni sotto le lucide cappe degli ombrelli: tutta gente affaccendata ma non affannata, con quell'equilibrio che è la forza massima del carattere inglese.
Dove più ferveva il movimento era nei quartieri centrali della città, nella City, specialmente, dove nessuno si occupava se piovesse o no: e grandissimo era il movimento sulle rive del Tamigi, tutte coperte di edifici, di officine, di stabilimenti industriali. Il Tamigi scorreva nero e minaccioso, pieno di detriti di carbone, di olio, di immondizie, quali la colossale metropoli, di tre milioni d'abitanti, poteva rigettare nel suo fiume. Quelle acque brune e lucide erano attraversate da imbarcazioni di ogni sorta, da vaporetti, da lance, da zattere cariche di legna e di carbone. Strani oggetti venivano a galla, su quelle onde nere come quelle dello Stige; e l'affogare lì dentro, doveva fare più ribrezzo e più paura che in qualunque altro fiume. Eppure ogni giorno, vi sono otto o dieci inglesi che si buttano nel Tamigi: beninteso, alcuni vi cadono nello stato di ubbriachezza. E varie inglesi, anche, vi cadono ogni giorno, cercandovi la morte e il riposo.
Giusto, in quell'ora delle quattro, i due barcaiuoli che erano in vigilanza all'altezza del ponte di Westminster, videro qualche cosa di nero agitarsi sulla spalletta del ponte e cadere con un tonfo sordo, come una balla di roba, nel fiume. Erano troppo avvezzi a questi casi, i barcaiuoli del ponte di Westminster, per meravigliarsene e fecero forza di remi verso il posto dove si era gittato il suicida. Il palombaro che vegliava sempre con loro, si gittò nello stesso gorgo, con un'abilità straordinaria, e risalì a galla, dopo un minuto, portandolo attaccato al suo corpo, avvinghiato, col gesto disperato dei morenti, che non vogliono più morire. Era un uomo, ancora giovine e robusto, ma con un viso consunto evidentemente dai dolori e dalle privazioni; vestiva con pulizia, ma con panni logori da operaio caduto nella miseria. Non dava segno di vita, in fondo alla barca.
I barcaiuoli e il palombaro cercarono di farlo riscuotere, versandogli fra i denti stretti un poco di gin dalle loro borracce: ma il suicida non rinvenne. Poco lontano, era una casetta per gli asfittici, ma i barcaiuoli la trovarono chiusa: era domenica e il custode aveva creduto di festeggiarla, come ogni buon inglese. Interdetti, seccati di quel carico, malgrado che ad ogni suicida salvato essi guadagnassero una bella somma, essi risalirono verso il ponte di Westminster e discesi a terra, portarono seco quell'uomo esanime. Subito si fermò della folla in quella bellissima strada che rasenta il palazzo di Sua Maestà Britannica; e una voce si ripetè, fra la folla:
Pareva che non ve ne fosse neppure uno tra la folla e intanto l'uomo giaceva per terra, sempre svenuto, pallido, tutto intriso di acqua. Il grido di soccorso si ripetè:
Un elegantissimo cab che si avanzava tutto nero e azzurro, con filetti di argento, con un bellissimo cavallo baio, si arrestò, a un tratto: e un signore schiuse le due porticine di cristallo dell'hansom, scendendone, sotto la pioggia.
— Ecco il medico, — disse una voce sottile e fischiante.
La folla si separò subito, per dare il passo all'uomo dell'arte. Costui era piccolo e deforme; sotto la preziosa pelliccia di volpe azzurra che si arrovesciava nel colletto e nei polsi, si vedeva una gobba molto prominente. Anche il viso di quel medico era bruttissimo: scialbo, con pochi peli radi e incolori sulle guance smunte e sulle labbra. Quello che più colpiva in lui, era lo sguardo: uno sguardo di occhi verdi, lucidi e limpidi come il cristallo verde: uno sguardo acuto e penetrante che pareva dissolvesse il mistero di qualunque anima. Egli si accostò al suicida e lo fissò, senza chinarsi su lui. Domandò, ai barcaiuoli:
— Annegato?
— Sì.
— Disgrazia?
— Suicidio.
— Da quanto tempo?
— Che avete fatto?
— Ha bevuto?
— Sì, ma è restato così. —
Allora, con una grande tranquillità, senza cavarsi i guanti, senza sbottonare la sua ricca pelliccia, egli si curvò sul suicida e lo guardò a lungo. Nessuna espressione sul viso di quello strano medico. La folla lo guardava, stupefatta, sembrandole che ogni momento trascorso aggravasse lo stato di quel miserabile suicida, giacente là, per terra. Ma la meraviglia crebbe in tutti gli astanti, quando il medico si tolse lentamente i guanti mostrando due mani lunghe, magre, ossute e bianche: delle mani quasi cadaveriche, che facevano sgomento, come quegli occhi di cristallo verde.
— Alzatelo, — egli ordinò ai due barcaiuoli.
Costoro presero il suicida e lo tirarono su, tenendolo sotto le braccia. Allora, il medico gobbo dagli occhi verdi, appoggiò le due mani alle tempie del suicida svenuto e si chinò leggermente su lui, guardandolo. Costui non si mosse, ma parve che un leggiero rossore venisse a colorire le sue guance, mentre il suo corpo pesava ancora sulle braccia dei barcaiuoli.
Il dottore si staccò un minuto dall'annegato, levando le mani dalle tempie. Si vedeva che le labbra del gobbo si muovevano, come se tremassero o se parlassero, pianissimo. Di nuovo, si curvò sull'esanime e gli appoggiò le mani sulle tempie, parlandogli, adesso, nel volto, affrettatamente.
Allora, si vide una cosa strana. Lo svenuto mosse le braccia e le gambe, un poco: levò la testa, aprendo gli occhi, voltandoli in giro, ma come senza sguardo.
— Come vi sentite? — chiese il medico, in inglese.
— Bene, — disse il suicida, senza voltarsi a lui, a voce bassa e senza espressione.
Adesso, il medico non gli teneva più applicate le dita sulle tempie, ma gli aveva preso una mano e gliela carezzava, lentamente, fra le sue. La folla, stupefatta, malgrado che fosse inglese, si stringeva sempre più intorno all'operaio e al medico.
— Perchè avete fatto questo? — gli domandò il dottore, non lasciando di carezzargli la mano.
— Perchè ero povero, — disse il rinvenuto sempre a voce bassa e come se parlasse in sogno.
— Non potete lavorare?
— Non ho trovato più lavoro, da due mesi.
— Che fate?
— Il tipografo.
— Siete inglese?
— No, austriaco, galliziano.
— Cattolico?
— No.
— Protestante?
— No.
— Luterano?
— No. —
Un silenzio si fece. La folla, già un po’ diradata, guardava con diffidenza l'operaio che aveva tentato di morire. Il dottore si curvò all'orecchio del suicida e parve che gli facesse una interrogazione. Costui trasalì, spalancò anche più gli occhi e come se facesse uno sforzo per rispondere, disse:
— Sì. —
Il dottore represse un moto delle labbra. Poi, gli disse:
— Così. …
— Non posso.
— Provate, — insistette il medico, con voce imperiosa.
— Sono tutto spezzato, nelle ossa: debbo avere qualche cosa d'infranto, — gemette il suicida.
— Non avete nulla di rotto; anche se lo aveste, vi dico di camminare! — replicò con tono di dominatore, il medico.
Il poveretto, difatti, lamentandosi, fece uno sforzo e si levò; vacillava; lo sorressero. Il medico gli strinse di nuovo la mano, trattenendola un poco fra le sue e ordinò:
Difatti, l'uomo camminò. Oramai, la folla si era dileguata, sorpresa di questo medico che guariva la gente senza medicina e che la faceva camminare per forza. L'uomo, inconsciamente, camminava quasi addormentato.
— Sentite, — disse il medico richiamandolo. — Non avete nè denaro, nè casa?
— No: niente.
— Eccovi dei denari, — soggiunse il dottore aprendo la sua pelliccia e cavando una banconota dal suo portafoglio. — Venite a trovarmi. Come vi chiamate?
— Che avete detto?
— Non è possibile! — disse il medico impallidendo.
— Eppure così è, — mormorò il misero, con la sua voce monotona, di uomo che dorme e sogna.
— Sì: Henner.
— In via Huxley, numero diciannove. Ma verrò io, da voi, se permettete.
— Non cambierete casa, almeno?
— No, signore.
— Aspettatemi: verrò in via Huxley, — soggiunse affrettatamente il medico.
E prima di andarsene, donò del denaro ai due barcaiuoli che, oramai, erano restati i soli spettatori di quella scena. Però, prima di risalire nel suo cab, il dottore prese le due mani dell'operaio salvato, le tenne fra le sue un momento, parlando a voce pianissima e guardando negli occhi il giovane Angelo Henner. Costui si scosse, di nuovo, e senza parlare, senza salutare, riprese la sua via, come un'automa.
Il dottore risalì nell’hansom-cab e dette l'indirizzo di casa. Richiudendo le due porte a cristalli, tirò anche le tendine. Voleva rimanere un poco isolato, nella sua carrozza. Difatti, solo, una orribile angoscia si dipinse sul suo volto.
— L'ho salvato io! L'ho salvato io! — disse, parlando a voce alta, come uno che farnetichi.
Egli si passò due o tre volte la mano sulla fronte, quasi a discacciarne i pensieri gravi e dolorosi che lo offuscavano. Ma più scorreva il tempo e più il suo volto si imponeva, pensando allo stranissimo caso che gli era occorso.
— Lui! Proprio lui! Misero, senza lavoro, senza pane, suicida. —
E come un sottil velo di lacrime intorbidò quegli occhi verdi e cristallini. Marcus Henner quasi piangeva.
Quando l'hansom-cab di Marcus Henner giunse al superbo palazzo che egli abitava, in Broadway, il quartiere ricco e aristocratico, il volto del medico gobbo si era ricomposto, sotto uno sforzo di volontà. Egli aveva dominato tutta la interna angoscia, come era solito di vincere la volontà altrui. Solo, un resto di pallore rendeva più tetro il suo viso e più profondi i segni scuri, sotto gli occhi.
La veloce e fine carrozza entrò come una freccia sotto il maestoso arco del portone: il guardaportone dette un colpo sul gong indiano che era sul primo pianerottolo di marmo e il singolare suono si ripercosse per l'ampia scala, dove, in cima al primo piano, sotto una pesante portiera di broccato, erano immobili due staffieri, in livrea. Nella vasta anticamera tappezzata di un rosso scuro non vi era nessuno; in un alto caminetto ardeva un fuoco vivissimo e un'aura calda, eguale, carezzava il volto. Marcus Henner si fermò in anticamera, un minuto, come se pensasse qualche cosa: poi, decisamente, entrò in una seconda stanza. Anche questa era messa con un lusso principesco: ed era, viceversa, piena di gente che aspettava, seduta nelle poltrone, nei seggioloni, sui divani. Erano persone di tutte le età e di tutte le condizioni, vecchi, giovani, fanciulli, poveri e ricchi: per lo più delle facce pallide, dei corpi abbattuti, stanchi, delle fronti preoccupate e delle bocche senza sorriso. Erano i malati del dottor Marcus Henner che, da un'ora e mezzo, aspettavano pazientemente che rientrasse.
Appena egli apparve, molti fra coloro si levarono, cercarono di prendergli la mano, di parlargli, di raccontargli una parte delle loro miserie: fra cui una donna smorta, magra, con una bocca dolente e livida. Ma egli, senza salutare, senza fermarsi, attraversò quella sala, chiuso nella sua pelliccia, con un'aria di persona che non veda e non senta nulla. La porta si richiuse dietro a coloro che vi si accalcavano, e, attraversando altri due salotti deserti, si trovò nel suo studio.
Ampio, austero, tutto in legno scolpito, lo studio era illuminato da un vasto finestrone che dava sopra una serra, dove erano coltivati i fiori più rari; intorno intorno, vi erano delle grandi librerie di quercia zeppe di libri, di grossi libri per lo più legati in pergamena, con certe cifre strane, in rosso o in azzurro. La grande tavola da scrivere era coperta di libri e di carte; un enorme calamaio di cristallo di rocca era aperto, sulla tavola. Del resto, nessun istrumento medico, nessuna fiala, niente, proprio niente che rammentasse la professione che Marcus Henner esercitava. Solo, contro il finestrone, vi era un seggiolone di cuoio nero, messo in tale luce che chi vi si sedeva, la riceveva tutta sul volto. Viceversa, Marcus Henner sedeva presso il tavolino, in penombra.
In quel giorno, giunto nella stanza da studio, egli si tolse i guanti e la pelliccia, gittandoli sopra un divano: e si lasciò cadere sopra una sedia, come sfinito. Ma anche questo sfinimento durò poco. Marcus Henner si rialzò e, andando verso il muro, toccò un campanello.
Nella parete di contro, si schiuse una porta segreta che era perfettamente mascherata e apparve un uomo, vestito di nero, con una cravatta bianca, un tipo fra il notaio e il maggiordomo. Era magro, alto, allampanato: due fedine bianche bianche, accuratissime, incorniciavano il suo viso. Gli occhietti grigi avevano una grave vivacità. Stette ritto in mezzo alla camera, senza parlare, aspettando che Marcus Henner gli dirigesse la parola. Costui, ora, stava seduto al suo solito posto e pensava.
— Lewis, che vi è di nuovo? — disse, infine.
— Interrogatemi, Eccellenza; e vi dirò.
— Lettere?
— Varie.
— Da dove?
— Dall'Austria, dalla Germania, dal Belgio.
— E. … nulla dall'Italia?
— Nulla.
— È strano!
— È stranissimo, Eccellenza.
— Bisognerebbe mandare qualcuno, colà.
— Vostra Eccellenza dovrebbe andare.
— Non posso, — disse Marcus Henner, reprimendo un moto di collera.
— Allora, io.
— Neppure: ho bisogno di te.
— Allora, nessuno.
— Nessuno! Purtroppo, nessuno, — disse Henner.
— Debbo telegrafare?
— No, mai. Ti dirò, poi. È venuto nessuno?
— L'anticamera è piena di gente.
— Ho visto: non voglio ricevere nessuno, oggi.
— Eccellenza. … è meglio ricevere.
— No.
— Vi è qualcuno che può interessarvi.
— Sì?
— Allora riceverò tutti.
— È arrivata gente dalla Russia.
— Poveri?
— Sembrano.
— Fa dar loro da mangiare, da dormire; li vedrò questa notte. —
Seguì un silenzio. Si vedeva che Marcus Henner, pensoso e preoccupato, voleva chieder qualche cosa, ma non si decideva. Poi, si decise.
— E. … Maria? —
Lewis aprì le braccia, con un atto desolato.
— Sempre lo stesso umore?
— Sempre.
— Non cede?
— Non cederà mai, mai. Morirà piuttosto, — disse Lewis, con una certa forza.
— Non voglio che muoia, — disse Henner, con voce lenta.
— Sapete che ha tentato di morire.
— Lo so. Che ha fatto, stamane?
— Ha pregato, molto.
— Inevitabile! E poi?
— Ha scritto.
— Sempre quel suo giornale?
— Sì: sono delle lettere, come sapete.
— Dirette alla stessa persona?
— Alla stessa.
— È terribile! — esclamò Marcus Henner.
— Che cosa ella fa di queste lettere? — disse Marcus Henner, appoggiando la fronte alla mano e come interrogando sè stesso.
Lewis fece un cenno largo, con le braccia.
— È possibile che non si ritrovino? — soggiunse il dottore gobbo, sempre come se parlasse a sè stesso.
— Vostra Eccellenza, se volesse. …
— Io? Io?
— Vostra Eccellenza può tutto, — disse, con tono umile, il maggiordomo, che era, allora, in funzioni di confidente.
Il gobbo crollò il capo, senza rispondere. Poi, riprese:
— Queste lettere si dovrebbero ritrovare. …
— Sei certo, Lewis, che ella non le imposti?
— Come lo potrebbe? O voi, o io, o Giustina, le stiamo sempre vicini.
— Abbia corrotto qualcuno?
— Indagherò, ma non lo credo. Tutti qui sono legati a voi.
— Ma non mi amano!
— Vi temono e vi rispettano.
— Ma non m'ama nessuno! — replicò, con amarezza, Marcus Henner.
— Io sono sinceramente devoto, Eccellenza, — protestò.
— La devozione è un sentimento diverso dall'amore, Lewis, — disse il gobbo. — E dire che ho, anche io, un cuore! —
Un velo di lacrime appannò i cristallini occhi di Henner. Ma egli si scosse subito e disse a Lewis:
— Conosci un uomo svelto e fidato, per una missione delicata?
— Sì. … avrei qualcuno. Ma debbo cercarlo.
— No: ho qualche traccia.
— Cercalo subito.
— Subito. E dopo?
— Me lo condurrai.
— Posso chiedere che missione avrà?
— Ah!
— Desidero che tutti i monasteri, tutti i conventi, tutti i ritiri sieno visitati, per ritrovare le tracce di Rachele Cabib.
— Per alcuni vi è clausura.
— S'infrange.
— Sarebbe grave, Eccellenza.
— Altre cose gravi abbiamo fatte!
— A Vostra Eccellenza è permesso tutto.
— Ritengo che Rachele ci sia stata sottratta dai suoi sentimenti religiosi, e che si sia data al Signore.
— Eppure, si è cercato bene. …
— Non bene, — disse duramente Marcus Henner.
— Suo padre va ramingando di paese in paese.
— Il vecchio è imbecillito. Trovami quest'uomo, Lewis. Lo pagherò bene.
— Un poliziotto, Vostra Grazia.
— Sta bene. In secondo, avere notizie e subito della contessa Clara Loredana.
— In viaggio. …
— Sì, ma dove si trova, ora, che cosa fa, perchè non si decide, che aspetta? Sapere questo!
— Scrivere?
— No, mai. Mandare qualcuno, appena saputa la sua direzione.
— Vincent?
— Sì.
— Istruzioni larghe?
— Larghissime.
— Altro?
— Tenersi pronti a partire, — disse Marcus Henner, dopo aver pensato un poco.
— Partire?
— Sì.
— La signora. …
— Vostra Eccellenza sa farsi obbedire, ma la signora ne soffrirà.
— Non importa.
— Quando andò via dall'Italia, che pianto!
— Piangerà ancora. Le donne sono fatte per piangere, — e la sua voce era sempre più dura.
— Poveretta! — disse Lewis, quasi involontariamente.
— La compatisci? La compatisci? — disse Marcus Henner, levandosi con ira.
Lewis tacque, abbassando gli occhi.
— Va via, — gli disse il padrone.
— Vostra Eccellenza mi perdoni. … — balbettava.
— Nessuno ama quella disgraziata. … — mormorò Lewis.
Il maggiordomo escì, senza osare di aggiungere altro.
Il dottore restò tutto pensoso, dopo la scomparsa di Lewis. Certo, rimescolava in sè i più strani pensieri, giacchè l'espressione del suo volto si mutava sempre. Infine, si levò da sedere e andò a una libreria, cavandone uno dei grossi volumi in pergamena; lo appoggiò sopra un leggìo, alto quanto la sua deforme persona, e lo sfogliò. Lesse qualche foglio, in piedi, ritto innanzi a quel mobile; aveva la testa appoggiata alla mano, come se meditasse, anche. Lasciò il libro e si avvicinò di nuovo al tavolino da scrivere.
Da una cassaforte, perfettamente dissimulata nel muro, come era la porta per cui era entrato Lewis, egli, col capo nascosto nel vano, cavò fuori un sottil foglio di pergamena gialla come quella del volume, un pennellino e una fialetta piena a metà di un liquido rosso.
Lentamente, cominciando dal piede del foglio e andando da destra verso sinistra, egli cominciò a scrivere, cioè a dipingere dei caratteri, col pennellino, su quella pergamena: e tutta la sua attenzione si portava sulla sua opera, i suoi occhi verdi scrutavano quel foglio, quelle parole vergate. Ogni tanto bagnava il pennellino nel liquido. Pareva sangue. Mentre scriveva, fu bussato alla porta dello studio, pian piano.
— Avanti, — disse Marcus Henner, neppure levando la testa dalla pergamena che stava miniando.
Un cameriere entrò, in grande livrea.
— Che vuoi, John?
— Vi è molta gente, fuori, Eccellenza: e aspetta da gran tempo.
— Non voglio veder nessuno, oggi.
— Eppure Vostra Eccellenza ha dato una quantità di appuntamenti per oggi.
— È vero; manda via tutti quanti.
— Eccellenza. …
— Che è? Non replicare!
— Vi è quella povera signora. … Mistress Jackson, quella infelice, così bella, così giovane e così malata.
— Inguaribile, — disse Henner, abbassando di nuovo il capo sulla carta.
— Anche per voi, Eccellenza?
— Anche per me!
— Voi che potete tutto?
— Voi non siete un medico come tutti gli altri, — disse John, guardando il suo padrone con occhio di ammirazione.
— È vero, — disse Henner — ma non posso guarire mistress Jackson.
— Poveretta!
— T'interessa tanto?
— È una mia cugina, Eccellenza.
— Tu l'ami?
— No, Eccellenza, ma le voglio bene come a una sorella. Fatela entrare, ve ne scongiuro!
— Ma perchè?
— Perchè non crede che in voi, perchè solo voi potete aiutarla a sopportare i suoi mali! … È un'opera di carità.
— Debbo ingannarla, dunque?
— In carità, Eccellenza!
— E gli altri?
— Anche!
— Anche lady Clarence Blackwood?
— Anche, anche! Solo mistress Jackson, perchè è una tua protetta.
— Chiedetemi la vita, Eccellenza, e ve la darò.
— Te la chiederò, forse, un giorno, — disse Marcus Henner abbassando di nuovo il capo sulla sua pergamena.
Aveva da scrivere ancora qualche poco, poiché quando si bussò di nuovo alla porta, non a quella segreta, ma a quella da cui era entrato ed escito John, egli disse di entrare, senza levare il capo. John entrò innanzi e dietro a lui una giovane donna, semplicemente vestita di nero.
Ella si sedette, con aria stanca. Era bianca bianca, con una carnagione perlacea fine: le venucce azzurre si disegnavano penosamente sulle tempie, sul collo, persino intorno alla bocca. Pareva che, mettendo una candela dietro il suo volto, esso si rendesse trasparente. Era magra, con certi grandi innocenti occhi azzurri e certe labbra pallidamente rosee: era bellina, carina, con un'aria di gioventù fragile e malaticcia. Vestiva con semplicità, ma decentemente: teneva le mani inguantate, incrociate in grembo. John che l'aveva introdotta, in silenzio, se ne era andato via egualmente, mettendosi un dito sulle labbra, per raccomandarle di tacere, fino a che Marcus Henner avesse finito di scrivere. Difatti, ella attese pazientemente. Egli scrisse ancora, con quei suoi strani caratteri rossi, sulla pergamena: aspettò che si asciugassero e ripose il foglio in una cartella di pelle che chiuse a chiave. Poi, levò il capo:
— Ebbene, mistress Jackson? — disse con voce conciliante.
— Signor Henner. … — disse quella, con una voce debole e velata, dove tutta la strada della tisi si rivelava.
— No.
— Avete avuto qualche altro fenomeno?
— Nessuno: ma sono malata, dottore, molto malata.
— Non vi fissate. Voi state meglio.
— Dottore, io morirò di questo, se non mi aiutate, — ella disse, cercando dar forza alla sua povera voce.
— Voi non morrete e io non posso, non debbo far altro, — mormorò Marcus Henner, guardandola fissamente, come per calmarne l'agitazione.
— Morrò, se non mi aiutate, — replicò ella, con la ostinazione dei malati.
— Che volete da me, mistress Jackson?
— Non voglio morire, ecco!
— Ho bisogno di vivere, dottore!
— Avete una famiglia numerosa?
— No, solo mio marito.
— Senza figliuoli?
— Senza, per grazia di Dio! Sarebbero tisici, pensate, come me, come mia madre! No, no. Mai questa tortura ad altri esseri viventi, a innocenti! Ma voglio vivere, per lui!
— Chi è questo lui?
— Lo amate tanto?
— Lo adoro.
— E vi ama?
— Mi adora! — e aveva detto ciò col singolare ardore che mettono gli etici in queste cose dell'amore.
— Possibile, che vi adoriate tanto! — disse Marcus Henner con un sogghigno.
— Oh tanto! — esclamò la poveretta, congiungendo le mani.
— Esiste, dunque, l'amore? — chiese Marcus Henner, a voce bassa.
— Esiste: voi non ci credete? — domandò timidamente la tisica.
— No.
— Non siete mai stato amato? — disse l'altra.
— Mai, — rispose lui, recisamente.
— Come è possibile? Voi così pieno di talento e di cuore? Voi, il grande medico? Voi, il grande scienziato?
— Mai, mai, — replicò lui, abbassando la testa sul petto.
— Le donne non hanno cuore, — mormorò Elisa Jackson, a voce bassa.
— Sono brutto, sono deforme. … — disse lui, con tono triste.
— Non conta! Siete un salvatore dell'umanità, siete il Maestro! Ah salvatemi, ve ne scongiuro! — disse Elisa, con le lagrime agli occhi.
— Mia buona mistress Elisa, la vostra immaginazione è più malata del vostro corpo, — disse Marcus Henner, alzandosi e venendo a lei.
— Guarite il mio corpo e la mia fantasia guarirà subito, — replicò la tisica, ostinatamente.
— Non pensate tanto, — disse Henner, a voce bassa, prendendo una mano della signora Jackson e carezzandola.
— Vorrei. … — disse costei, a voce bassa come quella del medico.
— Bisogna pensare di non aver nulla, di stare perfettamente bene, di essere giovane e bella, per mister Emilio Jackson. … — riprese, lentamente, con voce che s'insinuava singolarmente, Marcus Henner.
Adesso, lo strano dottore gobbo aveva preso ambedue le mani di mistress Elisa Jackson e vi passava le dita sopra, con una carezza lenta e molle. Costei socchiudeva gli occhi, un poco, come se cadesse in un sopore, ma li riapriva subito: il bell'azzurro delle pupille nuotava in un grande languore.
— Come vi sentite? — le disse, piano, all'orecchio, il medico gobbo, sfiorandole la guancia con l'alito.
— Meglio, — ella disse, con gli occhi socchiusi.
— Credete di esser guarita? — replicò Marcus Henner, parlandole nel volto, con voce bassa, ma imperiosa.
Una singolare espressione di contrasto si manifestò sul viso di mistress Elisa Jackson. Pareva che una metà del suo essere acconsentisse a quello che diceva il dottore e che un'altra metà vi si opponesse. Non rispose. Una pena estrema agitava quel corpo e quel viso.
Allora il medico le si sedette dirimpetto, con le sue ginocchia contro le ginocchia della donna mezzo addormentata, guardandola coi suoi occhi cristallini e verdi, applicandole, a intervallo, le sue mani scarne e ossute sulle tempie.
A poco a poco, il senso d’inquietudine che regnava sulla fisonomia di Elisa Jackson si venne dileguando: ella chiuse gli occhi e una serenità le si diffuse sul volto. Allora, Marcus Henner si staccò un poco da lei e la guardò, con occhio d'ammirazione.
Immersa in quel letargo, Elisa Jackson era veramente graziosissima, con la testa un po’ inclinata sopra una spalla; il gentile volto era bianco come un giglio e un leggiero colorito roseo vi saliva, a traverso la finezza della pelle. La bella bocca, un po’ pallida, era schiusa sui denti bianchi e lucidi; e quasi sorrideva.
Stette qualche tempo, Marcus Henner, a guardare quella donnina, presa oramai completamente dal sonno ipnotico. Poi, le riprese le mani. Elisa Jackson gliele strinse lievemente e il sorriso delle sue labbra aumentò:
— Emilio, Emilio, — disse, con voce fioca e tenera.
Il viso di Marcus Henner si contrasse, quasi una emozione invincibile lo dominasse. Due volte, il suo viso si chinò sul viso della dormiente, ma se ne staccò subito.
— Emilio, ti amo, — mormorò la ipnotizzata, sorridendo sempre più.
Allora l'espressione singolare del viso di Marcus Henner si accrebbe. Non resistendo, si curvò su Elisa Jackson e la baciò lungamente sulla bocca. Appena si sollevava da quel bacio, con gli occhi lampeggianti di desiderio, che fu bussato alla grande porta.
— Chi è? — disse, con voce malferma.
— Io, John.
Il cameriere entrò, e subito vide l'addormentata, in dolce atto, così bella e gentile.
— La state guarendo, è vero, Eccellenza? — disse il servo.
— Almeno, crederà di esser guarita, — mormorò Marcus Henner.
E si accostò alla dormiente, prendendole novellamente le mani. Pareva calmissimo, ora; ma i suoi occhi verdi, ogni tanto, lampeggiavano.
— Dottore?
— Mi sentite?
— Sì.
— Mi comprendete?
— Sì.
— Volete obbedirmi?
— Sì.
— Dormirete, qui, un altro quarto d'ora.
— Sta bene.
— Quando vi sveglierete, io non vi sarò. Ve ne andrete via, convinta di non avere nessun male.
— Se durante i due giorni in cui dovrà durare l'obbedienza, vi viene in mente di esser malata, scaccerete questo pensiero.
— Sì.
— Direte a vostro marito e a tutti, di sentirvi benissimo.
— Sì.
— Tornerete qui, fra due giorni.
Tutte le risposte erano state date con voce precisa e chiara. Il medico strisciò ancora una volta le sue mani lungo le tempie di Elisa Jackson e poi la lasciò. John lo guardava in atto di profonda ammirazione.
— È un miracolo, un vero miracolo, — mormorò.
— Dio è grande, — rispose il dottore, a bassa voce.
Poi, andò a riprendere il foglio di pergamena scritto tutto di sua mano.
— John, — disse — io vado di là, dalla signora Maria. Tu resta qui, sino a che Elisa Jackson sia risvegliata: l'accompagnerai fuori. Se vengono lettere, telegrammi, posali sul mio tavolino.
— No, per nessuna ragione. —
Marcus Henner introdusse una chiavettina in un fregio di legno, ad altezza di uomo, nella sua libreria e un pezzo di questa si aprì, come una porta: egli sparve colà dentro e alle sue spalle la falsa libreria si richiuse. Egli si trovò nell'anticamera di un vasto e sontuoso appartamento; era deserto e così deserti tre o quattro saloni, ammobiliati con un lusso principesco, pieni di quadri preziosi, di fiori rari, di oggetti d'arte di prim'ordine. Però, tutto questo era un po’ freddo, come se la mancanza di una donna influisse a dare a quel lusso un aspetto glaciale. Con lo stesso passo eguale, Marcus Henner attraversò una serra a cristalli, ricca di piante d'ogni paese, tutta velata di leggierissimi stoini, con tre e quattro voliere di uccelli. Poi, penetrò in una stanza da letto, anche essa deserta.
Quella stanza da letto era vasta, con due ampie finestre, tutte velate ermeticamente di bianco. Le pareti erano coperte da una singolare stoffa di raso bianco dove correva un sottile e lucido disegno a fili d'argento; identici erano gli elegantissimi mobili in legno stuccato di bianco, con qualche filo d'argento; il letto, basso, era coperto da una meravigliosa coltre di merletto di Venezia su trasparente di raso bianco; sul tappeto erano gittate delle bianche e morbide pelli d'orso bianco. Tutto era candido e tutto era argenteo, in quella camera, degna di una regina; i candelabri, lo specchio, tutto il servizio di toilette era in argento, un delicato lavoro di arte; i mille oggetti sparsi dappertutto, armonizzavano col candore della camera.
Lo strano era che in quella stanza, dove, evidentemente viveva una donna, non corresse il soffio di un profumo, non un fiore fosse immerso nell'acqua di un vaso. Mancava, singolar cosa, qualunque immagine a capo del letto; non una figura di madonna, non un crocifisso, non una piletta, nulla. E un'altra bizzarra cosa vi era in quella camera. I grandi finestroni erano triplicemente velati, di seta bianca, di merletto e di certe larghe tendine di raso ricamato in argento, tanto che non si sarebbe mai nulla potuto vedere, di fuori, di quello che accadeva nella stanza; più, a osservare bene, quei cristalli erano fissi. Era un carcere, dunque, la camera di quella regina assente?
Marcus Henner si trattenne un poco in quella camera: aveva le sopracciglia aggrottate, come uomo che pensi troppo a un soggetto che gravemente lo affanni. Girò lo sguardo intorno intorno, e un amaro sorriso gli sfiorò le labbra. Attese un minuto e poi si accostò a una parete, sollevando una portiera che la ricopriva; vi era una piccola porta, dietro. Tentò la maniglia, ma la porticina resistette, come se fosse chiusa a chiave.
— Sempre così, — disse, a mezza voce, Marcus Henner.
Bussò, piano, con le dita, una sola volta. Nessuna voce rispose, dall'interno. Un profondo sospiro sollevò il suo petto ed egli bussò ancora, un po’ più forte. Nulla!
— Maria! — egli disse, piano, curvandosi al buco della serratura.
Nessuna risposta.
— Maria, Maria! — ripetè lui, più forte.
Nessuna risposta.
— Maria, perchè non mi rispondete? — disse lui, parlando sempre presso il buco della chiave.
Niente, niente.
— Debbo io infrangere la porta? Sapete che posso farlo! — esclamò lui, con una voce dove fremeva l'ira repressa.
Un passo si udì; qualcuno si avvicinò alla porta.
— Maria, aprite! — disse Marcus, imperioso.
Una voce debole, rispose, di dentro:
— No, — rispose la voce fioca.
— Eppure vi vedrò, vi parlerò.
— Lasciatemi in pace! — mormorò la voce stanca e fievole.
— Non voglio turbare la vostra pace; debbo parlarvi, apritemi.
— Non voglio, — mormorò la voce, tristemente, ma fermamente.
— Vorrete!
— No.
— Maria, a che vi opponete? Siete in mio potere, lo sapete.
— Non aprirò.
— Non oggi, ma questa sera; non questa sera, domani. La mia pazienza è più forte della vostra resistenza. —
Un gemito si udì, dall'altra parte. Chi avesse bene guardato Marcus Henner, lo avrebbe visto impallidire, a quel lamento.
— Maria! Maria! — chiamò ancora, a voce bassa.
— Non siete andato ancora via?
— Non andrò. Aspetto che mi apriate. Fatelo, non voglio tormentarvi. Debbo dirvi qualche cosa che vi preme.
— Qualche cosa che mi preme? — disse la voce muliebre, diventata un po’ più forte.
— Sì.
— Che cosa?
— Voi m’ingannate.
— Non v’inganno.
— Siete maestro in tranelli, Marcus Henner, — replicò la voce femminile, improvvisamente irata.
— Maria! Apritemi; vi ho da parlare. …
— Di che? Di che?
S'intese un lieve scricchiolìo della porta, come se un corpo che vacillasse vi si fosse appoggiato.
— Io non amo nessuno, — mormorò la voce, diventata di nuovo debolissima.
— Il solo!
— Sì, il solo. Io ne ho notizie.
— Avete notizie? — la voce tremava tanto che quasi balbettava.
— Sì, aprite. —
Vi fu un minuto di silenzio. Poi la chiave stridette nella serratura e la porticina si aprì. Marcus Henner entrò nella stanza di cui, sino allora, gli era stato vietato l’ingresso. Era una camera piccola, in paragone dell'ampia stanza da letto a cui era accanto; anche la sua sola finestra era velata di bianco, fittamente, e le imposte non avevano maniglia.
Del resto, la più nuda, la più povera semplicità regnava in quell'ambiente. Le pareti non avevano nè stoffe, nè carta da parati: erano dipinte di bianco di calce, senz'altro.
Un piccolo letto di ferro, come quello di una educanda, formava il mobile principale; si componeva di un sol materasso e di un sol cuscino, con una coltre di lana rozza. Sul pavimento non vi era tappeto; l'ammattonato era nudo e freddo. Vi era un tavolino da scrivere, un armadietto che formava anche scansia da libri, un inginocchiatoio e due sedie, niente altro. Sull’inginocchiatoio di legno semplice era un crocifisso: sopra, sul muro, sospesa una immagine della Vergine. E sul cuscino era appoggiato un libro pio, che la donna aveva lasciato aperto, l'Imitazione di Cristo.
La persona che aveva aperta, così a malincuore e pure così ansiosa, si teneva ritta, presso l'inginocchiatoio da cui si era levata. Era tutta vestita di lana bianca, con una veste ad ampie pieghe, dal collo sino ai piedi, claustrale; era una donna alta e snella, ma, attraverso le molli pieghe della sua ieratica veste, il corpo non arrivava a delinearsi. Sul viso ella portava una espressione di orrore e di affanno. Marcus Henner guardò quella donna con occhi pieni di amore e di ira.
— Maria, Maria, perchè mi fate questo? — le chiese, avanzandosi verso lei.
Ella si arretrò, sino al muro, dicendogli:
— Non vi accostate!
— Non temete, non mi avvicino, — disse amaramente il medico.
— Se vi avvicinate, sapete bene quello che farò, — disse Maria, con tono fermo, malgrado la fievolezza della sua voce.
— Voi vi uccidereste? Voi, una così ardente cristiana? — ghignò Marcus Henner, guardando il crocifisso con occhi biechi.
— Morirei per la mia fede e Dio mi assolverebbe, — disse la donna subitamente esaltata.
— Maria, non voglio farvi nulla. Calmatevi.
— Ditemi quello che dovete dirmi e andatevene, — dichiarò lei, aggrottando le sottili sopracciglia nere.
— Mi scaccerete voi sempre? — mormorò Henner, passandosi la mano fra la chioma incolta.
— Sempre.
— Vi faccio paura?
— Come l'altra, — disse, pianissimo, Marcus Henner.
— Che dite?
— Nulla. Mi lagno del destino.
— Siete voi, che volete forzare il destino, Henner, — disse la donna, con voce più tranquilla.
— Io vi amo da quindici anni, Maria! — esclamò il gobbo, con gli occhi a un tratto fosforescenti.
— Allora come adesso, è inutile, — diss’ella, quietamente, crollando il capo.
— Morirò io senz'avere una parola di bene, da voi?
— Di carità, sì: di amore, mai, — disse la donna, a occhi bassi.
— Non so che farmene, della vostra pietà. Io voglio il vostro amore.
— Per me, avete sempre venti anni.
— E di un'altra, — ghignò il gobbo.
— Sì, — disse la donna. — Non volevate parlarmi di lei?
— Io? Volevo parlarvi di me.
— Mi avete ingannata, dunque? Per entrare qui dentro? Per torturarmi con la vostra presenza?
— Maria!
— Io ho bisogno di stare sola con Dio! Andatevene!
— Maria, Maria, non mi spingete agli estremi! — mormorò il gobbo.
— E che? Mi uccidereste?
— No.
— Che cosa, allora?
— Nulla, Maria, ma non mi mandate via, così.
— Che volete?
— Uno sguardo, un sorriso, un bacio! — disse Marcus Henner, accostandosi a lei.
— Mai, mai!
— Siate buona, io vi adoro, — e le si avvicinava e cercava di prendere una mano.
— Non mi toccate! — gridò lei, stringendosi al muro, con un senso di alto ribrezzo.
— Ma che vi ho fatto, dunque, io? Che vi ho fatto? Perchè siete così ingiusta e crudele? — gridò Marcus Henner.
— Avete voi dimenticato? — ella disse, a voce bassa, guardandolo negli occhi.
E fece un gesto, come se volesse svolgere la sua persona dalle pieghe del suo vestito, fluttuanti. Egli rabbrividì.
— No, no! — gridò, fermandola, con le mani distese.
— Che temete? Sono un povero essere senza difesa, — ella disse, avanzandosi verso lui, levando la mano.
— Per pietà, Maria! — gridò lui, arrestandola.
— Il vostro delitto vi fa dunque inorridire? — chiese lei, lentamente.
— Sì, — disse lui, a capo basso, a occhi chiusi.
— Ve ne pentite?
— Sì.
— Perchè lo commetteste?
— Per amore.
— Oh, Dio, tu lo ascolti! — ella pregò, levando gli occhi.
— No, Maria.
— Solo lui può perdonarvi, può darvi la pace. Pregatelo.
— Mi dovrebbe dare il vostro amore.
— No. Egli non può permettere un sacrilegio!
— Quale sacrilegio?
— Voi siete un empio, un ebreo.
— Non disprezzate il Dio d'Israele: era il vostro!
— Era!
— Fatale, maledetto giorno! — bestemmiò lui.
— Parlatemi di lei, — disse a un tratto, la donna.
— Di lei? Non so nulla. …
— Non è morta.
— Voi mentite, essa è morta; voi mentite per trattenermi in vita!
— Ma dove è?
— Non lo so.
— Cercatela!
— La cerco, — disse lui, sorridendo amaramente.
— Trovatela!
— E mi amerete? — mormorò Henner, accostandosi a lei.
— Pregherò per voi.
— Non mi basta.
— Sia in capo al mondo, la troverò, — disse lui cupamente.
— Preme anche a voi?
— Dio! — diss’ella, impallidendo di gioia. — E quando l'avrete trovata, che farete? — chiese Maria, avanzandosi di nuovo verso Marcus Henner.
Costui tacque: aveva abbassata la testa sul petto, come sotto il peso di un grave pensiero.
— Marcus Henner, che farete voi di lei? — ripetè la donna, con voce più forte, con accento più vibrato.
— Nulla, Maria, nulla! — esclamò il gobbo, con accento desolato.
— La condurrete voi a me?
— Se vorrà venirci!
— Credete che si neghi di venire da me?
— Negherà di venire, con me!
— E perchè, Marcus Henner? — domandò Maria, che aveva preso l'aspetto di una vera inquisitrice.
— Non me lo chiedete!
— Dite il perchè! Voglio saperlo: debbo saperlo.
— Ella mi odia, — confessò Henner, a voce bassa, con collera e con dolore.
— Come me!
— Come voi.
— Quanto me? — disse Maria, guardando negli occhi verdi il deforme.
— Non so. … più, forse! — disse lui, con la faccia fra le mani.
— Di più, è impossibile, — ella rispose, piano, lampeggiando dai bruni occhi, in cui era scomparsa la natìa dolcezza e il languore.
— Tanto, tanto, mi odiate? — gridò lui, avanzandosi presso Maria.
— Enormemente.
— E siete buona? E siete una cristiana?
— Ogni giorno chiedo perdono a Dio di questo peccato, mi umilio, mi pento; ma subito, rifaccio il peccato.
— Ma che vi ho fatto, infine, che vi ho fatto?
— E lo domandate? E osate domandarmelo?
— Voi adoravate un'altra.
— Voi, sempre voi, ebrea, cristiana, a quindici anni, a venti, a trentacinque, vi ho adorata, Maria.
— Io amava un altro uomo e voi mi avete tolta a lui!
— Egli è morto, — disse Marcus Henner, tetramente.
— Morto, morto, il mio amore! — gridò Maria con accento di disperazione.
— I morti non risorgono, — replicò Henner, guardando Maria negli occhi.
— Morto per voi!
— Io non l'ho ucciso, — disse, a voce bassa, Marcus Henner, mentre ancora i suoi occhi fissavano quelli di Maria, con una intensità profonda.
— Osate negarlo? Egli osa negarlo! Oh Dio, voi lo ascoltate, dunque?
— Non l'ho ucciso, — ripetè Henner.
— Voi siete un assassino, Marcus Henner. Voi avete teso a Jehan Straube il più orribile tranello, ed egli vi è caduto. —
— Oh Jehan, Jehan, amore mio! — diss'ella, singultando — tu hai creduto alla mia morte.
— Egli vi credette, infatti, — mormorò Marcus Henner, con un sorriso feroce che non seppe padroneggiare.
— Vi credette! Tu, tu, mostro, gli facesti vedere che io era morta.
— Egli lo vide, io non lo ingannai.
— Scellerato, scellerato! Tu commettesti un'infamia, adoperando la tua terribile arte di medico, che il Nemico degli Uomini ti ha insegnata. …
— Maria, io sono un Maestro; tutto mi è dato di fare!
— Non tutto, — ella disse.
— Tutto.
— Non già farti amare da chi ti odia, — diss'ella, guardandolo con occhi di sfida.
— Non già avere una donna che ti si rifiuta! — ella gridò, al colmo dell'eccitamento.
— Maria! — gridò lui, con tale espressione spaventosa, negli occhi, che ella si arretrò.
— Dio è grande, Dio è giusto, Dio è buono, — esclamò lei.
Un atroce sghignazzìo uscì dalle labbra di Marcus Henner.
— Jehan Straube è morto, ma tu non mi hai avuta, ma io ti odio! Quindici anni di carcere, è vero, ma l'odio, sempre l'odio: quindici anni di viaggi, di fughe, di dimore nei paesi più lontani e più strani, quindici anni senza casa, senza patria, senza nessuno di coloro che amo, in tuo possesso, ma non tua, mai, mai! —
Il gobbo non faceva che guardarla, ora.
— Tu mi dài un appartamento regale, dei servi, delle schiave, dei vestiti magnifici, dei pranzi sontuosi, ma io disprezzo le tue ricchezze e il tuo lusso, venuto da vie diaboliche. Ma io non dormo nelle stanze principesche che tu mi prepari, io mi contento di una cella monacale; io non indosso le stoffe di velluto e di seta che tu mi doni, mi basta una veste di lana bianca; io non comando ai servi e alle schiave, poichè esse sono le tue spie! —
Marcus Henner guardava Maria. La voce già forte, di lei, sul principio di queste invettive, si era venuta abbassando, come se le mancasse il fiato e l'anima. Ella che fissava sempre con coraggio Marcus Henner, adesso, ogni tanto, abbassava le palpebre, come se fosse stanca. Due o tre volte ella vacillò, come se cadesse, e con uno sforzo, tentò di reggersi, tentò di riprendere il suo discorso:
— Tu puoi carcerarmi. … puoi circondarmi di spie. … puoi vegliare su me, come sopra un condannato a morte. … non mi avrai. … non ti amerò. … —
Ma già, sotto la potenza dello sguardo di Marcus Henner, ella balbettava: uno smarrimento strano si dipingeva nei suoi occhi che, a volte, erano socchiusi, come se non potessero reggere le palpebre sollevate, a volte si spalancavano, stralunati, come se vedessero un orribile spettacolo. Adesso, Marcus Henner concentrava tale una forza di volontà nel suo sguardo che ella chiuse gli occhi e sarebbe crollata, se egli non si fosse trovato pronto a sostenerla. Due o tre volte, mentre egli le passava lentamente le dita sulle tempie, una espressione di dolore si manifestò su quel volto. Ma subito si diradava.
Ma, di nuovo, egli strinse fra le sue mani fredde e scarne la fronte di Maria che era immersa nel sonno ipnotico, ma che non aveva perduta perfettamente la coscienza. Pian piano, la lotta che i due principî, della vita e del sonno, facevano fra loro, parve si dileguasse completamente e una perfetta serenità regnò sulla fisonomia di Maria, come, poco prima, su quella di Elisa Jackson. Anche il volto pallido di Maria si era trasfigurato e le linee convulse di una fibra sempre in orgasmo avevano subìto una trasformazione.
Il volto bello, ma consunto dai dolori, dalle preghiere, aveva riacquistato come una giovenilità novella; un amabile sorriso era vagante sulle labbra della dormiente, come se ella sognasse il più bel sogno.
Quando la vide addormentata perfettamente, Marcus Henner cinse con le magre ma poderose braccia il corpo di quella donna, e sollevandolo senza nessuno sforzo, lo trasportò nella principesca camera, deponendolo sopra un divano. Poi, le compose le vesti, intorno, come a un bimbo che si è addormentato, e le ravviò i capelli sulla fronte. Il divano era basso: Marcus Henner s'inginocchiò sul tappeto bianco, formato da una pelle d'orso di Russia, e si mise a parlare all'addormentata, piano:
— Maria?
— Che vuoi? — disse la voce dell'ipnotizzata, senz'asprezza, ma parlante nel sonno, come di lontano.
— Mi senti?
— Ti sento.
— Mi comprendi?
— Ti comprendo.
— Sai che cosa voglio, da te? —
Come un’ombra scura passò sulla fronte della dormiente.
— Sai che cosa voglio? — replicò il medico, a voce bassa, ma con forza.
— Lo so, — disse la ipnotizzata, dopo un minuto di silenzio.
— E che cosa è? —
Ancora una nuvola su quella fronte pura!
— Tu vuoi, Marcus Henner, che io ti ami, — disse la dormiente, dopo un grave sforzo per trovare la voce.
Un profondo sospiro escì dal petto di Maria.
— Vuoi obbedirmi? — disse, duramente il gobbo, tenendo il suo viso presso quello dell'ipnotizzata.
— Sì, — disse finalmente costei con voce fievole.
Un diabolico sorriso di trionfo aleggiò sulla mostruosa faccia di Marcus Henner. Ancora una battaglia che egli vinceva contro la volontà di quella donna e contro il proprio destino!
— Sì.
— Rinneghi l’odio per me? Fa' uno sforzo su te stessa, scaccia questo sentimento per obbedirmi. Lo rinneghi? —
Il viso della ipnotizzata si fece pallidissimo; ella scosse la testa, come se volesse sottrarsi al fascino ipnotico. Ma egli le passò subito le dita sulla fronte.
— Rinnego.
— Ah! — egli fece, con un sospiro di soddisfazione.
E si curvò su lei a comandarla.
— Devi amarmi, intendi? Vinci, vinci il tuo cuore che ancora si dibatte, senti la mia volontà, senti il dominio che io esercito sulla tua volontà! —
Dicendo queste cose il gobbo aveva negli occhi verdi e nella voce tanto imperio, tanto fluido di dominazione, che un genio infernale pareva sprizzasse dal suo sguardo e dalle sue parole. Distesa, tutta bianca nelle sue vesti, Maria, inerme, indifesa, subiva tutto il fascino malvagio di quell'uomo terribile.
— Ami ancora Jehan Straube? — le chiese, con un ghigno d’ironia.
— No, — disse lei, dopo una esitazione.
— Lo hai scacciato dal tuo cuore?
— Scacciato.
— Dimenticato?
— Se vuoi, lo dimenticherò.
— Lo voglio. —
Ella tacque.
— Mi ami? — egli le chiese, inginocchiato innanzi a lei, con uno sguardo ardente.
— Ti amo, — ella rispose, a voce fioca.
— Ripetilo!
— Ti amo.
— Quanto?
— Moltissimo.
— Ami solo me?
— Solo te.
— Ti piaccio?
— Mi piaci.
— Non mi vedi brutto, vecchio, deforme, laido?
— No. …
— Ti sembro bello, giovane, robusto, elegante?
— Sì.
— Vuoi solo me, è vero? — disse lui.
Di nuovo, una espressione di orribile sofferenza si dipinse sul viso di Maria: e Marcus Henner digrignò i denti dalla rabbia.
— Vuoi me? — le ripetè.
Ella tacque. Funereo silenzio! Egli comprese che quella vita si poteva spezzare, forse, in quel sonno, ma non piegarsi al furore della sua volontà.
— Dimmi che mi ami, — replicò.
— Per sempre?
— Per sempre.
— Ti adoro.
— Dammi un bacio, — comandò lui.
Un sussulto nervoso attraversò tutto il corpo di Maria che parve si ribellasse a quell'ordine.
— Dammi un bacio, — egli comandò, parlandole nel volto, applicandole le mani alle tempie.
Ma, invece di veder tornare la calma su quel corpo, dei lunghi fremiti convulsi lo contorsero.
— Dio, Dio, anche nel sonno! — gridò Marcus Henner, mostrando i pugni al cielo.
Ma riprese l'opera di fascinazione, furibondo, deciso a vincere quella resistenza che oltrepassava i limiti ordinari; deciso a spezzare quella volontà. Con gli occhi fissi su quel volto, alitandole in viso, stringendole le tempie, egli le ripetè:
Due volte, la infelicissima ipnotizzata si sollevò con la persona, come per dare un bacio a Marcus Henner, ma due volte un movimento convulso la rigettò indietro.
— Dio non vuole! — egli gridò, nel colmo dell'ira — ma io sono più forte di Dio! —
Le sue lunghe dita ossute strinsero quelle tempie, come se volessero schiacciarle; i suoi occhi divennero ardenti come due carbonchi ed egli disse alla donna, per la quarta volta:
Allora avvenne una cosa terribile. Quel corpo abbandonato al sonno ipnotico, vinto da una fascinazione terribile, diventato lo schiavo di quel corpo dagli occhi verdi, quel corpo che era suo, di cui egli poteva fare quel che voleva e che egli teneva pronto, lì, su quel divano, si levò, di scatto, parve più alto, fantomatico, nelle vesti bianche. E gli occhi di quella ipnotizzata si spalancarono, grandi, vitrei, senza sguardo. Ella gridò, avendo superato il fascino:
— No, assassino! —
E Marcus Henner, a un tratto accasciato, diventato un cencio, avendo consumato tutta la sua volontà, cadde a terra, lungo disteso, con le braccia aperte, piangendo sulla sua sventura.
II.
Il monastero delle Sepolte vive, a Napoli, sorgeva a mezza costa, fra il mare e la collina del Vomero, in una posizione amenissima. La sua costruzione risaliva a due o trecento anni fa, quando fiorì suor Orsola Benincasa, la pia fondatrice di quell'ordine; ma, più tardi, si è venuto ingrandendo man mano e il suo bell'orto, tutto pieno di aranci in fiore, ha perduto un poco della sua ampiezza, per darne spazio ai chiostri delle suore.
L'antica tradizione benincasiana stabiliva una clausura assoluta, non solo, ma persino che le suore portassero sempre il velo abbassato, quando escivano dalle loro celle. Esse, pronunziati una volta i voti sacri, non uscivano più, non vedevano più nessuno della loro famiglia e, solo una volta all'anno, la madre o il padre, o qualche altro parente, poteva venirle a trovare. Ma non li vedevano! Non era neppure a traverso la grata, come in altri conventi di clausura, che avveniva la conversazione, ma a traverso il muro. Un colpo al muro e vi si applicava l'orecchio: le voci arrivavano fioche e sorde, stranissime. Per lo più, il parente abbreviava questo penoso discorso; spesso, l'anno seguente non ritornava più. Le Sepolte vive, date a Dio, erano dimenticate dagli uomini.
Il numero di quelle suore era di trentatrè, quanti sono gli anni di Gesù: e le converse erano sette, quanti erano i dolori di Maria. Ma il numero di trentatrè non era mai completo: le suore erano vecchie, molto vecchie e coi nuovi ordinamenti italiani non vi erano molte che dimandavano di fare il noviziato: tanto che, a ogni morte di suora, le altre si ristringevano di più, diventate poche, dolenti di essere in così piccolo numero. Ma il soffio dei nuovi tempi era penetrato anche là dentro, e due converse se ne andarono. Il convento di suor Orsola Benincasa era oramai troppo grande, per le diciotto o venti suore, per le cinque converse; il giardino troppo vasto e i chiostri troppo larghi.
Però, in quell'anno 18. … le suore avevano avuto una bella consolazione. Raccomandate dal cardinale vicario, di Roma, erano giunte due novizie; una lettera giunta alla madre badessa ne aveva annunciato l'arrivo, e in un giorno di maggio, verso le cinque pomeridiane, era capitata la prima, alla porta del convento.
Era una donna ancora giovane, ma col viso consumato dalle infermità o dai dolori morali. Alta e magra, bionda, pallidissima, ella vestiva decentemente e nella sua carrozza erano restate due valigie, con la sua roba. Veramente, la carrozza non era potuta arrivare sino alla porta del monastero, perchè vi è un viale a scaglioni, per cui vi si accede: ella aveva bussato forte e la conversa portinaia era venuta ad aprire. La portinaia era stata avvertita e comprese subito. Pure, disse:
— Chi siete? —
Costei non rispose direttamente; disse:
— Debbo parlare alla madre badessa; mi manda il vicario.
— Siete la novizia?
— Sì. —
E un profondo sospiro le sollevò il petto.
— Quale delle due?
— Ne aspettate un'altra?
— Sì, da Roma.
— Io vengo da Verona, e da più lontano, anche.
— Allora siete quella che vuol portare il nome di suor Serafina?
— Sì, — e sospirò di nuovo, profondamente.
— Entrate, allora.
— Vi è la mia roba.
— La faremo portare su, — disse la portinaia, aprendo tutto il battente della porta.
Così la novizia entrò, senza dare uno sguardo indietro, non accompagnata da un parente, da un amico, da nessuno. Presto, ella smise le sue vesti civili e indossò un primo abito claustrale, simile a quello delle converse, senza velo. Una cella le fu assegnata; essa era alla punta estrema del dormitorio, sull'angolo del giardino, verso il mare. Suor Serafina si era subito mostrata molto docile, molto obbediente; aveva avuto due o tre lunghe conferenze con la badessa, nel segreto della camera di costei; e ne era sempre uscita con gli occhi rossi. Ella compiva i suoi umili uffizi con molta rassegnazione, pregava molto; ma era spesso distratta. Spesso restava delle lunghe ore, dietro la grata, guardando il mare. Ma alle trentatrè erano molto indulgenti con le novizie, perchè erano ancora troppo fresche del mondo e per far loro prendere amore alla vita claustrale.
La novizia Serafina, in certi giorni, sul suo volto impallidito e stanco, mostrava tale un abbattimento che la madre badessa, dopo aver pregato con lei, al coro, la dispensava da certi lavori pesanti, che alle novizie erano riserbati. Ella ringraziava, con un tenue sorriso:
E ambedue si segnavano, a quel nome. La novizia Serafina restava in chiesa, a pregare, delle ore. Ma quando vi arrivavano, alla spicciolata, delle altre suore, la trovavano col volto fra le mani, con le labbra mute, spesso prostrata, spesso abbandonata, con le braccia protese sull’altare del coro.
— No, è morta. —
E le monache si avvicinavano a lei, per soccorrerla. Ella non era nè morta, nè svenuta. Si rialzava, più bianca che mai, baciava il crocifisso del suo rosario, si segnava, spariva.
— Che strana novizia! — diceva qualcuna di esse.
— Strana!
— Poveretta! — soggiungeva un'altra.
La compativano. Erano donne tenere e buone, malgrado che mai avessero vissuto la grande vita dell'amore. Solo qualcuna di loro aveva ancora dei ricordi; ma così lontani!
La novizia Serafina era nel convento da solo un mese e tutti si erano abituati al suo viso smorto, ai suoi occhi vaganti, a quell'aria trasognata, che era, poi, ammantata di tanta dolcezza, quando giunse l'altra novizia, raccomandata dal cardinale vicario. Fu nelle primissime ore della mattina. Le donne che bussarono alla porta, erano due; una più di età e che parea di condizione servile, l'altra giovane, bruna, fine, vestita elegantemente di nero.
— Questo è il monastero di suor Orsola Benincasa? — domandò la domestica.
— Sissignora, — disse la portinaia.
— Questa è la raccomandata del cardinale vicario, — e accennò alla più giovane.
— Ah! va bene, — mormorò la conversa.
E sparve, lasciando le due donne sole nella portineria. La più giovane che non aveva detto una parola, si lasciò cadere sopra una sedia.
— Coraggio, signorina, — disse la domestica.
— Ne ho, — mormorò l'altra — ma sono molto stanca.
— Ora, ora, vi riposerete molto, — disse la serva, guardandosi intorno.
La stanza era imbiancata di calce, nuda, con quattro sedie e un tavolino; delle immagini sacre, sulle pareti. Ma da una finestra si vedeva un angolo dell'orto e, lontano lontano, il mare.
— Starò bene, qui, — disse la giovane novizia.
— La clausura è troppo terribile.
— Ne desidero una così, — rispose subito la novizia, abbassando gli occhi.
— Così terribile!
— Non è mai terribile, servire Iddio.
— Voglio darmi al Signore, completamente.
— Così giovane, signorina mia! — esclamò la donna, con un vero dolore.
— Io non ho più gioventù.
— Non parlate così. Tante speranze, tante idee belle, tante cose.
— Nulla più, nulla più, — disse, a bassa voce, la novizia, chinando il capo sul petto.
— Voi ci ripenserete, è vero?
— Ripensarci?
— I voti non si pronunziano che dopo un anno.
— Che importa? È come se li avessi pronunziati. …
— No, no.
— Anticiperò il giorno dei voti.
— Non si può, per fortuna non si può, mi sono informata! — disse la serva.
— Ma che speri, che aspetti? — disse la novizia, con accento freddo e disperato.
— Non so, signorina. … non so, ma non posso persuadermi che ciò possa finire così!
— Eppure!
— Chi sa, io potrò ritornare qui, con una buona notizia!
— Qui?
— Sì.
— Tu vuoi ritornare?
— Si sa.
— No, cara.
— Come?
— Non tornerai!
— Ma perchè?
— Desidero non vederti più, — disse la novizia, con tono fermo.
— Oh, signorina! — e quella quasi piangeva.
— Non piangere. Separiamoci oggi.
— No, non può essere, signorina.
— Deve essere così, — disse, con dolcezza, ma sempre fermamente, la novizia.
— Io sono venuta sino qui. … sempre sperando che voi vi pentiste. …
— Pentirmi? di darmi a Dio dovrei pentirmi?
— No, no. Ma credevo che sceglieste un ritiro. … non so. … un posto donde si potesse uscire.
— Ho voluto io entrare fra le sepolte vive.
— Signore! Così bella, così fatta per essere amata e per amare.
— Non mi parlare di amore, taci. Senti, è meglio dividersi ora. Ti ho dato i denari per tornare al tuo paese: vacci. Io, qui, sono al sicuro di tutte le tempeste.
— Ma veramente mi dovrò staccare per sempre?
— Veramente.
— Io non partirò, non potrò partire, — disse la serva singhiozzando.
— Che faresti, a Napoli? Non conosco nessuno, non ti conoscono.
— Ci siete voi!
— Ma non puoi vedermi!
— Che ne sai?
— Meglio separarsi per sempre, — replicò ancora la novizia, ostinatamente.
— Lasciate, signorina, che io resti a Napoli, almeno. Troverò una casa in cui servire: sono forte, posso ancora lavorare. Ma qui!
— No, Rosa, — disse la novizia, pronunziando a stento questo nome e guardandosi attorno.
— Non verrò qui.
— Potrebbero essi rintracciarti. … e trovata te troverebbero anche me.
— Chi, essi? Vostro padre?
— Mio padre, prima di tutto. Egli mi ha maledetta, è vero: ma mi cerca. E non lo fuggirei, se egli non mi cercasse per un altro.
— L'altro, l'altro! — disse, con voce trepida Rosa.
— L’uomo esecrato, l’uomo infame. Egli è la causa di tutte le mie sciagure. Guai, se sapesse dove sono!
— Che farebbe?
— Chi sa! Ma le mura delle sepolte vive sono salde e qui dentro si spegnerà il nome di Rachele Cabib.
— Sì, Grazia: è il novello nome della mia fede, è il nome della mia salvazione. —
In questo rientrò la portinaia conversa e annunciò che la madre badessa attendeva la novizia.
— Separiamoci, Rosa, — disse costei.
E le due donne, malgrado la loro diversa condizione, avendo vissuto insieme e insieme sofferto, si gittarono l'una nelle braccia dell'altra, si baciarono, piangendo.
— Addio, Rosa, addio, ti assistano la Vergine e i santi!
— Arrivederci, non addio, signorina. Dio vi benedica! —
E le baciò le due mani, la baciò ancora, sulle guance.
Poi, la porta si richiuse dietro lei, e la novizia, che si era fatta smorta, disse alla conversa, coraggiosamente:
— Andiamo. —
Il colloquio fra la madre badessa e la novizia durò un'ora; quando la cella si riaprì, si vide che la novizia si inginocchiava innanzi a quella vecchia veneranda e che costei la benediceva. E fu detto tutto, giacchè la vestizione da conversa avvenne un quarto d'ora dopo, e alla novizia che aveva preso il nome di suora Grazia, venne data anche la celletta. Era posta accanto a quella della novizia suor Serafina; la penultima verso il mare.
Suora Grazia, così giovane e così bella, interessò subito tutte le poche e antiche monache che erano colà; ma la badessa aveva dovuto impartire gli ordini di non interrogarla, di non disturbarla, giacchè, mentre le sorridevano, salutandola, poco le dirigevano la parola. Suora Grazia che era stata nel mondo ebreo Rachele Cabib, portava sul suo viso una espressione di fierezza, poco consono allo stato monacale; la sua beltà giovanile, così sfolgorante, così seducente, persisteva anche sotto quegli umili panni. Non le avevano tagliato i capelli, perchè questo sacrifizio si compie solo il giorno del voto; e le due grosse trecce non gonfiavano la cuffia bianca. Strana monaca, taciturna, con le sopracciglia aggrottate, con un viso che ancora serbava tutte le tracce delle passioni umane: strana monaca, dagli occhi che non s'inumidivano di lagrime, anzi da un fuoco interno che, forse, era odio!
Fra le due novizie, suor Serafina e suora Grazia, non si erano stabilite maggiori relazioni che con le altre monache: si vedevano, salutandosi, al coro, al refettorio, alle preghiere, nei chiostri. Non una parola scambiata fra loro: non un sorriso di più, nulla. Ma il contrasto fra i loro tipi era evidente anche agli occhi poco esperimentati delle monache sepolte vive: l'una, suor Serafina, snella, magra, bionda, già consunta dagli anni e dai dolori, coi begli occhi azzurri scoloriti, come stinti nelle lacrime, tutta preghiera, tutta raccoglimento, tutta dolcezza; l'altra, giovanissima, bruna, con le labbra rosse, con gli occhi ardenti, senza lagrime, piegandosi a pregare con lo stesso volto chiuso da un dolore che era collera. Pareva che, così diverse, le due novizie non si sarebbero mai potute intendere. Ma non fu così.
Due o tre volte, suora Serafina e suora Grazia si ritrovarono sole nel coro: la badessa permetteva loro di farvi delle più lunghe dimore, giacchè alle novizie si ama lasciarle a lungo in colloquio con Dio. Spesso, in questi prolungamenti, mentre suora Grazia teneva la bocca appoggiata sul suo rosario, a occhi bassi, senza dire orazioni, suora Serafina, accanto a lei mormorava le sue preci, intercalandole con qualche sospiro. Una volta, spezzando il silenzio a cui, sembrava, suora Grazia si costringesse da sè, ella chiese a suora Serafina:
— Che avete, mia sorella?
— Nulla, sorella mia, — aveva risposto l'altra con un sospiro.
— Sì, sorella.
— Soffrite molto?
— Immensamente.
— Così sia, mia sorella. —
E si tacquero, suora Grazia per discrezione e suora Serafina perchè aveva ricominciato a pregare. Per vari giorni non si parlarono, non essendovene occasione, ma un giorno si incontrarono nell'orto, mentre suora Grazia coglieva una rosa di maggio, tutta rorida di rugiada.
— Li amavo. …
— Non li amate più?
— I fiori sono per le persone felici, — disse suora Grazia, a voce bassa, curvandosi a odorare un bocciuolo.
— E voi, li amate?
— Sì, molto. Ma nel mio paese ve ne sono così pochi!
— È molto lontano, il vostro paese?
— Assai.
— Nel nord?
— Nel nord.
— Freddo?
— Freddissimo.
— Qui vi è il sole, — disse suora Grazia, levando gli occhi al cielo.
Nè più si dissero altro, in quel dì.
Ma una notte, mentre ancora la sventurata Rachele Cabib che aveva cangiato il suo nome in quello di suora Grazia, vegliava, passeggiando nella sua celletta, non trovando riposo, le parve udire del rumore, nella celletta accanto, che era proprio quella di suor Serafina. Non vi badò; ma il rumore si ripetè. Era un lamento.
E s’inginocchiò sulla nuda terra a pregare, per vedere di trovar un po’ di sonno, un po’ di pace. Ma il gemito, dall'altra parte, continuava. Suora Grazia temette che l'altra novizia stesse male e avesse bisogno di soccorso. Pure, la badessa aveva espressamente proibito alle monache di uscire dalle loro celle la notte; e non arrivava a serrarle dentro, perchè era certa di essere obbedita. Ma di fronte a quell'angosciarsi della sua compagna, suora Grazia non resistette e non osando trasgredire gli ordini, bussò al muro mediano, ripetutamente: i lamenti si tacquero un minuto, poi ripresero:
— Suor Serafina, suora? — disse suora Grazia, con la faccia appoggiata al muro.
Costei non le rispose. Un gemito più forte, anzi, le uscì dal petto. Suora Grazia non resse più e uscita dalla sua celletta penetrò in quella della sua compagna.
Suora Serafina aveva lasciata accesa, come ogni notte, una sua lampadina ad olio, innanzi a una immagine della Vergine: lampada fioca che non diradava completamente le ombre della stanzetta. Suor Serafina era a letto, supina; ma aveva gli occhi sbarrati, le labbra schiuse e le ceree mani distese lungo la persona, come quelle di una morta. All'aprirsi della porta, non si era mossa, come se non avesse udito:
— Mia sorella, Serafina, che avete? — disse suora Grazia, piegandosi su lei, prendendole una mano fredda.
L'altra novizia la guardò, come trasognata e disse, balbettando:
— Muoio. …
— Dove avete male? Ditemi; vi aiuterò.
— Al cuore. … — mormorò la infelice, quasi soffocando.
Difatti, suora Grazia, allora si accorse che la novizia affannava fortemente, che ogni tanto tentava sollevarsi sull'unico guanciale, quasi non potesse respirare.
— Che posso farvi, ditemelo?
— Nulla. … nulla. … — disse l’altra, come un soffio.
— Ma non posso vedervi soffrire così.
— Non importa, non importa, — mormorò la novizia, con un leggiero moto della testa.
Ma in questo momento il suo male le strappò un gemito più forte e si fece livida. Allora suora Grazia si slanciò su lei e la sollevò nelle sue braccia, perchè quella pareva che affogasse; la tenne stretta così, mentre quella muoveva la testa e la bocca quasi a bever l'aria che le sfuggiva. Tenendola abbracciata sentì che il cuore di suor Serafina batteva convulsamente, precipitosamente.
— Dio mio, — pensò — dovesse morire! —
Suor Serafina, però, in quella posizione, respirava meglio; potè dire:
— Se non mi alzavate, morivo. …
— Volete qualche cosa? Chiamo qualcuno?
— No. Sarebbe inutile.
— Così, senza soccorsi. …
— Morire, non è un gran male, — mormorò la bionda e pallida novizia.
Poi, una nuova palpitazione la scosse, la convulsionò; ella si teneva stretta a suora Grazia; gemeva forte, senza fiato, coi denti stretti e le nari dilatate, cinerea nel viso.
— Fatevi coraggio, sorella, coraggio. … —
Questo spasimo durò ancora una mezz'ora, nella quale suora Grazia tenne abbracciata suora Serafina, perchè ella non soffocasse; poi, l'angoscia si venne calmando, man mano, Grazia sentì chetarsi quel cuore sconvolto e farsi debole.
— Meglio, è vero? — chiese a Serafina, vedendo che ella socchiudeva gli occhi, come esausta.
— Meglio, sì. È passato: non morirò ancora.
— Questo male, lo avete sofferto altre volte?
— Sì: nel mondo.
— E non si può guarire?
— Pare di no.
— È grave?
— È gravissimo.
— Perchè vi siete chiusa, allora?
— Per vivere in pace, almeno, questo poco tempo che mi resta da vivere.
— E non avete trovato pace, mia sorella?
— No. Il mio male è implacabile.
— Abbiate fede!
— Ho fede, sì, ho fede, — balbettò suora Serafina, guardando nelle ombre della stanza.
— Un po’ di coraggio, anche!
— Ah quello, mia sorella, non lo ho più! — esclamò la novizia, crollando il capo.
— Avete avuto molte tribolazioni?
— Molte.
— Grandi?
— Grandi assai.
— Non ci pensate!
— Il loro pensiero è qui, — disse la novizia, indicando la fronte. — Ma quando mi angoscia troppo, discende sul cuore, come un peso di piombo e il mio male ricomincia.
— Non pensateci, calmatevi, — mormorò suora Grazia, non osando lasciare la malata.
— Voi siete buona.
— Anche io ho sofferto.
— Così giovane!
— Ho cento anni, per i dolori, — disse la povera ebrea fatta cristiana.
Un ultimo spasimo le contrasse la bocca.
— Ecco, l'accesso è finito, — mormorò — andatevene, sorella mia, non disobbediamo alla madre superiora.
— Non posso lasciarvi così.
— Non ho più nulla, vedete. Sto bene, — disse, con voce fievole, la inferma.
— Tutta sola, qui!
— È il mio destino. Solissima nel mondo. Chi mi amava, è sparito, — disse Serafina, a capo basso.
— Morto!
— Come se fosse morto: o morto, se volete. —
E gli occhi di suor Serafina si riempirono di lacrime: ella si fece di nuovo pallidissima.
— Non pensate al passato, — mormorò suora Grazia, a voce bassa.
— Non posso non pensarci: è il mio incubo, — disse l'altra novizia — lo sapete. Dio ha forse concesso l'oblìo?
— Non ancora, — disse l'ebrea che aveva cercato rifugio nella fede cristiana.
— Non ne siamo degne, forse, — replicò suora Serafina, abbassando gli occhi.
— Avremo questa grazia, certo.
— Speriamo in Lui! —
Così, in quella notte, le due novizie si lasciarono, giacchè pareva loro che avessero anche troppo disobbedito agli ordini della superiora. Nessun altro rumore giunse dalla celletta della novizia Serafina e Rachele Cabib ovvero suora Grazia potè supporre che ella si fosse addormentata. Lei, la neocristiana, non potè riprender sonno; il suo sangue ardeva troppo di collera e di dolore, come al primo giorno dei suoi terribili disinganni: ella era troppo giovane e troppo sana per potersi rassegnare, per poter dimenticare. La povera suor Serafina era una donna non più giovine e consumata dalla tristezza e dalla infermità, mentre suora Grazia, cioè Rachele Cabib, conservava tutte le potenze della vita, intatte.
Dall’indomani, una maggiore intimità si stabilì fra loro e l'una ricercava volentieri la compagnia dell'altra. Non già che parlassero del mondo, del passato; ma sentivano di esser venute lì dentro, spinte da una ragione quasi identica, sentivano di cercare insieme quella pace che la esistenza quotidiana non offriva più loro. Al coro si mettevano vicine, pregando insieme; spesso, s’incontravano in giardino, nelle poche pause fra un dovere religioso e l'altro. Prima di andare a dormire si salutavano, rimanendo un minuto insieme, innanzi alla porta delle loro cellette; ognuna rientrava, subito, nella gran solitudine notturna dove, spesso, nessuna delle due trovava il sonno.
La superiora osservava questa familiarità limitata e la sorvegliava, con occhio diffidente. Malgrado che fosse un'anima semplice, entrata in quel convento dalla giovinezza e rimastavi chiusa almeno quarant'anni, ella aveva pratica delle novizie e sapeva quanto è duro e difficile l'anno del loro noviziato.
Ella conosceva che il mondo parla a loro con tutte le sue voci, anche con quelle dei suoi dolori e che esse, le novizie, non possono dimenticare. Quell'anno di prova, spesso, riesce a male, giacchè colei che è entrata, non trovando pace nelle preghiere, nelle mistiche contemplazioni, è ripresa dal mondo. Ora, per la gloria di Dio e dell'Ordine, il monastero delle sepolte vive deve conservare tutte le anime che vi si vengono a rifugiare!
La madre superiora temeva che, fra loro, le due novizie si comunicassero troppe cose, parlassero troppo delle loro sciagure e che trovassero un ardente pascolo alla immaginazione, in quei discorsi. Veramente esse non discorrevano troppo ed ella non aveva fatto loro, ancora, nessuna rampogna. Soltanto, un giorno, le parve che suor Serafina piangesse, al coro, e che Rachele Cabib, ossia suora Grazia si chinasse, due volte, a dirle qualche cosa di confortevole, all'orecchio. Dopo il coro, ella avvertì la bionda e pallida novizia di venire nella sua cella.
Essa era austera come tutte le altre e un crocifisso d'avorio era sulla tavola, presso la quale sedeva la madre superiora. L'antica monaca teneva le dita incrociate sul suo rosario; e dal volto scialbo e rugato, dagli occhi grigi e velati, traspariva una grande bontà.
— Mia figlia, io ho a dirvi qualche cosa, — ella si volse a suor Serafina che, ritta, la guardava coi suoi occhi gonfi di lacrime.
— Sì, madre.
— Pregate, mia figliuola, pregate molto.
— Lo faccio, lo faccio.
— E ancora non otteneste pace?
— Ancora, no.
— Ci vuole perseveranza.
— Non avrò pace che con la morte, — mormorò la novizia, non più giovine, abbassando gli occhi.
— Queste sono parole disperate e non voglio udirle da voi, — disse la superiora, aggrottando le ciglia.
— Mia madre, perdonatemi!
— Bisogna dominare anche i nostri dolori, — replicò più mitemente la badessa, di fronte alla umiltà della novizia.
— Come fare?
— Pensate che il mostrare le lagrime è dare scandalo!
— Madre mia!
— Così è. È aspra la legge, ma bisogna subirla. In un convento, tutte le manifestazioni della vita debbono essere coordinate: la regola è assoluta. Neppure piangere si può in pubblico.
— Ciò è così crudele!
— Mia figlia, riflettete. Tutte le suore, al vostro pianto, si distraggono dalle orazioni; la curiosità le vince ed esse cadono in peccato. Anche il pianto è una tentazione.
— Fatelo! D'altronde, farsi vedere a piangere, significa mostrare che la grazia del Signore non ha ancora toccato il vostro cuore; ciò è così male!
— Come fare? Io sono, certo, una creatura indegna.
— Tutti siamo indegni. Ma chiedete questa grazia e l'avrete. Poi, pensate anche a colei che avete accanto, al coro. …
— Sì, anch'essa è novizia. Voi la scoraggiate, piangendo.
— Anch'essa piange, talvolta.
— Lo so. Sono le tracce del mondo, che non vogliono ancora scomparire. Avete scambiato delle confidenze, è vero?
— No, madre.
— Qualche cosa, almeno?
— Qualche cosa vaga.
— Avete fatto male. Non dite altro. I dolori si esaltano, parlandone. Confidatevi solo a Dio, al confessore e a me, se avete bisogno di espansione umana.
— Voi siete figlia, per me, — disse la superiora, con voce più affettuosa. — Se vi è cosa che io desideri, è di vedervi serena in Dio. —
La novizia si chinò e le baciò la mano.
Poi, uscì. La badessa si fece il segno della croce e disse sommessamente una breve orazione. Fu bussato alla porta della sua celletta, pian piano:
— Entrate, mia figlia, — diss'ella.
— Sia lodato Gesù e Maria, — mormorò suora Grazia, la povera Rachele Cabib, entrando.
— Oggi e sempre, — rispose la superiora, segnandosi.
Tacquero. La badessa pensava, raccolta in sè.
— Mia madre mi ha fatto chiamare?
— Sì, mia figliuola.
— E che debbo fare, per obbedirvi?
— Volevo dirvi qualche cosa. La vostra intimità con l'altra novizia mi spiace.
— È malata, è mortalmente malata.
— Lo so. Assistetela, ma non più che fareste con un'altra. Tutte vi sono sorelle, qua dentro.
— Ella soffre più delle altre, forse.
— Tutte abbiamo sofferto.
— Anche voi, madre mia?
— Anche io!
— E ora?
— Dio vi ha concesso la pace! — e l'ebrea fatta cristiana sospirò profondamente.
— La concederà anche a voi.
— Chi sa!
— La mia vita è stata tutto un tramite di dolori, mia madre, — disse suora Grazia, con accento desolato.
— Voi pensate troppo al mondo.
— Come non pensarvi?
— Qualche cosa mi avete detto. Parlate ancora, se ne avete bisogno.
— Ho ancora visto in sogno mia madre, — mormorò suora Grazia, a bassa voce.
— Non lo so.
— Non lo sapete?
— Mio padre, Mosè Cabib, volle sempre farmi credere che ella fosse morta; ma io non lo credo.
— Povera figliuola, — disse la badessa, facendo un atto fuggevole di carezza verso il volto solcato dal dolore di suora Grazia.
— Madre, io la vedo sempre, in sogno. È lei che mi ha spinto a farmi cristiana; è lei che mi ha fatto fuggire di casa mia; è lei che mi ha consigliato di chiudermi in un convento. …
— Sempre in sogno?
— Sempre!
— Ritengo che sia cristiana anche lei, o mia madre.
— Come si chiamava?
— Sara. Ma deve aver cangiato nome.
— Fermamente, sì.
— E non l'avete cercata?
— Ho tentato. Come potevo, sola, povera, abbandonata, perseguitata?
— Perseguitata?
— Non vi hanno scritto che qualcuno mi cercava?
— Sì. …
— Marcus Henner! Uno spirito infernale! Il mio più terribile nemico!
— Vi amava?
— Sì: lo diceva. Un impostore, un sacrilego, madre, che osava portare il nome del divino Gesù!
— Come?
— Già, si faceva chiamare il Maestro.
— Ma che era?
— Un gobbo, un mostro. Credo che adoperasse la magìa; certo, conosceva dei fascini.
— Dio ci scampi! E gli siete sfuggita?
— Miracolosamente. Ma, vedrete, mi cercherà anche qui.
— Qui, è impossibile. Non si penetra che con un permesso del vicario.
— No. Non temete. Non fu il vicario a raccogliere l'abiura, a mandarvi qui?
— Sì.
— Non sa egli tutto?
— Sì.
— Non gli avete detto che è questo mostro?
— Sì, sì, madre mia, ma temo tanto! Egli è l'origine delle mie sciagure.
— Voi amavate qualcuno, è vero? — riprese lentamente la madre badessa.
— Sì, — disse con voce fievole, Rachele Cabib, abbassando il capo.
— Sì.
— Un cristiano?
— Sì.
— Vi amava?
— Mentiva! — gridò la novizia, lampeggiando dai begli occhi neri.
— Mia figlia, mia figlia, calmatevi, non parlate così. Avete bisogno di sfogare, ma non vi abbandonate alla passione, vi dovrei punire.
— Quell'uomo mi ha ingannata, madre. Dio gli perdoni! Io. … non posso.
— Perdonerete, perdonerete. Vi aveva fatto dei giuramenti?
— Sì, sacri, innanzi a Dio e alla Madonna. Doveva sposarmi, quantunque fosse cristiano, nobile e ricco. …
— Troppa lontananza, figliuola mia. E gli metteste fede?
— Completa. Mi fu fedele, un anno.
— E poi?
— Mi tradì. Fu trovato mortalmente ferito sulla soglia della casa di una sua amante.
— Ed è morto?
— No, non è morto.
— Non lo avete riveduto?
— No. Avrei dovuto ricercarlo in casa di lei; colà era stato ricoverato.
— Chi lo aveva ferito?
— Un suo intimo amico, ma suo rivale, il conte Roberto Alimena.
— E costui?
— Fu incarcerato. Pendeva il processo, quando sono entrata qui.
— Atroci, madre mia. Oh, che giorno fu quello, per me! Ero fuggita di casa mia, con Rosa, sole, di notte, esposte a mille rischi. … per le vie di Roma. … come due pazze. … come due avventuriere. …
— Avete potuto fare questo?
— Quell'uomo mi perseguitava. … dovevo fuggire. … ero perduta. …
— La più misera di tutte le creature umane, mia madre.
— E che avvenne? —
Suora Grazia tacque un pochino, abbassando il capo sul petto.
Il più penoso che dovesse dire, era proprio quello, il racconto della notte fatale in cui era fuggita dalla casa del vicolo del Pianto ed era andata dal conte Ranieri Lambertini, giù, al portone, come una poverella.
— In quella notte, madre mia, ho sofferto quanto umanamente si può soffrire, credetelo, per quanto noi amiamo la Vergine!
— A casa di lui.
— Così, tutta sola?
— Con Rosa. Del resto, avevo una fiducia assoluta in lui. Doveva sposarmi, perchè mi amava, perchè lo amava. E poi, madre. … quell'uomo. … quel mio persecutore. … mi faceva troppo spavento!
— Ebbene?
— Ebbene, egli non vi era.
— Restammo mezz'ora, fuori quella porta, a notte alta, quasi all'alba, esposte alle curiosità malevoli di chiunque passasse!
— E poi?
— Poi, ci aprirono: il portiere ci disse che non vi era.
— Ve ne andaste?
— Dove andare? Da chi? Come? Restammo, con Rosa, aspettandolo.
— E non venne?
— No. Non venne.
— In quella notte era stato ferito mortalmente.
— In quella? … Che cosa terribile!
— Terribile, terribile, madre mia.
— E lo seppi da un servo, sotto un portone, e mi fu soggiunto che era in casa di lei, della contessa Loredana. … Io non vi andai!
— Faceste bene.
— Ma quanta è stata la mia angoscia, o madre, non la potete immaginare. In cinque minuti, crollate tutte le mie speranze, senza più padre, senza più sposo, senz'amore, senza casa, senza nulla, mia madre, in cinque minuti.
— Dio! Dio! — mormorò la vecchia monaca che si era lasciata prendere anche lei da quel soffio ardente di dramma.
A capo basso, la novizia era assorbita dalla rinnovata tetraggine dei suoi pensieri. L'occhio vivido era secco; s'intendeva che ella non piangesse mai, nelle ore di strazio, sofferendo mille volte di più. Tutta l'alterezza di un animo nobile e fiero spasimava innanzi a quel tradimento, a quell'abbandono, ma non si arrendeva.
— E che faceste, allora?
— Non so. … non so bene dirvi, il mio stato. Mi vidi perduta. Non avevo che quella misera serva, ignorante, contadina, rozza; eppure, essa mi salvò.
— Essa?
— Sì. Dio agisce per vie così umili! Ella conosceva un ritiro di dame sole, quasi monacale: vi andammo. Non volevano accettarci. Ma quando seppero che ero ebrea e che volevo farmi cristiana, ebbero pietà di me e mi tennero. Ma rimasi colà in preda al più grande dolore e al più grande spavento.
— Sì! Ero straziata per il tradimento di Ranieri e avevo una paura orribile del gobbo.
— No. Mi avrebbero scoperta. Da sicuri indizi ero certa che mi cercavano alacremente.
— A chi ricorreste?
— Al vicario. Egli mi fece condurre a Torre degli Specchi, dove restai del tempo, ancora. Ma neppure lì ero al sicuro. Appena entravo in un monastero, dopo pochi giorni ricominciavano ad apparire delle facce losche, accadevano dei fatti atroci, delle cose sospette si manifestavano. …
— Una persecuzione implacabile!
— Implacabile! Avete detto la parola, madre mia; ma Dio mi aiutava.
— Sì, tre, in Roma. Sono stata anche a Spoleto e a Rovigo. Ho viaggiato, vestita da monaca velata, di notte, sorvegliata. Ma che!
— Da ogni posto siete venuta via, per lui?
— Sì.
— Non era una vostra fantasia?
— No. Io non ne sapeva nulla.
— Come?
— Erano le madri superiori che si accorgevano di queste indagini, di questi volti equivoci, di questi pericoli. …
— Ebbene?
— Mi mandavano subito altrove!
— E poi?
— Dissi al vicario: trovatemi un convento dove si muoia alla vita, per sempre, donde io non possa uscire, neanche cadavere, dove nessuno, mai, possa entrare, trovatemelo, vi entrerò, sarò monaca di quest'ordine, sparirò, sarò morta!
— E allora?
— Allora, egli mi rispose: giacchè lo volete, vi manderò alle sepolte vive di Napoli. E, sono qui, madre.
— Dio vi conforti, mia figlia, perchè i vostri venti anni sono stati una desolazione. Qui, nessuno vi troverà.
— Ne siete certa? —
La monaca ebbe un pallido sorriso.
— Qui si è morta, figlia mia, al mondo, morta materialmente e moralmente.
— Egli non mi troverà?
— Come trovarvi?
— E se sospettasse?
— Non entrerà.
— Non entrerà.
— Se andasse dal vicario del Papa?
— Non vi andrà; e vi andasse, non entrerebbe qui.
— Oh madre mia! — disse suora Grazia, in un impulso di tenerezza, inginocchiandosi innanzi a lei e baciandole la mano.
In questo momento, fu bussato alla porta della celletta. La badessa, invece di dire avanti, andò lei ad aprire la porta. Era la conversa che stava al portone.
La conversa parlò sottovoce con la madre superiora, per un momento; costei restò perplessa, senza rispondere. Poi, rimandò via la portinaia, con un ordine sommesso, e ritornò nella celletta. Suora Grazia, la povera, la infelicissima Rachele Cabib, si era inginocchiata e con la faccia tra le mani, pregava.
— Mia figlia? — chiamò la badessa.
— Madre?
— Il vostro animo è più calmo?
— Sì, abbastanza.
— Lo sfogo che avete fatto, è stato benefico, dunque?
— Sì, mia madre.
— Che volete dire, madre? — ella domandò, con voce subitamente angosciata.
— Non vi allarmate: ho da darvi una notizia.
— Quale notizia? Quale?
— Eccovi turbata di nuovo. Evidentemente, siete troppo poco forte e io non vi dirò nulla.
— Mi promettete di essere tranquilla?
— Sì.
— Promettetemelo per la Vergine dei Dolori a cui siete devota.
— Lo prometto, — disse solennemente suora Grazia.
Un minuto di pausa vi fu, fra le due donne: poi la madre superiora riprese:
— Vi è qualcuno che desidera parlarvi.
— Qui?
— Sì.
— Una monaca?
— No, gente di fuori.
— Gente di fuori? Ma chi? Ma chi? — gridò Rachele, con le guance accese subitamente.
— Oh madre, che sgomento! È lui, è lui, non è vero?
— Chi, lui?
— Marcus Henner, il perverso, il mostro, il mio persecutore!
— Vi ho detto che egli non avrebbe mai posto il piede qui dentro!
— Non è lui.
— E chi è?
— Una donna?
— Sì, Rosa, la vostra domestica, quella poveretta che vi ha tanto aiutata. —
Un sospiro di sollievo dilatò il petto di suora Grazia.
— È giù, Rosa, — disse la badessa.
— Volete voi vederla? — riprese la vecchia monaca.
La novizia levò gli occhi, quietamente, e rispose:
— No, mia madre.
— Perchè?
— Perchè, no.
— Madre!
— Non voglio avere nessun contatto col mondo.
— Comprendo. Ma costei era la sola persona, umile e servizievole, che vi abbia voluto bene.
— Gli affetti umani non mi riguardano più.
— Va bene; ma costei vuole forse vedervi per l'ultima volta.
— No, madre. L'ho salutata, l'ho baciata. Non ho più nulla da dirle, più nulla da udire.
— Chi sa, poveretta, avrà qualche bisogno!
— Le ho dato tutto quello che possedevo.
— Non volete vederla?
— No.
— Io debbo insistere, con voi. Non volete vederla?
— Ma perchè, madre, insistete?
— Perchè è il mio dovere. Siete novizia e non posso separarvi totalmente dal mondo.
— Pure, non dovreste lasciare le tentazioni giungere sino a me.
— V'ingannate. Ho fede in voi e so che resisterete. Queste prove sono necessarie, — disse teneramente.
— Io non voglio vedere Rosa, — disse con voce fievole suora Grazia.
— Ma perchè?
— Perchè ella mi ricorda il mio fatale, il mio sciagurato amore, perchè mi parlerà di Ranieri Lambertini!
— Speriamo di no, — disse la badessa, a voce bassa.
— Sì, me ne parlerà e io mi sentirò schiantare il cuore, mia madre, questo povero cuore ferito e trambasciato! Oh! non fatemi andare giù, mia madre, lasciate che io resti sempre sola, che io possa dimenticare! —
E cadde inginocchioni innanzi alla madre superiora, tenendole le braccia.
— Alzatevi, — disse costei. — Manderemo via Rosa. —
E uscita sulla porta della sua celletta, chiamò una conversa. Dopo pochi minuti, la portinaia riapparve.
— Direte a quella buona donna che la novizia suora Grazia non può discendere. —
— Reverenda madre, essa non vorrà andar via.
— E perchè?
— Perchè si è seduta, perchè ha detto che aspetterà anche due ore, anche un giorno, ma che non vuole andare.
— Ebbene, la convincerete ad andarsene.
— Dirò che Vostra Reverenza non vuole.
— Non già. È proprio la novizia, che non vuole scendere.
— Sono io, — disse suora Grazia, con voce ferma. — Non posso scendere, non voglio scendere.
— Andate, Maria Crocifissa. —
Costei uscì, lentamente.
La superiora guardò la novizia, con un pallido sorriso.
— Avete fatto bene, mia figlia. Dio vi assista!
— Beneditemi, mia madre. È l'ultima rinunzia, questa. —
E curvò la bianca fronte, su cui la madre superiora posò la mano scarna e un po’ debole.
Una luce vivida apparve negli occhi della vecchia monaca e la sua voce ebbe una velatura di emozione, dicendo le sacre parole:
— Dio, benedite quest'anima che è vostra! —
Ma come la novizia, a capo basso, pallida in volto, si disponeva per la seconda volta a escire da quella celletta, dove era restata così a lungo, Maria Crocifissa, la conversa, rientrò e disse:
— Non vuole andar via, quella donna. Dice che ha cose della massima gravità da comunicare alla novizia.
— Io non voglio discendere, — mormorò suora Grazia, un po’ scossa, ma con voce ancora ferma.
— Sostiene che ha notizie di una persona assai cara alla novizia, — ripetè monotonamente la conversa, che era abituata alla parte meccanica dell'ambasciatrice.
— No. … — balbettò suora Grazia, con voce fievole.
— Credete che si tratti di lui? — disse la madre superiora, all'orecchio della novizia.
— Lo credo: è di Ranieri che vuole parlarmi.
— La novizia non può discendere, — disse con tono austero la superiora.
Maria Crocifissa sparve di nuovo. Suora Grazia era livida in volto.
— Voi soffrite assai, mia figlia? — chiese la badessa.
— Assai, assai.
— Andate in cappella, a pregare. Dite le laudi della Madonna.
— Le dirò, madre, — rispose la povera Rachele Cabib, con viso e voce di disperata.
Uscendo, ella pensò di aver compiuto l'ultimo sacrificio a Dio. Respingere Rosa che le portava notizie dell'unico uomo che aveva amato, della persona in cui ella aveva riposte tutte le sue speranze, era stato un atto di suprema volontà, ma il suo cuore ne soffriva orribilmente. Pieno di orgoglio, questo cuore che aveva adorato Ranieri Lambertini, adesso era affogato in un'amarezza senza confine, sentiva di non poter perdonare il tradimento. Di un temperamento sano e vivace, di un carattere leale e forte, Rachele Cabib non trovava niuna giustificazione a quel tradimento così volgare, così ignobile, commesso in pieno amore, perpetrato con una brutalità che l'aveva atterrata. Sì, Ranieri Lambertini era stato subito punito del suo grave errore; egli aveva incontrato una ferita mortale, forse la morte, sulla porta della perfida Sirena che lo aveva ammaliato; ed era stato per mano di un amico, amico infido, che egli era stato colpito, a tergo, dicevano. Forse egli non era morto! Che ne sapeva, lei? Povera pecorella smarrita, ella era andata a ricoverarsi sotto le ali proteggitrici della religione, ed era passata di convento in convento, perseguitata dallo sgomento di Marcus Henner, credendo almeno di essere perseguitata da lui, non avendo neanche pace nel chiostro e finendo per venire a seppellirsi viva sotto quel terribile ordine di sepolte. Morto! Anche lei, oramai, era morta al mondo ed erano stati inutili la sua gioventù e la sua bellezza, era finita ogni sua speranza, era spezzato ogni suo vincolo con l'esistenza; ed ella si sentiva morta.
Che venivano a chiamarla, nella sua tomba? Perchè sollevarne la lapide funeraria? Che volevano mai dirle? Forse egli era vivo; ma ella era morta. Forse egli era vivo, ma l'amore non crollato, dileguato; il beffardo tradimento rideva e sghignazzava su quella rovina. Che le importava, se egli fosse vivo? Morto l'amore e morta lei.
Prostrata sul freddo marmo del coro, ella cercava invano di piegare la sua attenzione e la sua anima alle dolci laudi della Vergine, in cui tante volte aveva versate la piena del suo sentimento; ma il suo cuore trafitto, piagato, era profondamente distratto dalle preci. Come Lazzaro, ella si lagnava che la venissero a trarre fuori dal suo sepolcro; e la luce della vita le sembrava odiosa. Non aveva pace. Si levò, andò verso la grata che affacciava nella chiesa bassa di suor Orsola Benincasa, fittissima grata, a cui era lecito di accostarsi solamente nelle ore delle grandi funzioni religiose, giù. La chiesa era deserta. Rachele Cabib appoggiò la fronte a quei legni incrociati e guardò. Ombra e silenzio, giù. Solo, accanto a un pilastro, Rachele che mirava con occhio avido, vide inginocchiata una donna. Il suo acuto sguardo aquilino riconobbe Rosa, la sua domestica, la fedele che voleva dirle qualche grande notizia, ma che ella aveva così reiteratamente respinta.
Ah che, in quel momento, il cuore della povera fanciulla ebrea, fatta cristiana, si franse in due, pensando che, forse, la verità e la vita erano in quella donna che, tutta sola, scacciata dalla presenza della sua padrona, pregava, inginocchiata!
Ella, dietro a quella grata, versò un fiume di lagrime cocenti, sapendo di non poter richiamare quella donna, sapendo che ella doveva essere coerente a sè stessa e ubbidiente agli ordini della madre superiora. Lei, Rachele Cabib, lei, la novizia delle sepolte vive, lei, suora Grazia, aveva detto di no, aveva respinto la verità e la vita raccolte in quell'umile servente. Come richiamarla? Come osar di dire alla superiora che si era pentita della sua fermezza e della sua astensione? Come confessare che il suo cuore, tutto destinato a Dio, ardeva ancora di passioni umane? Ella si tormentava, dietro a quella grata, con la fronte contro il legno, con la voglia di gridare a Rosa che tornasse, che risalisse sopra, che bussasse alla porta del convento ed ella sarebbe discesa, a piedi scalzi, anche, per sentire da lei che cosa dovea dirle; ma la voce soffocata non le usciva dalla strozza, una irrefrenabile vergogna le faceva ardere il viso. Torturandosi nella sua impotenza, ella vide Rosa pregare a lungo, poi levarsi pian piano, farsi il segno della croce, attraversare la chiesa, salutare l'altare, in fondo alla chiesa, e sparire. Finito tutto, dunque?
Come folle, Rachele Cabib uscì dal coro, per i chiostri; sperava che Rosa, da sè, avesse insistito per entrare, fosse ritornata; sperava di incontrare la conversa portinaia, Maria Crocifissa, che venisse a richiamarla. Nessuno, nessuno. Ella sarebbe andata, ora; avrebbe disobbedito a sè stessa e alla segreta volontà della superiora. Ma nessuno apparve, salvo qualche monaca che andava attorno per faccende e che scambiava il solito saluto con suora Grazia. Tutto era finito.
III.
«La prima volta che io posso scrivere delle parole sopra una carta bianca e la penna non cadermi dalla mano agitata o esausta, la prima lettera che io posso scrivere, amico mio buono, è per voi! Voi rammentate la tenerezza che ha avuto per voi mio padre e io la rammento, è un ricordo ben dolce per questo povero cuore freddo, di scettico! Mio padre vi amava e siccome era un uomo giusto e buono, io ho imparato a rispettarvi e ad amarvi, da lui. Amo e rispetto così poche persone, io! La mia vita, sinora, è stata tanto gelida e tanto sciocca, che spesso io vi ho fatto pietà. È vero, che vi ho fatto pietà, a voi, pieno di talento e di coltura, cultore della scienza, amante pienamente corrisposto da essa? Ho fatto pietà a voi, uomo operoso, uomo benefico, uomo che onorate e glorificate il vostro paese?
«Ebbene, ora, vi faccio pietà perchè la mia vita non è più fredda, ma ardente, non è più sciocca, ma tragica! Quanto vi siete dovuto sorprendere, alla notizia strana e terribile! Avete dovuto domandare a voi stesso se era proprio di Roberto Alimena, del figliuolo del vostro amico d'infanzia che si trattava, di assassinio, di carcere, di processo, di galera! Ebbene, sì, per quanto ciò paia ancora inverosimile e sopra tutto a me, che conosco la verità, sono proprio io, il conte Roberto Alimena, il gentiluomo, lo sportsman, l'uomo ricco e felice, che sono accusato di aver voluto assassinare, per rivalità di amore, uno dei miei migliori amici, il conte Ranieri Lambertini; e ciò per una tale contessa Clara Loredana, una donna veneziana di oscura provenienza, malgrado il suo gran nome e di cui nè a me, nè a Ranieri Lambertini importava perfettamente nulla. Sono passati vari mesi, il mio amico è sempre malato, sebbene non più in pericolo, la contessa Loredana è scomparsa e io, uscito di carcere in libertà provvisoria, sono sotto processo per omicidio doloso. Bellissimo!
«Quanto tempo sono stato in carcere? Non molto, infine; ma vi giuro che vi sono stato malissimo. Io ho bisogno di un tappeto, in terra, per contemplare meno odiosamente la vita, e in carcere, strano a dirsi, non hanno voluto concedermi questa cosa tanto necessaria. Io ho bisogno di uscire, per essere meno annoiato e, in carcere, maestro mio, credetelo, non vi lasciano uscire! Io scherzo, ora; ma non ischerzavo, allora! Francamente, questa bizzarrìa del destino che mi cambiava di gentiluomo in assassino, che mi trasportava dall'albergo al carcere, dal carcere alla galera, forse, questa stravaganza mi parve un po’ forte. Ero, come sapete, pronto a tutto. Dal giorno in cui, nel treno che mi conduceva da Napoli a Roma, io ho incontrato il terribile gobbo dagli occhi verdi, da che, nel salotto dell’Albergo d'Europa, a Roma, io ho scoperto la bellissima mano di donna, tagliata, io ho detto a me stesso e ho ripetuto a voi, che aspettavo i più strani avvenimenti. Due o tre volte, la mia vita è stata messa in grave periglio, ma vi sono sempre sfuggito; questa sventura che mi ha colpito, questa mi è stata inaspettata. La mano tagliata, quella mano che io amo, che io adoro, è sempre presso di me, io la custodisco così gelosamente, che dovranno uccidermi per strapparmela: ma io sono un uomo rovinato, perduto. Quell'uomo mi ha perduto!
«Debbo io dirvi che non ho attentato alla vita di Ranieri Lambertini, che egli non amava la contessa Clara Loredana, che io non amavo questa donna e che giammai vi è stata lite, fra noi? Voi non lo avete mai creduto. Voi siete subito venuto a trovarmi, in carcere. Non vi hanno lasciato entrare. Ero alla segreta. Avete tentato di nuovo. In quel giorno, mi avevano messo in libertà provvisoria e io era subito partito per Milano, donde vi scrivo, dalla mia vecchia casa, dove gli antichi ritratti dei miei antenati pare che mi guardino con commiserazione per i guai dove mi sono andato a ficcare. Ma nessuno di loro, io credo, ha mai trovata, in un viaggio, una stupenda mano di donna, tagliata, tutta ricca di gemme preziose e come viva. Queste cose, anticamente, non accadevano: sono cose modernissime, vingtième siècle!
«Io non ho ucciso, non ho ferito, non ho fatto niente di male, mio amico, ma sono in preda a una fatalità oscura, dacchè il singolare avvenimento mi è accaduto. Quell'uomo mi odia, mi perseguita, perchè quella mano mi appartiene, perchè io non voglio restituirgliela, perchè io l'amo, perchè io sono convinto che appartenga a una persona viva, perchè io adoro colei cui è stata tagliata questa mano, perchè io la cerco, perchè io la troverò, perchè io credo di averla vista. Sono rovinato e perduto, ecco. Non ho fatto nulla, ma tutte le prove sono contro me, persino la testimonianza della contessa Clara Loredana, mi dicono: non potrò, forse, mai convincere i miei giudici della mia innocenza. Il piano organizzato da quell'uomo è stato così magistralmente combinato, è stato tanto terribilmente condotto, che io sono chiuso in una rete da cui non arrivo a distrigarmi. Tutta la trama è così felice, che io mi chieggo, talvolta, se non sono sonnambulo o ipnotizzato, e se io non abbia, forse, nel sonno, tentato di uccidere Ranieri Lambertini. Figuratevi se arriverò mai a convincerne i miei giudici! Egli mi ha voluto perdere e mi ha perduto. La partita, in questo momento, è sua; forse, sarà sua per sempre, se qualche miracolo non accada. La mia reputazione è andata. Se per questo miracolo che, forse, l'anima benedetta di mia madre opererà in mio favore, io giungo ad essere assolto, non riabiliterò mai la mia reputazione, fra i miei pari e molte gioie mi saranno tolte. Malgrado ogni mia riabilitazione, si dirà sempre:
«— Roberto Alimena? Quel tale che fu accusato di assassinio?
«— Dissero così; ma non si è mai saputa la verità. —
«E questo sarà il dialogo più mite. Ma che importa? Oramai, è andata. Ho giuocato. Ho perso. Ma la mano di quella donna è presso di me. Egli non l'ha ancora. E io sono libero, infine. Ho denari. Ritengo che se passo il confine, le autorità me lo lasceranno passare.
«Direte, forse, amico mio, che la testimonianza di Ranieri Lambertini potrebbe salvarmi completamente. Sì, è vero. Ma, nel periodo della prima istruzione di questo che sarà un singolare processo, la pugnalata terribile che egli ha presa, fra le due spalle, ha messo questo giovane a contatto della morte, per più di un mese. Il polmone era stato toccato, la lesione non si cicatrizzava e Ranieri, sopra tutto non poteva parlare.
«Poi, sapete dov'era? Nella medesima casa della contessa Clara Loredana, di questa bella e misteriosa donna, di colei che io ritengo la complice assoluta e necessaria delle macchinazioni di quel gobbo infernale, contro me e contro Ranieri! Egli fu colpito alla sua porta e cadde svenuto, nel sangue: impossibile trasportarlo via, lontano, a casa sua. Dunque, da lei! Una catastrofe, amico mio!
«Ma mi avveggo che non vi ho raccontato per filo e per segno il mio delitto, cioè il delitto di quell'altro. Dovevo partire per Milano, vi rammentate? In quel paese volevo andare a raggiungere la mano tagliata che io aveva segretamente spedita, colà. Però, al penultimo giorno, una grande esitazione mi aveva vinto; Ranieri ed io, andando in carrozza per il Corso, insieme a una bella donnina di nessuna serietà, avevamo incontrato il gobbo maledetto, in carrozza, anche lui, con una donna vestita di bianco. L'avevamo inseguito follemente, sino fuori porta Pia, lontano lontano, di notte, sopra una via pericolosa, oscura; ma lo avevamo perduto di vista. Pure, pure, mio amico e mio maestro, quella donna sconosciuta, tutta bianca, mi aveva gettato un fiore, in piazza Venezia e nel fare questo gesto si era levata ed io ho visto, credete, credete, ho visto che aveva un braccio tagliato. No, non è stata un'allucinazione, quella donna esiste, quella donna vive, io l'ho incontrata, l'ho inseguita, essa mi ha guardato e mi ha sorriso! Credete, quella donna è lei, colei che io cerco, quella su cui è stato commesso tanto orribile delitto, una povera vittima, non tanto più giovine, ma ancora giovine, ma seducente, nella sua aria sconvolta, dolente, folle. Uno spettro, amico mio, ma una creatura vivente, anche, che io andrò a cercare in capo al mondo, poichè io l'amo, come ho amato la sua bella mano tagliata. Ora, dopo quell’inseguimento infruttuoso, Ranieri ed io eravamo restati agitatissimi. Anche il mio amico era in uno stato patologico, visto che era molto contrastato in un suo grande amore e visto che era circondato da grandi pericoli. Non so come, non so perchè, ambedue ci trovammo d'accordo a credere che la medesima persona, che quell'uomo volesse la rovina di entrambi e la nostra morte. Ranieri non ne aveva nessuna prova certa, ma ne possedeva la convinzione morale.
«Io ero sicuro che egli ci perseguitava senza darci quartiere. Difatti, in due giorni che eravamo stati insieme, avevamo schivato per miracolo, tre o quattro accidenti dove potevamo perire. Ranieri, forse, era più inquieto di me. Egli teneva moltissimo a quella donna che egli adorava e che lo adorava; e l'ha perduta miseramente e per sempre!
«In mezzo a questi profondi sconvolgimenti morali, qual demone ha suggerito a me o a lui, di tenere l'invito della contessa Clara Loredana e di passare la serata con lei? Chi sa! Era il nostro destino, pare, che ci spingesse colà. Vi andai io, prima, verso le dieci e mezzo. La contessa abitava in un villino dei quartieri nuovi, nel fondo di un giardino. Un sol fanale illuminava il piccolo viale, prima di giungere al peristilio del villino; tutto il giardino restava, quindi, in ombra. Ho bussato e il cancello mi si è schiuso avanti, aperto per incanto, come nelle case delle maghe; mi sono avanzato nel viale, sono penetrato in una vasta anticamera, dove un servo in livrea, muto e rispettoso, mi ha tolto il paletot e il cappello. Sin qui, nulla che non sia banale, è vero? Vedrete dopo, come questo che somiglia al più stupido dei racconti, prenda poi l'aspetto il più tragico.
«La contessa Clara Loredana è una bellissima donna, molto bella e fin troppo bella; è elegante e fin troppo elegante; civetta, civettissima e fredda come tutte le donne che hanno questo grazioso difetto, che a me non dispiace tanto. Ella è una donna senza uno stato civile molto preciso. Riceve solo uomini e qualche rara signora; ricevuta qua e là, non moltissimo e non nelle primarie case, ma ricevuta; ricchissima, ma senza una fonte bene sicura delle proprie ricchezze; maritata apparentemente, ma senza nessuna traccia del conte Loredana, se morto, se partito, se carcerato, se sparito; senz'amanti, almeno in vista, ma, certo, donna non difficile, in alcune date circostanze, e con un contegno talvolta obliquo, sparendo per intiere settimane, assente non si sa dove, riapparendo a un tratto, senza dare notizia dei suoi viaggi; del resto, in nessun rapporto di amicizia con altre famiglie veneziane che sono in Roma, ma chiamandosi Loredana seriamente, a confessione di queste medesime famiglie. Un mistero, un'avventuriera, io ritengo; certo, anche una spia; certamente, una complice di quell'uomo.
«Ella mi ha trattato con molta cortesia in quella sera fatale e ha civettato con me sino all'esagerazione. In fondo, mi piaceva poco! e il mio spirito era tutto preso da quell'altra, dalla donna dalla mano tagliata. Ma io sono anche un uomo, un giovane e tutta la mia ideale passione non mi avrebbe impedito di prendere per amante la contessa Clara Loredana, se ella lo avesse voluto. Parea che lo volesse, non immediatamente, forse, per suo decoro, ma dopo una certa resistenza. L'avventura mi tentava così e così. In quel frattempo venne Ranieri.
«La Loredana si mise a sbeffeggiarlo amabilmente, per quel suo certo amore, di cui ella doveva sapere qualche cosa e per cui egli si manteneva lontano da ogni flirt. Il Lambertini le rispose un po’ scherzando, un po’ seriamente; mi accorsi, allora, e me ne insospettii, che ella aveva tentato di sedurlo, ma che non ci era riescita. Da questo, però, al credere che ella fosse un agente del gobbo malvagio, ci correva, e la conversazione continuò, in tre, molto graziosamente.
«Però, due o tre volte, mentre la mezzanotte si avvicinava, mi parve osservare che la contessa Clara Loredana avesse qualche momento di sospensione d'animo: un po’ pallida, con le palpebre che le battevano, ella pareva che ascoltasse qualche rumore lontano.
«Ma furono mie impressioni molto fuggevoli e le ritenni fallaci. Dopo un minuto, ella riprendeva la sua grazia e i suoi sorrisi assassini, ella mostrava il suo bel piede fine e lungo, ella civettava con ambedue, in modo incantevole. Io pensavo che, per un mesetto, ella avrebbe potuto essere una graziosa amante.
«Però, verso la fine della serata, in certi segni d'impazienza, in certi sorrisi deliziosi a me rivolti, apparve manifesto il desiderio, in Clara Loredana, che io restassi con lei più tardi di Ranieri Lambertini. Io me ne stupii e me ne annoiai. Non merito e non vorrei avere la reputazione del casto Giuseppe; ma quella cosa lì mi pareva troppo rapida e troppo voluta. Infine, io era certo che la Loredana aveva tentato di sedurre Ranieri e non vi era riuscita. Perchè, adesso, me? Perchè questa coincidenza bizzarra? Noi due, sempre? Poi, a me piacciono le situazioni nette, con le donne: una signora onesta è una signora onesta, una cocotte è una cocotte, un'avventuriera è un'avventuriera; e queste tre professioni non si debbono mescolare, mai; e ognuno deve farla limpidamente, la propria professione. Che era, questa contessa Clara Loredana, che mi elargiva tante preferenze?
«Del resto, essa aveva finito per non rispondere più alle parole di Ranieri Lambertini e non si occupava che di me. Costui, che aveva compreso, mi diresse un amichevole e significativo sorriso e si alzò per andarsene. Perchè non lo seguii? Perchè non resistetti alle parole di Clara Loredana? Perchè fui così debole e così sciocco? Ella mi disse:
«— Restate un momento; debbo dirvi qualche cosa. —
«Che fare? Restai. Era un invito così sfacciato, così provocante, che mi parve esagerato, in una signora. Lambertini si accomiatò con un inchino e sparve. Quando ella lo vide andar via, un sospiro di sollievo le uscì dalle labbra, e io udii, piano:
«— Meno male. —
«Ebbene, ella non voleva nulla, neppure che io l'amassi, come avevo supposto, neppure che io passassi la notte con lei, come pareva fosse stato l'invito. Niente! Le mie galanterie verbali furono accolte coi soliti sorrisi deliziosi, nè più nè meno; appena le ebbi baciata la mano, verso il gomito, ella ebbe uno sguardo austero. Tutto ciò potè durare un dieci minuti, o dodici. Le chiesi ancora una volta, se mi dovesse realmente dire qualche cosa; ella mi rispose sinceramente:
«— No. —
«Me ne andai, molto seccato. Vi ho detto, diletto amico, che la contessa Clara Loredana mi piaceva così e così. Ma, infine, ella mi aveva corbellato, innanzi all'amico Ranieri Lambertini. Costui, certo, mi aveva creduto il felice amante della contessa in quella notte e, viceversa, quella donna incomprensibile mi mandava via, molto cortesemente, ma avendomi burlato in pieno. Ripeto, non potevano essere passati che dodici minuti dalla uscita di Ranieri Lambertini e contavo di raggiungerlo al Circolo delle Cacce, per dirgli la mia bizzarra avventura o, piuttosto, la mia banale non avventura. Volevo anche licenziarmi da lui, perchè volevo partire l'indomani per Milano. Uscii nell'anticamera e il solito servo muto m'infilò il paletot, e mi diede il cappello. Strano a dirsi, appena io fui uscito, le porte della villa si serrarono immediatamente e tutti i lumi si spensero. Era l'una dopo mezzanotte. Solo, in capo al vialetto, attaccato al cancello, vi era il lampione di cui ho parlato.
«Avevo indugiato sugli scalini del peristilio, per accendere un sigaro: poi avevo ripreso il viale, guardando in aria, quando inciampai in qualche cosa di nero e caddi lungo su questo qualche cosa, che, subito, nell'ombra, non potetti distinguere.
«Era il corpo di un uomo, disteso, caduto quasi in traverso della mia via: un ubbriaco, uno svenuto, un morto? Ebbi abbastanza presenza di spirito da rialzarmi, da accendere un fiammifero: e vidi un orribile spettacolo. Ranieri Lambertini giaceva esanime, con un viso bianco come la cera; una pozza di sangue circondava le sue spalle, il suo collo, aumentava sempre. Pareva morto. Egli teneva ancora il paletot, i guanti: solo il cappello era rotolato, nella caduta, del resto, nessuna traccia di lotta e un viso composto. Inorridii: ebbi uno schianto terribile, come mai. A quell'ora, in quella via deserta, in quel viale oscuro, in Roma, avere un agonizzante o un morto, nelle braccia, credete, non è una cosa preziosa. Io lo avevo sollevato da terra, un poco. Non pesava, era rigido, e avrei pensato che fosse morto, se non avessi inteso un fievole polso. Che fare? Che fare? Non osavo ributtare a terra, nel suo lago di sangue, quel morente e non poteva muovermi; avrei voluto suonare il campanello della villa, chiamare gente dalla via, ma non feci nulla, non feci che disperarmi presso quel povero assassinato …!
«Pure, dopo tre o quattro minuti, caso strano, apparvero due guardie di pubblica sicurezza, e due carabinieri, un po’ più tardi: caso che mi parve provvidenziale e che, poi, dovevo comprendere come fosse atrocemente premeditato. Dal primo minuto, le due guardie accolsero con diffidenza le mie dichiarazioni; i carabinieri andarono a cercare un medico nella farmacia notturna che è lì presso e, non so come, apparve anche un delegato. Un vero convegno, amico mio, a cui io non badai tanto, in quel minuto di disperazione, ma di cui mi accorsi più tardi. Anche questo delegato fu freddissimo, prendendo le mie generalità, quelle dell'infelice assassinato, come se già le conoscesse. Intanto era giunto il medico e aveva dichiarato che il malato, per la forte, continua emorragia, non si poteva trasportare. Quanto era lugubre quel gruppo d'uomini neri, intorno a quel morente, nella notte! Fu bussato alla porta della villa, tre o quattro volte; tardarono molto a rispondere. Infine, si schiusero le porte e un servo assonnato, sempre quello stesso, fu richiesto d'interpellare la contessa, se volesse ricevere l'infelice, in casa sua, perchè egli poteva morire, se fosse trasportato a casa. Intanto, il medico, tenendo nelle braccia il Lambertini, aveva tirato fuori il pugnale dalla ferita. Subito, il delegato si era appropriato quell'arme, senza che io vi avessi dato neppure uno sguardo. La prima medicatura era cominciata al lume di due lanterne e io spiavo sul volto cereo di Ranieri Lambertini un ritorno alla vita. Non so perchè, mi sentivo più turbato che mai, una sorda agitazione cresceva in me.
«Apparve la contessa. Era vestita di bianco, molto pallida, più alta, quasi, con certi occhi sconvolti, spaventati. Camminava piano, come una sonnambula, e un servitore le veniva accanto, portando un grande candelabro acceso. Quando fu vicina all'assassinato, ella dette in un grande grido e si mise a singhiozzare. Tutte le sue azioni erano curiosamente osservate, da me e dal delegato, specialmente; ella non mi aveva ancora guardato, ma quando rivolse lo sguardo su me, ebbe come un moto di orrore, si fece indietro di tre o quattro passi e si nascose il volto fra le mani. Io rimasi esterrefatto, ma non compresi.
«Quando il medico, chinatosi all'orecchio della contessa Clara Loredana, le ebbe detto che era impossibile trasportare Ranieri Lambertini lontano, a casa sua, ella indicò con un gesto lento della mano la sua villa e non disse verbo. Il silenzio tetro e cupo di quella donna che avevo vista un'ora prima, così allegra e così frivola, aumentava il mio senso di sgomento; a parte il dolore per quel povero amico, ferito mortalmente, e che non riapriva gli occhi, malgrado tutti i cordiali che gli davano, malgrado le strofinazioni di cognac, mi pareva che tutto si venisse stranamente complicando. Un assassinio è un assassinio; e il delegato conservava il suo viso turbato e pallido, la sua aria accigliata.
«Per trasportare nella villa il povero Ranieri Lambertini fu necessario formare una specie di barella, mettendo una materassa sopra delle assi e appena appena sollevandolo da terra; qualunque piccolo movimento provocava l'emorragia. E anche il trasporto fu molto lento, lentissimo. Il malato, il ferito, il morente, fu dovuto mettere in una stanza al piano terreno, molto elegantemente arredata, come, del resto, tutto il villino della contessa Loredana; e il medico vi si collocò a capo letto. Per un momento Ranieri Lambertini aveva tenuti aperti gli occhi, girandoli intorno, vagamente, come se non riconoscesse nessuno; poi, li aveva richiusi ed era ricaduto in un torpore, ove si udiva il suo rantolo di ferito al polmone. La contessa Clara Loredana aveva sempre il suo volto spettrale e chiuso, così dissimile da quell'altro volto; due o tre volte, che le diressi la parola, essa levò i suoi occhi su me, con una espressione di glaciale sorpresa.
«— Avete avvertito la famiglia? — domandai io, una volta.
«— Sì, — aveva ella risposto, senz'altro.
«Poi, più tardi:
«— Credete che sia per iscambio, questo assassinio? Il conte Ranieri Lambertini, era un gentiluomo, un bravo giovane, non aveva nemici.
«— Non credo, — ella rispose, con fredda fermezza.
«— E che credete? — le chiesi, insistendo, tremando, non so bene perchè.
«Ella mi sogguardò e un lieve sorriso ironico parve le sorvolasse sulle labbra. Qualche minuto passò; il medico aveva dichiarato che al ferito era necessaria una monaca. Ma a quell'ora dove trovare quell'infermiera? Nessun convento apre le sue porte. Sottovoce, la contessa Clara Loredana offrì di restare lei, per quella prima notte, insieme alla sua cameriera.
«— Resterò anche io, se permettete, — io dissi, subito.
«Ma questa mia proposta ebbe la più strana accoglienza. Il medico non mi rispose, la contessa Clara Loredana spalancò gli occhi più che mai stralunati e disse no, col capo; il delegato, più accigliato che mai, mi mormorò all'orecchio:
«— Se permettete, dovrei dirvi due parole. —
«Perchè mi parve che in quella frase vi fosse poco rispetto e persino della durezza? In che ritrovai questa intonazione offensiva, in quelle semplici parole di un poliziotto? Non so. Certo è che esse mi urtarono. Ero già nervoso e agitato. Risposi:
«— Saranno proprio due?
«— Qualcuna di più, forse, — borbottò il delegato.
«— Io sono stanco, vorrei andare a letto, — io ribattei, subito — quindi, vi pregherò di sbrigarvi.
«— Farò il possibile, — rispose lui, evasivamente.
«Passammo nel salone di Clara Loredana, dove eravamo stati un'ora avanti e dove avevo veduto il mio amico pieno di salute e di giovinezza, ridere e scherzare. Il delegato si installò in una soffice poltrona, mentre io mi era seduto dirimpetto a lui. Osservai poi, più tardi, che mi era seduto in modo che la luce mi battesse sul volto, mentre il delegato era perfettamente in ombra.
«— Vi piace di rispondere a qualche mia interrogazione? — domandò il delegato, giuocando con una stecca, mentre io aveva accesa una sigaretta.
«— Certamente. Riguarda questo terribile affare, è vero? — dissi io.
«— Già. Voi eravate molto amico del povero conte Ranieri Lambertini?
«— Sì, molto.
«— Da molto tempo?
«— Lo conoscevo, da tempo: gli sono amico da poco.
«— Da quanto?
«— Da un mese.
«— Vi siete legati subito?
«— Sì, subito: un gentiluomo perfetto, un carattere d'oro.
«— Voi siete lombardo, è vero?
«— Sì, milanese.
«— Solo?
«— Solissimo.
«— Ricco?
«— Ho quel che mi serve.
«— Viaggiate molto?
«— Sempre: non sto mai molto tempo, in un paese.
«— Eppure eravate da un mese a Roma.
«— Avevo le mie ragioni, — dissi, imprudentemente.
«— Ah! — esclamò soltanto l'altro, con un moto rapido di fisonomia.
«Mio venerato amico, io vi riferisco il dialogo come è stato, quasi integralmente, giacchè esso mi si è scolpito nella mente, dacchè segna il minuto più terribile, per ora, della mia vita. Certo, quell'interrogatorio mi seccava molto, in quel momento, con quel morente nell'altra stanza, ad alta notte, in una casa estranea, dopo il tragico avvenimento, ma comprendevo che fosse una formalità necessaria. Solo che la faccia di quel delegato non mi piaceva punto; io sono fisonomista e non mi attendevo nulla di buono da quel viso.
«— Riprendiamo l'interrogatorio, — disse il delegato, quasi involontariamente.
«— Un interrogatorio? — chiesi io, trabalzando sulla sedia. — È un vero interrogatorio?
«— E perchè no?
«— A che titolo m'interrogate?
«— V'interrogo perchè siete stato presente al delitto, — disse il delegato, configgendo il suo sguardo nel mio.
«— Presente? … Quasi presente, volete dire? — corressi io, vivacemente, senza neanche sapere il perchè della vivacità.
«— Non vi abbiamo trovato disteso sul ferito?
«— Sì, vi caddi sopra, inciampando; io era uscito dalla villa una mezz'ora dopo di lui.
«— Venti, venticinque minuti.
«— Precisate, precisate, — disse con rudezza il delegato.
«— Come posso precisare, signore? — dissi io, alquanto irritato dalle domande e più dal tono del delegato. — Io ignorava il delitto: non stavo mica con l'orologio alla mano!
«— Eppure è necessario che vi spieghiate con la massima chiarezza e con la massima precisione, — replicò il delegato, senza smettere la sua freddezza e la sua ruvidezza.
«— Necessario?
«— Sì.
«— Io trovo necessaria una sola cosa, signore, ed è quella di andarmene, — dissi io, levandomi.
«— Nossignore. Voi dovete restare.
«— E se me ne andassi egualmente?
«— Malissimo! Signor delegato, io non ho obbligo di rispondervi.
«— V'ingannate. Lo sapete. Siete il primo, il più importante testimone del delitto. La giustizia ha bisogno della vostra deposizione, — soggiunse il delegato, con aria più cortese, per rassicurarmi.
«— Va bene, ma vogliate non trattarmi come un delinquente, — dissi io, senza dare peso alla frase.
«Pure, come un lampo passò sullo scialbo e freddo viso del delegato; io ebbi come un altro brivido, simile a quello che mi aveva colpito nel veder apparire la contessa Clara Loredana, vestita di bianco, accanto al corpo esanime del mio amico.
«— Conoscevate la vita intima del conte Ranieri Lambertini? — chiese il delegato.
«— Poco.
«— Giuocava, aveva donne, amori?
«— Come tutti gli altri gentiluomini.
«— Qualche cosa di particolare?
«— Nulla che io sappia.
«— Credete che abbia potuto suscitare l'odio, la vendetta di qualcuno?
«— …. non credo, — dissi io, dopo un minuto di esitazione.
«— Corteggiava egli la contessa Clara Loredana?
«— Lo so: ma senza idea di amore.
«— Che ne sapete?
«— Me lo ha detto, — risposi io, imprudentemente.
«— Ah! dunque parlavate dei vostri amori! E voi eravate, siete corteggiatore della contessa Loredana?
«— Questa domanda mi pare superflua.
«— Siamo in casa di lei, signor delegato.
«— Sta bene. Rifiutate rispondere?
«— Rifiuto.
«— Supponete chi abbia potuto commettere il delitto? — mi chiese il delegato, dopo una piccola pausa.
«— Non lo suppongo.
«— Neppure la più piccola supposizione?
«— Neppure.
«— Non ha potuto ferirsi da sè, il conte Ranieri Lambertini.
«— È evidente.
«— D'altronde, non pare fosse inclinato al suicidio.
«— No, era un uomo felice. Era amato.
«— Amato? Dunque, sapete di un amore?
«— Neanche su questo posso rispondervi.
«— Perchè?
«— Il conte Lambertini aveva un segreto; ciò complica molto la situazione.
«— Ogni uomo ne ha qualcuno.
«— Così.
«— Amava la moglie di un altro? L'innamorata di un amico? — insinuò cautamente il delegato.
«— Non posso dirvi nulla!
«— Signor conte Alimena! Voi sapete che un fatto gravissimo è accaduto, qui, questa notte. Voi sapete qualche antecedente importantissimo dell'infelice che, forse, muore di là, qualche circostanza che potrebbe illuminarci sul delitto. Voi tacete!
«— Taccio, perchè ritengo che gli amori del conte Ranieri Lambertini non abbiano nulla che vedere col terribile accaduto.
«— Non volete dirci nulla?
«— No, — replicai io, fermamente.
«Le sopracciglia di quell'uomo si aggrottarono un poco e tutto il viso assunse una trista espressione. Egli si baloccò con la stecca, battendola vivamente sulle dita.
«— Avete altro da chiedermi? — dissi io, accendendo una sigaretta e facendo per andarmene.
«— Poche altre cose e vi lascio in libertà.
«— Eccomi a voi.
«— Vi era mai stata lite, fra voi e il conte Ranieri?
«— Mai, mai.
«— Per nessuna causa?
«— Per nessuna causa.
«— Fu lui a presentarvi alla contessa Loredana?
«— Sì.
«— A vostra richiesta?
«— Egli vi condusse qui?
«— Sì, la prima volta.
«— Poi ci veniste solo?
«— Sì.
«— Varie.
«— Ci trovaste Lambertini?
«— Mai.
«— Forse non veniva nelle vostre ore?
«— Non ci veniva, addirittura. Lambertini era innamorato di un'altra.
«— Ah! — e un sorriso ironico sfiorò le labbra dell'agente. — Dimenticavo.
«— Posso andare?
«— Ancora pochissimo. Questa notte, siete venuti insieme, qui?
«— Separatamente.
«— Voi, prima?
«— Prima, lui.
«— Vedete che ci veniva?
«— Lambertini voleva partire ed era venuto per licenziarsi. —
«Detto questo mi morsicai le labbra, per aver detto troppo.
«Era possibile che un agente di polizia mi squilibrasse così, sino a cavarmi il mio segreto dalla bocca?
«In fondo, io sentiva qualche cosa di tragico che cresceva, intorno a me, senza che me ne potessi dare ragione; comprendevo che dal giorno in cui avevo schiuso il misterioso cofanetto e visto sul velluto oscuro la bellissima mano tagliata e ingemmata, il fato si appesantiva su me. Ma che io, Roberto Alimena, il conte Roberto Alimena, il giovane gentiluomo che aveva portato sino a trenta anni il suo nome come Baiardo, senza macchia e senza paura, dovesse trovarsi invescato da un agente di polizia, era enorme!
«— Il conte Ranieri Lambertini andò via prima di voi, è vero?
«— Sì: l'ho già detto, — risposi io, a malincuore, sempre più nervoso e agitato.
«— Perchè?
«— Perchè la contessa Clara Loredana mi trattenne un poco; disse volermi dire qualche cosa.
«— Ah! e che ne disse il Lambertini?
«— Non si turbò della vostra dimora in casa Loredana?
«— No; perchè avrebbe dovuto turbarsene?
«— Così. … non saprei. Sapete se era ordinariamente armato, il Lambertini?
«— Credo che portasse una piccola rivoltella americana.
«— L'avete mai vista?
«— Sì: una volta.
«— La riconoscereste?
«— Sì.
«— È questa? — disse il delegato, cavandola dalla tasca del suo soprabito.
«— Sì, questa.
«— È carica; non un solo colpo è stato tirato.
«— Era un agguato; Lambertini non avrà avuto il tempo di difendersi. …
«— Agguato, sì; ma ritengo che si sia difeso, — mormorò il delegato, pensando.
«— No.
«— E allora? —
«— Dove alloggiate?
«— All’Hôtel d'Europe, in piazza di Spagna, ma non vi rimarrò molto tempo.
«— Contate cambiar albergo? Prendere casa a Roma?
«— Ah! Presto?
«— Volevo andare via domani. …
«— Volevate andare via domani? — disse lui, con un altro dei suoi sinistri aggrottamenti di ciglia.
«— Sì, ma mi tratterrò per due o tre giorni, per avere qualche notizia migliore di Ranieri.
«— Andate in su?
«— E all'estero, forse?
«— Forse: secondo il mio capriccio e secondo alcuni fatti miei.
«— Sta bene. Grazie, signor conte.
«— A rivederci, — mormorò lui, con un tono tanto strano che io ebbi ancora un brivido.
«Uscii da quel salotto, inquetissimo. In anticamera tutto era illuminato e il servo sonnecchiava sopra una panca di legno scolpito. Gli chiesi se potevo vedere il conte Ranieri Lambertini. Andò di là; aspettai un pezzo. Ritornò, accennandomi di entrare per un'altra porta, al lato dove avevano condotto il mio povero amico. Attraversai così tre stanze, al buio quasi, e mi ritrovai in quella dove giaceva il ferito.
«Costui giaceva solo, su quel letto: e giaceva immerso in un torpore affannoso, col capo molto basso, per non provocare emorragia, col petto nudo dove premeva una vescica di ghiaccio. Era acceso nel volto; due macchie rosse e vivide, sui pomelli, indicavano che egli aveva la febbre. Un rantolo gli esciva dal petto e le mani distese sulle bianche coltri sembravano di cera. Io mi chinai su lui, a chiamarlo sottovoce. Non sollevò gli occhi, nessun tratto del suo viso si mosse.
«A un tratto, mentre mi sollevavo, per andarmene pian piano, sentii che qualcuno mi guardava. Nella penombra della stanza, dove una sola lampada era velata da un paralume oscuro, la contessa Clara Loredana era seduta in una poltrona; vestita di bianco, pallida, pareva un fantasma che vegliasse un morto.
«La sua testa era appoggiata a una mano; gli occhi avevano quell'aria stralunata di quando ella era apparsa nel giardino: e io non la riconoscevo più!
«Le augurai la buona notte, pianissimo. Ella mi levò gli occhi in fronte e un lampo vi passò. Di nuovo una espressione di orrore le turbò il viso e non rispose al mio saluto. Allora, sorpreso di nuovo, intendendo che il mistero tragico si addensava su me, le chiesi, sempre piano, ma con forza:
«Ella ebbe come un moto di ribrezzo e mi disse, enigmaticamente:
«— Voi lo sapete.
«— Non so nulla, non intendo nulla.
«— Non vi hanno interrogato?
«— Sì, lungamente.
«— E avete detto la verità? — ella mi chiese, con doppia intonazione di amarezza e d'ironia.
«— Io dico sempre la verità! — esclamai.
«— Così sia! Anche io dirò la verità, — ella rispose e mi guardò così tristamente che fui ripreso da tutti i miei terrori segreti.
«— Quale verità, signora? — domandai.
«— La verità sull'assassinio del conte Ranieri Lambertini.
«— Voi la conoscete?
«— Sì, la conosco, — replicò lei, sempre a bassa voce, ma con fermezza.
«— Sapete la causa dell'assassinio?
«— Sì.
«— Sì.
«— Lo denunzierete alla giustizia?
«— Sì. —
«Tutte quelle affermazioni erano state fatte da lei guardandomi negli occhi, con voce bassa e dura, con le mani sui bracciuoli della sedia.
«— Siete sicura di non ingannarvi?
«— Sicurissima.
«— La giustizia ha una traccia sicura.
«— E quale?
«— L'arme dell'assassino, — e mi guardò, tenacemente.
«Io sorrisi, niente altro. Dopo un minuto, ero uscito da quella camera. Dopo quindici ero nella mia stanza all'Hôtel d'Europe.
«Vi dirò io di aver dormito bene, in quel restante di notte? No, certo. I miei nervi erano singolarmente eccitati e la figura del mio povero amico mezzo morto, giacente in quel letto di dolore, la spettrabile immagine di Clara Loredana nelle sue vesti bianche, quella bieca figura del delegato che era stato con me tanto scortese e tanto diffidente, mi tumultuavano nella mente. Dormii poco e male. Ebbi l'incubo, nel sogno confuso e tormentoso. Mi pareva continuamente di vedere il mio amico Ranieri Lambertini aggredito, alle spalle, dal gobbo con gli occhi verdi, che levava su lui un'arma che non giungevo a intravvedere, mentre io, sulla soglia del villino Loredana, guardava inorridito la scena, senza poter fare un passo, inchiodato a terra da un potere magico, senza poter dare un grido, soffocando; accanto a me, donna Clara, tutta vestita di bianco, guardava la scena con occhi scintillanti di gioia e portando sulle labbra un sorriso infernale. Che pena! E, cosa singolare, il maggiore mio tormento, in quel sogno che era un'allucinazione, era di non potere scorgere bene, quell'arme insidiosa e terribile di cui l'infame gobbo dagli occhi verdi si serviva per togliere la vita al mio infelice amico; vedevo risplendere sinistramente una lama, niente altro, non sapevo se fosse un pugnale, un coltello, non so troppo bene. Il non sapere mi torturava, come se nel vedere che fosse, quell'arma, potesse consistere il motto dell'enigma!
«Così era! Abbrevio. L'indomani, alle dieci antimeridiane, io era arrestato, sotto la imputazione di tentato omicidio, con premeditazione, sulla persona del mio amico Ranieri Lambertini; due prove terribili esistevano contro me, oltre la serata passata insieme, oltre l'avermi trovato disteso sul suo corpo e macchiato del suo sangue. Due prove: cioè, una prova, il pugnale, il mio pugnale, un magnifico e sottile pugnale di Toledo, un'arma spagnuola sul cui pomo era scolpito il mio stemma e le due iniziali del mio nome; un pugnale che io portavo sempre meco, non per servirmene, ma perchè era molto bello e le belle armi mi inebbriano. Il mio pugnale era stato trovato immerso nella ferita di Ranieri Lambertini! La seconda prova atroce, contro me, era invece una testimonianza, quella della contessa Clara Loredana, la quale aveva deposto che Ranieri ed io, da tempo, le facevamo la corte, e che questa rivalità, dove il conte Lambertini pareva a me il preferito — ella, naturalmente, non preferiva nessuno dei due — aveva suscitato delle liti continue fra me e il mio amico, fino a che, io era venuto via, come folle, dalla casa dove ella mi aveva ancora una volta respinto, e raggiunto, dopo cinque minuti, il Lambertini, nel viale oscuro del giardino, lo avevo assalito alle spalle e ferito in quel malo modo. Questa seconda parte, ella la induceva dal modo pazzo come io era andato via di casa, dalle minacce che avevo fatte e dal mio carattere impetuoso e violento; e aveva proprio detto che io ero uscito cinque minuti dopo! Tutto questo io seppi più tardi, in carcere, dal mio avvocato, l'illustre Sergardi; e la prova dell'infame complotto ordito dal gobbo, mi fu palese. Il pugnale, abilmente, mi era stato sottratto, e la contessa veneziana, di così nobile casato, bella, giovane, ricca, non era che uno strumento vile del gobbo. Credete, mi vidi perso: perso, sopra tutto, perchè il Lambertini è stato tre mesi fra la vita e la morte, passando di bronchite in polmonite, di pleurite in congestione cerebrale, sputando sangue, vomitando sangue, non potendo nè levarsi, nè parlare, nè scrivere. Perduto! Così, il gobbo aveva ottenuto il suo duplice scopo. Ranieri Lambertini non era morto, ma agonizzava ed era in suo potere, nella casa della Loredana; io era carcerato, sotto una imputazione tremenda: i suoi due nemici erano per terra, dunque, ed egli trionfava! Una sola cosa mi confortava, in tanta disgrazia, lo credereste? La mano tagliata era sempre in mio possesso, a Milano, nella mia casa, chiusa fra altri oggetti spediti da me; e nessuno, neppure lui, ne aveva potuto ritrovare le tracce. Io ritengo che egli aveva commesso quel delitto, facendomene accusare colpevole, solamente per poter riavere quel bizzarro e pauroso pezzo di persona umana. Difatti, nella mattina in cui ero stato arrestato, una prima perquisizione era stata eseguita, nel mio quartierino, all'Hôtel d'Europe, da falsi agenti di questura, come ho saputo più tardi, che misero sossopra tutti i miei bagagli e poi finirono per non portar via nulla; una seconda perquisizione, la vera, fu fatta più tardi nel corso della giornata e dai veri agenti furono portate via lettere, armi, altre cose, supposte necessarie al processo. Ma niente; la mano era mia e malgrado le mie sventure e quelle di Ranieri Lambertini, il nostro orrendo nemico doveva morir dalla collera.
«Più tardi, come vi ho detto, la mia posizione d'imputato si è venuta migliorando. Le deposizioni di una quantità di persone che mi conoscevano — la vostra, anche — la importantissima, capitale deposizione del conte Lambertini, che negò assolutamente ogni mio intervento nell'aggressione, che negò i nostri amori con Clara Loredana, che negò ogni rivalità e ogni lite, tutto ciò migliorò la mia condizione. Ma non mi ha potuto salvare, tutto questo.
«È sempre il mio pugnale, quello che è stato trovato nella ferita di Ranieri Lambertini; sono sempre io, che sono stato trovato disteso sul suo corpo; la Loredana seguita a sostenere, limpidamente, la sua versione. L'hanno interrogata in contraddizione con me, in confronto col Lambertini; si è ostinata a dire sempre la stessa cosa, con una audacia singolare. Io non sono salvo, giacchè la giustizia può supporre in Ranieri Lambertini un generoso perdono e un desiderio di scamparmi; giacchè lo stesso Lambertini non ha saputo e potuto dire nulla sul tentato assassinio di quella notte; egli non ha visto niente, è stato aggredito alle spalle, non sa da chi; e, sopra tutto, egli, come me, non avendo prove, non avendo che indizi sul gobbo e non volendo dire il suo segreto, ha taciuto sempre. Mi salverò? Chi sa! Mi hanno dato la libertà provvisoria e, probabilmente, il processo sarà fatto molto tardi; e, forse, mi lasceranno passare all'estero, senza molestarmi.
«E, credete voi, amico mio venerato, che io pensi a difendermi da queste terribili accuse, che io desideri essere assolto in questo processo per riabilitarmi, credete voi che io abbia escogitato tutto un sistema di difesa? No. Io ho invece escogitato un piano di attacco. Oramai, il dado è tratto.
Quel miserabile infame gobbo, dal pomeriggio in cui io l'ho incontrato in un vagone di prima classe, da quella sera in cui egli ha abbandonato in mio possesso la mano tagliata, questo atroce malfattore, domina la mia vita. Io non gli ho fatto niente; egli ha dimenticato il misterioso cofanetto nelle mie mani; egli è scomparso, lasciandomelo; egli non me lo ha chiesto; egli non s'è presentato a me, dopo gli avvisi nei giornali. Non è colpa mia, se io possiedo la mano tagliata, questa bellissima mano di donna, che deve appartenere ad una sua vittima, e che io ho finito per adorare come una persona viva. Sono innocente, dunque, nella fatalità che m'ha colpito; e questo scellerato mi perseguita senza ragione. Or dunque, un legame terribile mi unisce a quest'uomo, ed io debbo assolutamente cercarlo, conoscere il suo segreto, annientare la sua potenza, uccidere forse quest'uomo. Sapete che sono un gentiluomo, e che rifuggo dalle risoluzioni violente; ma, oramai, una lotta corpo contro corpo, anima contro anima, è sorta tra me e questo assassino; il primo colpo l'ho avuto io, debbo pensare a dargli il secondo colpo.
«Egli ha macchiato il mio nome di un'ombra, forse indelebile; egli mi ha additato al disprezzo e all'orrore della gente; egli mi ha teso un tranello infame; io non debbo difendermi, debbo aggredirlo. Ho dei denari, e non so che cosa farne; sto bene in salute, sono giovane, sono coraggioso, sono anzitutto freddamente deciso a conoscere il mistero di quella esistenza e a purgare la terra da questo mostro.
«Dedicherò la mia vita, il mio denaro, tutta la mia astuzia e tutta la mia forza a questo scopo; egli si è fatto un nemico mortale ed implacabile. Mi crede forse uno sciocco o un vile; non sono nè l'uno, nè l'altro; cercherò quest'uomo, lo troverò, mi misurerò con lui, direttamente; e Iddio giudicherà fra noi.
«Credete che io sia esaltato, in questo momento? No, sono freddissimo, tanto freddo, che ho già un piano. Bisogna che io riveda Ranieri Lambertini e che mi faccia dire da lui tutto quello che può riguardare Rachele Cabib, la donna che egli amava e che lo amava; bisogna che io ritrovi questa donna, la quale sparve misteriosamente, nella mattina dell'assassinio; bisogna che io ritrovi Mosè Cabib; bisogna che io ritrovi l'altra, la donna dalla mano tagliata; bisogna che io ritrovi il gobbo.
«Vi rammentate? Nel giorno, in cui vi feci vedere la bellissima mano tagliata, voi vi stupiste del modo mirabile come era conservata quella mano, e mi diceste che avevate sentito parlare di un medico, che avesse scoperto il segreto di conservare perfettamente i corpi, come se fossero vivi. Anche, mi diceste che avreste fatto l'analisi del liquido che traeste dalla vena punta di quella mano, e che me ne avreste comunicato il risultato.
«Avete fatto quest'analisi? Che cosa è quel liquido? Vi siete potuto ricordare quel nome, o qualcuno ve l'ha potuto suggerire? Scrivetemene; se non lo avete fatto, fatelo. Scrivetemi questo risultato, io ci tengo moltissimo. Ho un presentimento strano, che da voi mi verrà il più vivo raggio di luce, perchè io trovi il mio cammino, nelle tenebre. Ritengo fermamente che mi verrà da voi il più largo sussidio morale a questo tentativo che ha la sua nobiltà.
«Io rimarrò ancora quattro o cinque giorni in Milano, dopo di che lascerò l'Italia per Parigi, dove mi stabilirò, aspettando che il mio processo venga alla luce, ritornando solo, quando dovrò rispondere innanzi alla giustizia di una colpa che non ho commessa. Da Parigi, io credo, potrò agire più liberamente, tanto più che potrò colà trovare qualcuno di quei poliziotti, che perpetuano l'eredità del signor Lequoc. Se anche colà non dovessi trovare il mio uomo, o i miei uomini, per formare la mia polizia segreta, andrò a cercarli a Londra, dove la polizia ha quelle tradizioni che voi sapete.
«Ma tutto questo non è ancora certo: scrivetemi a Milano, aiutatemi, vogliatemi bene, beneditemi.
Una lettera del professor Silvio Amati giunse a Milano all'indirizzo del conte Roberto Alimena due giorni dopo che egli ne era partito. I suoi servi gliela rispedirono a Parigi, al Grand Hôtel; egli non vi era rimasto che due giorni, pur lasciandovi le valigie, dicendo che vi sarebbe ritornato, e facendosi indirizzare le lettere a Londra Hôtel Piccadilly. La lettera del professore Silvio Amati conteneva poche righe.
IV.
Il conte Roberto Alimena era giunto in Londra in una giornata di bel tempo. Bel tempo relativo, naturalmente, al clima inglese: vale a dire, che non faceva freddo, non pioveva, e qua e là, a traverso lo strato bianco delle nuvole, si vedeva qualche lembo di cielo di un azzurro sbiadito. Egli conosceva già Londra, per esservi capitato due o tre volte, ad intervalli, restandovi un paio di settimane alla volta. Quel paese gli piaceva molto. La natura raffinata, indolente e fantastica del conte Alimena molto si confaceva a quell'ambiente dove l'estetica è la veste della comodità e dove il lusso ha qualche cosa di grande e di solenne, dove l'immaginazione meridionale riceve delle impressioni tutte diverse e si può smarrire ne'sogni più bizzarri.
L'Alimena aveva anche qualche amico a Londra, specialmente all'ambasciata, ed era sempre sceso all'Albergo Piccadilly, dove si ritrovò con un senso di viva soddisfazione. In fondo, egli aveva temuto di non poter passare il confine, e, con una specie di audacia curiosa, aveva fatto a Milano lungamente i suoi preparativi di partenza: si può dire che era partito con la più perfetta ostentazione. Nessuno lo aveva seccato, nè a Milano nè al confine, mentre era andato via di giorno, con un gran lusso di bagagli, e telegrafando qua e là. Evidentemente, la questura aveva avuto ordine di lasciar pure partire il conte Roberto Alimena: o non aveva avuto nessun ordine, il che valeva lo stesso. Egli aveva passato il confine, con un leggiero palpito, non già di paura, ma di una commozione complessa, e quasi indefinibile. Egli non aveva paura; ma il suo desiderio di ritrovare il gobbo maledetto dagli occhi verdi, lo aveva talmente preso, che il suo timore era quello di non poter avere le mani libere per ricercarlo, per smascherarlo e per debellarlo. Questa, oramai, era la sua missione nella vita: missione nella quale si adombrava il vivo e segreto amore che egli aveva per quella mano tagliata, il vivo e segreto amore per la donna vestita di bianco, che nella sera di carnevale gli aveva lanciato un fiore, levandosi in piedi, e a lui era parso che nelle pieghe della veste bianca si nascondesse la deformità di un moncherino. Così la indifferenza delle questure a suo riguardo lo aveva riempito di gioia.
Roberto Alimena era restato solo pochi giorni al Grand Hôtel di Parigi. In quel momento i divertimenti enormi della grande città non lo attiravano, ed egli non aveva neppur voglia di farsi vedere in pubblico. Era venuto per restare un mese; non restò che un numero limitatissimo di giorni. Egli, però, tentò di eseguire il piano meditato contro il gobbo dagli occhi verdi; e, accompagnato da lettere commendatizie pel direttore della polizia francese, egli si recò da lui per organizzare un sistema di scoperta anche al costo di molti denari.
Egli ebbe due o tre conferenze con quel signore, e, forse a torto, forse a ragione, Roberto Alimena si convinse che, malgrado i suoi brillanti successi, la polizia francese non avesse quella serietà che egli credeva necessaria ad una ricerca lunga e difficoltosa.
D'altronde il direttore della polizia gli dichiarò che in quel momento non poteva mettere nessun uomo capace a sua disposizione, visto che tutti erano impegnati in faccende di ordine delicato e grave. Forse fra quindici giorni, fra un mese, un paio di agenti che si trovavano a Bruxelles sarebbero potuti ritornare dalla loro sorveglianza sulle mene del principe Vittorio e avrebbero potuto aiutare l'Alimena nella ricerca del medico. Egli ringraziò e andò via. L'indomani s'imbarcava a Calais.
Nel tragitto da Calais a Douvres, l'Alimena ebbe una strana sensazione d'imminente dramma, diciamo così: presentimento che lo aveva già colto nelle serate di Roma, quando passeggiava con Ranieri Lambertini e mille vaghi pericoli li minacciavano. Mentre sonnecchiava giù nella sua cabina, egli ebbe una strana allucinazione: gli parve di vedersi accanto l'infame gobbo dagli occhi verdi, mentre lontano, bianco, si allontanava un fantasma femminile, e di questo volto muliebre egli non arrivava a vedere le linee: egli ne scorgeva solo lo sguardo, uno sguardo infinitamente triste e dolce, e gli pareva che questo fantasma lo salutasse con la mano, perdendosi, con una mano simile a quella tagliata, mentre il gobbo accanto a lui orribilmente sghignazzava. Si svegliò di botto da quest'allucinazione, ma gli rimase nei nervi un tremolìo invincibile, come più si avvicinava alle sponde dell'Inghilterra.
D'altra parte, il presentimento si poteva facilmente intendere: egli veniva in Inghilterra, senz'altra idea, che quella di trovare due agenti di prim'ordine, per viaggiare con essi l'Europa, pagandoli profumatamente, ed era così sicuro di riescire nel suo intento che il sogno quasi si spiegava.
Però, rimase due giorni a Londra, vivendo della vita londinese, ripreso dal fascino di quella vita lussureggiante di piaceri squisiti. Fu al terzo giorno che ritrovò uno de' segretari, suoi amici, che già stava al corrente della disgrazia da lui sofferta, ma che aveva compreso che l'Alimena doveva esser vittima di un tranello.
Costui gli narrò sommariamente le cose, ma gli fece soprattutto intendere la necessità in cui si trovava di scoprire questo suo nemico e di strappargli il suo segreto. Il giovane segretario, abituato alle lunghe pratiche segrete della diplomazia, non si meravigliò di nulla e prese convegno col conte Alimena pel giorno seguente, per andare dal signor Vincent, direttore della polizia inglese.
Questo austero gentiluomo dalle labbra e dal mento perfettamente rasi, dalle fedine bianche, ricevette con fredda buona grazia i due giovani, e, sulle prime, non parve si volesse sbottonare. Ma quando il conte Alimena insistette, per avere una risposta soddisfacente, egli finì per dimostrare ad Alimena quali e quanti servigi straordinari quei detectives potessero rendere.
Il direttore della polizia narrò al conte Roberto Alimena e al marchese Billia due o tre esempi di processi celebri, in cui l'opera degli agenti era stata volta a volta così tenace, così intelligente, così ostinata e così intuitiva, che i più bei romanzi sensazionali degli scrittori inglesi e francesi non raccontavano nulla di somigliante. L'Alimena gli domandò se i detectives si mettessero mai al servizio di un privato per un suo interesse particolare, cosa che in Italia era proibita legalmente e che in Francia non si otteneva senza gravi difficoltà. Il direttore gli rispose che nella libera Inghilterra questo era un fatto comune, salvo che i grandi detectives, cioè i più capaci, i più furbi, quelli che arrivavano al sommo dell'arte poliziesca erano quasi sempre occupati e non disponibili.
— Eppure io ho bisogno che lei mi dia uno di questi uomini, — soggiunse Alimena con una ferma intenzione di vincere le difficoltà dell'impresa.
— Ho poco personale disponibile, — riprese il direttore. — Ed è poi un interesse grave quello che la induce a tal passo?
— È un interesse gravissimo.
— Di odio, di amore? — chiese freddamente il direttore.
— Di odio e di amore, — rispose Roberto.
— È una donna?
— Sì, anche una donna; ma, prima, l'assassino.
— L'ha egli uccisa?
— Forse ha tentato di ucciderla.
— Io non lo so, signor direttore.
— Chi è?
— Non lo so.
— Non ha lei qualche indizio?
— Qualcuno; ma il vostro detective troverà tutto questo.
— Interessa lei solo questa ricerca?
— Interessa la vita di quattro persone.
— Lei ha ragione, — rispose con freddo sorriso il direttore della polizia — ed io cercherò di aiutarla. Crede che queste ricerche dureranno molto?
— Potrebbero durare una settimana, potrebbero durare un anno.
— Sta bene: l'uomo che potrebbe servirla è Dick Leslie.
— Potrebbe? Non può?
— È occupatissimo in questo momento, alla ricerca di un figliuolo naturale di un lord: una questione di testamento, una questione di milioni.
— E, crede lei, che la cosa andrà in lungo?
— Chi lo sa? — riprese il direttore. — Dick Leslie è capace di tutti i miracoli.
— Che peccato! — mormorò Roberto Alimena, pieno di malcontento.
— Lei non può aspettare? — chiese il direttore.
— Qualche giorno, sì; ma, non molti giorni.
— Speriamo che Dick Leslie rientri subito dalla sua missione, — soggiunse il direttore, accomiatando Roberto Alimena e il marchese Billia. — Creda, signore, che appena sarà di ritorno, io glielo manderò subito, se gravi cose non urgono. —
Roberto Alimena tornò al suo albergo fra contento e malcontento. Infine, il suo disegno era abbastanza fantastico: egli non sapeva chi fosse, dove fosse, che facesse il gobbo dagli occhi verdi; lo aveva visto due o tre volte di sfuggita, niente altro. Salvo questi connotati, e la sua condizione di ebreo, Roberto non avrebbe potuto dir altro a Dick Leslie, quando costui si fosse presentato; ed era un po’ poco, per cercare un uomo in Europa. Aveva poca fiducia nelle maggiori notizie che aveva chieste sotto il suggello dell'amicizia a Ranieri Lambertini: aveva nessuna speranza dalla parte del professore Silvio Amati, che era, infine, uno scienziato isolato dal mondo e immerso in uno studio assorbente. Cercare un uomo così, come un ago in un pagliaio, era un disegno pazzo. Ma Roberto Alimena concluse che non gli restava altro da tentare. Così, passò due giorni all’Albergo Piccadilly, immerso nelle dubbiezze e nelle riflessioni più strane, quando una mattina gli fu annunziata una visita. Veramente, non gli fu annunziata: gli fu detto che un gentiluomo chiedeva di parlargli, ma che non aveva voluto dire il suo nome. Roberto, che era sempre sospettoso e diffidente, cavò dall'astuccio un piccolo revolver meraviglioso, delizioso come un giocattolo, ma infallibile, e lo depose sulla scrivania, dicendo al cameriere di fare entrare lo sconosciuto.
Un uomo ancora giovine, robusto, con una fisonomia aperta e bonaria, con un paio d'occhi vivaci, ma senza malizia, un uomo dell'apparente età di trentacinque anni, raso il mento, le guance come un clergyman, e vestito decentemente di scuro, entrò nella camera, facendo un saluto disinvolto.
Roberto lo squadrò con una fredda occhiata e non vide in quella fisonomia e in quella persona che l'apparenza semplice, un po’ ingenua, forse di un placido borghese di Londra. Dal volto di quell'uomo tutto spirava ingenuità e bonomia: ognuno gli avrebbe confidato i propri segreti, senza esserne richiesto.
— Voi chi siete? — domandò il conte Alimena.
— Sono la persona che Vostra Signoria aspettava.
— Quale persona? — chiese Roberto, trasognato.
— Vostra Grazia non ha domandato di me, dunque? — chiese enigmaticamente il buon uomo.
— A chi?
— Vostra Grazia è il conte Roberto Alimena, italiano?
— Sì.
— Non è ella andato ieri l'altro alla direzione di polizia?
— Sì.
— Non le è stato detto che io sarei venuto da lei, appena avessi potuto?
— Voi, dunque, siete Dick Leslie? — domandò con ansietà Roberto Alimena.
— Così pare, — rispose con un sorriso bonario il detective — Dick Leslie, figliuolo di Rob Leslie e di Margaret Bright, nato a Withe-Chapel, in Londra. E, Dio salvi la Regina, — finì il giocondo uomo.
— Ma, siete proprio voi? — domandò, di nuovo, Roberto, che non sapeva persuadersi di quell'aspetto così schietto e di quella gaiezza così rumorosa.
— Ecco la mia carta, ed il mio ritratto, — disse Dick Leslie, cavando un foglio ed una fotografia, e mostrandoli a Roberto.
Era un foglio di passo della polizia di Londra, che dava anche i connotati dell'agente, simili a lui e simili al ritratto. Non vi poteva essere più dubbio.
Allora, Roberto Alimena disse al detective:
— Dunque, siete libero?
— Avete ritrovato il figliuolo del lord? — disse Alimena, con la spensieratezza italiana. — Mi aveva detto. … il direttore della polizia. … — mormorò Roberto Alimena, mordendosi le labbra.
Dick Leslie ebbe una tale espressione di sorpresa e di candore, che Alimena stornò subito il discorso:
— Siete pronto a servirmi? — chiese, andando al fatto, come se fosse un vero inglese.
— Pronto.
— Si tratta di trovarmi un uomo.
— Bene.
— Bene.
— Non so neppure se sia un uomo o un essere fantastico.
— Bene, — replicò Dick Leslie, senza batter palpebra.
— Voi me lo troverete? — domandò Roberto, un po’ sorpreso.
— Morto?
— Potrei indicarvi la sua tomba, — replicò il detective con una cordiale risata.
— Tanto meglio! Ma egli è vivo, forse.
— Vostra Grazia sa, dunque, qualche cosa di costui?
— Qualche cosa, sì.
— Vostra Grazia mi permette d'interrogarla?
— Sì. Interrogatemi.
— Come è quest'uomo?
— È un uomo di cinquant'anni, forse, poco meno.
— Sì, perfettamente gobbo.
— Bello, brutto, Vostra Grazia?
— Bello, come?
— Brutto, bruttissimo: un mostro.
— Benissimo. Qualche altro connotato?
— Verdi, proprio? Sinceramente verdi? Non azzurri? Non grigi?
— Verdi, verdissimi, non ho mai visto occhi così verdi.
— Ha un viso scialbo e sul muso, sulle guance, pochi peli radi e sporchi.
— Vostra Grazia dove lo ha visto, l'ultima volta?
— Solo?
— Ah, tanto meglio! Donna giovane?
— Non tanto più giovane; vestita di bianco, coi capelli bruni e gli occhi neri.
— Niente altro?
— . … Sì, — disse, esitando, Alimena.
— Che cosa? —
Il conte Roberto Alimena squadrò da capo a piedi il detective Dick Leslie, quasi che non volesse dirgli tutto. Costui ebbe un lieve aggrottamento di ciglia e soggiunse, con voce fredda:
— Vostra Signoria deve dirmi tutto. Se non ha fiducia in me è inutile adoperarmi.
— Io ho fiducia. … ma non sono perfettamente certo di questo particolare.
— Ebbene, questa donna ha una mano di meno.
— Ah! — disse il detective, con un lampo negli occhi.
— Sta benissimo. È un signore, costui?
— Non so.
— È italiano?
— Non so.
— Inglese?
— Non so.
— Cattolico?
— Questione di amore, di denaro?
— Non so dirvi. È un mio nemico mortale. O lui o io dobbiamo morire.
— Un delitto?
— Forse.
— Vostra Grazia ha quella mano, è vero?
— Sì.
— Volete lasciarmela vedere?
— No, — disse subito Roberto Alimena.
— Allora, non ne facciamo niente! — esclamò, subito, Dick Leslie.
— Piuttosto, non facciamone niente! — replicò Roberto, freddissimamente.
— Vostra Signoria ama più la donna di quella mano che non odî il gobbo dagli occhi verdi, — disse l'agente segreto; poi soggiunse dopo un pausa: — Eppure, è assolutamente necessario che io la vegga. … Forse, ho una traccia.
— Una traccia? — disse Roberto e gli balenarono gli occhi.
— Sì. … sì, ma non voglio ancora dire nulla a Vostra Signoria.
— Sta bene, — disse, con un lieve movimento nervoso Roberto Alimena. — Ora vi farò vedere quella mano.
— Vostra Signoria vuole assolutamente trovare questo gobbo?
— Anche se fosse in capo al mondo?
— È pronto a pagare viaggi, spese, premi?
— Sì, tutto.
— Che limite?
— Sino a venticinquemila lire, se occorre di viaggiare.
— Se no?
— Un compenso a voi: cinquemila lire.
— No, dieci.
— Bene, dieci.
— Io porterò il suo nome, il suo indirizzo, il nome della donna, tutto, per diecimila lire.
— Benissimo. Vi darò duemila lire anticipate. —
Roberto Alimena si assentò per dieci minuti dalla stanza, ove lo aspettava Dick Leslie. Ancora una volta, nella sua camera da letto, egli ebbe una esitazione, prendendo nelle mani il cofano, dov'era chiusa la mano tagliata. Doveva proprio farla vedere al Dick Leslie, a un estraneo infine, a un uomo che si poteva anche vendere al suo nemico. Ma il dubbio non durò che un minuto: chi vuole raggiungere lo scopo, deve adottar tutti i mezzi. Se voleva ritrovare il gobbo dagli occhi verdi, bisognava che facesse qualche sacrifizio. Si mise sotto il braccio il prezioso cassettino e rientrò nella stanza, dove Dick Leslie guardava in aria, come se guardasse i travicelli.
— Ecco, — disse Roberto, schiudendo il cofanetto.
Dick Leslie si chinò sulla bellissima mano tagliata e la osservò con grandissima attenzione, per qualche tempo. Osò perfino di toglierla dal suo letto di velluto e tentò di cavarne gli anelli.
— Che fate? — gridò Roberto fremendo di quel contatto estraneo.
— Niente, osservo, — soggiunse Dick, senza levare gli occhi.
E, difatti, osservò ancora per un pezzo, con gli occhi fissi su quella epidermide rosata, su quelle unghie lucide, su quegli anelli gemmati. Poi, levato il capo, disse a Roberto:
— Come l'avete avuta?
— Per caso.
— Da molto tempo?
— Da sei mesi.
— Chi ve l'ha data?
— Egli l'ha dimenticata.
— Dove?
— In treno. Abbiamo viaggiato insieme.
— Soli?
— Solissimi.
— Siete certo che egli l'abbia dimenticata?
— Ne sono certo, — riprese Alimena. — Ha tentato di riaverla.
— Sì.
— Ha voluto uccidervi?
— Varie volte; ci è a metà riuscito.
— Che supponete su questa mano?
— Sta bene, — disse Dick, dando un ultimo sguardo alla mano tagliata. — A rivederci.
— Quando? — disse con ansietà Roberto.
— Appena saprò qualche cosa. Vostra Grazia non si muove da Londra, è vero?
— No, non mi muoverò. Nel caso partissi, lascerei il mio indirizzo.
— Sarà bene che Vostra Grazia non parta, — disse Dick Leslie, con tono distratto.
— Vale a dire? — domandò Roberto.
— Vale a dire, che il nostro uomo è probabilmente in Londra.
— Voi credete? È dunque il destino che mi mette sulle sue tracce?
— Dite la Provvidenza, — soggiunse Dick Leslie. — Al piacere di rivedere Vostra Grazia.
— Presto, è vero?
— Al più presto. —
Però, passarono tre giorni, senza che Roberto Alimena avesse riveduto Dick Leslie. La sua impazienza e la sua ansietà erano arrivate all'estremo, quando la sera del quarto giorno, rientrando dal Covent-Garden, gli dissero che una persona lo aspettava nella sua stanza. Egli trovò Dick Leslie seduto presso il camino, con aria insolitamente meditativa. Quell'aspetto concentrato, turbò il conte Alimena; egli previde che Dick Leslie avesse fatto un fiasco completo. Ma, se avesse fatto fiasco, perchè sarebbe venuto colà?
— Ebbene? — egli disse, sedendosi dirimpetto al detective che lo guardava quietamente.
— Si va, — rispose costui, semplicemente, ma a bassa voce.
— Cioè?
— Ho ritrovato il nostro uomo.
— Veramente? — gridò Roberto, fremendo di gioia, ma ancora incredulo.
— Ho ragione d'esserne certo.
— Dov'è?
— A Londra.
— Lontano?
— Così, così. Venti minuti di carrozza, — rispose laconicamente Dick Leslie.
— Come si chiama?
— Marcus Henner, — rispose l'agente di polizia, a voce molto bassa.
— Di che paese?
— È proprio lui? — chiese ancora Roberto.
— Proprio lui, piccolo, gobbo davanti e di dietro, con gli occhi verdi, emaciato, smunto, con una barbetta rada e sudicia, con un cranio, dove ispido e dove pelato.
— È lui, — disse con un profondo sospiro di sollievo Roberto Alimena.
— Che fa?
— È un medico, ma non un medico dei soliti, di quelli che accomodano le braccia rotte e che guardano le lingue sporche. È un medico di malattie nervose, ma è soprattutto un ipnotizzatore. Non guarisce, finge di guarire, cioè convince la gente di esser guarita, — spiegò Dick Leslie. — Il dottor Marcus Henner ha una larga clientela, specialmente femminile, e guadagna quello che vuole.
Egli viene ogni anno a Londra, per due o tre mesi; prende sempre il solito appartamento, e ne sparisce a data fissa, senza avvertire o salutare nessuno.
— Un uomo misterioso? — disse Roberto.
— Misteriosissimo. Girano, intorno alla sua casa, le facce più strane: egli fa la vita più bizzarra e più incomprensibile. Alcuni dicono di aver udito spesso delle grida orribili di donna uscire dalla stanza delle sue consultazioni. Ha dei servitori assolutamente fedeli; ma, ve n'è uno, che può diventargli infedele.
— Lo avete comprato? — disse Roberto.
— Non ve ne sarà bisogno; vi è una ragione, per cui tradirà il suo padrone.
— Quale ragione?
— Egli è devoto estremamente a Marcus Henner; credo che lo ami e lo tema; ma egli adora la sua padrona.
— Vi è dunque una padrona? — domandò, trasalendo Roberto Alimena.
— L'avete vista?
— L'ho intravvista.
— E dove?
— Dietro il merletto di una tenda.
— Ed è giovane ed è bella? — chiese Roberto, ansiosamente.
— L'ho intravvista, vi dico: ho visto degli occhi malinconici.
— Malinconici e fieri, — soggiunse Roberto Alimena, come se parlasse in sogno.
— Non tanto giovane, — riprese Dick Leslie — un po’ sciupata, simile ad una carcerata, o ad una folle.
— E chi è costei? — chiese Roberto Alimena, che non osava far la domanda più importante.
— Dice John che è la moglie di Marcus Henner, o forse sua sorella, o forse nulla. John adora questa donna, ma neppure sa chi sia.
— Neppure il nome? Il nome, vorrei sapere! — esclamò Roberto Alimena.
— Si chiama Maria: la signora Maria.
— Niente altro?
— Solo questo nome. È cristiana, però: anzi, cristiana fervente.
— Allora non gli è moglie! — gridò Roberto, trionfante.
— Amante, forse. … — mormorò Dick Leslie, come se pensasse ad altro.
— È impossibile, con un giudeo?
— Ho ragione di credere che sia anche un giudeo importante; il rabbino maggiore di Londra ci va spesso, sebbene questo Marcus Henner non vada mai nella sinagoga. Dicono, anche, che sia amico di tutti i Rothschild. Certo è che alla sua casa, di giorno, di notte, arrivano continuamente degli ebrei, laceri, stanchi, come se avessero viaggiato a piedi, da paesi lontanissimi. …
— Un capo?
— Sì, un capo di qualche cosa. … non so bene, ancora.
— E lei? E lei? — chiese ancora Roberto.
— Lei? Non so altro. Deve essere una vittima. …
— Sì, sì. Quando vedrete John?
— Questa notte.
— Dove?
— A un'osteria.
— Vengo anche io.
— No, Vostra Grazia.
— Sì, voglio venire.
— Ma con quale scusa?
— Direte che sono un amico vostro.
— Non mi crederà. Non dirà più niente.
— Dick Leslie, io non ci resisto!
— Ma a che non resistete, Vostra Grazia?
— Io voglio sapere se questa donna ha una mano tagliata.
— Dunque, è così? — gridò Roberto, afferrando il braccio del detective.
— Non è certo, non è certo!
— Quasi certo?
— Quasi.
— Oh datemene la certezza e le diecimila lire sono vostre!
— Sarebbe un troppo scarso servizio, — disse sorridendo l'agente di polizia. — Io dovevo scoprire il nome e l'indirizzo del vostro nemico e l'ho fatto; ma dovevo anche dirvi il suo segreto e non ve lo ho detto ancora.
— Io voglio liberare quella donna. Maria deve sfuggire al contatto di quel mostro. Voi mi aiuterete, Dick Leslie!
— Ciò è molto più grave, signore, — dichiarò il detective.
— Spenderò qualunque somma, — gridò Roberto, giunto al colmo dell'esaltamento.
— Non si tratta di denaro. Darvi delle informazioni, dirvi chi è, e che fa, e che vuole questo Marcus Henner, sì: aiutarvi in un colpo di mano, no. Io non sono che un agente di notizie, — disse Leslie, quietamente.
— Sta bene. Farò da me. Ma questa sera voi dovrete condurmi all'osteria.
— Vostra Signoria? È un'imprudenza.
— E perchè?
— Se John ci tradisse? Se fosse un agente di Henner e non un devoto della signora Maria?
— E chi può esser certo di nulla? Questo John è molto commosso dei dolori della signora Maria, della sventura. …
— Dunque, è sventurata? Vedete bene, Dick!
— Egli vorrebbe, forse, liberarla. … — soggiunse Leslie, guardando in viso Alimena.
— Ma ha una paura orribile di Marcus Henner! Ci può sfuggire, comprendete!
— Io verrò, questa sera, — soggiunse ostinatamente Roberto Alimena.
— Come vuole Vostra Grazia; ma io non garentisco le conseguenze.
— Che importa! Marcus Henner mi sfugga: io voglio Maria!
— Eh, Vostra Signoria doveva dirmelo, — disse sorridendo Dick Leslie.
— Dunque, mi venite a prendere?
— Sì, verrò.
— A che ora?
— Come me. Toglietevi anelli e catene, nessun gioiello: è un'osteria di mala fama. Non portate denaro addosso.
— E se John ne vuole?
— Non ne ha chiesto. Ritengo che vi servirà gratuitamente, per il piacere di salvare la sua signora. Ma sempre se si giunge a dominare la paura che ha di Marcus Henner.
— Ci arriveremo.
— Eh! È un po’ difficile. Con l'ipnotismo non si scherza, mio signore. John è sotto il dominio di una potente suggestione.
— Io credo nella volontà umana.
— A questa sera, Vostra Grazia, giacchè la mezzanotte è già passata.
Roberto Alimena era in uno stato di convulsione nervosa, ma di nervosità gioconda. Gli pareva di aver fatto un passo grandissimo scoprendo il nome e l'indirizzo di Marcus Henner; gli pareva di aver conquistato il mondo, avendo saputo un lembo della vita della povera carcerata. In quelle prime ore di pensieri, egli non dubitò neppure un momento che la signora Maria fosse la donna dalla mano tagliata; e sentì di amarla potentemente, senza conoscerla, avendola vista una sola volta, a Roma, di sera, di sfuggita. Così, egli trascorse la notte; ma, verso la mattina, stanco, esausto, un dubbio profondo lo assalse che tutte quelle cose dettegli da Dick Leslie fossero una frottola. E se il suo nemico non fosse Marcus Henner? Se il detective si fosse ingannato? Se il gobbo gli avesse teso un tranello? Era in questa crudele incertezza, quando la posta della mattina gli portò la lettera di Silvio Amati, respintagli da Parigi.
«Non vi ho scritto sin ora, perchè non potevo darvi nessuna precisa notizia sull'affare che tanto v'interessa. Ora posso dirvi questo: l'uomo che ha scoperto il segreto per imbalsamare i cadaveri, si chiama Marcus Henner; è dottore, è ebreo, è gobbo, e ha gli occhi verdi. In questo momento abita a Londra. Vi stringo cordialmente la mano.
Un movimento di trionfo sollevò lo spirito del conte Alimena dinanzi a questo incrociarsi così serrato de' fili del suo romanzo. Il potente interesse che animava la sua vita e per cui egli aveva arrischiato l'esistenza, e si trovava nel pericolo di un grave processo, pareva fosse giunto al suo culmine; ed egli tremava di commozione, pensando di poter vedere la misteriosa donna dalla mano tagliata, di poterla strappare a Marcus Henner, di dirle che egli l'amava, avendo cominciato per amare quella povera cara mano troncata. Egli era certo, Roberto Alimena, di poter strappare al terribile gobbo la sua preda, come se non avesse avuto delle prove che il gobbo dagli occhi verdi fosse un mostro di intelligenza e d'infamia, un uomo misterioso, oscuro e potente.
Tutto il giorno egli non osò di uscire dal suo Albergo Piccadilly per timore che venisse un contr’ordine di Dick Leslie, per timore che il gobbo dagli occhi verdi, incontrandolo per la via, non si mettesse in sospetto e non tentasse qualcuno de' suoi orribili tranelli. D'altra parte, il detective, con molta furberia, non aveva detto a Roberto Alimena l'indirizzo di Marcus Henner, temendo che il giovane gentiluomo non commettesse qualche grave imprudenza; e, nell'ansietà di quella felice scoperta, Roberto Alimena aveva dimenticato di chiederglielo.
D'altronde, a che sarebbe uscito di casa, l'Alimena? La sola cosa, che lo aveva attirato a Londra, era il desiderio di scovare Marcus Henner e il suo segreto. Aveva avuto la fortuna, in tre giorni, di andare diritto alla verità, che gli era giunta da due parti, da Dick Leslie e da Silvio Amati, il che gli sembrava un disegno della Provvidenza, che voleva favorirlo nella sua intrapresa.
In quella giornata, egli non fece altro che leggiucchiare, fumare un centinaio di sigarette, bere una quantità di bibite inglesi, fredde e calde, senza mai uscire dalla sua stanza. Egli pranzò nel salotto attiguo alla sua camera, tutto solo, cercando d'interessarsi alla lettura del Times, inutilmente.
Aveva pranzato prestissimo e la serata gli si parava innanzi interminabile.
Chiuse tutte le porte, accese tutti i candelabri, come faceva sempre prima di compiere questo atto di adorazione, e schiuse il cofanetto della mano tagliata.
Quanto era bella! E pensare che tutti quanti, Silvio Amati, Héliane Love, Ranieri Lambertini, tutti gli avevano detto che quella era la mano di una morta e che il suo era un sogno, una follìa, mentre egli solo, tenacemente, con una fede incrollabile, aveva creduto che quella mano fosse di persona ancora viva, ed aveva desiderato di raggiungere quella donna, di conoscerla, di adorarla, di darle la sua vita. Egli era stato un uomo freddo e arido, sino allora; ma sono questi i caratteri glaciali che meglio divampano nella passione.
La lunga contemplazione di quella mano bellissima, in quella solitudine, dette come un risalto alla sua fantastica passione, e non sapendo resistere a questo impeto, si mise a scrivere una lettera a Lei.
«Mia diletta,
«Non vi conosco; non mi conoscete; ma l'anima mia vi ha visto già da tempo, quando nelle sue ore di penosa stanchezza morale ha invocato una donna, la Donna, perchè venisse a soffondere di poesia e di dolcezza una esistenza vacua e bene spesso amara. Non vi conosco; ma, io so chi voi siete. So il vostro nome persino, da ieri: voi vi chiamate Maria, voi portate il nome della più pura tra le vergini, voi portate il nome della più santa tra le donne, che fu mia madre. Credete: quando seppi il vostro nome, ieri, mi parve di averlo inteso già tante volte; nelle ore più care della vita, ne' sogni della notte, mi era così amorosamente noto questo nome, lo aspettavo tanto, che, quasi, io lo pronunziai contemporaneamente a colui che me lo diceva. Maria! Maria! Dove siete voi? Dove potrò cercarvi? Dove potrò vedervi, inginocchiarmi innanzi a voi, baciare il lembo della vostra veste bianca, e dirvi: «Signora, ecco il vostro servo?» Non eravate voi vestita di bianco, nella sera di febbraio, quando io vi vidi, sotto la luce tremula de’moccoletti, in piazza Venezia, quando vi levaste, nella candida vostra veste, e mi lanciaste un fiore, e mi sorrideste così dolorosamente, guardandomi con gli occhi malinconici e fieri? Maria, Maria! Vi ho seguìta nella notte, correndo affannosamente dietro la vostra vettura, e il vostro caro fantasma sempre più s'allontanava, e un affanno mi stringeva questo cuore che mi portavate via, e vi ho perduta, e tutto mi parve perduto con voi! Ma voi siete qui, in Londra, poco lontana da me, poco lontana dal mio desiderio di dedizione e di adorazione; ma, domani forse, io vi rivedrò, anima mia, mia dolcezza, mia cara donna sconosciuta, bella, infelice, dolente! Oh, quali lunghe storie di dolore io ho letto nei vostri occhi, in quello sguardo, quali torture ineffabili, inflittevi dal mostro che vi serra, vi carcera, vi sottrae all'aria, alla libertà e all'amore! Maria, quanto dovete aver pianto! Che veli di lacrime devono avere appannato i vostri occhi, che amarezze debbono avere inondato le vostre vene e impallidito per sempre il caro volto! Come dovete aver sofferto! Quand’io penso che mentre voi soffrivate, nel tempo trascorso, io, ignaro, lontano, godevo ne’ futili piaceri del lusso, rimprovero a me stesso queste ore vane, e penso che v'ho conosciuto troppo tardi.
«Maria, è troppo tardi? Credete che sia troppo tardi? No, perchè la vita comincia appunto quando comincia l'amore; perchè, se voi sarete mia, se io potrò rapirvi all'orribile mostro che vi tiene, la vostra vita rinascerà, più bella, più forte, novellamente giovane.
«Oh Maria, Maria, voi piangerete sul mio seno tutte le lacrime che non avete ancora piante, e io le rasciugherò lentamente, io bacerò i vostri bei capelli neri, io bacerò i vostri belli occhi neri che così malinconicamente e dolcemente mi hanno guardato, in piazza Venezia, quella sera! Dovessi morirne, vi toglierò a Marcus Henner! Se anche io muoio, avrò almeno ucciso l'atroce gobbo che è il vostro carnefice e voi sarete ridonata alla libertà. Io. … sarò felice di morire per voi. A che serve, questa mia vita! A che è servita, finora? E quale migliore fine che perire per voi, Anima?
«Chi siete, dove siete, che siete? Non so. So che io solo ho creduto alla vostra esistenza, quando tutti mi dicevano che era un sogno, che era una follìa: so che io solo mi sono ostinato a ricercarvi, dappertutto, fidando nel vostro divino fantasma e ritrovandovi viva, infine! Io ho creduto nella vostra ombra, o Maria! Quale innamorato ha presentito, così? Quale amante appassionato ha principiato per amare un’idea, una visione della fantasia, come me, e ha giurato fede a quest'ombra, ha giurato amore a una visione? Chi, se non io? Io sentiva che voi esistevate, Maria. L'ho sentito dal primo momento, in cui ho visto la vostra mano!
«Maria, Maria, quella mano, giunta in mio potere, per un caso tanto strano, capitata sotto i miei occhi, sotto le mie labbra, seguendo un destino tanto bizzarro, quella mano, Maria, io l'adoro, perchè è vostra, perchè è una parte della vostra persona, perchè io fremo di voluttà e di orrore, innanzi ad essa, pensando all'orribile stregone che vi ha mutilata! Dio, Dio, che cosa gli farò mai, io, a questo scellerato, a questo boia, per punirlo del suo efferato delitto, quale tortura inventerò io per farlo soffrire mille volte di più, di quello che voi, povera anima, avete sofferto? L'avrò io nelle mani e potrò io cavargli il sangue goccia per goccia? Quella mano, Maria, quella povera mano cara e morbida, tolta al vostro bel corpo, così barbaramente, tolta per compiere chissà quale atroce disegno, quella povera mano bianca e gemmata, che io copro di baci e di lacrime, quella mano grida vendetta innanzi al Signore! Voi siete credente, io lo so, voi siete piissima, Maria, e io anche credo, da che vi amo; ma voi, certo, non potete perdonare a costui, come Cristo perdonò, perchè Cristo era il Figliuol di Dio, e noi siamo uomini, siamo di carne e di ossa, non possiamo perdonare a coloro che hanno voluto ucciderci. Lo sapete che costui ha tentato di uccidermi? Lo sapete che ha messo alla morte, quasi, il mio migliore amico, Ranieri Lambertini? Suppongo qualche infamia di donne, perchè Ranieri amava una bellissima fanciulla israelita e intanto egli è ancora infermo, ella è sparita, tutto è finito e anche io sono fuggiasco! Fuggiasco! Che importa? Il mio destino, fatalmente, mi ha condotto qui, dove voi siete, guidandomici così direttamente, che mi sembra un miracolo. Io sono fuggiasco, Maria, ma vi ho ritrovata e vi porterò via.
«Verrete con me, è vero? Vi sgomentano, forse, le parole di amore che vi ho dette? Avete disgusto, ribrezzo dell'amore, forse? Siete ferita al cuore, avete qualche ricordo, avete qualche altro amore? Chi lo sa! Non importa. Se volete, io non vi parlerò d'amore. Io vi salverò, solamente. Bisogna che io vi salvi, Maria. Voi soffrite, voi piangete, voi vi disperate, lo so. Forse quest'uomo vi ama di un amore immondo e vi costringe a subire il suo talamo — Dio, come ucciderò io quest'uomo? — e forse voi avete resistito, ma le vostre forze sono esauste, il vostro coraggio è smarrito. Maria, vi salverò; non vi domando nulla, per questo. Forse vi siete votata a Dio. Forse non avete più fede nella vita e nell'amore, e le mie parole vi offendono. Non vi dirò più niente. Verrete meco, lontano. Come vorrete vivere, vivrete. Io non vi molesterò con preghiere e con lamenti, ma vi starò dattorno come un amico, come un servo, fedelmente, taciturno, pago di avervi salvata e di poter vivere con voi. Maria, credete, il mio cuore è tutto devozione per voi. Avete bisogno di fuggire, di essere libera, lontana, protetta da una tenerezza costante e io ve la offro, io non vi chiederò nulla, in cambio. Mi amerete voi, forse, un giorno? Forse, no. Ma io non ve ne parlerò mai. Non vi conosco, non mi conoscete. Ma mi conoscerete. Se sapeste che ero e che sono! Se sapeste che creatura arida, perversa, fredda, odiosa io era! E se vedeste che anima tenera, pia, mistica, devota, purissima ho io adesso, perchè vi amo, perchè la vostra cara mano è venuta sotto le mie labbra! Voi non vi offendete di questi baci, è vero? No, cara, no? Io. … non potrei stare senza baciarla e vi mentirei se vi dicessi che non lo fo. Maria, sarete per me quello che voi vorrete. Non mi abbandonerete mai, ecco tutto. Siete una buona cristiana e non condurrete un'anima alla disperazione. No. No. Lo so bene, che non mi lascerete mai!
«Maria, chi siete, dove siete, che fate, che pensate? Quale è la vostra istoria? Che siete, a questo terribile e brutto mostro di Marcus Henner? Da quanto siete con lui? Che gli avete fatto, perchè egli vi abbia tanto fatto soffrire? Donde venite, dove andate, quale è l'altro vostro nome? Mi direte tutto questo, è vero? Io vi adoro, me lo direte. Fra poco, forse. Sento che è fra poco. Questa notte io mi avvicinerò ancora più a voi e domani, nella notte forse, mio Dio, sarò vicino a voi, Maria, e inginocchiandomi innanzi a una martire, a una santa, bacerò il lembo del vostro vestito, bacerò l'altra vostra mano, con la devozione di un credente.
«Maria, sono vostro.
Egli rilesse ad alta voce quella lettera amorosa e malgrado le follìe passionali che vi aveva accumulate, gli parve fredda e scialba. Fu lì lì per lacerarla: ma si fermò. Folle come era, quella lettera, sarebbe servita al suo scopo se John si fosse deciso a portarla a Maria, nella medesima notte. Non sapeva, ancora, Roberto, come avrebbe salvato quella donna; ma era certo di salvarla.
Aveva appena finito di rileggere questa epistola, quando bussarono alla porta della sua stanza e il detective entrò. Dick Leslie era appena appena riconoscibile in certi panni vecchi sdruciti, macchiati, con una camicia lacera e un cordone di seta nera aggrovigliato al collo, che fungeva da cravatta. Il naso di Dick Leslie era rosso oltremisura, come quello di un beone: e anche la bocca aveva una smorfia di ubbriacone.
— Buona sera a Vostra Grazia, — egli disse, con una voce pastosa e roca.
— Buona sera, Leslie. Siete perfetto, anche nell'orario.
— È Vostra Signoria che è imperfetto. Vuol venire così, in una taverna di Druray Lane?
— È mal frequentata?
— Pessimamente. Tutti ladri, pregiudicati, assassini, avanzi di galera. Se vi vedono così bene vestito, vi aspetteranno in un angolo di via, per togliervi il soprabito.
— Dunque?
— Cambiar vestito: il peggiore; una camicia sciupata. Togliete ogni gioiello, specialmente gli anelli. Le mani saranno sempre bianche e Vostra Signoria sembrerà sempre un lord.
— Avrò questa roba? — chiese a sè stesso Roberto Alimena, frugando in tutti i cassetti.
Infine, alla meglio, qualche cosa trovò: e innanzi a Dick Leslie che guardava, cambiò di abiti, mise una vecchia giacchetta da caccia, si ammaccò un cappello di feltro sul capo, dandogli un aspetto ignobile, si arrotolò una cravatta sotto una camicia da notte.
— A Londra?
— No, in albergo.
— Sì, dieci o quindicimila lire. Il resto, dal mio banchiere, Golfus and Absalon.
— Questo denaro bisogna consegnarlo all'albergatore, Vostra Grazia, con una lettera.
— Che lettera?
— Non ricorda Vostra Signoria che giuochiamo una terribile partita? E se John ci tende un tranello? Se ci porta in un agguato?
— È vero, — disse Roberto Alimena, pensoso. — Ma per me, non m'importa.
— Neanche per me, Vostra Signoria. Per me morirò di morte violenta, un giorno o l'altro. Tre o quattro persone mi hanno promesso di uccidermi. Io me ne rido. Dick Leslie è filosofo, milord. Ma una lettera, ci vuole.
— Scrivete in questa lettera che, non vedendovi tornare fra otto giorni, vuol dire che siete prigioniero, o ucciso; e che è Marcus Henner, il dottore gobbo, l’ipnotizzatore ebreo quello che vi tiene o che vi ha assassinato. Darete il suo indirizzo, domandando indagini e vendetta ai due tribunali, italiano e inglese.
— E se consegno questa lettera, l'albergatore non sospetterà, prima, subito?
— No, è inglese, è corretto e preciso. Gli direte: «Tenete questa lettera, se io non ritorno fra otto giorni, l'aprirete perchè contiene istruzioni e l’indirizzo dove dovete spedirmi il denaro.»
— E non sarà preso dalla curiosità?
— No. È inglese.
— Debbo tenere denaro, addosso?
— Venti o trenta marenghi. Ma nascosti nelle scarpe.
— E per John?
— Ripeto, non fa questo per denaro. Egli adora la sua infelice padrona, Maria.
— Sì, ma molto segretamente. Vostra Signoria ha delle buone armi?
— Ecco. —
E Roberto Alimena cavò due piccole pistole, fini e tremende: ne diede una a Dick Leslie.
— Graziosissima, — disse costui, mettendosela nella tasca del panciotto.
— Grazie, milord. E altre armi?
— Sì: buono.
— Questo coltellino?
— Uccide: portiamolo.
— Basta?
— Sì, basta: io ho il mio boxe. —
E mostrò quella mezza mano di ferro che è un'arma così formidabile, in Londra, maneggiata dal pugno inglese.
— Bene, — disse Roberto. — E John verrà?
— Ha promesso.
— Manterrà?
— Non ne siete certo?
— Nulla è certo, nel mondo, Vostra Grazia.
— Andiamo, allora?
— Un momento, scriva questa lettera, Vostra Signoria. —
E, difatti, con molta calma, reprimendo i suoi nervi eccitatissimi, Roberto scrisse la lettera nei termini che Dick Leslie gli aveva suggerito. Poi, suonando un campanello, fece venire a sè il segretario dell'albergo.
Costui prese flemmaticamente il denaro che gli consegnò il conte Alimena e gli dette una ricevuta; poi, intascò la lettera chiusa e se ne andò, muto, salutando.
— Alle undici e mezzo. È lontano, però.
— Prenderemo un legno?
— Sì, ma a un certo punto lo lasceremo. Non bisogna mìca giungere in carrozza, a una taverna di Druray Lane.
— Un momento. Vostra Grazia mi promette di esser padrone di sè stesso!
— Sì.
— Di tacere?
— Sì.
— Qualunque cosa ascolti?
— Qualunque.
— Qualunque cosa accada?
— Qualunque; prometto, in parola di onore.
Suonavano le undici all’orologio dell’Albergo Piccadilly, quando il conte Roberto Alimena escì insieme col detective Dick Leslie. Appena fuori di casa, l'agente prese familiarmente a braccetto il giovane gentiluomo italiano e cominciò a parlargli concitatamente. Cammina vano un po’ a sghembo, come se già fossero ubbriachi: e si sorridevano stupidamente, coppia di oziosi beoni, di cui è continuo il passaggio nelle vie di Londra. Poco lontano da Piccadilly, Dick Leslie fischiò un cab, e nella piccola vettura chiusa andarono, taciturni, pensosi, presi dalle preoccupazioni dell'audace impresa che tentavano. Per qualche tempo la vettura passò per vie larghe, fulgidamente illuminate, piene ancora di gente, malgrado l'ora avanzata; poi rotolò sordamente sopra un ponte e penetrò in vie più anguste, più buie e più solitarie. A un tratto, Dick Leslie che aveva seguitato a fumare la sua pipetta corta di radice, cavandone grandi sbuffi di fumo, tirò il cordone legato al braccio del cocchiere e il cab si fermò improvvisamente.
— Ci siamo? — chiese Roberto, ansiosamente, ma a bassa voce.
— Non ancora: adesso. —
Il detective pagò il cocchiere e rimase fermo a vedere il cab che si allontanava; quando il rumore delle ruote si disperse nella lontananza, allora Dick Leslie riprese il braccio di Roberto Alimena e s'internò con lui in una via lunga, deserta, scarsamente illuminata. Camminarono abbastanza, in silenzio; Roberto, sentendosi così prossimo a una soluzione del suo grande affare, era inquieto, nervoso e mordeva il suo sigaro. Svoltarono, di nuovo, per quattro o cinque straduzze e si trovarono sulla riva del Tamigi, lungo un doch, deserto. I lampioni a gas, abbastanza radi, vi mettevano una luce fioca e vagolante al piacere del vento che si era levato, impetuoso. Tutte le botteghe del lungo dock erano chiuse: solo, qua e là, qualcuna era socchiusa e ne usciva un filo di luce.
— Ci siamo? — chiese ancora Roberto, che fremeva.
— Ora, — rispose pazientemente Dick Leslie.
Una lanterna a vetri rossi ondeggiava sospesa a un uncino, davanti a una porta a cristalli, velata di tendine di lana rossa.
— Ecco l'osteria della Bella Editta, — disse il detective, fermandosi.
Roberto, prima di entrare, dette uno sguardo alla via, lungo il fiume. Era singolarmente tetra; e il rombo delle limacciose acque del Tamigi, rombo sordo e lugubre, ne accresceva la tetraggine. Non passava un'anima.
— Qui ci possono ammazzare e seppellire in cinque minuti, — disse Roberto accennando al fiume.
— Evidentemente, — mormorò l'agente — ma non ci faremo uccidere che all'ultima estremità. —
Ciò dicendo, mise la mano al lucchetto della porta ed entrò dentro, seguìto immediatamente da Roberto Alimena. L'osteria della Bella Editta era formata da un lungo e basso stanzone, a vòlta, ad archi successivi, massicci, che parea si abbassassero sui frequentatori, come gli archi di una cripta. A dritta e a manca, vi erano delle tavole coperte d’incerato nero e delle panche di legno, a spalliera, per gli avventori. Il banco era nel fondo, sotto un paio di lumi più vivi; e di arco in arco i lumi fiochi s’inseguivano appena diradando il velo di fumo, la nebbia umida e calda che regnava in quell'ambiente. La taverna aveva l'aspetto di un sotterraneo e il fumo delle pipe, gli aliti e non so quale bruma venuta dal fiume, ne rendevano più strano e più pauroso l'aspetto. Qua e là dei brutti ceffi erano seduti innanzi a un bicchierone di bevanda, birra, liquore, o miscela bizzarra di tutti i colori; e si udiva sacramentare, ogni tanto, in inglese, con voce gutturale. In fondo, al banco, vi era un uomo calvo, dalla faccia affilata di faina e da un ventre enorme: un malato d’idropisia, come se l'acqua e la nebbia del fiume gli avessero gonfiata la pancia. Nessuna traccia della Bella Editta; un cameriere, magro, pallido, coi capelli rossi, portava le bibite agli avventori, sfilando in silenzio lungo quel budello nero che era l'osteria.
L'entrata dei due nuovi avventori fece voltare il capo a quattro o cinque di quelle brutte facce, con una curiosità ebete; alcuni guardarono a lungo, obliquamente, come se analizzassero lo stato dei due. Ma Dick Leslie non si turbò e ordinò subito due wiskey fortemente drogati e caldi, al garzone.
— Verrà? — disse ancora Roberto Alimena che aveva gli occhi fissi sulla porta.
— Ha promesso, — rispose evasivamente il detective, ricaricando la sua pipa.
Tacquero. Roberto Alimena teneva gli occhi bassi e pensava. Leslie seguitava a fumare. A un tratto, di fuori, si udì un fischio stridulo e breve. Dick Leslie trasalì, ma non disse verbo.
— Che è? — domandò Roberto che anche aveva avuto un fremito.
L'agente gli fece cenno di tacere. Un po’ più vicino, il fischio si ripetè, più stridente. Allora, due avventori della Bella Editta si levarono da tavola, dove stavano bevendo della birra e gittarono del danaro sul tavolino: erano due volti di ladri e di assassini, mal vestiti, avvolti in certe cravatte rossastre, con le mani in tasca e con la pipetta in bocca. Uscirono lentamente, guardandosi intorno, con certe occhiate di sbieco.
La porta si richiuse dietro loro; e un minuto di profondo silenzio regnò nell'osteria, un silenzio tragico.
— Va a succedere una disgrazia, — osservò quietamente Dick Leslie.
— Sì? Qui vicino?
— Chissà! —
Tacquero di nuovo. Le undici e mezzo erano passate.
— John non si vede, — disse Roberto Alimena che era sulle spine.
Ma non aveva finito di dire questo, che la porta dalle tendine rosse, che metteva dei riflessi sanguigni nella via, si schiuse e John, il servo di Marcus Henner, entrò.
— È lui, — disse a fior di labbro Dick Leslie.
Il servo di Marcus Henner entrò lentamente, con le mani nelle tasche del pastrano, fumando la sua pipetta corta, come tutti gli avventori della taverna della Bella Editta; e scambiò qua e là qualche saluto con coloro che bevevano. Anche, salutò Dick Leslie, ma non si accostò a lui e andò a sedersi a un tavolino, tutto solo.
Battendo con la pipetta sul piano di legno, chiamò il garzone e si fece portare un cock-tail, bevanda forte e tutta inglese.
— Perchè non è venuto da noi? — domandò a bassa voce Roberto Alimena.
— Abbiate pazienza. Non precipitate gli avvenimenti. Non bisogna aver l'aria di corrergli dietro.
— Sta bene, ma non ne posso più.
— Tutto succede a chi sa frenarsi.
— Pensate che quell'uomo ha nelle mani la mia felicità! — mormorò Roberto, come se parlasse a sè stesso.
Dick Leslie e Roberto Alimena tacquero, fumando. Mentre guardavano le nuvole di fumo che s’innalzavano verso la vòlta bassa della taverna, ecco di nuovo, di lontano, questa volta, si udì il fischio stridente e breve. Poi, un passo rapidissimo trascorse fuori l'osteria, seguìto da un altro, anche più rapido.
— L'affare è fatto, — rispose il detective, senza muover ciglio.
— Cioè?
— Un uomo?
— Un assassinio?
— Già.
— Domani si troverà il cadavere?
— Oh no! Il Tamigi è così profondo!
— E voi, che siete della polizia, non vi occupate di ciò, non cercate d'impedire, di scoprire?
— Non ho ordini, — disse Dick Leslie, freddamente. — E quando non ho ordini, non me ne importa niente. Se domani mi ordinassero di scoprire i malfattori di questa notte, saprei dove prenderli, ecco.
— Tardi: ad assassinio compiuto.
— Che fare? Muore tanta gente, a Londra!
— Oh, atroce, — disse tranquillamente Dick, ricaricando la sua pipa.
Ma in questo, John che aveva finito di bere il suo cock-tail, si alzò dal suo posto e venne a salutare Dick Leslie, restando in piedi accanto al tavolino dei due. Roberto Alimena toccò il suo cappello, niente altro; e stette immoto, guardando la vòlta, con le mani in tasca, come se nulla di ciò che dicevano Dick e John lo potesse interessare.
— Siete venuto tardi, amico, — disse Dick, con una perfetta indifferenza, riaccendendo la sua pipa.
— Si lavora molto, da noi, — rispose John, il servo, con accento enigmatico.
— Anche la sera?
— Anche la notte.
— Cattivo servizio: non ci resterei, io, — borbottò Dick, fumando come una locomotiva.
— Però, verso quest’ora io mi rendo libero, sempre, — osservò John, prendendo posto accanto a Dick sul banco.
— Ah sì? Ma il vostro padrone continua a lavorare?
— Sì. Veglia spesso, di notte.
— Riceve gente, anche, — disse John, a voce bassa.
— Ah!
— È un uomo potente e grande, Marcus Henner, — soggiunse il servo, sogguardando Roberto Alimena, come se lo avesse compreso in tempo.
— Oh! Oh! non sarà mica questa gran cosa che dite! — osservò ironicamente Dick. — Chi lo conosce? Chi sa niente di lui?
— È grande, è grande, credetelo, — disse con voce misteriosa e trepida il servo, che era sempre sotto l’influenza del suo padrone.
— Ricco, credo: glorioso, fra la gente della sua razza; felice. … non credo!
— Vedete bene che Marcus Henner non è poi il generale Wellington.
— Egli ha un immenso potere sulle anime: le comanda, le domina, le vince, — continuò a dire John, piano, come se narrasse una storia bizzarra.
— Già, è un ipnotizzatore.
— Non so, non so! So che egli piega le volontà, cambia il corso delle idee, assopisce dei dolori e dà delle gioie. …
— False, — disse, a un tratto, Roberto Alimena.
— False, che importa? — rispose subito John, volgendosi al nuovo interlocutore.
— L'ipnotismo è basato sull'inganno, — rispose con freddezza Alimena, frenandosi dinanzi a una occhiata di Dick Leslie.
— Sarà; ma è un santo inganno. Giorni sono, vedete, è venuta una povera tisica, mia amica; egli non voleva visitarla: era in un cattivo momento. Però, tanto l'ho pregato, che ha consentito a riceverla. L'ha addormentata e le ha imposto di credersi guarita. Ebbene, la poveretta è andata via felice, felice!
— Inganno, inganno, — ripetè Roberto, a bassa voce.
— E poi, — sogghignò Dick Leslie — non sempre il padron vostro adopererà a buono scopo il suo potere. … —
John abbassò gli occhi e non rispose.
— Avete detto che egli non è felice? — chiese Roberto, volendo ricominciare il discorso.
— No, no.
— Perchè?
— Ama una donna che non lo ama, — disse John, guardando negli occhi il suo interlocutore.
— La vostra padrona? — chiese Dick, imponendo con uno sguardo a Roberto di tacere.
— Sì.
— È sua moglie?
— Non so; pare di no, — disse John, tutto pensoso e preoccupato.
— È la sua amante?
— Non lo so.
— Come, non lo sapete? — chiese Roberto, impazientito.
— Come volete che lo sappia?
— Non fanno vita comune? — disse Roberto, che tremava.
— Ella lo scaccia sempre.
— Sempre?
— Salvo quando egli tenta d’ipnotizzarla.
— Tenta? Non gli riesce? — chiese Roberto Alimena che, oramai, non celava più il suo interesse.
— Il mio padrone tenta di addormentarla.
— Ella s'addormenta?
— Per poco, per pochissimo.
— Arriva a suggestionarla? — domandò il giovane conte Alimena che era diventato mortalmente pallido.
— In parte, — disse John, a occhi bassi.
— Spiegatevi meglio, mio caro, — intervenne Dick Leslie, che aveva visto lo stato di agitazione suprema in cui si trovava il gentiluomo italiano.
— Come volete che mi spieghi? La mia povera signora Maria è una creatura infelicissima e quello che accade a lei, è un romanzo!
— Un romanzo! — esclamò Roberto, con gli occhi in quelli di John.
— Una storia così lunga, così triste, così tetra! — mormorò il servo, che aveva, adesso, una vera emozione nella voce.
— Narratela!
— Non posso, — disse John, a capo chino.
— Perchè non potete? — incalzò il conte Alimena.
— Perchè tradisco il mio padrone.
— Non è egli il tormento della vostra padrona?
— Sì, è vero.
— Non è lui che la tiene carcerata?
— Sì, sì.
— Non è lui che cerca di vincere la volontà, con mezzi strani? Non è lui che la rende così infelice?
— Sì, sì, sì.
— Non amate voi, signor John, più la vostra padrona che il vostro padrone?
— Oh, io venero quella misera creatura!
— Non l'odio.
— Lo temete?
— Un poco.
— Perchè lo temete? Che può farvi?
— Egli è capace di tutto, — mormorò John, con voce trepida.
— Non saprà mai nulla.
— Egli sa tutto.
— Noi vinceremo questo infame, egli morrà, — disse Roberto Alimena, con rabbia che non poteva più reprimere.
— Marcus Henner non morirà mai, — disse John con voce misteriosa.
— Oh!
— Egli possiede l'elixir di lunga vita.
— È un impostore, oltre che un farabutto.
— Io ho paura di lui, — disse John, a voce bassa, con accento cupo.
— Ma volete salva lei? La volete salvare? — insistette Roberto Alimena, comprendendo che quello era il mezzo per agire sul servo.
— Vorrei. … credete che lo vorrei. … con tutto il cuore. … ma mi sembra impossibile.
— Marcus Henner è troppo forte, è troppo possente, non arriveremo a deludere la sua vigilanza.
— Se ci aiutate, ci giungeremo.
— Morremo tutti.
— Non importa! — esclamò Roberto, con voce soffocata.
— Io non ho voglia di morire, signore, — disse John.
— Vedrete, che la salveremo e che niuno morrà, — ripetè Roberto che cercava di suggestionare il servo, con la sua voce, col suo ardore.
— Se anche ci riuscisse, Marcus Henner ci raggiungerà: egli ottiene tutto quello che vuole.
— Ma non l'amore di Maria! — disse Roberto Alimena, a denti stretti.
— Che ne sapete, voi, signore?
— Me lo avete detto: lo spero! — egli dichiarò.
— Ma chi siete voi, signore? — chiese John scosso fra la fiducia e il sospetto.
— Un nemico di Marcus Henner, — disse limpidamente Roberto Alimena.
— Perchè, senza ragione, mi ha fatto il massimo male.
— È una lotta, fra voi?
— Lotta terribile; ma io vincerò.
— Marcus Henner è il più forte tra gli uomini, — disse John, con sfiducia triste.
— Vi è Dio, che ci aiuta, — disse Roberto.
— La signora ha tanto pregato Iddio!
— Ma prega assai? — chiese Alimena, severamente.
— Sì; quasi tutto il giorno e con un fervore profondo.
— Marcus Henner è ebreo, è vero?
— Sì.
— Ella lo detesta per ciò?
— Lo detesta.
— Egli l'ama?
— E la tortura così?
— Che fare? La signora Maria non vuole amarlo: e lui si vendica.
— Infame, infame! Non ama ella un altro? — chiese Roberto, tremando.
— No. Non credo. Non so, signore, — disse John.
— Non nomina mai nessuno?
— Mai.
— Non ha avuto un innamorato, un marito, un amante?
— Che supponete?
— Che abbia avuto marito.
— Non ne siete certo?
— No. Sono certo di una sola cosa.
— E di che?
— Che ella abbia una figlia?
— Non saprei. Ella ha una figlia.
— Piccola?
— No, grande.
— Come, grande?
— La signora è, dunque, vecchia?
— No, signore.
— Quanti anni avrà?
— Oh, è giovine, giovine ancora! — disse Roberto Alimena, rinfrancato. — Come può avere una figliuola di venti anni? E dove è, essa?
— È lontana, divisa da lei. Forse Marcus Henner le ha divise. Per questo la signora piange sempre.
— Rachele.
— Rachele! Dove ho io inteso questo nome? — chiese, fra sè, Roberto.
— Che cosa dite, signore? — chiese John, che oramai si lasciava trasportare dall'ambiente di romanzo, in cui viveva.
— Nulla, — soggiunse Roberto — ditemi ancora di Maria. Ella parla spesso di questa figlia? Le scrive? Ne riceve lettere?
— No, signore. Ella non sa più dove sia da quindici anni. Lewis ed io crediamo che il dottor Marcus Henner abbia rapito la signora Maria, impedendole di vedere mai il marito e la figlia, facendo credere a costoro forse che ella è morta, giurando alla signora Maria, che la sua figliuola è sparita, qualche volta, e qualche volta dicendole di volerla raggiungere. Infine, il dottore ha ucciso il cuore materno della signora Maria.
— Chi è questo Lewis? — chiese Roberto.
— È il maggiordomo, — rispose John — è l'uomo di fiducia di Marcus Henner, è il suo alter ego.
— Naturalmente sarà l’aguzzino di Maria, — disse Roberto.
— No, signore. Anch'egli l'ama, come tutti noi l'amiamo. Quante volte Marcus Henner gli dà degli ordini contro la signora Maria, e Lewis non li eseguisce! Per esempio: la signora Maria scrive continuamente a questa sua figlia. La poveretta non sa dove dirigerle queste lettere, oppure continua piamente a scriverle, e le conserva. Marcus Henner non ha mai potuto sapere dove sieno riposte queste lettere. Eppure, certo, Lewis lo sa!
— Bisogna salvare Maria, — esclamò Roberto, con fermezza.
— Due volte essa ha tentato di fuggire, — riprese John. — Lewis, certo, era suo complice; ma il piano era mal fatto. La signora non aveva denaro. E poi, da quindici anni che non vede nessuno, ha perduto così ogni idea del mondo, che non saprebbe fare un passo essa sola!
— Io la proteggerò, e la difenderò, — disse Roberto. — Ma, senza il vostro aiuto, John, nulla si potrà fare, — e gli rivolse uno sguardo, tra supplichevole e tenero.
— Che cosa ne volete fare della signora Maria? — domandò John, che già cedeva, tanto era il desiderio di liberare quell’infelicissima.
— Io voglio scarcerarla; sottrarla per sempre a Marcus Henner; ricongiungerla con sua figlia.
— Voi amate la signora Maria, signore?
— Io l'amo.
— Ma non la conoscete?
— No, non la conosco, ma l'ho vista.
— Dove?
— A Roma, una sera di carnevale.
— Ella vi conosce?
— Non mi conosce. Ma voi le darete questa lettera, — disse Roberto, cavandola audacemente di tasca.
— È una lettera d'amore, è vero? — domandò John, con un lieve sorriso.
— Sì e no. La signora Maria deve sapere che ella ha un amico, deciso a tutto, pure di salvarla, un amico che vuole spendere la sua salute, il suo denaro, la sua vita, pure di toglierla a Marcus Henner.
— Egli ci ucciderà tutti, — disse con un brivido di terrore John.
— Sentite, John, — interloquì ad un tratto Dick Leslie, che aveva taciuto sino allora. — Voi non morrete, e non morirà nessuno di noi, se saprete fare. In quale ora la signora Maria è sola?
— Nella notte, — disse John, con un sorriso espressivo.
— Vale a dire? — chiese Dick Leslie, mentre Roberto ascoltava, con la massima ansietà.
— Vale a dire che la signora Maria non ha mai voluto occupare la splendida camera nuziale che Marcus Henner le aveva preparato, e che è trasportata dovunque si va coi suoi mobili di sposa, che ella non ha mai voluto adoperare. Questa camera, il salotto, la stanza da toilette sono sempre deserte. La signora Maria abita una stanzetta nuda, dove non c'è che un piccolo letto di ferro e qualche altro raro mobile. Colà essa si chiude, ogni sera. Ogni sera, Marcus Henner va a salutarla, le parla a traverso la porta, tenta di entrare. Ella gli risponde male, o non gli risponde. Durante la giornata, Marcus Henner arriva talvolta a vedere la signora Maria, ma di sera, mai. È nella notte, che la signora Maria è libera.
— Noi la porteremo via di notte, — disse Dick, che evidentemente aveva fatto il suo piano, comprendendo che Roberto Alimena ne era incapace.
— Mi pare impossibile, — soggiunse John, che combatteva ancora debolmente.
— Come è chiuso il vostro portone?
— Con un chiavistello a segreto.
— Che segreto?
— Una parola che Marcus Henner cambia ogni giorno.
— Non avete voi detto che Henner riceve persone la notte?
— Sì, spesso.
— Chi va ad aprir loro il portone?
— Lewis.
— Allora Lewis deve conoscere la parola quotidiana.
— Certamente, — rispose John, messo alle strette.
— Ce la dirà?
— Forse. Si può tentare.
— Lo tenterete?
— Lo tenterò. Lewis sarà ucciso da Marcus Henner, se costui comprende la sua complicità, — disse John.
— No. Basterà fargli credere che la signora Maria sia fuggita all'alba, quando il portone fosse stato già aperto regolarmente.
— Tanto io che Lewis dovremo lasciare il servizio di Marcus Henner, — disse John, dando uno sguardo a Roberto Alimena.
— Sono disposto a fare qualunque sacrifizio, per voi, — disse, subito, il giovane conte.
— Io non sono interessato, — disse John, a occhi bassi, scuotendo lentamente la cenere della sua pipetta. — Vorrei sottrarre la signora Maria alla vita orribile che fa. Sono certo che voi la renderete felice; non vi conosco, ma vi credo un galantuomo; in fondo, Henner è un mascalzone.
— È un infame, — soggiunse Roberto.
— Sì, ma appunto per questo, è terribile. Io non solo perdo il servizio, ma arrischio la vita.
— Ditemi, subito, che volete?
— Vorrei imbarcarmi, il giorno stesso del fatto, per l'America.
— Con la vostra famiglia?
— Non ho nessuno. Per questo vengo qui, ogni sera. Vorrei il viaggio e una sommetta per tentare la fortuna. … laggiù.
— Vi darò cinquemila lire e il viaggio. Vi basta?
— Mi basta. E se il colpo non riesce?
— Ve le darò egualmente, — rispose subito Roberto.
— No, — interruppe Dick Leslie. — Darete a John il viaggio e duemila lire, se il colpo non riesce. Così, egli avrà maggior interesse, perchè riesca.
— È vero, — disse John, annuendo col capo. — Quell’Henner, che diavolo! È il diavolo in persona.
— Non così brutto come pare! — disse Dick Leslie, con un lieve sorriso.
— E Lewis? Lewis? — chiese Roberto che vedeva ancora molti punti oscuri, in quella intrapresa.
— Io gli parlerò, — disse John — e domani sera vi farò sapere le sue intenzioni. Ritengo che vi aiuterà. Egli adora la signora Maria.
— Lo porteremo via, con noi, — disse Roberto.
— Vedrete voi. Io vado in America.
— Or dunque, concretiamo questo piano, — disse Dick Leslie. — Si fa tardi e qui vorranno chiudere.
— Sarà meglio andarsene fuori, — disse Roberto, che voleva conchiudere rapidamente.
Difatti, uscirono. La via lungo il fiume era diventata anche più tetra, perchè dei lampioni erano stati smorzati. I tre interlocutori camminarono in silenzio, per qualche tempo, guardandosi attorno con sospetto. Ma non fecero nessun cattivo incontro. Evidentemente, il fiume aveva avuta la sua preda, quella notte, in quel quartiere. Quando furono in una via più vicina al centro, più rischiarata, i tre si fermarono a un cantone. Nessuno passava. Pure, parlavano a voce bassissima.
— Parlate voi, — disse Dick Leslie a Roberto Alimena. — Poi, dirò io.
— Voi porterete questa lettera alla signora Maria, — disse Roberto, con voce tremante.
— Sì.
— Le direte che è un amico, un sincero amico, che gliela manda.
— Che se è veramente inorridita della esistenza che mena con Marcus Henner, sia pronta a fuggire, da un momento all'altro.
— Benissimo.
— Questa è certa.
— Ottenetela. Ditele che voglio congiungerla a sua figlia.
— Non lo so: ma lo saprò. Diteglielo pure. Ho scovato Marcus Henner, troverò bene Rachele, la figliuola di Maria.
— Benissimo. Se ella fa difficoltà?
— Le vincerete!
— È una donna pia. La vostra lettera di amore la sgomenterà.
— Comprendo. Che altro?
— Parlate voi, Dick, — mormorò Roberto che, liquidata la faccenda della lettera, parea non comprendesse più nulla.
— Accomodate tutto con questo Lewis, — disse Dick. — Avete detto che fu complice degli altri due tentativi di fuga di Maria.
— Ne sono sicuro.
— Credete che si rifiuterà, ora?
— Non lo credo.
— Credete che possa denunziare tutto il piano a Marcus Henner?
— Non credo. Però, ci vuole molta prudenza.
— Volete condurre, domani sera, da noi, Lewis?
— Sì: dove?
— Alla Bella Editta? — chiese Roberto Alimena, sogguardando Dick Leslie.
— No, — disse costui, pensando.
— Al mio albergo?
— Neanche, — interruppe Dick, con uno sguardo furibondo a Roberto. — Gli alberghi sono pericolosi.
— E dove, allora?
— Nella strada?
— Sì: è la più sicura.
— Sta bene: alle undici, — disse John. — Lewis deve ritornare presto a casa. Henner ha bisogno di lui nella notte.
— Alle undici, va bene, — disse Roberto.
— Però, siate cauto. Non parlategli male di Marcus Henner: non ditegli che l'odiate. Egli lo ama.
— Resterà con lui, allora?
— Sì: suppongo che ci aiuterà segretamente.
— Tanto meglio, allora, — disse Dick. — Bisognerà corrompere qualcuno?
— No. Non è necessario.
— Bisognerà chiedervi una parola di onore, John?
— Non credo, — disse lui, semplicemente. — Faccio questo, per il bene della signora. Nè vi chiederei denaro, se non dovessi fuggire all’ira di Marcus Henner.
— Va bene, siete un galantuomo, — disse Roberto, con voce commossa.
— È certo che Lewis non ci tradirà? — chiese Dick Leslie, che era sempre pieno di dubbi.
— È anche un galantuomo.
— Non diceste che era l’alter ego di Henner?
— Sì: colui lo domina. Ha finito per imporsi a lui. Lewis lo ammira ed eseguisce tutti i suoi orni. Ma ama di più la signora Maria.
— Buona notte, signore: buona notte, Dick. — I tre uomini si separarono.
Quando Dick Leslie e Roberto Alimena rimasero soli, si guardarono in viso, nell'ombra: il giovane conte italiano aveva un paio di occhi stralunati, pieni di una gioia inesprimibile.
— Ebbene, Vostra Grazia?
— Ebbene, Dick?
— Siete contento?
— Aspettate un poco, signore, prima di esser felice.
— Io nulla temo!
— Sta bene. Ma bisogna essere prudente. Andiamo verso l'albergo, Vostra Grazia, perchè bisogna che c’intendiamo bene. —
Camminarono presto, in silenzio. Roberto Alimena aveva il passo elastico della giovinezza felice, e gittava in aria sbuffi di fumo dalla sua pipa inglese. Anche Dick Leslie camminava rapidamente, con le mani in tasca, a capo basso, come se maturasse un piano. E non dissero più nessuna parola, sino a che non si trovarono nella stanza dell’Albergo Piccadilly, calda e bene rischiarata. Erano le due della notte. Roberto si gittò su una poltrona e si nascose il volto tra le mani. Era convulso.
— Un po’ di calma, signore, — disse Dick Leslie, sedendosi anche lui.
— Che intenzione avete, di fronte alla signora Maria?
— In che modo?
— Partendo!
— È una parola, signore. Due ore dopo che la signora Maria sarà fuori di casa, Marcus Henner si sarà accorto della sua fuga e metterà Londra sottosopra.
— Non è mica il principe di Galles, costui!
— Naturalmente, ma è un uomo forte e possente; vi darà del filo da torcere.
— Per dove?
— Per Parigi.
— Non approvo.
— Perchè?
— Perchè Marcus Henner farà sorvegliare tutte le partenze di Douvres e di Folkestone, in questi giorni.
— Dove?
— Qui, all'albergo.
— Avete dato tutti i vostri nomi?
— Naturalmente. Ma vi sono tanti alberghi, in Londra!
— Questo è frequentato specialmente dagli italiani. Marcus Henner vi ritroverà nella medesima giornata.
— Ricoverarci all'ambasciata italiana?
— Voi siete suddito italiano e vi proteggeranno. Ma la signora Maria, non sapete di dove sia.
— Che importa? È con me.
— Ma non è nè vostra madre, nè vostra sorella, nè vostra moglie.
— Sto pensando.
— Pensate, pensate, mio caro! —
Vi fu un intervallo di silenzio. Roberto stava a capo chino, con le mani congiunte sulle ginocchia, assaporando la sua felicità, che neanche le diffidenze di Dick Leslie venivano a turbare.
— Bravo!
— Vi sono due mezzi.
— No, il peggiore prima. Dovreste trovare, ma stamane istesso, un yacht pronto a partire da un momento all'altro.
— Non si può trovare?
— Sì: si trova, con denaro. Ma, per quanto sia, delle formalità ci vorranno. Dovrete dare i vostri nomi, il yacht li dovrà dichiarare alla Capitaneria del Porto.
— Si può, ma è molto pericoloso. D'altronde, i yacht sono lenti e se non trovano vento, fanno cattivo viaggio. Avete bisogno di fare presto.
— È vero, è vero! Ma dove ci porterebbe questo yacht?
— In un porto d’Inghilterra, assai lontano da Londra. Colà, dopo esservi rimasti ventiquattr’ore, potete prendere un piroscafo e andarvene in Italia, in Francia, in Ispagna, in Oriente, dove vorrete.
— Dove essa vorrà, — disse Roberto, con voce tremante.
— Già. Ma lontano assai. Questo è il mezzo peggiore, giacchè Marcus Henner può trovare traccia di questo yacht, in qualche modo, trovare la sua destinazione e andare ad aspettarvi colà.
— Tralasciamo, allora?
— No: bisogna averlo, questo mezzo.
— Il secondo è di avere una carrozza di posta, con tre cavalli, a vostra disposizione. Senza fermarvi in Londra, nè qui a Piccadilly, nè altrove, partire per l’interno dell’Inghilterra, viaggiando sempre in carrozza, pernottando in piccoli paesi, facendo delle fermate improvvise e fuori itinerario, cambiando direzione tre o quattro volte e raggiungendo, infine, Newport, Liverpool, donde partirete per dove vi piace.
— Ma è un mezzo lentissimo.
— Già; ma sicurissimo. Se entrate in un battello, se ne può sapere la rotta e conoscere i vostri connotati, benissimo; se partite con un treno, è lo stesso, perchè cento persone possono ripetere di avervi visto partire e per dove. Ma in carrozza! Migliaia di carrozze escono dalle porte di Londra, ogni giorno, e nessuno se ne accorge. In una vostra carrozza, non date conto a nessuno.
— E si trovano cavalli, dappertutto?
— Dappertutto.
— Pronti?
— Prontissimi. Telegraferete, a nome del vostro postiglione, di posta in posta.
— Benissimo.
— Darete dei nomi falsi, di albergo in albergo.
— Naturalmente.
— E sarete pronto a deviare, a tornare indietro, da dovunque.
— Si sa bene. Ma sarà un viaggio che stancherà molto Maria?
— No, perchè vi riposerete in ogni fermata. Avrete il tempo di conoscervi meglio.
— È vero, Dick, avete trovato il modo più sicuro e più poetico di fuggir via.
— Come nei romanzi, Vostra Grazia.
— Ma voi mi aiuterete in tutto questo, non è vero, Dick?
— Vostra Signoria mi ha già trascinato troppo oltre; in fondo, io non sono che un agente d’informazioni.
— Ma vedete, è una causa santa.
— Lo so: ma io non sono un hidalgo.
— Via, Dick, se voi mi lasciate, che farò? Non troverò nè il yacht, nè la carrozza, nè nulla. Non posso mica dirigermi all'ambasciatore, per una cosa simile.
— È vero, mylord; ma la cosa è sempre grave.
— Dick, non mi abbandonate!
— Non vi abbandonerò, signore, — disse a un tratto il detective, come se si decidesse.
— Allora, mylord, m’incarico io di trovarvi i due mezzi di trasporto; ma Vostra Grazia deve promettermi di non escire dall'albergo, di non fare un passo, di non tentare nulla, senza mio consiglio, senza mio intervento.
— Temete di me?
— Temo che voi, signore, conoscendo l’indirizzo di Marcus Henner, in Broadway, non andiate a passeggiare sotto le finestre della vostra bella.
— Non lo farò, — disse Roberto Alimena, arrossendo, poichè ci aveva già pensato.
— Io voglio che me lo promettiate.
— Lo prometto.
— Gl’innamorati sono della mala gente, — disse con un sorriso Dick Leslie.
— Ma che farò io, qui, tutto il giorno? Morirò di noia e d’impazienza!
— Io verrò a vedervi o vi scriverò, senz'altro.
— Pensate che io starò sulle spine, Dick!
— Scrivete alla signora Maria!
— Sì, le scriverò un volume. Scriverò anche in Italia, ma la giornata sarà lunga.
— Avrete da fare. Preparate i vostri bagagli; non molti, però. Procuratevi un piccolo corredo per donna, giacchè la povera carcerata scapperà via come si trova.
— Potrò fare questo senza uscire?
— Si sa! Manderete a chiamare i fornitori in casa; verranno. Vi divertirete.
— E poi?
— Poi, ritirerete il vostro denaro dal banchiere, la lettera dall'albergatore, dicendo che partite da un momento all'altro per Parigi.
— Benissimo. E poi?
— Aspetterete. Voi siete l'uomo che aspetta. E ora, buona notte. Io sono stanco e voi pure.
— Sentite, Dick, — disse Roberto, dopo un minuto di esitazione.
— Che vi è?
— Avete voi chiesto, quella cosa, a John?
— Che cosa?
— Non so.
— La mano tagliata, quella che vi ho fatto vedere.
— Se la signora Maria avesse una mano di meno.
— No: non ho chiesto, — disse Dick, tutto pensoso.
— E perchè?
— Ho dimenticato.
— Eppure, era una cosa molto importante, Dick.
— Come? Non vi pare importante?
— Eh! così. A voi premeva molto?
— Sì, Dick. Moltissimo.
— E allora, perchè non avete domandato voi?
— Io, Dick?
— Già, voi, signore.
— A John?
— A John.
— Non ho osato, Dick, ve lo confesso.
— Perchè temevo troppo la risposta!
— La temevate?
— Dick, sì. E se quella mano non fosse sua?
— Ebbene, che accadrebbe?
— Accadrebbe il crollo di tutto il mio romanzo.
— Cioè?
— Io ho amato Maria in quella mano, giurando a me stesso di ritrovare la donna cui apparteneva quella mano; io ho ricoperta di baci quella mano, Dick, come cosa viva. Quella mano è sua, o io ho sognato e il risveglio sarebbe terribile. —
Dick Leslie guardò questo Roberto Alimena, come se avesse innanzi un pazzo.
— Perchè mi guardate così, Dick?
— Perchè tutto ciò mi sembra molto stravagante.
— Stravagante!
— Già.
— Ma sapete voi qualche cosa?
— Io? Come potrei saperlo!
— Vostra Grazia, la verità è che non so nulla.
— Nulla! Proprio nulla?
— Proprio.
— Ma che supponete?
— La mia supposizione non conta.
— Volete proprio saperlo?
— Sì, lo pretendo.
— Ebbene, io sono certo che quella mano appartiene alla signora Maria!
— Certo?
— Certissimo.
— Per vostra convinzione?
— Per mia convinzione.
— Grazie, Dick. Anch’io credo così.
E in un impeto di gioia e di riconoscenza, Roberto Alimena strinse la mano all'agente di polizia. Costui sorrise e partì. Suonavano le tre, di quella notte d’inverno. Incapace di dormire, Roberto si fece del tè e si mise a fumare; e sognò a occhi aperti tutto il resto della notte.
. . . . . . . . . . . . . . .
Roberto Alimena si svegliò tardi, dopo essersi addormentato, verso l’alba, di un sonno prima nervosissimo, poi pesante e plumbeo. Egli, risvegliandosi, quasi quasi non si raccapezzava; poi, quando si ricordò tutto, balzò dal letto, come se una forte voce interna lo avesse scosso. Era quella la giornata in cui si sarebbe decisa la sorte di Maria, la sua, quella di Marcus Henner. Quella? E se Maria non si affidava a lui? Se Lewis, il maggiordomo, non voleva aiutarli? Se Marcus, già sospettoso, già diffidente, scopriva qualche cosa?
— Morirò, ma salverò Maria! — era questo il ritornello che fremeva nell'anima del giovane gentiluomo italiano.
Il cameriere dell'albergo entrò e gli portò la posta. Erano lettere dall’Italia che gli venivano respinte da Parigi, dove erano restate ferme un paio di giorni. Era una lettera del suo vecchio servo fedele, da Milano, che gli diceva aver avuto la casa un’aggressione di ladri, i quali avevano rovistato dappertutto e, forse perchè disturbati da qualche rumore avevano finito per non portare via nulla. L'aggressione era accaduta in una momentanea assenza del vecchio servo e di sua moglie.
— È Marcus Henner che cerca la mano di Maria, — disse fra sè Roberto che, oramai, intendeva tutte le infamie dell'orribile gobbo.
Un'altra lettera, un po’ più lunga, era dell'avvocato di Roberto Alimena, un grande avvocato napoletano, molto famoso per le sue brillanti difese e che egli aveva scelto per suo difensore, nell'accusa di omicidio che pesava su lui. L'avvocato, Mario Miranda, gli dava notizie buone e cattive del processo: la contessa Clara Loredana insisteva fieramente e freddamente nell'accusa, ma la deposizione di Ranieri Lambertini, completamente scolpante il conte Alimena, era di una grande importanza; anche il resto del discarico si poteva dire esauriente. Ma, ad ogni modo, il processo si sarebbe dovuto fare, e l'interessante era che Roberto Alimena non fosse rinviato alla Corte di Assise, perchè, allora, si sarebbe dovuto costituire in carcere.
E l'avvocato Mario Miranda insisteva perchè si facesse un contro-processo, perchè si cercasse chi era l'assassino, il vero assassino!
— Non me ne importa niente, — pensò fra sè Roberto Alimena, arrivato a questo punto della lettera del suo avvocato.
Mario Miranda continuava, dicendo che, in fin dei fini, si poteva tentare di mettere a dormire il processo, poichè nessuno pareva facesse soverchie premure per farlo andare avanti. A ogni modo, rimanesse all'estero, Roberto Alimena, non si muovesse da Parigi, da Londra e, magari, andasse più lontano ancora.
— Se Maria vuole, ce ne andremo in America, — pensò Alimena.
Ma pensò anche, che se la misteriosa donna per cui egli ardeva di un amore tanto fantastico avesse voluto ritornare in Italia, egli ci sarebbe ritornato subito, anche a rischio di farsi arrestare.
Il pacco delle lettere d’Italia ne conteneva anche un'altra, lunga e affettuosa, di Ranieri Lambertini, che gli scriveva da Perugia, da un suo castello dove si era ritirato a passare il tempo della sua convalescenza. Egli narrava tutta la sua tristezza al suo amico, giacchè egli aveva perduto la sua donna, la sua cara fanciulla adorata, la sua diletta. E, ad ogni tre o quattro righe, scoppiava il grido di dolore dell'anima innamorata:
— Rachele, Rachele, io debbo ritrovare Rachele! —
Un lampo di luce rischiarò il cervello confuso di Roberto Alimena: quel nome di Rachele fu il filo conduttore di quella scossa elettrica. Rachele! Rachele! Non era, forse, quello il nome che ella invocava nelle sue lunghe ore di solitudine e di dolore, non era forse quello a cui ella dirigeva quelle lunghe lettere che non giungevano mai al loro indirizzo? Rachele, la figlia di Maria! E così si spiegava la duplice persecuzione di Marcus Henner a lui e a Ranieri Lambertini, così si spiegava come essi lo avessero per comune nemico, così si spiegava tutto! Ma dove era Rachele? Fuggita, perduta, morta? Dove? Dove? Ranieri Lambertini la cercava: e, forse, persino Marcus Henner, il terribile, la cercava! Dove? Morta, Rachele, forse?
In questo assorbimento di pensieri, in cui la sua anima faceva i più grandi passi verso la verità, in cui il segreto del gobbo dagli occhi verdi gli cominciava a esser palese, Roberto Alimena compì tutte le azioni consigliategli da Dick Leslie, con esattezza matematica, liquidò il suo denaro, pagò il suo conto, preparò il suo bagaglio e vi unì quello femminile, tutto ciò che può essere necessario a una donna, in viaggio: della roba fine ed elegante, che egli scelse con cura speciale, come può fare un innamorato. Verso le tre pomeridiane, mentre egli si metteva a scrivere in Italia, per ingannare il tempo, ricevette il seguente biglietto scritto a lapis, da Dick Leslie:
«Il yacht-steam col nome Gladys è a vostra disposizione, da questo momento, nel piccolo porto Saint-Jacques, presso il molo dello stesso nome, ad oriente di Broadway; lo riconoscerete alla sua carena bianca e verde e perchè il capitano è piccolo, tarchiato, fulvo di capelli. Gli direte: Maria. Vi risponderà: Rachele. E non vi chiederà altro. Salperete dopo mezz'ora, avendo, da oggi, accesi i fuochi per partire. Il Gladys può portarvi subito a New York, a Liverpool: ma vi consiglierei di fare una crociera stravagante, per ingannare il vostro nemico. Camminate con lentezza ed a zigzag, magari andatevene a Whight, per pochi giorni; è un paese d’innamorati, e Marcus Henner non vi cercherà mai colà. Imparate a memoria questa lettera e laceratela. Vi scriverò più tardi. Allright!
«Dick.»
Egli avrebbe voluto uscire immediatamente, Roberto Alimena, per accertarsi del posto dove il yacht avrebbe aspettato la coppia de’ fuggenti, per vedere questo benedetto battello, dove avrebbe potuto imbarcarsi con Maria, subito che questa poveretta fosse uscita dalla fatale casa di Broadway. Ma l’idea che Dick Leslie gli avrebbe scritta un'altra lettera, lo trattenne in casa.
Veramente, quel giro di ore così lento gli parve insopportabile, sempre più, come la sera si avvicinava, simile al viaggiatore impaziente, che maledice soprattutto l'ultim'ora del suo viaggio, tanto più che le sue speranze venivano man mano diminuendo e tutto il suo edificio ideale crollava. E se Maria non avesse consentito a fuggire? Se si fosse offesa di quella inaspettata, impensata lettera d'amore, venuta a disturbare il fervido misticismo del suo spirito? Se Maria non avesse creduto alla sua promessa di farle ritrovare la figliuola, supponendovi dentro un tranello? E se ella, suggestionata, ipnotizzata da Marcus Henner, non fosse più padrona della propria volontà? Che ne sapeva lui? Tutto era mistero, intorno a quella bianca e nebulosa figura di donna, tutto si avvolgeva nell'ombra in quella casa dove dominava il cattivo genio che si chiamava Marcus Henner. E se costui, così implacabile carceriere, che da quindici anni teneva serrata questa donna, senza lasciarla fuggire, senza lasciarsela rapire, avendo sventato i due complotti; se costui fosse già in sospetto di qualche cosa? Se John fosse un traditore? Se fosse un traditore Lewis, il maggiordomo? Se tutti tradissero, anche Dick Leslie? La solitudine, la sua vivace immaginazione, l'esaltazione del suo spirito, tutto creava in lui un pessimismo esagerato; e venne un momento in cui credette disperata l'impresa a cui si era accinto. Ma, mentre attraversava questa ora di abbattimento, fu bussato alla porta: e il cameriere entrò, portando una carta sopra un vassoio. Roberto Alimena la prese convulsamente, credendo si trattasse del secondo biglietto che Dick Leslie aveva annunciato; ma non era un biglietto, era invece un telegramma chiuso in una busta da lettera, e che il suo albergatore da Parigi gli respingeva puntualmente. Il telegramma risaliva a due giorni prima, era datato da Napoli, era firmato da Ranieri Lambertini, e conteneva queste parole:
«Ho ritrovato Rachele! A qualunque costo, scongiuroti ritornare Italia, venire Napoli immediatamente. Faccio appello tuo amor fraterno. Telegrafami Napoli Grand Hôtel. Massima ansietà!
Questo telegramma immerse Roberto Alimena in uno stupore profondo. Quella fanciulla che pareva perduta, per sempre, per l'amico suo, malata, infelice, chiusa in un chiostro, morta, forse, era stata ritrovata. Certo, non poteva vivere senza lei! E questa fanciulla portava il nome di Rachele, proprio quello che la poverissima carcerata di Marcus Henner pronunziava sempre, invocando la figliuola da cui era divisa da quindici anni! E se fosse la stessa persona? Se la Rachele di Ranieri Lambertini fosse la Rachele di Maria? Non avevagli sempre parlato, Ranieri, che il suo amore fosse perseguitato da un uomo, da un potere occulto, come quello che perseguitava Roberto Alimena dal giorno in cui aveva trovato nel treno di Roma la mano tagliata? Non erano restati d'accordo, colpiti dall'evidenza dei fatti, che doveva essere il medesimo nome? Non avevano corso gli stessi pericoli insieme? Non aveva tentato, Marcus Henner, di farli cadere nei medesimi trabocchetti, e infine uno era riuscito, giacchè Ranieri Lambertini era stato mortalmente ferito e Roberto Alimena accusato di essere l'assassino? Un grandissimo tumulto era nato, adesso, nello spirito del giovane gentiluomo, e mille pensieri, mille decisioni facevano chiasso nella sua testa: tre o quattro volte cominciò dei lunghi telegrammi, diretti al conte Lambertini al Grand Hôtel di Napoli, volendogli spiegare tutto, che era dietro le tracce di Marcus Henner, alla vigilia della loro vendetta, che aveva ritrovata la madre di Rachele, che, forse, la notte seguente avrebbero potuto fuggire insieme e trasportarsi a Napoli, se non immediatamente, almeno al più presto. Ma lacerò, man mano tutti quei telegrammi che gli parvero imprudenti e che Ranieri non avrebbe potuto intendere. E se Rachele non fosse figliuola di Maria? Se Maria fosse una pazza qualunque? Se fosse una semplice malata che Marcus Henner aveva intrapreso di curare? Tutto era possibile in mezzo a quel buio, a quel mistero, tutto pieno di perigli, di paure. Roberto istesso, che la mattina era così innamorato e baldanzoso, adesso era tutto sconvolto e dubbioso; la stessa cosa grave che Ranieri gli aveva telegrafato da Napoli, era giunta per iscombussolare maggiormente i suoi nervi. Però, una qualche risposta a Ranieri egli la doveva dare, tanto più che il telegramma era in ritardo di due giorni, ed allora dopo molta elaborazione, giacchè il suo cervello era stanco, scrisse questo telegramma:
«Sono qui, telegramma giunsemi ritardo. Notizia sorprendimi assai, ma ne gioisco, non posso dirti se parto subito, mia decisione dipende fatto grave, impossibile dirti altro telegraficamente. Aspetto altro dispaccio, stanotte. Conta mio cuore fraterno. Abbraccioti.
«Roberto.»
E lo spedì al telegrafo. Non è a dire che subito non si pentisse di quello che aveva fatto. L'incubo sotto cui viveva, da quel tempo, il conte Roberto Alimena, gli faceva vedere trasformati in complici di Marcus Henner persino i camerieri dell’Albergo Piccadilly e gli impiegati telegrafici di Londra. Ma era andato adesso. E poi, la prudenza dev'essere giustamente mescolata all'audacia, in queste imprese così fantastiche.
Il secondo biglietto di Dick Leslie arrivò al conte Roberto Alimena verso le otto di sera, quando il giovane gentiluomo lombardo era ancora tutto preoccupato del telegramma ricevuto da Ranieri Lambertini e preoccupato soprattutto della risposta, che egli aveva dovuto fargli. Il detective scriveva così ad Alimena:
«Caro signore, dalle otto di questa sera, una carrozza a due cavalli chiusa, aspetterà all'angolo di Chester Road, sino alle otto di domani mattina. Il cocchiere si chiama Tom; basterà che saliate nella carrozza, dicendogli il motto di passo: Rachele. Egli vi risponderà: Maria.
Questa carrozza vi condurrà direttamente a Brighton, dove troverete altri due cavalli, all’Albergo della Posta; l'albergatore è avvertito. Di là proseguirete per la via che meglio vi piacerà, sino a una prossima stazione ferroviaria, consigliandovi a scegliere un piccolo paese, dove nessuno possa pensare che voi possiate fermarvici. Scegliete a caso nell’orario delle ferrovie, che vi accludo. Vi accludo anche un piano di Broadway, con le sue vie adiacenti e con la spiaggia, dove potrete trovare il yacht se volete partire per mare, con la via Chester Road se volete partire per terra. Il puntino rosso segna in Chester Road, il posto dove si trova la carrozza che vi aspetterà, per condurvi a Brighton; il puntino azzurro, sulla stessa carta segna il posto dell'ancoraggio dello yacht.
«Prego di studiare lungamente il piano topografico, che vi accludo, ed il relativo orario, giacchè tutto può dipendere da ciò, tanto più che questo studio calmerà singolarmente i vostri nervi, che debbono essere a quest'ora molto esaltati.
«Del resto, verrò da voi verso le undici, perchè sapete che a quell’ora abbiamo il convegno con John e Lewis. A rivederci presto.
Questo studio difatti ebbe il potere di placare i nervi del conte Alimena, e magari anche di deprimerli un poco. L'impresa, che andava a tentare, gli pareva adesso, così bizzarra e così fantastica, che la vedeva allontanarsi nelle nuvole dell’impossibile. Oramai il dado era tratto: fra due ore, egli avrebbe sentito dalla bocca de’ servi di Marcus Henner, la risoluzione di un problema singolarmente grave in cui egli avrebbe potuto giocare da un minuto all'altro la sua esistenza. Come mai era possibile che lui, Roberto Alimena, il gentiluomo più spensierato e più scettico che vivesse nella società più aristocratica italiana si fosse imbarcato in un romanzo così tetro, e così caliginoso, egli che neppure non leggeva più romanzi? Pensava che il più piccolo dettaglio poteva far mancare la soluzione di questo romanzo, e procurargli la morte, nella notte istessa! Però, in questo raffreddamento della sua esaltazione, egli trovò la forza di subire quietamente tutte le conseguenze dell'intrigo, in cui si era posto così imprudentemente. Co' nervi calmi, con lo spirito omai tranquillo, egli pensò:
— L'ho voluto, così sia. —
E come se il terribile impiccio in cui si trovava non lo riguardasse più, egli si fissò bene in mente il piano topografico e l'orario speditogli da Dick Leslie; scrisse tre lettere brevi, una a Ranieri Lambertini a Napoli al Grand Hôtel, una al suo notaio ed uomo d'affari a Milano, e una terza al segretario dell'ambasciata italiana a Londra. Tutte e tre le lettere erano quelle di un uomo che va alla morte: la prima a Ranieri Lambertini, gli diceva che egli era vittima di Marcus Henner, che aveva incontrato la morte per salvare Maria, la madre di Rachele e che gli legava la sua vendetta. La seconda, al suo notaio, conteneva un breve testamento in favore di molte opere pie e di alcuni suoi cugini, i soli parenti che gli restassero. La terza, all’ambasciata italiana, dichiarava che essendosi posto in un grave intrigo, egli ci lasciava la vita, e additava Marcus Henner come il suo uccisore.
Queste tre lettere, egli le mise nel cassetto della sua scrivania, e lo lasciò aperto. Si sentì, dopo averle scritte, gelido e risoluto. In fondo gli mancava qualunque entusiasmo: ma aveva, in cambio, una volontà ferma di compire l'opera sua, da che vi si era posto.
Aveva troppo sognato e fantasticato in quei due giorni perchè non si fosse in lui inaridita la vena de’sogni. Si guardò bene attorno, e vide che le raccomandazioni di Dick Leslie erano state tutte eseguite con precisione.
Egli aveva riunito il piccolo corredo da donna, per Maria, aveva chiuso le sue valigie, aveva ritirato il suo denaro dal banchiere, ed avrebbe pagato il conto all'albergo.
Tutta la sua posizione era liquidata! e con la cera di un uomo contento di sè, ma non lieto, egli si sdraiò sopra una poltrona, e si mise a fumare una sigaretta nella più profonda indifferenza. Suonavano le dieci e tre quarti, quando fu bussato alla porta della stanza e Dick Leslie entrò. L'agente di polizia squadrò prima Roberto Alimena ed ebbe un piccolo moto di meraviglia che represse subito.
— Tutto è pronto? — disse il detective.
— Sì, — rispose freddamente Roberto Alimena.
— Andiamo allora?
— Andiamo, — disse gelidamente Roberto Alimena.
E insieme partirono in silenzio, per la terribile avventura che li aspettava.
Quell’inverno era cominciato singolarmente mite in Napoli: verso la fine di dicembre, vi erano state le due o tre giornate freddissime partenopee, quelle che formano il culmine del freddo a Napoli, e per cui tutti i napoletani si rinserrano nelle loro case. Dopo di che, una temperatura costantemente dolce aveva allietato i giorni brevi del gennaio.
Il sole splendido di un cielo perfettamente azzurro, questo era l'emblema, queste erano le armi parlanti di Napoli in quell'inverno.
E, siccome le notizie di questa dolcezza iemale pare che le porti il vento, più che il telegrafo, la calata de' forestieri che vengono a svernare a Napoli dalle parti più lontane del mondo, era cominciata molto tempo prima di tutti gli altri anni. Ordinariamente, i forestieri freddolosi non giungono a Napoli che verso la metà di febbraio per rimanervi sino alla sine di aprile, ma, quell'anno, a dicembre, già gli stranieri cominciavano a infoltire negli alberghi e nelle vie, e nel gennaio si ebbe un arrivo magnifico di queste rondinelle e di questi rondoni viaggiatori. Costoro passavano nelle grandi carrozze da nolo con la guida dell'albergo in serpa, co’ veli bianchi e verdi al cappello, e molti originari inglesi, data la dolcezza dell'aria, avevano inalberata la pagliettina. Molti di costoro erano malati o almeno convalescenti, e molti però stavano perfettamente bene e viaggiavano per quell’istinto randagio, che trasforma i popoli de’ paesi nordici in altrettanti ebrei erranti. La città era dunque animatissima e più lieta che mai.
Stanco, disfatto, guarito solo per metà e soprattutto scoraggiato moralmente, Ranieri Lambertini era venuto a passare un mese in Napoli, prima di andarsene a Nizza, giacchè i medici gli avevano ordinato di vivere l’inverno e tutta la primavera in paesi caldi, perchè temevano per i suoi polmoni, dopo la fatale ferita, che lo aveva colpito alla porta della contessa Clara Loredana. Ancora ammalato, egli aveva fatto un giro per tutta l’Italia, interrogando le questure, i consolati, interrogando chiunque potesse dargli un’informazione di simil genere, per sapere dove si fosse potuta ricoverare Rachele Cabib. Egli aveva vagamente saputo che la fanciulla era entrata in un convento, e due o tre volte in qualche piccola città italiana gli era sembrato di ritrovare le tracce della benamata; ma sempre queste tracce s'eran dileguate, e Rachele Cabib pareva sparisse dinanzi a lui, come un vano fantasma. In verità, il giovane gentiluomo romano portava nel cuore una ferita assai più mortale della pugnalata che gli aveva attraversato il polmone. L'abbandono, la fuga, la scomparsa di Rachele avevano avvilito e desolato lo spirito di Ranieri Lambertini, e gli avevan fatto desiderare che quel colpo di pugnale gli desse la morte. L'amore che lo legava alla bellissima fanciulla israelita, aveva l'ardore della passione e la catastrofe che aveva infranto il loro legame, lo aveva atterrato. Trovarsi a due dita dalla felicità ed entrare invece in un lugubre e tragico sogno, vedersi in pericolo di vita, aver perduta la cara persona e averne smarrita ogni notizia, ecco quel che torturava lo spirito di Ranieri Lambertini, molto più che il continuo pericolo di una tisi galoppante. Non aveva aspettato di guarire per partire da Roma, volendo fare delle ricerche personali, non sapendo vivere senza aver ritrovato la sua Rachele. Questo viaggio bizzarro ed infruttuoso, dietro un'ombra sparente, lo aveva estenuato. Fu in Roma che i medici avendolo trovato esaurito di forze, sfinito d'anima, gli avevan consigliato di vivere a Napoli sei settimane, e poscia di andare a Mentone o a Cannes, cercando non solo un'aria dolce a’ polmoni stanchi, ma cercando anche delle distrazioni all'animo esacerbato. Egli aveva ubbidito, quasi macchinalmente, dacchè una grande sfiducia lo aveva colto in que’ sette od otto mesi in cui nulla aveva saputo di Rachele.
Senza quella fanciulla, egli si sentiva inetto a vivere, e tutte le sue speranze languivano, qualche giorno persino egli aveva creduto che Rachele Cabib fosse morta. Quindi, si era recato in Napoli senza ansietà e senza speranza, trascinando la sua pallida giovinezza, così intimamente colpita, più per soddisfare alla tenerezza di suo zio che lo amava come un padre, che per nessuna voglia personale di vivere. Egli aveva preso alloggio al Grand Hôtel, in via Caracciolo, vivendoci quindici giorni, senza vedere nessuno, facendo delle passeggiate solinghe e malinconiche, non cercando di riannodare le relazioni coi giovani gentiluomini napoletani che egli bene conosceva.
Era uscito a cavallo, due o tre volte, ma, quel movimento aveva finito per fargli male, ed era entrato subito a casa. Il Lambertini era un giovane che aveva molto amato gli esercizi del corpo e la vita all'aria aperta: ma adesso, dopo nove mesi di infermità e di tristezza, era piuttosto diventato un sognatore malinconico, vinto da un velenoso pessimismo. Gli avevano dato una stanza ed un salotto sporgente su via Caracciolo, al sole, all'ammezzato. Molte ore della sua giornata passava sdraiato in una sedia lunga, vicino a quel verone, neppure fumando, perchè il fumo gli faceva male ai polmoni, e appena guardando il mirabile spettacolo, che si svolgeva sotto a’ suoi occhi. Spesso, dopo pranzo, poichè le notti erano belle, de’ suonatori ambulanti, venivano a cantare le loro canzoni napoletane, accompagnati dalle chitarre e dai mandolini, e dietro a’ cristalli dei balconi era un apparire di facce esotiche che ascoltavano delle canzonette.
Egli stesso, che non era uno straniero, tendeva vagamente l'orecchio a que’ suoni e a quei canti così spesso appassionati, quasi sempre teneri. Ancora, della gente si radunava intorno a questi suonatori ambulanti, malgrado che fossero notti d'inverno, e altri cantavano in coro con essi, con quella facilità graziosa del popolo napoletano.
Ranieri Lambertini ascoltava assai distrattamente quei suoni e quei canti che gli parlavano di amore; ei portava nel cuore una rimembranza fatale che gli avvelenava per sempre l'esistenza e una sensibilità estrema lo faceva fremere, ogni volta che lo spettacolo della vita lo induceva alla contemplazione dell'amore. Quella sera di gennaio, tiepida come se già si fosse in primavera, lo rendeva anche più infelice, perchè faceva risorgere in lui tutti i rimpianti di un amore perduto. Di dietro ai cristalli del suo verone, egli guardava nella via il piccolo attruppamento, quando, come suggestionato da uno sguardo che lo attirasse, egli si chinò meglio, a guardare nella strada. Ma distingueva poco precisamente e tralasciò di guardare. Pure, il fenomeno si ripetè. Egli si sentì di nuovo attirato ai cristalli, e questa volta egli vide bene lo sguardo ardente di una donna che lo fissava. Era una donna del popolo, vestita di scuro, decentemente, e con uno scialletto di lana nera sul capo, che si teneva stretto con una mano al collo. Ranieri Lambertini represse a stento un grido di sorpresa, riconoscendo quel volto; era quello di Rosa, la serva di Rachele Cabib, colei che era sparita contemporaneamente alla sua padrona, nella notte terribile del tentato assassinio. E questa donna lo guardava così attentamente, così curiosamente, che anch'ella doveva averlo riconosciuto, malgrado la notte, la oscurità, i cristalli, il tempo che era passato e il mutamento avvenuto nella fisonomia di Ranieri Lambertini. Egli schiuse i cristalli, e incurante della temperatura che poteva danneggiare i suoi polmoni, abituati alla stanza riscaldata dell'albergo, si sporse dal verone e gridò più che disse:
— Signore! — fece quella, balenando dai buoni occhi fedeli e accostandosi al verone.
— Sali sopra!
— Dove?
— Eccomi. —
Egli la guardò ancora, dal verone schiuso, che con passo svelto girava intorno all'albergo e svoltava verso il portone principale; poi, richiuse i cristalli e volle aprire la porta, per andarle incontro. Ma in mezzo alla camera fu preso da una vera soffocazione di respiro: quella improvvisa apparizione lo aveva sconvolto. Con mano tremante egli schiuse la maniglia della porta, e la povera serva, che era stata la costante e migliore confidente del suo grande amore, quella che gli era stata di continuo aiuto e continuo conforto, si avanzò verso lui. Quando fu in mezzo alla stanza, quando lo vide così pallido, così consumato, così tremante, la poveretta ebbe uno schianto e, buttatasi sopra una sedia, si mise a piangere:
— Perchè piangi, Rosa, perchè piangi?
— Oh! Eccellenza. … Eccellenza. … vedervi così…. dopo tanto tempo. …
— Non sono morto ancora, Rosa, — egli mormorò, con un pallido sorriso, respingendo la domanda, che gli bruciava le labbra.
— Oh! signore, voi dovete vivere cento anni. … cento anni. …
— Sarebbe troppo, — soggiunse lui, sempre ironicamente — ma non piangere più, Rosa. … nessuno è morto. —
E la guardò con un sì terribile sguardo scrutatore che ella, intendendo, abbassò gli occhi:
— No, nessuno è morto, — ella rispose, lentamente, passandosi il fazzoletto sulla faccia. — Ma quasi.
— Quasi? Quasi?
— Eh, sì! — rispose Rosa, con un profondo sospiro di dolore.
— È malata, è morente Rachele? — chiese rudemente, senza più ambagi.
— No, signore. Sta bene. … credo che stia bene.
— Credi? Non lo sai? Non l'hai vista?
— Oh, da molto tempo, non l'ho vista!
— E come? Come dici che è quasi morta? Che ne sai?
— Dico che è quasi morta, perchè è in monastero, signore mio, e in una clausura strettissima.
— Ah! non mi avevano ingannato! Ma dove, dov'è, Rosa? —
Ella lo guardò, esitante, incerta.
— Dimmelo, per amor di Dio, dimmelo!
— Lo debbo, signore? Voi l'avete trattata così male! Voi l'avete tradita!
— Oh, Rosa, se sapessi di quale orribile tranello siamo stati vittima, tutti! Mai, mai un momento ho cessato di amare la mia Rachele; non ho peccato contro lei, neppure col pensiero! — gridò il conte Ranieri Lambertini, con l'accento della verità.
— Veramente? Oh, signore, che disgrazia! Quale brutta disgrazia!
— Dio mi assista! Qui, signore.
— Qui, a Napoli?
— Sì, sì.
— Ah! è Iddio che mi vi ha condotto! E in quale monastero?
— Nel convento di suor Orsola Benincasa, alle sepolte vive, — disse, piano, Rosa che aveva di nuovo le lacrime agli occhi.
— Dio mio! — gridò lui — le sepolte vive! Che nome orribile! E perchè è andata colà?
— Così. Voleva monacarsi e ha preferito un chiostro di clausura assoluta.
— Assoluta! E da quando vi è entrata?
— Da cinque o sei mesi. Cambiò monastero due o tre volte, perchè la perseguitavano. …
— La perseguitavano? E chi?
— Chi? Quell'uomo! Il suo persecutore, la causa di tutte le sue disgrazie. …
— Sì, lo so, Rosa, il suo maledetto nome, l'ho saputo per un miracolo, malgrado che Rachele non me l'abbia mai voluto dire.
— Ebbene, anche in monastero, costui l'ha perseguitata; ed ella ha finito per venire qui, in questo convento che mi sembra una tomba, signore mio!
— Ma tu la vedi sempre, è vero? Come sta? Che fa?
— Io non lo so. Non la vedo mai.
— Mai? Non ci vai?
— Non mi riceve, signore, — e di nuovo i singhiozzi le sollevarono il petto.
— Come? — gridò dolorosamente Ranieri Lambertini, il cui animo si chiudeva sempre più — non ti riceve?
— No, Eccellenza.
— E perchè?
— Così: mi disse che non voleva più avere contatti col mondo.
— Ma eri la sola persona che le restasse!
— Sì: ero la sola. Ma specialmente me, mi disse, non voleva vedere.
— Perchè, te?
— Perchè le ricordavo il dolore più terribile della sua vita e la persona che più era stata crudele con lei.
— Tu?
— Io.
— A che alludeva, Rachele? — chiese tetramente il conte romano.
— Al vostro tradimento, — mormorò Rosa a occhi bassi — e a voi. —
Una sofferenza indicibile si delineò sulla fisonomia di Ranieri Lambertini.
— Ella mi odiava, mi odia, è vero? — disse alla povera serva, con voce tremante, Ranieri.
— Non so se vi odiasse. … non lo so, — e balbettava la poveretta.
— Non lo sai?
— Non me lo ha mai detto.
— Come? Come?
— Non mi parlava mai di voi.
— Mai?
— Mai.
— Oh Dio! — disse lui, pianissimo, con un gemito straziante. — E tu non le parlavi di me?
— Mai, ella me lo aveva proibito. Non voleva udire neanche il vostro nome.
— Oh, Dio! — gemette il povero convalescente, ancora una volta, e si nascose il volto fra le mani, come per celare le sue lacrime.
Un silenzio doloroso regnò in quella stanza.
— Io, spesso, ritornavo a parlare di voi, — soggiunse Rosa, rialzando la testa. — Ma ella mi guardava coi suoi begli occhi che avevano tanto pianto, per voi, e m’imponeva silenzio, senza parlare.
— Ella aveva ragione, — mormorò il conte, come se parlasse fra sè.
— Oh, signore. … sentite. … non potete immaginare che notte fosse quella. … quando fuggimmo via di casa nostra. …
— Oh, Rosa, che notte. … la più atroce notte della mia vita!
— E da voi. … aspettammo tanto tempo. … tanto tempo. … e infine arrivò la notizia infame. … la notizia tremenda. … voi ferito mortalmente, all'agonia…. ricoverato nella casa della vostra amante…. di colei per cui vi avevano ferito. …
— Oh, che infamia, che infamia!
— Una infamia: e la povera fanciulla, fuggita di casa, senza ricovero, che non poteva neppure venirvi a trovare dove eravate!
— Oh, Rachele, Rachele mia! — gridò lui, torcendosi le braccia dalla disperazione.
Egli si rialzò, guardando in viso Rosa con certi occhi fieri e truci.
— Dal vicario.
— Fu lui che vi prese sotto la sua protezione?
— Sì.
— Rachele non fece nulla per sapere mie notizie?
— Nulla. Credette di vedere la mano della Provvidenza in tal fatto, e si rassegnò a rinunziare a tutto.
— Da quanto tempo, tu dici, è qui?
— In clausura?
— Clausura perfetta: sepolte vive.
— Ma ella non ha pronunziato i voti, è vero, è vero? —
La domanda era così incalzante, così tragica che Rosa si sgomentò:
— Non so. … — disse. — Non so.
— Se vi dico che non mi ha più ricevuto!
— Ma una monaca non pronunzia i voti, subito: vi è un anno di noviziato, io credo!
— Vi è. … vi è. … ma. …
— Ma che? Che?
— L'ultima volta che la vidi. … — e Rosa piangeva di nuovo.
— Ebbene? Parla: non farmi morire!
— Mi disse che aveva fatta domanda per abbreviare il suo noviziato.
— Cioè?
— A sei mesi.
— È possibile? È possibile? Ma questo è un suicidio? E glielo avranno concesso?
— Non lo so.
— Non hai tentato di andare, nuovamente?
— Sì.
— Ebbene?
— Non sono entrata.
— E non hai chiesto della monacazione?
— Sì: non mi hanno risposto.
— Oh Dio! — ripetè lui, per la terza volta.
Ma questa volta era un grido di collera contro il destino che gli era sfuggito. Passeggiò tre o quattro volte, su e giù per la stanza. Poi, si fermò:
— Rosa?
— Signore?
— È impossibile, signore.
— Io voglio vederla.
— Ho sempre amato e servito Iddio fedelmente; non può impedirmi di vederla.
— Signore!
— Andrò sino al papa, ma la vedrò.
— Che importa? Debbo vederla: debbo parlarle: debbo dirle che sono innocente: giurarglielo su Dio: e dopo morire.
— Debbo vederla, Rosa; non posso morir disperato, bestemmiando. Ritrovarla, saperla qui, poco lontano e non poterla vedere, è da dannarsi. Io mi tiro un colpo di rivoltella. —
E nei suoi occhi si leggeva la risoluzione implacabile che nulla può vincere.
— Vederla, Rosa, vederla, per un'ora, per dieci minuti, per un minuto. Dirle una parola e morire. —
La povera donna, dinanzi a quello scoppio dell'amore di Ranieri Lambertini, si alzò esterrefatta. L’idea che egli volesse violare la santità del chiostro, per vedere Rachele Cabib, che forse aveva di già pronunciato i voti solenni monacali, turbava la sua coscienza di umile cristiana. Era stata lei la intermediaria più accanita di questo fra la giovane fanciulla ebrea e il gentiluomo romano, aveva desiderato ardentemente che queste nozze così impossibili diventassero una realtà; ma il giorno della catastrofe, ella non aveva più osato opporsi a che Rachele Cabib entrasse in un convento. Attratta dall'antica devozione che aveva per la sua padroncina, ella non se n'era andata da Napoli, ed aveva trovato servizio presso una famiglia borghese napoletana, che abitava alla Riviera di Chiaia. Come aveva raccontato a Ranieri Lambertini, ella aveva tentato varie volte di rivedere la giovine novizia delle sepolte vive; ma costei, temendo che con Rosa riapparissero nel convento tutti i ricordi e tutte le tentazioni del mondo, si era sempre rifiutata di riceverla; e la povera serva, sospirando, aveva rinunziato per sempre al suo sogno.
Per un caso, quella sera si era trovata in via Caracciolo, mentre i suonatori ambulanti cantavano Capille nire e Carmela; e, ora, tutto il dialogo affannoso sostenuto col gentiluomo romano, e giunto adesso al suo culmine con la domanda convulsa di Ranieri che voleva per forza rivedere Rachele, aveva sconvolto le poche idee della fedele domestica. Ella balbettò:
— È impossibile, signor conte, è impossibile!
— Debbo vederla, — replicò ancora una volta l’innamorato, che era arrivato ad uno stato di delirio veggente. — E tu devi aiutarmi.
— Non lo posso fare, — disse lei, tremando.
— E perchè? — chiese lui, ansiosamente.
— Perchè Rachele è una monaca, perchè nel convento non si entra, perchè la povera fanciulla è morta per voi.
— Sarebbe morta, se ne avessero sotterrato il cadavere; ma io farei riaprire quella tomba per seppellirmi accanto a lei, — gridò lui, a cui l'impensato di quel che avveniva e tutta la sua passione ridestata davano la febbre.
— Che dite, signor mio? — mormorò lei. — Questa è una pazzia!
— Che t’importa, se sono pazzo? Tutti gli innamorati sono pazzi: eppure, debbono trovare chi li assista. Tu devi assistermi, Rosa.
— Ma in che modo? Io sono una povera donna, sono una serva, non posso nulla!
— Ti darò del denaro, tutto quello che tu vuoi: ma tu devi andare da Rachele.
— Rachele si chiama suora Grazia e avrà certamente pronunziato i voti. Caro signore, non mi tormentate e non vi tormentate. Fatevi una ragione. Rachele è fra le sepolte vive.
— Non me ne persuaderò mai. Tu devi andare colà.
— E se non mi riceve?
— E se mi scaccia?
— Tante volte ci ritornerai, ogni giorno, che ti vedrà.
— E se ha pronunziato i voti, e non può vedere nessuno?
— Dio sperda l'augurio; ma devi vederla, anche monaca.
— Ci vorrà un permesso del vicario?
— Te lo procurerò.
— Che cosa direte?
— Una bugia: che è moribondo suo padre, che vuol rivederla sua madre; ma bisogna che tu riveda Rachele, che tu le parli di me, che tu la induca a vedermi.
— Questa è una pazzìa, — continuava a dire agitatissima la domestica.
— Dovessi andarci tu per sei mesi di seguito, ogni giorno, tre volte al giorno, bisogna che tu veda Rachele! — replicò il conte, che era, oramai, dominato dall’idea fissa.
— Ma io ho il mio servizio, — balbettò lei, non sapendo che altro dire.
— Io ti pagherò venti servizi. È inutile, non ti lascio andare. Sono sei mesi, che io languisco nella disperazione morale di questo amore. Io non ho fatto nulla contro Rachele. Io sono innocente. L'ho amata e l'amo con passione indicibile, ed ho mille volte invocato la morte, per aver perduto Rachele, e se ho consentito a vivere, a guarirmi, è stato nella speranza di ritrovarla; se essa è viva, e non mi è dato rivederla, io mi tirerò un colpo di rivoltella nella testa. —
E, negli occhi febbricitanti e stravolti, era così chiara la sua determinazione, che la povera serva, la quale nulla sapeva o intendeva di drammi amorosi e di suicidi, e che mancava completamente di fantasia, si figurò subito il giovane conte morto, sfracellato, immerso nel suo sangue. Tale idea le fece tanto orrore che si nascose il viso tra le mani. Egli comprese che, da parte di Rosa, ogni resistenza era vinta e le disse:
— A che ora vi andrai, domani?
— Verso le nove, Eccellenza.
— Non puoi più presto?
— Più presto le monache compiono le orazioni mattinali, e la portinaia non mi aprirebbe.
— Sta bene. Io ti accompagnerò.
— Ma, non per entrare, è vero?
— No, non tenterò nulla per entrare. Voglio solo vedere le mura dov'è chiusa la mia Rachele, voglio baciare la porta che me la contende, voglio esser sicuro che tu vi andrai.
— È certo che vi andrò, giacchè ve l'ho promesso. Verrò a prendere Vostra Eccellenza?
— No, — disse lui, guardandola con occhio diffidente. — Tu passerai la notte qui.
— Qui? — disse lei, stupefatta.
— Sì, in albergo. Ti farò dare una stanza.
— E i miei padroni?
— Manderai a dir loro che non rientri, che è arrivato tuo figlio, tuo marito, dirai quello che vuoi, e che te ne vai, che non puoi servirli più. Io non ti lascio andare questa notte. Dove sono i tuoi padroni?
— Alla Riviera di Chiaia, al numero 65, e si chiamano Cantalamessa.
— Sta bene. Li farò avvertire.
— Questa è una pazzia, — disse lei, per l'ultima volta, vedendo che egli suonava il campanello elettrico.
. . . . . . . . . . . . . . .
L’indomani mattina, alle nove, Rosa saliva per le scale che conducono dal Corso Vittorio Emanuele a suor Orsola Benincasa. Non aveva potuto ottenere da Ranieri Lambertini che costui rimanesse a piedi della scaletta. Il giovane conte romano non aveva chiuso occhio in tutta la notte, e alle sette della mattina, malgrado che tirasse un vento freddo poco piacevole, si era gittato dal letto, per vestirsi. Una impazienza febbrile lo teneva. Verso le otto e mezzo, colei che teneva nelle mani il segreto del suo avvenire, cioè quella povera donna di Rosa, era venuta tutta turbata a bussare alla sua porta. Ella non si raccapezzava più, in quel dramma d'amore, in cui si trovava di nuovo bizzarramente coinvolta. Ma, legata da una tenera affezione alla sua padrona, essendo ella stata l'intermediaria e la fautrice di questo amore, che era stato interrotto così bruscamente, non aveva osato rifiutarsi alle convulse domande di Ranieri Lambertini, accadesse quel che accadesse. Ella si sentiva presa da una fatalità e non aveva più il coraggio di resistere.
Una carrozza li aveva trasportati dal Grand Hôtel sino al palazzo Cariati, a’ piedi della scaletta di suor Orsola, e lì, malgrado le rimostranze di Rosa, Ranieri Lambertini l'aveva seguìta a breve distanza. In verità, nella notte, egli aveva tentato di scrivere una lunga lettera a Rachele; ma tutto ciò che egli aveva da dirle gli si affollava così nella mente, che aveva lacerato due o tre volte il foglio di carta, incapace di frenare l’impeto della sua passione. D'altronde, la lettera gli pareva un mezzo troppo blando, e che servisse solamente a mettere in guardia Rachele Cabib contro i tentativi disperati, che egli avrebbe fatti per rivederla. Viceversa, egli non voleva altro che questo, rivederla; aveva la ossessione di quella delicata e bellissima figura di donna, che egli aveva adorato come l'immagine della bellezza e della bontà, e che gli era scomparsa dinanzi come un sogno.
Mentre saliva per le scale, Rosa diceva fra sè delle orazioni, giacchè non sperava nulla di buono da quella missione estrema, che il Lambertini le aveva data.
Egli si fermò all'angolo che fanno le scale di fronte all'ultima rampa, in fondo alla quale si mostrava il portone sbarrato del convento. Un ultima raccomandazione a Rosa:
— Per amor di Dio, cerca di vederla, parlale, dille che l'amo, dille che muoio senza lei! —
Ella crollò il capo e le spalle, come se il peso morale del suo incarico fosse troppo grave, e salì lentamente i larghi scalini di pietra che la dividevano dal portone, mentre Ranieri Lambertini rimaneva all'angolo della via. Egli la vide appressarsi alla pesante porta serrata, tirare la catena di ferro che corrispondeva al campanello, e aspettare.
Vide anche che ella aspettava molto, perchè dovette bussare tre o quattro volte, a intervalli, prima che le venissero ad aprire. Poi, lassù, qualche cosa stridette; uno spiraglio del portone si schiuse, e Rosa, dopo aver parlamentato qualche minuto, entrò, senza voltarsi a lui. Egli intese richiudersi pesantemente quel portone, come quello di un carcere; ma, arso dalla passione, pensò anche che nessuna porta di legno o di ferro resiste alla volontà di un uomo che ama.
E, immediatamente, un terrore subitaneo lo prese: il terrore, cioè, che Rosa uscisse subito da quel convento, il che sarebbe significato che non le era riuscito di vedere Rachele Cabib, nè di farle giungere un’imbasciata. Questo terrore si trasformò addirittura in un incubo. Inchiodato a quell'angolo di scala, con gli occhi fissi su quelle due porte sbarrate, solo, co’ brividi addosso di una mattinata fredda d’inverno, in quell’angolo dove sempre soffia il vento, egli non aveva più coscienza di nulla, tremando di vedere schiudere novellamente quella porta, di vedere riapparire il volto desolato di Rosa, scacciata dal monastero delle sepolte vive. In quella pena intima e profonda, egli cavò macchinalmente varie volte l'orologio, e, quando furono passati quindici minuti, il suo cuore oppresso si cominciò a dilatare, poichè gli pareva certo, che Rosa avrebbe veduto Rachele Cabib. Egli ignorava assolutamente che cosa sia la vita interna di un monastero, e non sapeva che il tempo vi è calcolato ben diversamente che nella vita mondana, e che un'ora lì dentro non conta come un'ora di fuori.
Difatti la dimora di Rosa nel monastero delle sepolte vive fu lunghissima, suonarono le dieci a tutti gli orologi vicini, e poi suonarono anche le undici. Egli non s'impazientiva, anzi gli sembrava che ogni ritardo dovesse convenire alla sua causa, dacchè dimostrava che Rosa era riuscita a vedere Rachele; ma, ad ogni modo, quel ritardo cominciava a pesargli stranamente. Che cosa poteva far dunque lì dentro la sua messaggiera da più di due ore? Non ne sarebbe uscita forse più?
Si voleva seppellire viva anche lei? Da che poteva dipendere quella lunga dimora?
Non sapeva Rosa che egli era lì fuori, così ansioso, così fremente, come se si giudicasse, e si giudicava veramente, tutto il suo destino? Come poteva farlo aspettar tanto? Che era successo? Era malata, forse, Rachele? Era monaca? Che poteva esser successo?
Ogni minuto adesso che passava, aumentava la sua pena; e ciò che era stato la sua speranza, si volgeva nella sua disperazione. Ogni tanto gli pareva di udir scricchiolare il portone, di vedere schiudere quei battenti; ma l'allucinazione spariva immediatamente dalla sua fantasia esaltata. Erano le undici e mezzo, ora; e Rosa non usciva. Adesso, egli era preso dall’ira, anche, e pensò, se non fosse stato meglio usare l'audacia di battere a quella porta.
Due o tre volte, dalle undici e mezzo a mezzogiorno, Ranieri Lambertini risalì i larghi scaloni, che lo dividevano dal portone di suor Orsola Benincasa, e fu lì lì per afferrare la catena di ferro e scuotere fortemente il campanello; ma ogni volta si rattenne, pensando che fosse una grave imprudenza, e ridiscese lentamente la via fatta, ritornando al suo posto di osservazione, dove si rassomigliava a Gesù posto in croce. Finalmente, come scoccava mezzogiorno, il portone si schiuse, ed allo spiraglio venne fuori Rosa, che discese rapidamente gli scaloni per accostarsi a lui. Egli la fissò in viso, così ansioso e così trepidante, che le parole gli si soffermavano sulle labbra soffocate dall'angoscia. Ella aveva sempre l'aspetto turbato, ma, anche, vi era qualche cosa di misterioso nel suo viso, qualche cosa che spiritualizzava il volto poco intelligente di quella umile donna, e gli dava una espressione novella. E allora ella gli si pose accanto, e gli disse, mentre camminavano insieme:
— Ancora un momento di pazienza; parleremo poi, quando saremo arrivati al Corso. —
E, nel dire questo, anche un’intonazione di mistero era nella sua voce, ed egli tacque, camminandole a canto, a capo basso. Presto, però, arrivarono al Corso, e salirono in una carrozza da nolo, che doveva condurli al Grand Hôtel; per parlare meglio, e per nascondere la sua faccia sconvolta, Ranieri Lambertini fece alzare il soffietto.
— Dunque, — le disse — l'hai vista?
— Sì, l'ho vista, — disse lei, a capo basso.
— Quando, come?
— Solamente dieci minuti fa? E sei rimasta tre ore?
— Ella era al coro; poi vi è stata un'ora di adorazione del Sacramento; poi si è dovuto consultare la badessa, e finalmente l'ho vista.
— Al coro, al Sacramento? si è dunque monacata? non è più novizia? —
La serva chinò il capo sul petto, e non rispose.
— Di', si è fatta monaca? — incalzò lui, che tremava tutto.
— Non vuoi darmi la tremenda notizia? — egli gridò. — Abbine il coraggio. È meglio la certezza, che questo dubbio atroce! È monaca, è vero? — e le afferrò la mano callosa, e la strinse come se volesse infrangerla.
— Non mi fate male. Io non ne ho colpa, — ella rispose, tentando di sciogliere il suo polso da quella stretta.
— È monaca? — urlò lui. — Io l'ho perduta per sempre! — e fece come per gittarsi dalla carrozza sul binario del tram a vapore che si avanzava, quasi volesse finirla con la vita.
— No, — disse lei, rattenendolo — non è monaca ancora.
— Ah! — gridò lui, con un sospiro che parve un ruggito, cadendo disfatto in fondo alla carrozza da nolo.
— Ma è come se fosse monaca, — soggiunse subito lei, con voce commossa.
— Perchè pronuncierà i voti solenni fra quindici giorni.
— Fra quindici giorni? — gridò lui. — E perchè così presto?
— Perchè ella stessa ha chiesto di abbreviare il tempo del suo noviziato, perchè è venuto il rescritto ecclesiastico, e perchè ella fra quindici giorni sarà una sepolta viva.
— Chi ti ha detto questo, ella stessa?
— Me lo aveva detto prima la conversa, che fa da portinaia, e poi me l’ha confermato suora Grazia.
— Chi è suora Grazia? — domandò lui, smarrito.
— È lei, è la signorina Rachele, che ha preso questo nome in religione.
— Anche il nome ha cambiato? — egli disse, come vaneggiando, come parlando a sé stesso.
— E che ti ha detto lei?
— Non voleva vedermi, — rispose Rosa.
— Non voleva? E come si è indotta a riceverti?
— L'ha indotta la madre badessa; le ha detto che le novizie, prima di monacarsi, debbono vedere i loro parenti e i loro amici, perchè poi non rimpiangano nulla del mondo. Allora, suora Grazia, ossia quella che fu la vostra Rachele, si è decisa a vedermi, per obbedienza.
— E come era? come è diventata?
— Più fine, più pallida, e più bella. Non sembra più una donna, signore; sembra un angelo.
— Oh, Rachele, Rachele! — esclamò lui, torcendosi le mani dal dolore.
— Io le ho voluto baciare la mano, ma essa me lo ha impedito; mi ha salutato teneramente, ed ha voluto saper conto della mia vita.
— Le hai parlato di me?
— Sì, gliene ho parlato.
— Che le hai detto?
— Che vi ho ritrovato, e che eravate innocente, che l'amavate sempre e che volevate rivederla.
— E che ti ha risposto?
— Nulla, sulle prime. Quando ha inteso pronunciare il vostro nome, si è fatta pallidissima, più pallida del suo soggolo, e non mi ha interrotta, come faceva sempre prima, quando io vi nominava. Poi, quando ho detto che siete miracolosamente scampato da morte, le sono salite le lacrime agli occhi. …
— Oh, Rachele, Rachele! — continuava ad esclamar lui, come preso dall’idea fissa.
— Ma, quando le ho detto che voi l'amavate ancora, ella ha chinato gli occhi, e il suo volto mi è parso più duro e più freddo di una pietra.
— Non ti ha risposto?
— Sì, mi ha risposto.
— E, che t'ha detto?
— Mi ha detto queste testuali parole, che così vi riferisco: «Egli non deve amarmi. Egli deve dimenticarmi. Non si amano i morti. Si dimenticano i morti: io sono morta!»
— Oh Dio, oh Dio! — esclamò lui, nascondendosi il volto tra le mani.
— Pure, — soggiunse Rosa — io ho insistito, dicendo che voi volevate vederla; ma ella s'è mostrata sempre della stessa fredda austerità, e mi ha ancora detto: «Digli che non ci vedremo più; che io sono di Dio; che debbo pronunziare i voti tra quindici giorni; e che in quel giorno mi offrirò al Signore, in cambio della pace che Dio gli accorderà.»
— E niente altro ti ha detto?
— Niente altro, per voi.
— Non ti ha parlato di altri?
— Sì, del padre, della madre. Avrebbe voluto rivederli, prima di monacarsi. Sapete che ella crede fermamente non essere morta sua madre.
— E niente altro proprio per me, niente?
— Niente.
— Tutto è finito, dunque! — egli mormorò, come Cristo sulla croce.
. . . . . . . . . . . . . . .
Ma lo scoraggiamento di Ranieri Lambertini durò pochissimo tempo. Tutto solo nella stanza del Grand Hôtel, nel pomeriggio d’inverno, dopo non aver toccato cibo della colazione, egli ebbe una reazione furibonda contro il destino, che gli toglieva Rachele Cabib. Egli dimenticava tutte le parole gelide e aspre, che Rosa gli aveva riportato; egli le dimenticava, poichè gli pareva che non potessero essere uscite dalla bocca di una donna che egli adorava, e che tanto lo aveva amato, da rinunziare alla sua casa, al padre, alla sua religione, e che finalmente rinunziava alla vita del mondo per lui. No, non era Rachele Cabib, quella che gli aveva imposto di non pensare più a lei, pensando che ella fosse morta; non poteva essere la fiorente giovanetta dal biblico profilo, dai grandi occhi neri d'israelita, che gli aveva mandato a dire che tutto era finito tra loro! Colei che lo aveva amato, era quella che, udendo il suo nome, s'era fatta bianca in viso come il suo soggolo, e i cui begli occhi tristi si erano riempiuti di lagrime. Gli amanti appassionati come Ranieri Lambertini non sono disposti a rinunziare all'amore, sol perchè l'amata ha detto che tutto era finito. Ma, se l'hanno udita, ripensano la voce che ella ebbe nel dire le fatali parole, ripensano il tremore delle labbra pallide, e credono che no, non tutto sia finito. Solo quel pallore mortale e quegli occhi velati di lagrime apparivano nella visione pomeridiana al giovane gentiluomo romano, ed egli diceva che Rachele lo amava ancora, che se non aveva ancora pronunziato i voti solenni, ella avrebbe rinunziato al chiostro, per rientrare nella vita.
Ah, se per soli pochi minuti egli avesse potuto rivederla! Se egli avesse potuto dirle, col grido dell'amore, a cui nulla resiste: «Rachele, se io ti perdo, mi uccido!» egli era certo, certissimo, che il cuore di Rachele si sarebbe infranto, e che ella sarebbe stata novellamente sua. Ma come vederla? come, se giammai avrebbe potuto entrare in quel monastero delle sepolte vive? Se mai una sua lettera avrebbe potuto raggiungere la novizia? Ricorrere al vicario, era un disegno imprudente e sacrilego; almeno, sacrilego sarebbe stato giudicato da costui, visto che la vocazione di Rachele Cabib era ineluttabile, e visto che i conventi non ridanno volentieri al mondo le anime che hanno raccolte e serrate.
Pure, disperato, e sentendo che quei quindici giorni erano un tempo prezioso per guadagnare il premio del proprio amore, egli partì per Roma, avendo raccomandato a Rosa di ritornare, se fosse possibile, al convento di suor Orsola Benincasa, di ritentare l'assalto al cuore di Rachele Cabib. Ella lo promise, ed era, oramai, così devota alla causa di Ranieri Lambertini, che egli sapeva bene avrebbe mantenuto la promessa. E partì.
Egli apparteneva a una famiglia patrizia romana, che aveva molti rapporti nel mondo del clero a Roma, e quindi tentò parenti ed amici, per arrivare al suo scopo. Ricco, nobile com'era, appassionato e disperato anche, non pareva che grandissimi ostacoli dovessero opporsi al suo intento. Egli non parlò direttamente col vicario, ma trovò modo di aprire il suo cuore ad un prelato influentissimo, dicendogli tutta la sua dolorosa istoria, dicendogli per quale ragione Rachele Cabib era entrata in monastero, e perchè voleva pronunziarvi i voti solenni. Egli narrò come la notizia della sua ferita mortale e del suo presunto tradimento aveva deciso la povera giovane tradita a fuggire per sempre il mondo, a darsi a Dio; ma, poichè egli non aveva tradito, poichè egli amava sempre la fanciulla cristiana, poichè egli era certo che ella lo amava ancora, quella vocazione non era basata sul vero, e egli domandava che la novizia potesse uscire dal monastero. Era un caso di coscienza, dunque, e, nel narrarlo, egli trovò delle parole così efficaci e delle lagrime così ardenti, che quel prelato si commosse e promise di parlarne il giorno stesso al vicario. Ranieri Lambertini gli dichiarò quanto urgente fosse il caso, poichè forse la novizia avrebbe pronunziato i voti tra quindici giorni e non vi sarebbe stato più tempo nè mezzo di ridarla alla vita dell'amore e della felicità mondana. Con la spirituale solerzia, che gli uomini della religione mettono sempre in queste cose, il prelato eseguì puntualmente la commissione, e il giorno seguente potè assicurare a Ranieri Lambertini che il vicario aveva trovato un mezzo, per risolvere questo caso di coscienza. Gli dichiarò anche che il mezzo era rapido, ma che sarebbero dovuti passare almeno cinque o sei giorni, prima di conoscere una notizia certa.
Non solo cinque o sei giorni passarono, ma trascorsero invece otto mortali giorni, in cui Ranieri Lambertini non fece che agonizzare d’impazienza e di dolore. Infine, la risposta venne. Il vicario aveva incaricato per lettera il confessore della superiora di suor Orsola Benincasa di recarsi da costei, e d’invitarla a interrogare maternamente suora Grazia la novizia, che aveva lasciato in monastero il nome di Rachele Cabib; la badessa lo aveva fatto maternamente, invitandola ad invocare l'aiuto dello Spirito Santo; ella aveva interpellato suora Grazia, perchè le dicesse se la sua relazione era vera, e se per caso non la tentasse il desiderio del mondo e dell'amore.
La madre superiora era persino giunta a dire alla novizia, che forse il suo giudizio delle cose umane era sbagliato, che le persone da lei supposte perfide non erano tali, e che bisognava pensarci bene, prima di voler dare a Dio un cuore ancora vincolato da un affetto terreno.
Rachele Cabib aveva risposto che ella era decisa a pronunziare i voti solenni; ella non imponeva nessuna violenza morale alla sua volontà, monacandosi; ella non pensava più, nè al mondo, nè alle sue gioie fallaci; perfida o buona che fosse la gente, tutto ciò che era accaduto, era irrimediabile, e non era più il caso di discutere la sua vocazione.
Questa risposta, riportata dalla badessa al suo confessore, era stata trasmessa fedelmente a Roma, e fedelmente il vicario la comunicava a Ranieri Lambertini, per fargli comprendere che non vi era più nessuna speranza.
La cattiva riuscita di questo piano, deciso con audacia ed eseguito con energia, atterrò Ranieri Lambertini. La ostinazione implacabile di Rachele Cabib, che persino di fronte alle domande della madre superiora insisteva a voler pronunziare i voti assoluti, gli dimostrava che la ferita, di cui era stato colpito il cuore della fanciulla, di fronte al presunto suo tradimento, e al suo presunto abbandono, era molto più profonda e più inguaribile di quella che a lui aveva dato la mano di un assassino. Rachele Cabib apparteneva a quelle creature tutte di un pezzo, che ignorano l'avvenimento delle transazioni e preferiscono spezzarsi, anzichè piegarsi. Infine, le era stata fatta l'offerta suprema: la vita, l'amore, la felicità; ed ella aveva rifiutato. Che cosa avrebbe potuto deciderla? Nulla oramai più.
Un terrore mistico invase l'animo del giovane gentiluomo romano, poichè egli pensò che la passione terrena del cuore di Rachele Cabib s'era tutta trasformata in vocazione religiosa. Era stata una donna fiera e ardente la fanciulla ebrea, e come prima non aveva amato che Ranieri Lambertini, adesso si era data completamente a Dio.
Egli passò tre giorni in uno stato di abbattimento profondo, nella sua casa di Roma, presso suo zio, che lo adorava e che non trovava modo di consolarlo di questa estrema disfatta. Ma, come il supposto giorno della monacazione si appressava, nell'accasciamento dell’innamorato, una ribellione feroce sorgeva contro il fatto, che si andava a compiere; e un desiderio folle, invincibile, lo teneva di impedire questa catastrofe del suo amore, anche a viva forza. Una quantità di romanzi medioevali gli giravano per la mente, in cui gli amanti forzavano le porte dei monasteri, e rapivano la donna del loro cuore, in una notte buia e tempestosa.
Egli era preso dallo stesso delirio di colui che si vede morire dinanzi una persona e, a tutti i costi, vuole strapparla alla morte, una di quelle rabbie impotenti, che conducono l'uomo al suicidio o all'omicidio.
Anzitutto, nessuna forza umana, neppure il tenero affetto di suo zio, potè trattenerlo in Roma. Gli pareva, che a Napoli morisse qualcuno, e che la sua presenza in questa città avrebbe potuto portare un qualche espediente terribile alla terribile situazione in cui egli si trovava. Almeno, a Napoli, avrebbe potuto rivedere Rosa, la povera donna che era stata la confidente migliore di quell'amore; almeno avrebbe potuto andare sino alla porta di quel monastero, dove si sarebbe seppellita per sempre, con Rachele Cabib, ogni sua felicità. Avrebbe potuto, in un'ora di delirio, battere alla porta di quel monastero, e chiedere di vedere Rachele Cabib; e, se ciò gli avessero consentito, tentare l'ultimo grido di dolore, che scuotesse quel cuore impietrito, e portar via la donna del suo cuore; o, se non glielo consentissero, uccidersi alla porta di quel monastero.
Egli partì dunque disperato, e deciso a tentativi estremi. Suo zio lo accompagnò malinconicamente alla stazione e non tentò di fargli nessuna rimostranza, poichè aveva compreso che suo nipote si trovava in una di quelle ore tremende dell'esistenza, in cui non giovano nè avvertimenti nè consigli. Nel viaggio doloroso, che il conte Lambertini fece verso Napoli, egli mulinò continuamente dei progetti pazzi, che dovevano servire a salvare il suo amore; ma, ogni tanto, egli si scuoteva dal suo delirio e comprendeva che avrebbe certamente mancato il suo scopo. Fu in questo stato di febbre, di pazzia, di frenesia, che egli giunse a Napoli, e che si recò direttamente all'albergo, ansioso di vedere almeno Rosa. Quando le apparve innanzi così pallido, con gli occhi riarsi, coi lineamenti sconvolti, ella, che non sapeva nulla della pratica fatta per via ecclesiastica, si sgomentò. Affannosamente egli narrò quanto era accaduto, ed ella crollava il capo malinconicamente, sentendo sempre più nella sua mente umile, che quella posizione si faceva più grave e più tragica. Da poche, brevi e tetre parole ella comprese che Ranieri Lambrtini, giunto all'estremo della disperazione, avrebbe tentato una di quelle intraprese folli e che se non gli fosse riescita si sarebbe ucciso. Egli non parlò di morte, ma aveva la morte negli occhi e nella voce. Egli non minacciò nè sè stesso, nè altri, ma la minaccia suprema era in tutto lui. Ella era ignorante e semplice, ma la disperazione ha un linguaggio che si fa intendere da tutti, ed ella comprese. Non gli disse nulla, non lo pregò, non lo supplicò di desistere; ma nella sua mente concepì un disegno ingenuo per gittarsi fra Ranieri Lambertini e la morte.
Intanto, per ottenere che egli nella giornata non facesse nessun passo, gli disse che avrebbe tentato di sapere qual era il giorno della monacazione.
Egli scosse il capo, ma si aggrappò a questa speranza, che la donna gli portasse una notizia dilatoria, perchè, finchè ci è vita e finchè vi è tempo di agire, vi è speranza.
Ella sparve, ed egli rimase chiuso nella sua stanza, scrivendo delle lettere incoerenti a suo zio, a Roberto Alimena e a Rachele Cabib. In verità, erano lettere di addio: egli sentiva aleggiare su sè la morte.
L'opera di Marcus Henner, il gobbo infame, si poteva dire quasi compiuta! Roberto Alimena, fuggente lontano, in esilio dal suo paese, minacciato da una condanna infamante; Rachele Cabib, tolta per sempre alla vita e all'amore; e lui, Ranieri Lambertini, posto di fronte al suicidio.
Aveva ricevuto una vaga risposta al telegramma, fatto al conte Roberto Alimena nel primo impeto di gioia, quando aveva ritrovato Rachele Cabib, ed egli stesso non sapeva che, nel medesimo tempo, il suo migliore amico si trovava nelle sue stesse identiche condizioni, messo a un cimento mortale, per un amore fantastico ed infelice, e lottante corpo a corpo con lo stesso Marcus Henner, colui che aveva annodato la catena di quattro vite.
Ranieri Lambertini finiva allora di scrivere le sue lettere di addio, quando Rosa riapparve nella sua stanza, con un viso sconvolto. Egli si levò dalla sedia, e le disse, con un tremito indomabile nella voce:
— Ci siamo, è vero? —
Ella lo guardò, e gli rispose:
— No, non ancora.
— Dici la verità? — gridò lui — o vuoi tu ingannarmi per pietà?
— Non v'inganno, signore: Rachele non si era ancora monacata.
— Questo lo sapevo, — disse lui dolorosamente. — Mancavano quindici giorni nove giorni fa. Ora, ne mancano sei soltanto.
— Nossignore, nossignore, — disse lei, crollando il capo. — Ella non pronuncierà i voti fra sei giorni.
— Ma, come? non era fissato improrogabilmente il giorno? — disse lui, agitatissimo.
— Sì, era fissato, ma pare lo abbiano ritardato.
— Pare? non ne sei certa?
— Ne sono certa.
— Chi te lo ha detto? Rachele?
— Non me lo ha detto Rachele; io non l'ho vista.
— E chi te lo ha detto?
— Me lo ha detto la madre superiora.
— Sì.
— Ti ha proprio detto, che la monacazione non si farà fra sei giorni?
— Sì, me lo ha proprio detto. Le avevo detto che volevo in quel giorno confessarmi e comunicarmi, per essere unita con Dio alla mia signorina, e che volevo assistere, se fosse possibile, alla messa di monacazione. Ella mi ha risposto: figliuola mia, devi aspettare un altro poco.
— E perchè? — chiese Ranieri Lambertini, il cui animo già si dilatava alla speranza.
— Una delle due novizie è morta.
— Ve ne erano due?
— Sì, vi era un'altra poveretta arrivata nel monastero delle sepolte vive poco tempo prima della cara mia signorina Rachele. Era ancora giovane questa infelice, ma era malata di cuore; la notte aveva spesso degli attacchi spasimanti, e la signorina Rachele che abitava la cella vicina a lei l'assisteva spesso, e così l'altra notte la novizia Maria è morta nelle braccia della mia signorina.
— E poi, — riprese Rosa — la mia signorina si è trovata sola, di notte, con un cadavere fra le braccia. Credo, anche, che in quella ultima notte la novizia Maria le abbia confidato un terribile segreto. Fatto sta che la signorina Rachele ne ha avuto uno sgomento immenso. …
— Ebbene, prosegui. —
Rosa tacque, abbassando il capo.
— La signorina Rachele è un po’ malata, — disse ella, a bassa voce.
— Malata?
— Sì, un poco.
— E non l'hai vista?
— Non l'ho vista.
— Perchè non l'hai vista? non l'ami tu? non hai cercato di vederla?
— Ho cercato, non me lo hanno permesso; la signorina Rachele è nella sua cella, e chi non è monaca o conversa non può entrare dalle sepolte vive, oltre il parlatorio.
— Ma che avrà?
— Ha la febbre, mi hanno detto.
— Io non lo so, signore. Mi hanno detto la febbre, e null'altro; forse, una febbre di paura.
— E come non l'hai vista? e se è molto malata? se muore?
— Oh, signore, non dite questo! Ella è giovane, è forte, non morrà; la badessa mi ha soggiunto che aveva un poco di delirio.
— Il delirio? Ma essa muore dunque! — esclamò Ranieri.
— Ma no: è dipeso dalla notte atroce che ha passato accanto alla morta. La superiora m'ha detto, che la povera signorina Rachele ha chiamato continuamente sua madre nel delirio, e che le parlava, come a persona viva.
— E me? non mi ha mai nominato?
— La badessa non me lo ha detto: mi ha detto che la signorina Rachele ha nominato spesso un nome strano, quello. …
— Di Marcus Henner! — disse Ranieri Lambertini con accento tragico.
— Appunto! Era l'uomo che veniva di notte nella casa del mio padrone, e che voleva per forza sposare la mia signorina. Un brutto e triste uomo, signore.
— Un assassino! — disse tra i denti Ranieri Lambertini. — Ma Rachele come sta ora?
— Eh, così così.
— E se peggiorasse? se fosse in pericolo? anche allora non la potrei vedere? anche allora non le si potrebbe mandare un medico?
— La badessa m'ha detto, che il medico potrebbe entrare, ma col permesso dell'arcivescovo.
— E se morisse, non la vedrei?
— Ahimè, no! Sono sepolte vive.
— Dio mio! — disse lui, cadendo sulla sua sedia, nascondendosi il volto tra le mani.
— Rincoratevi, — soggiunse Rosa. — La monacazione è ritardata, ecco l'importante; ed io credo che la signorina guarirà.
— Ma intanto come ne sapremo notizie?
— Oh, le sapremo! — mormorò Rosa, che era più inquieta di quel che volesse parere.
Difatti, la madre superiora non le aveva nascosto che suora Grazia o Rachele Cabib era ammalata di una febbre molto violenta, che da due giorni non rientrava nella sua ragione e che, certamente, nella notte fatale in cui suor Maria era morta, costei aveva dovuto dirle qualche cosa di così spaventoso, più spaventoso ancora della morte stessa. Frasi confuse e paurose uscivano dalle labbra brucianti di febbre di Rachele, accennanti sempre a sua madre, a Marcus Henner, a cui ella dava il nome, nel delirio, di carnefice.
Invero, avevano chiesto permesso di avere un medico, ed un medico era venuto a visitare due volte al giorno l’inferma. Ma aveva detto che si trattava di una febbre cerebrale, e che bisognava aspettare.
Intanto, nel monastero, erano stati celebrati i funerali di suor Maria, senza nessuna pompa, ma con grandi preghiere e orazioni di tutto il convento. Anticamente nel monastero delle sepolte vive vi era il permesso di tumulare nel recinto istesso, in un piccolo cimitero accanto al giardino delle monache, quelle povere suore, che, cariche di anni, o consumate innanzi tempo da' dolori, morivano nella loro cella, su quel nudo letto, tenendo le labbra gelide attaccate al crocifisso. Ma, con la nuova legge di polizia mortuaria, questo permesso era stato tolto, e anche le monache sepolte vive seguivano la legge comune, ed erano trasportate al camposanto di notte. Questo aveva costituito sempre per loro una grande tristezza: nelle poche ore di ricreazione, le monache e le converse, lasciando il giardino, si recavano sulle antiche tombe delle loro antenate mistiche, e vi portavano dei mazzolini di fiori freschi, e dei mazzolini di fiori artificiali: andavano a piangere colà. Adesso, ogni volta che una monaca moriva, il loro pianto risonava più alto, perchè si dolevano di vedere portar via il corpo della loro sorella. L'ideale mistico delle trentatrè era di esser sepolte vive colà, di morirvi e di restarvi morte.
Così, quando suor Maria fu trasportata via, i clamori furono alti. Ella aveva detto, in un momento di delirio, raccomandandosi a Rachele Cabib, che non voleva si mettesse il suo nome sulla sua lapide, perchè ella era sparita dal mondo, e voleva che non fosse ritrovata neppure la sua tomba. Questo desiderio della infelice era stato comunicato alla madre superiora; ma, purtroppo, costei aveva tentato invano di sottrarre quel nome alla probabile curiosità di chi vi aveva interesse. Ancora una volta la legge veniva a combattere un mistico desiderio! Fu dovuta rendere la dichiarazione di morte al vice-sindaco del quartiere Montecalvario, dal medico, che caratterizzò: morte per aneurisma: e i registri dello stato civile portarono segnate nei decessi del quartiere Montecalvario queste parole: Clara Henner, di anni trentotto.
VI.
La fine di marzo empiva di fiori i colli napoletani, quando, in un mattino già tiepido, il cameriere dell'albergo bussò alla porta di Ranieri Lambertini, e gli annunziò che un signore in sala di lettura chiedeva di parlargli.
— Chi è questo signore? — domandò il conte, che, dal giorno in cui era stato mortalmente ferito, era sempre diffidente.
— Non ha voluto dirmi il suo nome.
— Glielo avete chiesto?
— Sì, Eccellenza.
— E non ha voluto dirvelo?
— Ha detto: il mio nome non direbbe nulla al conte Ranieri Lambertini, è inutile che io gli mandi la carta da visita.
— E allora gli direte che io non posso riceverlo. —
Il cameriere sparve per poco, ma, dopo qualche minuto, ritornò, dichiarando:
— Quel signore insiste per esser ricevuto.
— Gli avete detto che, non conoscendolo, non posso riceverlo?
— Sì. Ha soggiunto: ditegli che vengo da parte del conte Roberto Alimena.
— Ah! — fece Ranieri, diventando pensoso; poi, riprese, rivolgendosi al cameriere, che aspettava immobile: — Che uomo è costui?
— Decentemente vestito, Eccellenza, quasi con eleganza.
— Di che età?
— Italiano?
— No, Eccellenza, inglese.
— Inglese? ne siete certo?
— Certissimo, Eccellenza: ne abbiamo qui troppa pratica.
— Sta bene: domandategli se ha per me un biglietto di presentazione. —
Di nuovo il cameriere uscì e ritornò con una busta, dentro cui Ranieri Lambertini trovò questo semplice biglietto:
«L'uomo che ti porterà questo biglietto, si chiama Riccardo Leslie, o meglio Dick Leslie. Egli è apportatore per te di notizie importantissime, ed ha fatto appositamente questo viaggio, per ritrovarti. Ti deve anche consegnare dei documenti da mia parte. Ricevilo, come se ricevessi me.
— Va bene, — disse il conte Ranieri Lambertini. — Dite a questo signore, che lo raggiungo subito in sala di lettura. —
Però, prima di uscire dalla sua stanza, Ranieri Lambertini cercò altre lettere di Roberto Alimena, per paragonare la calligrafia; era identica. Malgrado questa novella prova contro i suoi sospetti, il Lambertini prese una piccola rivoltella, fine come un gioiello, e se la mise in tasca. Poi, uscì dalla stanza.
Il detective Dick Leslie lo aspettava nella vasta sala di lettura del Grand Hôtel, fumando una sigaretta. In quel momento, nella sala, non vi era nessuno, l'agente di polizia aveva sempre la sua aria giovialona di inglese, dotato del massimo buon umore britannico, ma gli occhi avevano quel lampo di malizia che lo indicava come un personaggio non comune.
Il conte Ranieri Lambertini gli si avvicinò molto corretto, ma senza nessuna cordialità, e lo salutò. Poi, sedendosi ed accennandogli una poltrona a dondolo, gli disse;
— Scusate, o signore, se ho fatto delle difficoltà per ricevervi. Non amo, in generale, le persone nuove.
— Avete ragione, — rispose, anche freddamente, Dick Leslie — ma io esitava a consegnare il biglietto del conte Alimena a un cameriere d'albergo. Anche io sono sospettoso.
— Volete, ora, dirmi di che si tratta? — domandò Ranieri Lambertini, senza uscire dal suo riserbo.
— Qui, signore, non posso.
— Non vi è nessuno.
— Non importa; qui non parlerò.
— Si tratta veramente di cose gravissime?
— Sì, o signore, di cose gravissime.
— La vita di Roberto Alimena non è in pericolo? — chiese Ranieri che, per la sua insistente diffidenza, non voleva chiudersi in una stanza con questo sconosciuto.
Non poteva egli avere estorto il biglietto al povero Roberto?
— Non posso dirvi nulla, signore, — disse Dick Leslie, inchinandosi freddamente.
— Andiamo, allora, — mormorò Ranieri che si decise a un tratto.
Se costui era un assassino mandato da Marcus Henner, egli avrebbe venduto caramente la sua vita. Non voleva morire, ancora. La malattia di Rachele Cabib, in monastero, attraversava adesso un periodo di miglioramento, mentre era stata violentissima, e la convalescenza si annunziava vicina, tanta era stata la forza della gioventù di Rachele, contro la febbre cerebrale. Intanto, non si parlava, per ora, di monacazione: e Ranieri Lambertini viveva così, con una tenue ma costante speranza. Non voleva morire: ed entrando nella sua stanza, ne lasciò la porta socchiusa.
— Piacciavi chiudere, ve ne prego, signore, — replicò Dick che pareva quasi facesse apposta a insospettire il conte.
— Ecco, — disse costui, serrando la porta con la chiave e mettendosi la chiave in tasca.
— Benissimo, signor conte. Veggo che non mi credete più un malfattore. Eppure, vi avevo portato una lettera del vostro amico! — soggiunse, con un lieve sorriso ironico, il detective.
— La prudenza non è mai troppa, — mormorò tra i denti Ranieri.
— È vero. Mi permettete di parlare?
— Ve lo chiedo, anzi.
— Sapete che il signor conte Roberto Alimena era venuto a Londra con una segreta intenzione?
— Lo so: Alimena è il mio migliore amico.
— Egli voleva ritrovare la donna dalla mano tagliata, quella bella mano capitatagli così misteriosamente in possesso.
— Lo so.
— Non fidando in sè stesso, egli si diresse a un suo amico dell'ambasciata, e costui lo condusse dal direttore della polizia.
— Ah! — fece Ranieri, squadrando Leslie.
— Il direttore della polizia gli indicò il solo uomo capace di rintracciare la donna dalla mano tagliata, l'agente di polizia destinato agli affari privati, cioè alle grandi ricerche di famiglia, eredità, testamenti, figli naturali, un agente di polizia di prim'ordine, che ha già fatto una fortuna in questi servizi.
— Ah! — ripetè Ranieri, sempre guardando il suo interlocutore.
— Per fortuna, in quel momento, l'uomo era libero e si mise tutto quanto a disposizione del conte Alimena.
— Chi era costui?
— Io, signore.
— Voi? Voi siete agente di polizia?
— Indegnamente, signore. La polizia è una gran cosa, e l'uomo è un essere limitato.
— Un detective, è vero? Così si dice?
— Così, appunto. Io sono il detective Dick Leslie, senza il quale il conte Roberto Alimena non avrebbe ritrovato, nè la donna dalla mano tagliata, nè il dottor Marcus Henner.
— Egli ha trovato Marcus Henner? Il nostro nemico? Il nostro assassino? L’infame che mi ha tolto Rachele Cabib? — gridò Ranieri.
— Sì, o signore.
— Voi lo avete trovato?
— Io, io solo.
— Voi siete un nostro benefattore!
— Non mi è costato molto, questo, — disse con un sorriso modesto e bonario l'agente di polizia, contento che Ranieri Lambertini avesse smesso la sua diffidenza.
— Ebbene?
— Quello che mi è più costato, è il ritrovare la donna dalla mano tagliata.
— Era con Marcus Henner, è vero?
— Sì.
— Lo avevo indovinato! Ma, ditemi tutto, raccontatemi tutto.
— Io non posso dirvi tutto, — rispose Leslie Dick, crollando il capo.
— Non sapete?
— So. Tutto è accaduto, fortunatamente e sciaguratamente, sotto i miei occhi.
— Sciaguratamente? Come? Ma è vivo, Roberto?
— Sì; ma forse avrebbe preferito morire, lui.
— Non intendo!
— Le nostre avventure sono state liete e tristi, signore. Vuol dire che così era destinato. Io non amo la Turchia, nè i turchi, signore, ma sono di accordo con loro per il fatalismo.
— Oh! signor Leslie, ditemi tutto.
— L’istoria sarebbe troppo lunga, e io non ve la saprei raccontare. Vi ho portato, invece, queste carte.
— Scritte da chi?
— Da tre persone.
— Da tre?
— Dal conte Roberto Alimena, da Marcus Henner e da Maria Cabib.
— Maria Cabib? Maria Cabib? Chi è costei? — gridò Ranieri Lambertini, alzandosi.
— La madre di Rachele Cabib, — disse quietamente Dick Leslie.
— La madre? Roberto ha ritrovato la madre della mia Rachele? Non mi ha telegrafato? Non mi ha scritto?
— Vi ha scritto, come vi ho detto.
— Debbo io consegnarvelo subito?
— Subitissimo.
— Vostra Signoria è disposta ad apprendere le cose più strane e più dolorose?
— Sono disposto, — disse Ranieri, turbato ed esaltato.
— Cose che muteranno anche la vostra vita, signore?
— La mia vita?
— Sì.
— Sono disposto. Sono un uomo.
— Ebbene. Ecco. —
E Dick Leslie cavò da una tasca interna, un portafoglio così grosso che gli gonfiava il petto, e dal portafoglio tre plichi suggellati di nero, molto voluminosi, tutti e tre.
— Di nero, di nero? ma Roberto è morto? — chiese di nuovo affannosamente Ranieri.
E gli consegnò nelle mani i tre plichi
Guardando le tre lettere, Ranieri Lambertini ebbe ancora un lungo minuto d’incertezza: gli parve di trovarsi innanzi alla soluzione ultima della sua vita. E, fissando in volto, ansiosamente, Dick Leslie, vide che il volto bonario e ridente era diventato serio e pensoso. Non osando decidersi da sè, gli disse:
— Quale delle tre lettere, credete che io debba leggere prima?
— La terza, diretta a Rachele Cabib, voi non potete aprirla: la seconda, quella di Marcus Henner, serve per completare quella del conte Roberto Alimena. È questa che dovete leggere per la prima.
— Sta bene. —
Difatti, Ranieri lacerò nervosamente la busta su cui si allineava la scrittura fine ed elegante di Alimena, la busta conteneva un manipolo di fogli leggieri di quella carta velina che adoperano gl’inglesi quando vogliono scrivere molto. I foglietti erano fittamente coperti di caratteri che Ranieri avrebbe voluto divorare con lo sguardo, mentre un tremolìo nervoso seguitava a scuoterlo tutto. Ecco la lettera di Roberto Alimena:
«Cowes, isola di Wight, 25 marzo.
«Mio amico,
«Mentre vi scrivo, il grande piroscafo Dundee ancora posa qui innanzi, nel porto. Domani, a questa medesima ora, il Dundee imbarcherà il conte Roberto Alimena e lo porterà in America, non in quel Sud America dove s’incontrano troppi italiani, ma nel Nord America, dove se ne incontrano pochi. Io fuggo la mia patria e l'Europa: non vi ritornerò che fra vari anni e forse mai più. Forse non ci rivedremo più, amico mio! Nel breve tempo della nostra amicizia, io ho appreso ad amarvi come un fratello, e, singolarmente, il nostro destino si è legato insieme, tanto che la gente ha potuto credermi il vostro assassino! Amico mio, sapete che questo non è vero, lo sapete e lo avete detto; sapete anche che vi voglio bene, che ve ne vorrò dovunque io vada, e fino all'ultimo giorno della mia vita. Morirò io presto! Lo spero. Sarei incapace di suicidarmi, perchè mi sembra una cosa sciocca e vile; ma anelo al momento in cui il Signore mi richiamerà a sè. In questo anno di vita ho talmente sofferto e talmente goduto, anche, che mi pare di avere vissuto almeno cento anni. Non volendo uccidermi, fuggo il mio paese, fuggo l'Europa, per non vedere più nessuno che mi ricordi la mia vita anteriore, per non sapere più nulla. Forse, non ci rivedremo mai più.
«Ma io debbo a voi, amico, il racconto esatto di quello che mi è accaduto, in questo ultimo periodo, cioè in tutta la mia dimora in Inghilterra; ve lo debbo, non solo come ad un amico, ma perchè tutto questo chiarirà il fosco nostro passato e vi darà sicurezza e baldanza per l’avvenire. Ahimè! tutto ciò che ancora può rendervi felice, per me è finito, così.
«Questo racconto, mio caro Ranieri, servirà anche a fissare il mio spirito, a calmarlo un poco, a dargli un po’ di pace. Credete, non sono un nevrotico, nè un essere che si pasce di amori fantastici, che corre dietro alle larve, come a qualcuno sarà piaciuto d’indicarmi. Lo scopo che io sognavo, l'ho raggiunto, e la donna che io amava, esisteva, Ranieri, ed era così bella e così degna di essere amata!
«Ma è meglio narrare. Vi rammentate che io mi ero messo in viaggio, per cercare la donna dalla mano tagliata e, cercando lei, cercavo il suo persecutore, il suo carnefice che era anche il nostro carnefice. Ventura volle che, appena fossi giunto in Londra, io trovassi come aiuto e come sussidio, questo buon Riccardo Leslie, il detective geniale, l'uomo onesto e intelligente che vi porta queste lettere, l'unico amico che io abbia trovato qui. Debbo a lui la risoluzione del più grande affare della mia vita, e se tutto è finito tragicamente, non è sua colpa. Così era destinato. È la consolazione dei disperati questo motto, e io sono un disperato.
«Fin dalla prima visita di Dick Leslie, io compresi che ero sulla buona traccia e che costui mi avrebbe portato sino alla donna dalla mano tagliata ed a Marcus Henner. L’impresa era ardua, ma l'ingegno e il coraggio di questo inglese non mi hanno abbandonato mai un momento. Sapemmo che questo Marcus Henner, un ebreo, un medico ipnotizzatore, viveva in una casa di Charing-Coves, esercitando pubblicamente la sua professione, ma conducendo, dall'altra parte, un'esistenza misteriosa e oscurissima; sapemmo che egli deteneva in casa una donna, quasi come una prigioniera; sapemmo che egli teneva notturnamente conciliaboli con gente sconosciuta e che su tutta la sua vita si distendeva una grande ombra. In breve, dovetti convincermi che la donna era quella che noi vedemmo con lui, a Roma; la stessa di Londra; seppi che si chiamava Maria, che non era più giovane e che aveva una figliuola.
«L’interessante, per me, era di sapere se costei era la donna dalla mano tagliata! Ma non mi riescì di conoscerlo: più tardi, solo molto tardi, seppi la verità su questo. Quale orribile mistero, amico mio, e che istoria atroce e raccapricciante! Ma io faccio troppe disgressioni, forse? Che volete, non mi riesce di raccontare l’istoria nuda e semplice, troppo della mia vita ci sta dentro! Io tenterò, in seguito, di non divagare; ma se lo farò, voi me lo perdonerete, è vero? Se sapeste quello che io soffro in questo momento e come guardo, con occhi velati di pianto, il Dundee che mi porterà in America!
«Carissimo Ranieri, io non mi sono fatto nessuna illusione sulla riuscita dell’impresa che ero venuto a compiere a Londra; ma dopo aver conosciuto ed aver parlato con Dick Leslie, fui tanto incoraggiato dalla sua sveltezza, dal suo talento, dal suo coraggio, che mi arrischiai nella più singolare avventura della mia vita, senza esitare. E posso dire che debbo a lui il mese più dolce, più soave e più terribile della mia vita. Ma non precipitiamo gli avvenimenti.
«Contemporaneamente al mio arrivo qui, una lettera del professore Silvio Amati mi giungeva, dicendomi che l’inventore di un liquido per conservare i corpi come se fossero vivi, era un dottore ebreo e tedesco, un tale Marcus Henner, che era anche un ipnotizzatore, e che, in quel momento, si trovava a Londra. Questo fu il primo indizio, giacchè dalla bellissima mano, che ha così dominato il mio destino da un anno a questa parte, il mio amico Silvio Amati aveva estratto una goccia di liquido, e l'aveva analizzato, riconoscendo i principî di un preparato sconosciuto, ma di cui aveva inteso parlare qualche volta. Così si veniva ad accertare che quella mano apparteneva a Marcus Henner, e che, trovando lui, avrei ritrovato la donna dalla mano tagliata, o almeno le tracce di lei.
«Come vedi, era la mia sorte che mi aveva condotto direttamente a Londra, proprio nel paese dove il mostro si trovava allora, ed anche a poca distanza dal mio Albergo Piccadilly, in Charing Cross. Il secondo indizio mi fu dato da Dick Leslie, il quale mi dichiarò anche l’indirizzo di Marcus Henner, e mi disse quel che ti ho già detto, cioè che presso lui era ricettata misteriosamente una donna che egli non lasciava vedere a nessuno.
«Ti confesserò, che la mia fiducia in Dick Leslie fu così immediata, che io non potetti nascondergli il prezioso deposito che tenevo presso me, cioè la mano tagliata. Ma, purtroppo, egli che sapeva tante cose, non seppe dirmi se la donna che abitava come una carcerata in casa di Marcus Henner, avesse o no una mano tagliata!
«Basta. Nel giorno seguente, alle prime indagini fatte da Dick Leslie, costui venne a dirmi delle notizie assai precise ed assai importanti, vale a dire che la donna che era presso Marcus Henner, si chiamava Maria; che aveva trentotto anni; che era una cristiana, piissima e fervente; che non pareva moglie nè amante di Marcus Henner; che aveva una figlia lontana; che viveva colà come reclusa; e due o tre volte aveva tentato evadere senza che la sua fuga le fosse riuscita. Il più interessante di tutto era questo, che un servo, John, molto fedele a Marcus Henner, ma impietosito dello stato della povera prigioniera, avrebbe volentieri prestato mano all'evasione. Vidi la sera questo servo, in una taverna di ladri: ma che non avrei fatto per avere Maria e per punire Marcus Henner? Egli mi confermò tutto quello che mi aveva detto Dick Leslie, ma mi disse anche che senza l'aiuto di Lewis, il maggiordomo ed il factotum di Marcus Henner, era impossibile pensare ad una fuga di Maria, la prigioniera. Però, anche questo Lewis era singolarmente affezionato alla infelicissima donna e disposto a salvarla da una schiavitù, in cui quella poveretta consumava gli ultimi anni della sua giovinezza. D'altronde, la cosa era molto difficile, molto grave, perchè quell'uomo dominava tutti quanti col potere che a quella gente volgare pareva supremo e tenebroso.
«Però, il servo John mi promise che avrei veduto la sera susseguente il maggiordomo Lewis in istrada, in un convegno sicuro, dove Marcus Henner, sempre sospettoso e sempre diffidente, non avrebbe potuto sorprenderci. Nella giornata, sentendo che qualche cosa di molto grave e forse di tragico mi si preparava, io aveva preso tutte le mie disposizioni, come se dovessi morire, e ti avevo anche scritto una lettera, che ho poi distrutta, perchè era inutile. Dick Leslie neppure mi aveva nascosto che noi combattevamo una estrema battaglia, in cui potevamo benissimo perdere anche la vita, giacchè avevamo un avversario che non scherzava. Infine, io aveva fatto i miei preparativi, come se fossi in punto di morte. Puoi immaginarti che cosa fosse la mia giornata, chiuso in un albergo, aspettando l'ora delle undici, in cui il Lewis sarebbe venuto all'appuntamento. Credo di non aver mai passata una giornata più inquieta, più agitata e più sconvolgente di quella. Il Dick Leslie aveva preparato, nel caso che una fuga fosse stata possibile, una carrozza di posta, in una viuzza poco lontana da Charing Cross; e nelle acque del Tamigi un yacht ci aspettava, nel caso noi avessimo voluto prendere la via del mare, il che poteva essere più utile della via di terra. Anche lo yacht era ancorato presso un ponte, non lontanissimo dalla casa dello scellerato dottore, affinchè se Maria fosse potuta fuggire, non avesse dovuto fare molta strada, per salire in carrozza o per imbarcarsi. Tutto ciò costava del denaro, ma a me importava ben poco, giacchè avevo liquidato una forte somma di contanti; e a che mi sarebbe servita la mia ricchezza se non avessi speso tutto quel che si doveva per raggiungere il mio scopo?
«Però, quando furono venute le undici della sera, il maggiordomo Lewis mancò all’appuntamento. Noi lo aspettammo, cioè Dick Leslie ed io, fino a mezzanotte, andando su e giù in una strada deserta, in una notte freddissima di Londra, mentre io avvampavo d’impazienza e d’ira; egli non venne.
«Ma, alle dodici e mezza, quando non avevamo più nessuna speranza di vedere nessuno, e anzi temevamo un qualche agguato, giunse John, il servo, il quale ci dichiarò che, per quanto avesse pregato l'alter ego di Marcus Henner, egli non aveva voluto venire al convegno, perchè temeva troppo del suo padrone. Ci soggiunse, però, che il Lewis era fermamente intenzionato di favorire la fuga della signora Maria, purchè gli fosse garentita una certa impunità e gli fosse anche assicurata una certa somma, che gli permettesse di passare in America, insieme a John, per evitare la collera tremenda di Marcus Henner. Sulle prime, questo risultato mi parve sospetto e continuai a temere un tranello da parte di quell'uomo terribile che ha potuto mettere voi in fine di vita e condurre me sullo sgabello dei rei; ma il Leslie fu più fiducioso di me.
Mi disse di promettere formalmente la somma richiesta e di affidarmi ai due servi.
«Per precauzione, nè io, nè Dick Leslie avevamo detto il mio indirizzo di Piccadilly a John, il servo di Marcus Henner; e ce ne andammo via, molto malinconicamente, giacchè, malgrado la fiducia di Leslie, io era desolato della mancanza di Lewis, che mi pareva tenere la chiave di quella situazione. Vi assicuro, amico mio, che, in quella notte, io caddi in un abbattimento profondo e temetti che mai più, mai più, io avrei potuto liberare Maria, la schiava, e punire quell'atroce Marcus Henner.
«Però, nel mattino seguente, venne Leslie ad avvertirmi che una circostanza favorevole si dava per noi: cioè che Marcus Henner doveva partire per un viaggio, breve, sì, ma sempre di tre o quattro giorni, per Dublino. Era chiamato colà, pare, misteriosamente, da una gran signora molto malata e che ricorreva alla sua scienza ipnotica, non trovando più alcun refrigerio ai suoi mali nelle medicine ordinarie. Si trattava di una forte somma da guadagnare, e sebbene l'Henner apparisse sempre molto ricco, spendendo e spandendo doviziosamente, senza che si conoscesse bene l'origine delle sue ricchezze, pure egli non disprezzava simili guadagni. Aveva avvertito del suo viaggio solamente il Lewis; ma non ne aveva fissato il giorno. Doveva, però, essere molto prossimo, giacchè la gran signora irlandese soffriva molto, e faceva fare telegrammi per chiamare a sè il miracoloso Marcus Henner.
«Dunque, il mostro sarebbe partito. La questione terribile era questa: avrebbe o non avrebbe condotto seco, nel viaggio, Maria? Lewis mi mandava a dire e John aveva confermato a Dick Leslie che Marcus Henner, qualunque viaggio facesse, menava sempre seco Maria. Tutto stava a far fare una resistenza forte, da parte della infelice prigioniera, a questo viaggio: dicevano i due servi che Marcus Henner, infine, amava la sua prigioniera e che essendone continuatamente trattato male, era giubilante quando poteva fare qualche cosa che le piacesse. Egli credeva così di potersela accattivare! Ma avrebbe ella voluto pregare Marcus Henner di lasciarla a Londra? E Marcus Henner, così pauroso di perderla, così sospettoso, non avrebbe immaginato qualche cosa a questa domanda? Lewis mi faceva dire per mezzo di John e di Dick Leslie, che io avessi scritto una seconda lettera alla prigioniera, scongiurandola a usare la sua maggiore influenza sullo scellerato gobbo perchè egli la lasciasse a Londra, in quel breve periodo; ed ella sarebbe fuggita nella notte istessa in cui Marcus Henner fosse partito per Dublino! Scrissi questa lettera, in preda a una agitazione terribile. Pensate, amico mio, che io non conoscevo Maria; che ella non mi conosceva; e che avevo avuto persino l’imprudenza di scriverle una prima folle lettera d'amore! Scrissi. La pregai, in ginocchio, in nome di sua figlia, in nome della sua salvazione, d’ingannare Marcus Henner, l’uomo che la teneva prigioniera da quindici anni!
«Passarono così, caro Ranieri, tre mortali giorni, in cui non ebbi risposta alle mie lettere, in cui non seppi nulla e in cui persino la fenomenale pazienza di Dick Leslie mi parve alquanto scossa. Però John si faceva vedere dal detective ogni giorno e gli aveva detto che il ritardo del viaggio di Marcus era causato da convegni notturni che aveva dovuto avere con ebrei che venivano, nientemeno, che dalla Russia e dalla Persia! Ma John aveva anche soggiunto che l'Henner avrebbe potuto partire improvvisamente, come aveva l'abitudine di fare, talvolta; e che bisognava stare in guardia. Anzi, Marcus Henner era triste e collerico, da qualche giorno; delle scene violente erano accadute fra lui e la prigioniera, a proposito di una fanciulla dispersa, abbandonata, e pareva che Maria gli avesse rinfacciato crudemente, per la prima volta, tutte le sue crudeltà, in presenza dei servi. In quanto al risultato delle mie lettere non se ne conosceva nulla. Così, ogni notte, la carrozza di posta andava a collocarsi nella viuzza presso Charing Cross, e io, debbo confessare la verità, vi ho passato tre notti, fremendo d’impazienza, di dubbio, di terrore, di terrore per Maria!
«Ma, verso il pomeriggio del quarto giorno, una nuova mi venne a confortare, per metà: Marcus Henner sarebbe partito, con un treno notturno, per Dublino. Però, non si sapeva se la signora Maria sarebbe o no restata in Londra! La signora da due giorni non esciva dalla sua stanza, dicendo di essere malata, e Marcus Henner non aveva potuto vederla che pochi minuti, sulla soglia della porta: ella lo aveva scacciato bruscamente. Però, malgrado questo, quell'uomo innamorato sino al delirio e diffidente come un Otello, avrebbe potuto benissimo, all'ultimo momento, costringerla a partire con lui! I servi, Lewis e John erano esitanti, confusi: io, confusissimo!
«Debbo a questo agente di polizia che, per me, si era cangiato in un amico, se ho potuto fare un piano, per quella notte. Stabilimmo, dunque, di appostarci intorno alla casa di Marcus Henner, in modo da poterne sorvegliare l'entrata. Dovevamo vedere se partiva solo o in compagnia: questo era il punto terribile! D'altra parte, John aveva stabilito con Lewis e, dopo, con noi, che nel caso la signora restasse in Londra, si sarebbe fatto un tentativo di fuga, un'ora dopo la partenza di Marcus Henner, per essere certi che egli fosse andato via. Lewis avrebbe accompagnato la signora sino al portone e John fino al posto dove io dovevo stare appiattato; colà gli avrei dato il denaro stabilito di compenso a Lewis ed a lui, e Maria sarebbe venuta via con me. Verso l'imbrunire, un imbrunire tristissimo d’inverno, andammo, con molta precauzione, a scegliere i luoghi dell'appostamento.
«Fremente, io voleva vedere da me se Marcus Henner partisse solo, cioè volevo collocarmi poco distante dal portone. Dick Leslie me lo impedì, di autorità.
«— No, — dissemi — se lo vedete solo, può riconoscervi dalla gioia che mostrerà la vostra fisonomia e che non potrete celare, come non celerete la vostra persona. Se è in compagnia. … vi verrà voglia di ucciderlo!
«— Già, — risposi io.
«E gli cedetti il posto di osservazione.
«Potete immaginarvi, mio caro Ranieri, se in quelle ore dell'appostamento, intorno alla casa di Marcus Henner, io abbia sentito cento volte soffocarmi dalla commozione. Ero arrivato dunque al punto più critico della mia esistenza, esposto ad un pericolo mortale, e capace di ricevere da Dio una felicità infinita. Io rodeva il freno in quella viuzza, alle spalle di Charing Cross, ma mi ero fatto un dovere di obbedire fedelmente alle istruzioni di Dick Leslie, di cui mi ero trovato sempre benissimo, in tutte le occasioni di quella terribile intrapresa.
«Un istante temevo che Marcus Henner, avendo cangiato pensiero, non partisse più; un altro istante, e questo era il dubbio che più mi trafiggeva, che la signora Maria non fosse riuscita a restare in Londra, mentre egli andava a Dublino, e che quel miserabile avesse trascinato seco quella povera anima derelitta. Bastava una semplice circostanza di simil genere, per sbaragliare perfettamente tutto il mio piano, e lunghi fremiti agghiacciavano o infiammavano il mio corpo, ogni volta che uno di questi dubbi mi assaliva.
«Udii sonare i rintocchi della mezzanotte a un orologio vicino, e mi parve che segnassero misticamente l'ora del mio destino. Difatti, dieci minuti dopo, vidi avanzarsi verso me una figura bruna, che in quella penombra ebbi pena a riconoscere per Dick Leslie. Credete che fu con la voce soffocata nella strozza che gli dissi:
«— Ebbene?
«— Partito, — mi rispose laconicamente il detective.
«— Solo?
«— Solo, — rispose costui, pianissimo.
«Una vampa ardente abbruciò le mie vene a quella notizia suprema. Tremavo; presi le mani dell'agente di polizia, come si prendono quelle di un amico, di un salvatore, e gliele strinsi, dicendogli:
«— E che si fa ora?
«— Si aspetta che Lewis ritorni dalla stazione, per esser certi che Marcus Henner sia partito. —
«Insieme ci avviammo verso la piazza, dove sporge la facciata del palazzo di Marcus Henner; visto che il mostro correva in carrozza verso il treno, che lo doveva trasportare a Dublino, noi potevamo sorvegliare la casa un po’ più direttamente.
«Tutte le finestre erano serrate ed oscure, il portone era sbarrato, non un segno di vita in quella dimora, da cui doveva essermi rivelato il segreto della mia esistenza, e, mentre guardavo quella facciata tetra e oscura, mi assaliva un'altra incertezza più cocente, cioè che noi attendessimo invano colà, che noi sperassimo invano nella fuga di Maria, la quale, non conoscendomi, non avendo fiducia in me, spaurita dalla mia pazza lettera di amore, si negasse di fuggire, per darsi in mano ad uno sconosciuto. Non poteva ciò essere, forse?
«Tutto ad un tratto, dopo molte di queste dolorose riflessioni, noi udimmo di nuovo il rumore di una carrozza, che ritornava verso Charing Cross, ed io sospettando che Marcus Henner avesse perduto il treno, o che avesse avuto qualche sospetto di ciò che si tramava contro lui, ebbi appena il tempo di gettarmi nell'ombra di un vicoletto cieco, perchè l'orribile gobbo non mi vedesse. Lo stesso Dick Leslie si fece da parte. Difatti, la carrozza si fermò dinanzi al portone di Marcus Henner, ma dal cab discese solamente Lewis il maggiordomo, che aveva accompagnato il suo padrone alla stazione. Comprendemmo perfettamente che Henner era partito e ambedue ci avanzammo verso lui, di comune accordo, per richiamarlo alla sua promessa fattaci per mezzo di John. Ma, da un largo cenno che egli ci fece, comprendemmo di doverci di nuovo allontanare poichè egli temeva del cocchiere. Difatti, Lewis aprì il portone con una sua chiave, e la carrozza si perdette sotto la vòlta, mentre i due battenti pesanti si richiudevano. Noi restammo lì, come due statue, guardandoci nel volto, senza nulla dire, ma dopo una mezz'ora la porta si riaperse un poco, e il Lewis insieme con John riapparve sotto il portone.
«— Avete voi il denaro? — disse il maggiordomo a Dick Leslie.
«— Sì, — rispose costui, mentre io tacevo.
«— Ebbene, datelo.
«— Non ve lo do, — rispose Dick recisamente.
«— E perchè?
«— Portatemi prima la donna, e vi pagherò.
«— E se non vuole venire?
«— Verrà, verrà, — disse Dick Leslie guardandomi di sottecchi.
«La porta si richiuse. Io non avevo più forza di dire una parola. Ritenevo la durezza del detective molto pericolosa pei nostri affari, perchè temevo sempre che costoro non si negassero recisamente a tutto; ed io avrei dato la mia fortuna, per vedere in quel momento Maria! Ma egli era molto più prudente e più savio di me, e conosceva soprattutto meglio quegli inglesi.
«Sapete voi, amico mio, quanto tempo abbiamo atteso, prima che la donna da me sognata mi apparisse innanzi? Due ore! Faceva un freddo orribile, e quella notte di Londra, con quel gelo, con quel silenzio, con quell'ombra, mi abbatteva. Fermamente pensavo, di fronte a quel ritardo, che ella si rifiutasse di scendere. Per sentire meno freddo e per occupare la nostra impazienza, Dick ed io andavamo in su e in giù, egli fumando la sua buona pipa, ed io mordendo delle sigarette spente.
«Erano le tre del mattino; la notte si faceva più rigida, ed io disperavo dell'esito completamente, quando udimmo leggermente stridere il portone, e qualcuno apparire in quel vano. Erano un uomo e una donna. La mia emozione profonda mi inchiodò al suolo, mentre vedevo venire a me lentamente una figura esile di donna, tutta avvolta e chiusa in una pelliccia nera, con un cappuccio rialzato sulla testa. Ella si appoggiava al braccio di Lewis, il maggiordomo, e camminava pianissimo, come se fosse malata e stanca.
«Allora, io potei vedere distintamente il volto di colei, che, per quindici anni, era stata la prigioniera di Marcus Henner, e che aveva consumato in quel carcere, accanto a quel mostro di bruttezza e di crudeltà, gli anni migliori della sua vita di donna. Qual volto, Ranieri! Le linee della più perfetta bellezza vi apparivano assottigliate e consunte dalle lacrime e dalla tristezza; i magnifici occhi neri, che dovevano aver avuto il fulgore degli astri, portavano impressi un languore e un dolore inguaribili. Ella era alta, snella, con un viso la cui carnagione rosea era diventata bianchissima ne’ recessi dove Marcus Henner la confinava, o dove ella volentieri si serrava. Tutta la sua fisonomia era così interessante, così attraente, dirò quasi così inebbriante nella sua mestizia, che io, vedendola, pensai: ecco la donna che amerò tutta la vita! Ranieri, vi sono questi fatali presentimenti nell'anima! Ella si avanzò verso me, come ho detto, con passi molli e stanchi, e quando mi fu vicino, mi rivolse uno sguardo così supplichevole, e così ardente, che io sentii struggermi il cuore. Una voce dolce, velata, come infranta dai lunghi singhiozzi, uscì da quelle labbra che avevano il roseo delicato delle pallide rose di inverno:
«— È vero, signore, — ella mi disse — che voi volete condurmi via?
«— È vero, signora, — le dissi io, devotamente, dimenticando di averle scritto una pazza lettera di amore.
«— È vero che voi mi condurrete da mia figlia? — ella mi chiese, mentre la voce le usciva affannosa dal petto.
«— Sì, o signora, — le risposi io, sempre più umile e più riverente.
«— Andiamo, signore, — ella mi disse senz'altro, mettendo la sua mano nella mia.
«Mentre questo piccolo e caratteristico dialogo avveniva, Dick Leslie aveva consegnato a John ed a Lewis le somme a loro promesse, aggiungendovi delle forti gratificazioni, che la mia gratitudine a quei due servi a pena a pena aveva saputo misurare.
«Muti, Maria ed io, stavamo accanto nella notte algente, ella lasciando la sua sottile mano nella mia. Oramai, la sua fisonomia appariva più calma e riposata. Ella si sentiva salva, si sentiva sicura.
«— E voi, che farete, partirete subito?
«— Il dottore non tornerà da Dublino, che fra tre giorni. Noi partiremo domani, — disse Lewis.
«— Domani? — esclamò Dick Leslie.
«— E se egli ritornasse domani mattina, chi vi salverebbe da lui? Credete: lasciate la casa all'alba di domani. —
«I due servi si guardarono e dissero qualcosa tra essi, sottovoce. Certo, avevano deciso di fuggire l'indomani mattina, tanto la collera di Henner li sgomentava. Dick Leslie li salutò, essi ci salutarono, mentre Maria tese loro la mano, che Lewis e John baciarono. Maria aveva gli occhi pieni di lagrime, licenziandosi per sempre da quei servi, che erano stati più fedeli alla vittima che al carnefice. Io avidamente guardai questa scena e uno stranissimo sconvolgimento turbò il mio essere nelle sue radici più profonde, quando mi accorsi di questo: Maria, la prigioniera, la vittima di Marcus Henner, aveva ambedue le mani!
. . . . . . . . . . . . . . .
«Riprendo la lettera al punto, in cui l'ho sospesa, senza aggiungervi neppure una parola di commento. Dopo la stranissima scoperta, che io feci in quella notte d'inverno, interrogata Maria, non volle partire con la carrozza di posta, che aspettava in una viuzza poco lontana di Charing Cross. Forse le pareva quello un mezzo troppo lento di fuggire Londra e il suo persecutore, forse la povera carcerata anelava respirare le libere e sane brezze del mare. Quando io le dissi che egualmente un yacht ci aspettava ancorato lungo una delle sponde del Tamigi, ella sorrise per la prima volta da che io l'aveva veduta, e mi disse di volerci andare subito.
«Il detective camminava accanto a noi nel più perfetto silenzio, senza turbare la nostra quasi muta compagnia. Ella mi appariva molto stanca, si appoggiava al mio braccio con mollezza ed io profondamente turbato da quel contatto le chiedevo ogni tanto con voce commossa:
«— Che avete?
«— Nulla, — mi rispondeva subito lei, con la sua voce velata e infranta. — Non ho nulla, sono così felice! —
«Non s’incontrava nessuno per le vie di Londra a quell'ora alta della notte d’inverno, e noi seguivamo la nostra via, lentamente, finchè arrivammo a un punto deserto della riva del Tamigi, dove nell'ombra biancheggiava vagamente la chiglia dell'yacht il Dundee che era lì, da tre giorni, coi fuochi accesi, per rapirci via. Dick Leslie cavò un fischietto e ne tirò un fischio roco e lungo, un fischio di ladri, come quello che avevo udito una sera in una taverna di malandrini; subito dallo yacht si rispose con un simile fischio, e una barca si staccò silenziosamente dal Dundee guidata da due rematori. La banca urtò appena contro la spiaggia e si fermò. Vi salimmo con Maria, e con Dick Leslie; costei emise un profondo sospiro di liberazione, mettendo il piede sul battello che doveva condurci via.
«Noi, però, non partimmo immediatamente; dovemmo dare il tempo a Dick Leslie di tornare a Piccadilly, per portarmi i miei bagagli, il corredo che avevo comperato a Maria e distruggere le lettere che avevo lasciate all'albergo.
«Debbo dire, che l'agente di polizia compì questa missione ultima con tale rapidità, che alle cinque, quando ancora tutte le ombre avvolgevano la vecchia città di Guglielmo il Conquistatore, noi salpavamo silenziosamente a traverso l'oscurità, sotto il freddissimo cielo d’inverno.
«Io mi ero separato dal detective molto commosso; costui mi aveva aiutato come un fratello; e sentivo che il denaro datogli non valeva punto gl’immensi servigi che egli mi aveva resi. Costui, partendo, mi disse:
«— Allontanatevi molto; fuggite assai lontano. Marcus Henner vi perseguiterà accanitamente; voi avrete in lui un nemico implacabile e potente. Fuggite lontano assai. Io veglierò ancora su lui e vi avvertirò, solo che io sappia dove voi siete. Voi sapete dove trovarmi se avete bisogno di me. —
«Accanto a me, Maria ascoltava, a occhi bassi, le raccomandazioni di Dick Leslie, e malgrado le ombre della notte, io vidi il suo volto già bianco impallidire mortalmente. La sua mano, che era appoggiata al mio braccio, tremò.
«Io mi chinai verso di lei, e le dissi:
«— Che avete? Temete di Marcus Henner?
«— Sì, — ella mi rispose, con voce soffocata. — Sento che questo carnefice mi ucciderà.
«— Io prima ucciderò lui, — le dissi, stringendo il suo braccio, come per difenderla.
«Infine, Dick Leslie, dopo che ebbe fatto mettere i bagagli nelle nostre cabine, si licenziò da noi. Il capitano del Dundee venne a domandarmi se si poteva salpare, e io chiesi questo permesso a Maria. Ella me lo accordò subito, con un sorriso di gioia, e lo yacht descrisse una larga curva sul Tamigi, discendendone rapidamente il corso.
«Quando l'alba d'inverno spuntava, noi stavamo per entrare nell'oceano, e Maria dormiva o almeno riposava nella sua cabina, dove io l'aveva lasciata, desiderando anzitutto che ella riposasse dalle emozioni di quella notte.
«Vi dirò io che cosa avvenne consecutivamente fra noi due? Vi narrerò come la povera e cara donna si commovesse ogni giorno di più dinanzi ad un uomo, che aveva arrischiato la sua vita e la sua fortuna, per salvarla?
«Vi dirò, che in quei trenta giorni che vivemmo insieme, ella conobbe che cosa possa essere la devozione di un cuore innamorato? Mentre lo yacht attraversava rapidamente l'Oceano, ed il tempo in sui primi giorni fu bello, noi potemmo conoscerci e le nostre anime fecero un cammino assai più rapido della macchina, che ci conduceva attraverso le verdi acque.
«Ella, infine, era una donna ancora giovane, e quindici anni di carcere, di solitudine, di esaltazione, non eran giunti a fiaccare la sua salute, nè a consumare la sua beltà. Ella mi pareva bellissima. Tutto il mistero, che avvolgeva la sua esistenza e che troverete narrato nella lettera di Marcus Henner e in quella che essa scrisse a sua figlia Rachele Cabib, mi fu da lei narrato, nelle lunghe sere, quando noi, approdati nel piccolo porto di Scheveningen, vi riparammo contro le furie invernali dell'Oceano. Ah, Ranieri, ella mi ha amato, con un ultimo e pallido amore crepuscolare, ma così pieno di dolcezza e di languore, così fatto di ultimi impeti verso una maggiore gioia, che tanto tempo le era stata contesa, un amore così fatto di malinconica voluttà, di rimpianto, di rammarico per la bella giovinezza perduta, che giammai, se ancora molti anni debbono pesare sul mio capo, giammai io ne potrò dimenticare un sol momento di dolorosa e profonda ebbrezza! Quella donna, Ranieri, era al crepuscolo della sua vita d'amore; ma volle darsi a questo estremo fatto sentimentale, giacchè per quindici anni ella era vissuta sotto l’incubo dell'amore di un mostro. Per quindici anni, ella aveva lottato contro l'amore di costui, nel sogno e nella vita; perchè questa frase piena di ombra vi sia spiegata, leggete la lettera, ove Marcus Henner confessa il suo segreto. Ella aveva detto no, per quindici anni, e l'uomo che era abituato a piegare sotto la forza della suggestione le anime più indomite, non era giunto a vincere la frale volontà di una povera donna, che aveva per solo rifugio la preghiera. Ma, infine, era donna, era bella; a venticinque anni era stata rapita al lusso e ai piaceri di una grande esistenza, aveva perduto suo marito e sua figlia.
«L'uomo che ella amava, un cavaliere ungherese, Jean Straube, era morto ucciso da Marcus Henner, ed ella non sapeva neppure dove ne fosse la tomba; questa donna mi ha amato per ribellione alla vita passata, per gratitudine, per vivere ancora un poco, per avere ancora una qualche felicità, anche fuggevole, e perchè io l'amavo. D'altronde, per quindici anni, ella, che segretamente si era fatta cristiana, aveva pregato il Signore per lunghe ore, piangendo, inginocchiata e aveva condotta una esistenza di cenobio. Sola, con me, che l'aveva salvata, che l'adoravo, un ultimo germoglio di giovinezza era fiorito sul tronco già quasi inaridito di quella esistenza. E, se due che hanno attraversato de’ pericoli e delle sofferenze, che hanno sopportato delle prove durissime, che han visto il fondo amaro delle cose, se due come noi possono avere una felicità perfetta, noi l'abbiamo avuta.
«I grandi amori, Ranieri, non si raccontano: essi non sono che una lunga e monotona scena, che farebbe sorridere o ridere, chiunque non sia innamorato: d'altronde un senso di profondo pudore mi trattiene dal narrare quali furono le supreme ebrezze di un povero essere battuto dalla vita, e tormentato dalla passione di un uomo infame.
«Vidi quella donna ringiovanire, la vidi diventare più bella, più affascinante, e non l'ho vista che io, io solo, e solo io saprò quello che essa ha sentito con una intensità febbrile, con un abbandono folle. Non lo dirò: mi parrebbe di violare un segreto non mio; quei trenta giorni di amore, Ranieri, valsero una lunga vita, tanto le nostre esistenze vi raggiunsero la più alta temperatura sentimentale. Voi, che amate, sapete tutto, ed io non posso dirvi altro.
«Fu verso il ventesimo giorno dopo la nostra fuga, che noi ricevemmo un lungo telegramma cifrato di Dick Leslie il quale ci avvertiva che il furente Marcus Henner, dopo aver fatto le ricerche in tutti i tre Stati del Regno Unito, aveva lasciato Londra per mare, dirigendosi forse dove noi eravamo. Dick Leslie riteneva che egli avesse ritrovato le nostre tracce, e siccome Marcus Henner aveva lasciata la casa di Charing Cross, egli ci consigliava, anzichè di partire per più lontano paese, dove probabilmente il gobbo dagli occhi verdi ci avrebbe raggiunti, ci consigliava di rientrare in Inghilterra. Io nascosi questo telegramma a Maria, giacchè ogni volta che le si parlava di Marcus Henner, ella rabbrividiva e aveva dei presagi di morte.
«Il consiglio di rientrare in Inghilterra mi parve alquanto strano, ma appunto per la sua stranezza, mi piacque. Era evidente che Marcus Henner, dopo averci ricercato inutilmente in Londra sarebbe andato in Francia e in Italia come era facile supporre fosse il nostro itinerario. Telegrafai a Dick Leslie se poteva trovarmi una villa, una casa isolata, in un posto recondito, dove sarei andato a nascondermi con Maria, sino a che il tremendo gobbo si sviasse dai suoi sospetti, si allontanasse molto, morisse, non so bene. Ed egli, il buon detective mi segnalò l’isola di Wight, e propriamente Cowes; egli stesso s’incaricò di trovarmi una villa, in quel paese assolutamente estivo, dove, d’inverno, non vien mai nessuno.
«Il nostro spostamento spiacque a Maria; malgrado la nordica tristezza di Scheveningen, ella si compiaceva di quell’ambiente, e i fragori notturni, dei temporali non facevano impressione sui suoi poveri nervi malati, oramai in via di guarigione.
Ella avrebbe voluto restare a Scheveningen, ogni cangiamento la tormentava. Ella sospettò anche.
«— Quell'uomo ha trovato le nostre tracce, è vero, Roberto? — mi disse tremando di nuovo.
«— No, anima mia. Rassicurati. È il medico che dice essere insalubre questa spiaggia.
«Oh, in altre circostanze un desiderio di Maria sarebbe stato per me una legge! Io adoravo quella cara fragile creatura, non più giovane, ma così bella di una estrema bellezza e così dolce di una profonda dolcezza; e se ella mi avesse detto di morire, io lo avrei fatto senza esitare, a trent'anni. Ma troppo temevo, per lei, le rinnovate persecuzioni di Marcus Henner, e i suoi agguati; troppo sentivo il bisogno di essere solo e libero con lei per dirle di sì, in quello che volevo. Se fossimo restati a Scheveningen! … Ma il destino nostro ci spingeva a Cowes, nell’isola di Wight, e io, usando della influenza che avevo immensa sopra Maria la convinsi che dovevamo partire.
«Andammo. Nessuna faccia sospetta mi parve che ci notasse, che ci seguisse nel viaggio; io usai molte precauzioni, e noi giungemmo a Cowes, senza essere molestati. La villa che ci aveva trovato Dick Leslie, era veramente un nido di amore, avendo di fronte il mare, e sorgendo in un boschetto di piante verdi e di fiori. Nulla era più solitario e anche più ridente, malgrado che ancora l’inverno vestisse di grigio l’Inghilterra. Ella battè le mani di gioia, come una bimba, quando noi c’installammo in quel cottage. In quei primi giorni che ella vi restò, con me, mi parve ringiovanita, rosea, non avendo altra cura che quella di veder pronunziato il suo divorzio con Mosè Cabib, per potersi unire cristianamente a me; non pensando che alla sua figlia lontana, che io fermamente le avevo promesso di ritrovare; e dopo Dio ella credeva in me! Chi avrebbe mai potuto supporre…. ma io non voglio precipitare i terribili avvenimenti.
«Come vi ho detto, mio caro Ranieri, il nostro cottage aveva la sua facciata sul mare e sebbene fossimo un po’ lungi da Cowes e dalla sua famosa banchina, con un buon cannocchiale io guardava in quel piccolo ed elegante porto, che è il ritrovo di tutti i yacht del mondo, dal giugno al settembre. Ma salvo tre che erano lì disarmati, guardati da un paio di marinai, nessun altro battello si veniva ad amarrare presso il lungo pier: e se Marcus Henner non giungeva a Cowes di lì, da dove avrebbe potuto giungere?
«Io, lo comprendete, non ero punto tranquillo. Sono stato sempre coraggioso, così, naturalmente, non ho mai temuto la morte, perchè sono stato e sono fatalista, a tale proposito. Ma avevo, presso a me, un essere carissimo, la sola persona che io avessi amata altamente e profondamente, nella vita; questo caro essere era minacciato, sempre, dal suo carnefice; e queste minacce, anche, erano molto oscure.
«Quando noi amiamo, amico mio, e voi lo sapete, noi siamo molto deboli e molto forti insieme, giacchè nulla ci potrebbe strappare alla creatura amata e tutto sembra che ci debba strappare! Per me, nulla mi sarebbe importato e avrei sfidato qualunque pericolo, ma per la mia diletta Maria, Ranieri, io aveva paura! Per questo esercitavo una continua sorveglianza sui nostri servi e su quanti — pochi — ci accostavano, per questo io sorvegliava il porto di Cowes, sempre che Maria non mi guardava; ma nulla, mai nulla di sospetto mi si faceva notare, intorno. Che avesse, Marcus Henner, perduto per sempre le nostre tracce? Che si fosse consolato della fuga di Maria?
«Così, ogni tanto, io mi rassicurava e godeva le ore più belle di felicità, con la mia Maria, senza che nessun pensiero venisse a molestarmi. Ma, una notte, accadde qualche cosa di bizzarro e di doloroso. Potevano essere le due del mattino e Maria dormiva quietissimamente accanto a me; io, che non dormivo, la guardavo respirare mitemente, come una bimba e mi sentivo struggere di tenerezza. La lampada velata gettava delle ombre dolci su quel nobile e fine volto e io adorava quella cara donna. Pure, a un tratto, mi parve che un sospiro escisse dal suo petto. Credetti di essermi ingannato; ma ella si mise a gemere sottovoce, nel sonno, mentre io impallidivo di dolore. Non osavo svegliarla, mentre vedevo che ella era sotto un incubo; Maria, continuava a lagnarsi, come una bimba. Le divenne affannoso il respiro; si agitò convulsamente nel letto e infine, dato un lungo grido di terrore, si levò a sedere, con gli occhi sbarrati guardando nell'ombra!
«— Maria, Maria, che hai? — chiesi io, stringendola fra le braccia.
«— Vergine Maria, Vergine Maria, aiutami tu, assistimi tu! — continuava a gridare lei, con le mani nei capelli, come se non si accorgesse di me.
«— Ma che hai, Maria, Maria, sono qui io, non ti sgomentare, è un sogno, forse, che ti sgomenta?
«— Che sogno? — diss'ella — sogno? Roberto tu sei qui, è vero? Io non ho sognato. Io l'ho visto!
«— Chi?
«— Calmati, anima mia, hai sognato?
«— No, Roberto, no, egli è qui, lo sento, mi vuole, mi chiama, mi prenderà!
«— No, Maria, no! siamo soli, tutto è silenzio, la casa è sbarrata, sei nelle mie braccia! —
«Invano con tutte le carezze più tenere tentai di rassicurare quella poveretta, che era sempre sotto l’incubo del suo sogno. Ella mi guardava con gli occhi stralunati, come se non mi vedesse, ripetendomi delle parole di orrore contro Marcus Henner, ripetendomi che egli era lì, in casa o attorno alla casa, con un’insistenza quasi frenetica. Francamente, mi sentii sconvolto, i sogni sono sogni, ma l'animo sensibile di Maria raffinato nel dolore, ma la sua intuizione era più acuta da uno stato di veggenza nel sogno magnetico, dove tante volte Marcus Henner l'aveva immersa, il suo cuore profetico, tutto mi faceva dubitare che qualche cosa di vero vi potesse essere nella visione di Maria. Avrei voluto girare nella casa, per fare un'ispezione minuziosa, se vi fosse nascosto qualcuno, o se le porte fossero mal chiuse; avrei voluto fare un giro nel giardino, ma Maria mi teneva stretto abbracciato, e io non osava di muovermi, giacchè se mi fossi allontanato, ella sarebbe morta di terrore.
«Più tardi, tentai di fissare un poco il sogno di quella poveretta, ed ella confusamente mi narrò, che, a un tratto, aveva visto Marcus Henner ritto vicino al letto, con un ghigno orribile sulla bruttissima faccia, e che l'aveva minacciata di morte, quando ella s'era levata sul letto, gridando, aveva veduto Marcus Henner allontanarsi rapidamente, sotto al balcone, e sparire come un fantasma dietro ai cristalli. Maria raccontava questo con tale evidenza, che io non potetti fare a meno di rabbrividire dallo sgomento.
«Com'ella si fu un poco tranquillizzata, io mi levai istintivamente e andai verso il balcone, che la sua mano bianca mi aveva indicato come quello della sparizione di Marcus Henner. Questo balcone dava sul mare e, malgrado la profondità della notte, io potei veder bene, che sul mare non vi era traccia di nessuna barca, di nessun battello. Era un sogno, infine; ma le creature delicate come Maria possiedono una seconda vista dello spirito, che s’impone a’ più increduli.
«Come venne l'alba, ella finì per addormentarsi, tenendo la mia mano, ma sussultando ogni tanto nel sonno lieve. Io non potetti dormire più. A giorno chiaro, io la lasciai e discesi al pianterreno e nel giardino del nostro cottage, senza potervi veder nulla di anormale. Lontano, lungo la banchina di Cowes, erano sempre i tre yachts al disarmo, nessuna traccia di altra imbarcazione. Malgrado il riposo preso verso l'alba e la mia presenza, Maria si svegliò agitatissima. Per un capriccio gentile, dove la paura non entrava che per metà, tutto quel giorno ella non volle uscire dalla nostra camera; dovetti intrecciarle io i bei capelli neri, dove mi piaceva d’immergere le mani e il volto, giacchè ella non volle saperne di farsi pettinare dalla cameriera. E, tutta la giornata, Maria non volle staccarsi un sol minuto da me, non se ne staccò materialmente parlando, come se temesse ogni minuto di perdermi.
«Credete, Ranieri: tutti i minuti di quel giorno mi sono impressi nell'anima e valgono per me come quelli più alti della mia esistenza. In punto di morte, se io morrò giovane, mi ricorderò solamente di quanto accadde in quella giornata, e se dovessi vivere fino alla vecchiaia più caduca, quelli sarebbero i soli ricordi sopravvissuti alla nebbia del passato. Ella, in quel giorno, più che innamorata della vita e dell'amore, che io rappresentava per lei, versò nel mio cuore tesori inesauribili di tenerezza; ella fu languida ed appassionata, carezzevole e ardente, gioconda come una bambina e triste come solo lei poteva esser triste; vi dico, non volle uscire da quella camera. Ella aveva conservato l'abitudine di certe sue vesti bianche fluenti, che l'avvolgevano castamente e che intanto lasciavano tutta la libertà alla sua persona. Così, coi suoi bei capelli neri raccolti nelle lunghe trecce, e il bel volto ovale, dalla carnagione ambrata, ella aveva l'aspetto più inebbriante per un amante. Se ella mi ha amato supremamente in quel giorno, io l'ho amata anche così, e segretamente quasi mi gratulavo del sogno pauroso che mi aveva procurato quella crisi di felicità. Quando venne la sera, Maria volle far preparare il pranzo in quella istessa stanza, e per la prima volta, ella bevette un intiero bicchiere di vino del Reno, senza allungarlo con l'acqua. Mi parve che volesse stordirsi: difatti, ogni tanto trasaliva, come se qualcuno la chiamasse, e prendeva la mia mano, stringendola fortemente. Io non le dicevo nulla, perchè mi pareva che con le ombre della notte ritornassero in lei tutti gli spaventi che Marcus Henner le aveva ispirati; qualche volta impallidiva improvvisamente e restava con l'orecchio teso a raccogliere un rumore impercettibile di lontano. In lei, mi pareva rinascessero le tracce di quel fugace, ma ripetuto dominio, che con l’ipnotismo, Marcus Henner aveva esercitato su lei a fondo. Maria non aveva mai saputo spiegarmi e non poteva spiegarmi il mistero della sua doppia vita, ed io, per non tormentare la sua coscienza di cristiana, non aveva cessato troppo di approfondirla. Quando fu sbarazzata e tolta la mensa, ella volle che mi sedessi accanto a lei, e poggiò la testa sul mio petto, e restò così un'ora, senza parlare, con gli occhi aperti, nel più profondo silenzio. Che ora d’infinita dolcezza fu quella, Ranieri!
«Nessuna più violenta crisi d'amore valse quel contatto tenero, quel riposo ad occhi aperti, quel silenzio pieno di pensieri d'amore. Io, sentendo che un'ora divina era sospesa sui nostri cuori, non dissi nulla, ed ella due volte che ero per chiamarla per nome amorosamente, come solevo fare, mi fece segno di tacere. Ella, più tardi, mosse le labbra per un certo tempo.
«Pregava. Io non sono un ateo, sono un indifferente; ma, ogni volta che vedevo pregare Maria, una subita e segreta commozione mi vinceva, e avrei voluto anche io congiungere le mani, come quando ero un bimbo, e dire le orazioni che elevano l'anima a Dio. Quella sera, per un suo gusto, ella aveva voluto che la stanza fosse illuminata in tutti i suoi cantucci, e, talvolta, si guardava attorno con occhio sospetto; più tardi, mi domandò di leggerle qualche cosa, de’versi di Göethe, dei versi ignoti ai più, e che parlavano serenamente d'oltre tomba.
«Fu mentre durava la mia lettura che ella ebbe un sussulto più forte e impallidì mortalmente: più bianca della veste bianca! Le chiesi che cosa avesse, ancora, affettuosamente; ma ella mi guardò trasognata, passandosi una mano sulla fronte, e non mi rispose. Io continuai la mia lettura, sogguardandola, ogni tanto, impensierito seriamente per la sua salute. Neppure un minuto avrei potuto sospettare di quello che avveniva, a me intorno: non lo avrebbe supposto la fantasia più esaltata! Due o tre volte, mentre io leggeva, tenendo la sua mano nella mia — così leggevamo, la sera, sempre, in una soavissima intimità intellettuale — sentii come un brivido gelido attraversare quella pelle morbida e calma. Ma non le chiesi più nulla, stimavo che ella fosse in un profondo disturbo nervoso, rimastole dal sogno della notte scorsa, e che l'unico rimedio sarebbe stato cercare d’indurre in lei la calma, pianamente, senza che ella istessa se ne accorgesse.
«Ma, presto, dovetti interrompere la lettura, attirato dal singolare aspetto della mia Maria. Ella era in preda ad un'agitazione bizzarra che cresceva man mano e che s’impadroniva totalmente di lei. Dei moti convulsi le attraversavano le braccia, le mani, ed ella le stirava, come presa da una convulsione. Era la prima volta che questo male la assaliva e io non sapeva bene che aiuto darle; presi la boccetta dei sali, le feci odorare dell'aceto, le tenni le mani, ma non ottenni nessun risultato. Un ignoto male pareva le torcesse, man mano, i nervi: si vedeva che ella combatteva contro esso, violentemente, che tentava reagire, ma che il male era più forte di lei. Teneva gli occhi socchiusi e le dita piegate quasi conficcate, con le unghie, nel palmo della mano; ma quando io la chiamavo, spesso, ella riapriva gli occhi, mi fissava con uno sguardo d’infinito amore e d’infinito dolore, due volte tese le braccia e mi strinse al petto, così strettamente, che parea volesse soffocarmi. Credete, che, ogni minuto, la mia confusione cresceva. Che fare, per calmarla? Era tardi e, certo, tutti dormivano in Cowes; d’altronde, accanto a lei, sul divano, io non osava di muovermi, per suonare il campanello, temendo che ella rotolasse per terra. Per momenti, ella parea si calmasse: il respiro diventava meno affannoso, gli occhi si chiudevano, le mani e le braccia ricadevano mollemente ed ella aveva l'aria di addormentarsi.
«Ma, a un tratto, una grande scossa la faceva sobbalzare; ella dava in un gemito straziante e la sua convulsione ricominciava. Potetti, in un intervallo, suonare il campanello e alla cameriera che era accorsa, dar l'ordine di far vestire il servo, che già dormiva, e di mandarlo a Cowes per riportare con sè un medico, o morto o vivo. Il male di Maria mi sembrava eccedere quello di una convulsione ordinaria. Ella aveva un morbo misterioso che l'affliggeva. Adesso, mi sentivo crescere nell'animo la disperazione, giacchè ella non mi rispondeva più, non mi sentiva più, mentre io le baciavo il bel volto bianco e i bei capelli neri. Chi me la toglieva, così? Chi me la metteva in quello stato? E che era, dunque, questo ignoto e terribile male, per cui ella aveva perduto persino la sensibilità?
«Lentamente, però, i brividi che si erano allungati per tutto il suo corpo, si chetarono; le scosse nervose si vennero facendo meno forti, meno violente; tutti quei stiramenti che ne contorcevano il corpo, si vennero dileguando. Io la teneva fra le braccia e sentii, a poco a poco, mancare la volontà nervosa nelle sue membra e abbandonarsi al sonno. Sonno? Singolare sonno! Adesso ella riposava, col capo appoggiato al mio petto, col busto nelle mie braccia e il resto della persona abbandonato sul divano; ma quel sonno, veramente, non pareva il sonno semplice e schietto di una persona sana, ma un deliquio. Il polso di lei batteva debolmente sotto le mie dita; due o tre volte che io m’inchinai sul suo cuore, ivi lo udii battere molto fiocamente. Il respiro che le usciva dalle labbra schiuse era appena percettibile, e sebbene ella avesse sempre un respiro molto lieve, quello della sera fatale mi stupì e mi sgomentò. Anche la temperatura delle mani non era tiepida, come sempre: le mani erano un po’ fredde e, sollevate, ricadevano abbandonate, come morte. Io non aveva il coraggio neppure di chiamarla per nome, giacchè potevo ingannarmi sul suo stato e non volevo turbare il suo sonno se ella dormiva. Ma il suo, non pareva sonno, pareva un torpore, un letargo, pareva la morte!
«Entrò la cameriera — un'ora era passata — per dirmi che il servitore era ritornato da Cowes e che fra poco sarebbe giunto il medico, il quale era dietro a vestirsi, poichè era già coricato. Feci comprendere a quella donna, senza parlarle, che se veniva il dottore, lo facesse attendere in salone e che, intanto la signora andava meglio.
«— Dorme, — disse la cameriera, dopo averla guardata.
«Ed uscì.
«Dormire? Era un sonno così poco naturale, quello, che io tentai, due o tre volte, di farle odorare dei sali, perchè si scuotesse. Ma quel potente odore, ella non lo sentì. Nulla la trasse da quel torpore profondo. Solo, a un certo momento — l'ora della notte era molto avanzata — accadde un fenomeno così impensato e così triste! Mentre il letargo le teneva chiusi gli occhi ed ella non dava segno di vita, cominciò a piangere.
«Sì. A piangere. Di sotto le palpebre abbassate, fra le lunghe ciglia nere, le lagrime sgorgavano, calde, su quel volto freddo e scendevano lungo le guance, disfacendosi sul collo, sulle mani, piovendo sulla veste bianca. Era un pianto muto e senza singhiozzi, ma pianto lungo, largo, copioso, sgorgante da una sorgente che pareva non dovesse inaridirsi mai!
«Un pianto così silenzioso e disperato, che io non vi resistetti, che cominciai a baciarla sugli occhi, sulle guance, bevendo le sue lacrime, cercando asciugarle con i miei baci, cercando di riscaldare quel volto freddo e quasi esanime. Disperato, ora, non pensando più al suo sonno, al suo riposo, io la stringeva fortemente fra le braccia, la chiamavo, le parlavo, la scongiuravo di udirmi, di rispondermi.
«Ella non si mosse, non sollevò le palpebre, non si colorì, non si riscaldò: rimase come morta, nel suo torpore.
«Allora in quella notte lunga e lugubre d’inverno, in quella casa lontana e solitaria, in quel paese deserto, diviso dal mio per centinaia di miglia di mare e di terra, con quella donna fra le braccia, che agonizzava in quello strano ed angoscioso malore, io fui preso da una folle paura. Sentii imperlarsi di un sudore ghiaccio le radici dei miei capelli e conobbi l’irrigidimento di chi teme fortemente un pericolo ignoto. Sì, attorno a me vi doveva essere qualche cosa di ostile, di terribile che minacciava con una minaccia imminente. Per questo Maria era caduta in convulsioni presentendo questo pericolo ignoto; per questo ella si era dibattuta, per questo ella piangeva. Ma perchè non mi rispondeva; l'amor mio? Non mi sentiva più? Vi era dunque qualche cosa che mi poteva togliere Maria? Chi? Dove? Come? Mi sentivo così solo, così inerme, così indifeso, così perduto che, ve l'ho detto, per la prima e l'ultima volta nella mia vita, ho tremato.
«Però, l'aspetto sempre mutevole di Maria mi attrasse e mi distrasse. Lentamente, le lacrime si erano venute asciugando, sul suo volto. Di sotto le sue frangiate palpebre solo qualche stilla, ancora, cadeva sulla guancia; ma il pallore del sorriso si era fatto livido. Vidi che la bocca le si schiudeva come se respirasse molto penosamente o come se volesse parlare. Ma non disse nulla. Sentii che le sue membra, abbandonate nelle mie braccia, riprendevano il vigore della volontà, parve che si volesse alzare; lo tentò due volte, e si rigettò indietro, quasi perdesse di nuovo le forze o lottasse contro qualcuno, esterrefatto. Finalmente, si sciolse dalle mie braccia e si alzò a sedere, sul divano. La bocca schiusa tremava. Tremava? Ella parlava così piano che nessuno avrebbe potuto udirla mai; un soffio soltanto le agitava le labbra. Io solo che l'amavo, potevo intendere questo; erano parole quelle che muovevano così lievemente la sua bocca. E guardandola fisamente fisamente, chinato verso lei, tendendo tutta la mia attenzione, per capire, potetti udire o immaginare udire:
«— Eccomi. … eccomi. … —
«A chi lo diceva? A chi? chi la chiamava? Chi l'aspettava? dove voleva andare? ed io? ed io? perchè ella non mi rispondeva? perchè non udiva più nè la mia voce, nè i miei baci? eccomi! a chi lo diceva? e a me perchè non rispondeva?
«Adesso ella puntava le due mani sul divano, per alzarsi. La sollevai ritta in piedi, con quella sua veste bianca, con gli occhi chiusi, col volto livido, colle mani abbandonate lungo la persona, ella mi parve uno spettro. Vacillava. La sorressi. Ella si volse verso il balcone, camminando con tanta lentezza che pareva facesse un passo avanti e un altro indietro. Giunta in mezzo alla stanza, si sciolse dal mio braccio che la sosteneva e, per la prima volta, da due ore e mezzo che ella era caduta in quel singolare stato, ella mi fece un cenno di allontanarmi da lei. Era, veramente, un cenno vago, largo, ma diceva questo:
«— Allontanati. —
«Non mi allontanai. Ero angosciatissimo, tentai di prenderle una mano. Mi sfuggì. E il cenno si ripetè, più preciso, più insistente:
«— Allontanati. —
«Obbedii. La vidi attraversare l'altra metà della stanza da letto, col medesimo passo incerto e lentissimo, radendo appena il tappeto, come un fantasma. E si fermò, nel vano del balcone. Erano chiusi i cristalli, ma le imposte erano aperte. Ella aveva sempre voluto così, perchè le piaceva contemplare il mare; e ho detto che le nostre finestre, da quella parte, erano quasi a picco sul mare, salvo una piccola banchina di terrapieno che radeva tutta la nostra facciata. Prima, ella appoggiò la fronte ai cristalli, come se la contemplazione del mare l'attirasse; l'avevo vista tante volte assopirsi così, nelle nostre buone giornate! Poi, parve che questo non le bastasse. Con un moto macchinale, ella stese la mano alla spagnoletta del balcone e aperse i cristalli. Mi parve udire un sospiro uscire dal suo petto oppresso; forse aveva avuto un grande bisogno di respirare l'aria libera del mare. Queste oppressioni, spesso, l'abbattevano. Fuori, dal vano del balcone, la notte era profondamente oscura, ma calma. Un vento caldo, sciroccale soffiava, dopo la pioggia del giorno. In quel vano oscuro, ella si disegnava tutta bianca; mi parve che avesse appoggiato le mani sulla ringhiera del balcone. Io restava ancora in mezzo alla stanza, per obbedirle; così mi aveva ordinato Maria. Poi, a un tratto, quella macchia bianca sparve nel buio. Maria, d'un salto si era buttata giù, udii anche il tonfo molle sulla terra.
«Per un sol minuto secondo dubitai della mia ragione. Un minuto secondo! Ma appunto come un pazzo, corsi al balcone e vidi di sotto, una macchia bianca per terra. Se non mi gettai giù, anche io, è perchè, in un lampo di ragione, pensai che ella potesse essere ancora viva. Passai come un fulmine a traverso la casa, gridando, chiamando soccorso e schiudendo la porta terrena della villa; seguìto dalla cameriera, dal servo, dal medico che, appunto in quel momento, aveva bussato alla porta del giardino, uscii sulla piccola banchina che si allungava per la facciata della casa, sul mare. Trovammo Maria sotto al balcone, esanime. Si era fracassata il cranio, era morta. Un lago di sangue bagnava i suoi bei capelli neri sciolti e insozzava la sua veste bianca. Era morta.
«Non avevo messo più di due minuti per attraversare la casa e il giardino; la mia corsa pazza valse questo: mi valse il corpo di Maria. Giacchè, mentre noi ci affannavamo intorno a quel povero cadavere ed io urlavo dalla disperazione, come un animale ferito a morte, udimmo uno squillante scoppio di risa, dal mare. Malgrado l'ombra, si vedeva una barca grande, peschereccia, che si allontanava a forza di remi e un piccolo uomo a poppa, in piedi. I miei occhi bene lo distinsero. Era Marcus Henner. Doveva gettarmi a mare a nuoto, raggiungerlo, dilaniarlo, è vero, l'assassino di Maria? Ma quella salma, quella cara salma, tutto quello che mi restava di lei dovevo abbandonarla? Ancora due volte, sempre più in lontananza, si udì quel riso atroce: così urla la iena, quando si è saziata, così urla di soddisfazione. Poi la barca disparve, lontano.
«Ranieri, ho voluto asciugare io stesso quei bei capelli neri macchiati di sangue, quei capelli che tante volte e quella sera istessa avevo baciati e in cui avevo nascosto la mia faccia; ho lavato e vestito io il corpo della mia amante, del mio amore, e l'ho disteso sopra un letto di fiori, ho io riempito di fiori e di ceri la stanza dove ci siamo tanto amati e ho pianto, ho vegliato la mia morta, io solo. La disperazione di una morte così crudele non può avere altro sollievo che queste cure funebri; se non avessi fatto questo, sento che sarei impazzito, sento che mi sarei ucciso. Uccidermi? Vi ho pensato una notte intiera, accanto a quel cadavere, accanto al mistero di quella morte così tragica, così straziante. Avevo io diritto e volontà di vivere, quando l'unico essere che mi aveva amato, che io aveva amato, era morto? Potevo io vivere? Una notte intiera, accanto al corpo gelido della mia Maria, io mi sono posto questo problema, e non mi sono interrotto che per baciare quella fronte, quelle guance, quelle labbra. Quanto l'ho baciata, Ranieri! Dicono che sia un peccato mortale baciare i morti, con la passione amorosa con cui si baciavano da vivi: e, secondo la fede, anche Maria era morta in peccato mortale. Oh! povero, povero angiolo mio diletto!
«Ma ella, anche, aveva sofferto tanto! Ella aveva tanto pianto, nella vita! Ella aveva tanto pregato e fatto penitenza! Marcus Henner l'aveva così tormentata, quella infelicissima, che ella aveva fatto quindici anni di purgatorio in terra. E, d'altronde, ho sempre creduto che Iddio fosse misericordioso ai peccati dell'amore, che si espiano sulla terra, tanto che anche la Margherita, di Faust, la infanticida, sale in cielo per la misericordia di Dio. La mia Maria era così dolce, così amorosa, così veramente buona! È vero, ella era morta suicida. Suicida! Aveva proprio voluto uccidersi? ella così felice, ella che mi amava, ella che avrebbe voluto ringiovanire per amarmi di più e meglio? Suicidarsi? Era un suicidio, quello, o un assassinio? Non aveva ella forse obbedito a un ordine? non aveva forse, qualcuno, infranto la sua volontà? Non era contro un potere ignoto che ella aveva combattuto tre ore, in quella notte — ella che non voleva morire — ed era, poi stata vinta? non mi rimase che comporre la salma della mia amata nelle tre casse, di piombo, di legno e di velluto, e seppellirla nel piccolo fiorito cimitero di Cowes, e pregare sulla sua tomba la pace del Signore e piangere su quella tomba le mie ultime ardenti lacrime; sì, così. Ma compiuto tutto quello che la mia adorazione mi consigliava, per onorare il ricordo della bene amata, io avevo da compiere un alto ufficio, imprescindibile ufficio di vendetta. Io dovevo togliere dal mondo Marcus Henner; per le mie mani questo mostro doveva perire. Non già in duello, giacchè il duello è fatto per i gentiluomini ed egli era un assassino; non già ucciderlo in un agguato come egli aveva fatto per la mia diletta Maria, perchè questa è un'azione da vigliacco; ma ucciderlo alla luce del sole, con le mie mani, lungamente, lentamente, vederlo soffrire, godere delle sue sofferenze, ridere delle sue sofferenze, schiaffeggiarlo, agonizzante, e sputargli in volto, agonizzante! Giurai sulla testa innocente della mia povera Maria, che avrei eseguito da me, al più presto o più tardi questa vendetta che avrei cercato quest'uomo dappertutto, che l'avrei trovato dovunque egli fosse, che lo avrei ucciso, come avevo detto.
«Giurai che, dopo aver baciato la sacra terra che copriva il corpo della mia Maria, sarei partito da Cowes, come il pellegrino della vendetta e che avrei dato il mio tempo, la mia salute, il mio denaro per la vendetta di quell'infame assassinio. Ripetei tre volte questo giuramento, innanzi alla salma dell'assassinata e mi consacrai alla morte di Marcus Henner.
«Così, fatto questo terribile giuramento, soddisfatta la esaltazione dell'ira con quella sacrosanta promessa, io potei abbandonarmi, per tre giorni, al mio dolore, e piangere tutte le mie lacrime su quella morta. Non volli che nessuno l'accostasse; la deposi io stesso nella bara, la baciai mille volte, Ranieri, prima di fare scorrere il coperchio di piombo nelle scanalature. Dopo un'ora, folle, frenetico, riaprii la cassa, volli rivederla ancora una volta; ella non era disfatta, ella si manteneva serena nella pace augusta della morte. Poi, io, col servo, con due altri uomini, la portai sino al carro e vi andai dietro e non la lasciai mai, mai, sino a che non fosse chiusa nella tomba, fino a che non avessi visto piantare attorno alla tomba, fiori senza fine, fiori belli come ne ha l’Inghilterra.
«Ma un ricordo di lei mi rimase: una delle sue lunghe trecce che, tante volte, per uno scherzo amoroso, ella aveva legato attorno al mio collo, dichiarandomi suo prigioniero. Io ne tagliai quella treccia che era una parte del mio tesoro e con essa dormii la notte dopo il seppellimento. Dormii? No: ero come un pazzo, chiamandola ancora, la mia Maria, sollevandomi sul letto piangendo, gridando, in una tale convulsione di dolore, bagnando quei poveri bei capelli neri colle mie lacrime, mordendo quei capelli, soffocando il mio strazio.
«Però, io ho anche un altro ricordo di Maria Ranieri: e voi non potete immaginare che sia.
«Carissimo Ranieri, io ho anche conservato un altro prezioso ricordo materiale di lei, vale a dire l'oggetto strano e affascinante che valse ad accendere nel mio cuore, dopo avere esaltata la mia fantasia, una passione mortale. Ed è, vale a dire, quella mano tagliata, adorna di gioielli e miracolosamente conservata come se fosse viva, la mano che io trovai nella carrozza di prima classe, donde era disceso Marcus Henner. Quella mano troncata alla metà dell'avambraccio era proprio di Maria.
«Non vi stupite. Vi avevo detto che nella notte dolce e fatale in cui Maria era fuggita dal suo carcere, quando io cioè, la vidi personalmente per la prima volta, ella mi parve che avesse ambedue le mani; e in quel momento, malgrado che la mia fantasia provasse una forte delusione, io sentii che amavo Maria come che sia, e qualunque donna ella fosse. Certo, molto aveva operato il sogno, per innamorarmi; ma in quel momento la realtà fu più forte di qualunque visione ed io dimenticai tutte le mie fantasticherie dinanzi alla dolce donna, che veniva a me portata dall'amore e dal dolore. Fu più tardi, che io seppi il segreto di quella mano tagliata. Quella mano era la sua! io non ve ne dirò, caro Ranieri, il come, nè il perchè, la mia lettera è già troppo lunga. Sono stanco. L'avervi raccontato il modo, come è morta Maria, se ha soddisfatto il mio dolore, dandogli sfogo, ha esausto le mie forze. Credete, amico carissimo, che io sono come un albero fulminato, ancora resiste il tronco fermo nella terra, a radici fortissime; ma tutti i fiori ne sono caduti, ma tutte le foglie ne sono inaridite, e giammai più la primavera ridarà il rigoglio al tronco toccato dal fulmine. D'altronde, nella confessione di Marcus Henner, che vi unisco, strana e lugubre confessione, voi saprete anche col suo segreto, il segreto della mano tagliata.
«E voi conoscerete un'altra cosa ancora dalla confessione di Marcus Henner, conoscerete perchè io, che avevo giurato di consacrare la mia vita, per vendicare Maria, e per uccidere Marcus Henner, conoscerete perchè io non l'ho ucciso. Dopo che voi avrete letto ciò che quel mostro ha scritto, intenderete come la mia vita oramai manchi di qualunque ragione di essere.
«Io ho visto perire davanti ai miei occhi, senza potermivi opporre, la persona che ho amato nel mondo, e che più mi ha amato. Tutta la mia breve istoria d'amore è stata così intensa che mi pare in quei trenta giorni di aver vissuto cento anni, e mi sembra di essere un vecchio cadente, desideroso solo della pace della tomba. Maria è morta, uscendo dalle mie braccia, calda ancora dei miei baci, e io non ho potuto impedirlo, io sono stato un cattivo amante.
«Per punirmi, il Signore, mi ha tolto la consolazione di poter uccidere colui che l'ha uccisa. Che cosa farò io? Non lo so. Rimarrò qui, sino a che avrò l'ossessione di questa tomba, e credo che questa ossessione non finirà che con la mia vita.
«Una sola cosa potrebbe distaccarmi da queste aiuole, ove crescono i crisantemi, fiori di morte, ed è il desiderio di conoscere, di vedere Rachele Cabib, la donna che voi amate e che avete ritrovata, la figliuola di Maria. Voi felice, mio caro, che non avete vissuto invano, che avete amato a tempo sinceramente, con passione, e che nello istesso modo siete stato amato; ma, felice, soprattutto, perchè essa è viva accanto a voi, perchè voi potrete farla vostra, perchè tutto l'avvenire vi si schiude davanti, senza sfiducie e senza paure. Così, io vi prego di darmi vostre notizie a Cowes nell’isola di Wight dove io passo l'esistenza, fra la stanza, ove vissi con Maria, e la sua ultima stanza nel cimitero.
«Ditemi tutto di voi: ditemi le vostre felicità e non pensate di scrivere a un disperato. Se mai, una nave dovesse salpare da Cowes per l'Italia, sarebbe solo per portarmi costà, per baciare la mano alla donna vostra per portarle il saluto di sua madre morta. Maria non era più giovane e la vostra donna è giovanissima; ma io ho troppo amato Maria, per non venerare la creatura che ella amava e a cui rivolgeva tutte le sue tenerezze. Verrò, forse, un giorno, non so quando, non so come. Dio mi ha talmente colpito, che io non conosco più la mia strada, e probabilmente nessuna strada mi rimane più da percorrere, salvo quella di attendere che la morte venga a me, per liberarmi.
«Io penserò a voi spesso, senza invidia, e con dolcezza; tante volte la povera Maria mi aveva parlato della sua figliuola adorata, a cui Marcus Henner così crudelmente l’aveva strappata. Quante volte ella ha benedetto nelle preghiere della sera quella figlia lontana, e che non doveva più rivedere! La lettera diretta a Rachele, che io vi mando insieme a questa mia e alla confessione di Marcus Henner, dice tutto l'amore che quella madre sventurata portava alla sua figliuola. Io penso con dolore grande, indescrivibile, che cosa avrebbe potuto essere di felice la vita di noi quattro, così prima battuti dal destino, ed infine riuniti in dolce vincolo di parentela! Ma tutto è finito! Non più giovane ma immatura alla morte, quando ancor era adorata come una forma di bellezza e di virtù, Maria dorme nel piccolo cimitero di Cowes, e il brillante gentiluomo, che si chiamava il conte Roberto Alimena, l'uomo caro alle donne, a’ giuochi, agli svaghi, l'uomo scettico, incapace di sentire amore o dolore, non è che un pallido fantasma, vagante in una stanza ancora impregnata d’un profumo di donna, vagante intorno a una tomba giacente, pallido fantasma che niuna lusinga della vita potrà mai più consolare. La notte in cui io schiusi davanti ai miei occhi stupefatti il piccolo forziere, ove era chiusa la mano tagliata, sentii il misterioso avvertimento del destino, e compresi confusamente che la mia sorte era scritta. Ora, tutto è finito! Non ho più nulla da fare nel mondo, non potendo neanche uccidere Marcus Henner, e non posso uccidermi, perchè in una sera d'amore così promisi a lei.
«E ora, carissimo Ranieri, vi mando un tenero addio. Perchè non scrivo io, un arrivederci, e preferisco mandarvi la parola ultima, l'estrema parola di distacco? Perchè, ve l'ho detto, non so quello che accadrà di me: non so se vivrò o se morrò; domani, non so se perirò qui o in qualche lontanissimo paese del mondo. Addio! Possa il Signore benedire voi e la vostra Rachele che era la figliuola della mia Maria!
I più strani sentimenti avevano agitato il cuore di Ranieri Lambertini, durante la lettura della lettera; ma sovrastava a tutto lo stupore. Quello che aveva letto era così bizzarro e così folle, tanto inaspettato e tanto sorprendente, che egli aveva più volte interrotto la lettura, per interrogare con lo sguardo Dick Leslie, che aveva sempre risposto sì, col capo, a quella muta dimanda. Confuso e meravigliato, dopo aver finito, Ranieri chiese a Dick:
— Voi venite direttamente dall’isola di Wight?
— Sì, conte.
— Egli ha molto sofferto?
— Enormemente.
— Credete che si possa consolare? — e lo guardava, con una certa ansietà.
— Non credo, — rispose fermamente e con una certa tristezza il detective.
— Non so. Ha promesso a lei, di non uccidersi, ma….
— Ma?
— Fa una vita che lo condurrà al suicidio.
— Sempre al cimitero?
— O in quella stanza, donde ella si è buttata giù: egli vi passa le lunghe ore.
— Vi dorme?
— Non vi dorme: vi passa la notte, gemendo, gridando, chiamando Maria.
— Dio mio! — disse Ranieri sgomentato.
— È così.
— Ma la poveretta, perchè si è buttata giù? Voleva morire?
— No, non voleva morire. È lui che ha voluto.
— Chi?
— Come?
— Da lungo tempo, egli aveva dominato, nel sonno ipnotico, la infelice Maria.
— Ebbene?
— In quel sonno, egli la comandava.
— Ed ella obbediva?
— Pare.
— E come credete sia avvenuto questo delitto?
— Non si possono fare che supposizioni. …
— Poveretta! Ebbene?
— Deve averla ipnotizzata a distanza. … — disse vagamente Leslie.
— Non è possibile!
— Egli girava intorno alla casa da due giorni.
— Non è possibile.
— Si è poi saputo che ha passato due notti in barca, sotto le finestre.
— Eppure, è così. Avete letto la descrizione delle ultime ore di Maria?
— Sì.
— Vi è stata una lotta, fra lei e una volontà ignota.
— Comprendo.
— Ed ella è stata vinta!
— È impossibile, impossibile, — soggiunse Ranieri Lambertini, col volto fra le mani.
Per qualche tempo egli rimase così, assorto in riflessioni profonde. Le due lettere, cioè gli altri due manoscritti, quello di Marcus Henner e quello di Maria Cabib, restavano sul tavolino, presso lui.
— La mia Rachele ha perduta sua madre! — esclamò levandosi a un tratto.
— Prima di rivederla.
— Che crudele destino! E questo assassino, perchè Roberto non lo ha ucciso?
— Lo vedrete, — disse, misteriosamente l'agente di polizia.
— Dove?
— Nella confessione di Marcus Henner.
— Questa?
— Sì.
— Come l'ha avuta nelle mani Roberto?
— Dite!
— L'ha trovata.
— Dove?
— Sulla tomba?
— Sì.
— Quando?
— Dieci giorni fa.
— Chi lo sa?
— Forse.
— Egli si aggirava, là intorno?
— Pare, o lui, o un altro.
— E che dice, questa confessione?
— Non posso negarvi che sono molto turbato e molto triste, — mormorò Ranieri. — Io stesso sono assai infelice, in questo momento.
— Infelice? Con la vostra Rachele?
— Rachele non è mia, — disse tetramente Ranieri. — Marcus Henner l'ha costretta a entrare in convento.
— Ma ne uscirà!
— Chi sa!
— Se vi ama. …
— Quel mostro l'ha convinta del mio disamore, ed ella non m'ama.
— Vi riamerà! — disse Leslie, con sicurezza.
— Credete?
— Sì.
— Che cosa ve lo fa credere?
— Vedrete, vedrete. Il miracolo si farà.
— Ma come?
— Se contengono altri dolori, preferisco aspettare, — disse Ranieri.
— No, ve lo assicuro. —
Eppure, Ranieri Lambertini esitava ancora, prima di schiudere il secondo plico, quello dove si conteneva la confessione di Marcus Henner. Tutto quello che gli aveva scritto il conte Roberto Alimena, gli turbinava nell'animo e non arrivava a sedare il tumulto del suo spirito. Flemmaticamente, dopo avergliene chiesto permesso, Dick Leslie aveva acceso la sua pipetta inglese e ne cacciava larghi nugoli di fumo. Ranieri Lambertini, come per sottrarsi alla ossessione di quelle due altre lettere, si era alzato ed aveva fatto tre o quattro volte il giro della camera, come un leone. Poi, ritornando presso il detective, di nuovo gli aveva dimandato:
— Credete che Roberto Alimena si uccida?
— Lo credo quasi certamente, — disse l'agente di polizia, sospendendo di fumare e fissando i suoi occhi azzurri e limpidi nel volto di Lambertini.
— Ora, non lo farà.
— Sarà quel che Dio vorrà, — mormorò il detective, mordendo la cannuccia della sua pipa.
— Voi ritornerete, subito, in Inghilterra?
— Subito: come voi mi darete una risposta.
— Naturalmente.
— Ci rimarrete?
— Non posso, — disse Dick Leslie.
— Perchè? Vorreste abbandonare Roberto, così?
— Abbandonarlo? Mio signore, io l'ho servito, ma non gli sono nè amico nè fratello.
— Mi parla di voi come un salvatore.
— È molto buono. … gl'italiani sono molto entusiasti . … egli mi ha pagato. … — borbottò Leslie, che voleva nascondere una certa commozione.
— Dice che i vostri servigi non avean prezzo. E volete lasciarlo?
— Io debbo guadagnare la mia vita, signore, e non posso custodire qualcuno che, forse, non vorrà saperne di me.
— Oh, Roberto non deve morire! — esclamò Ranieri Lambertini, con accento desolato.
— Perchè non lo raggiungete voi, a Cowes? Perchè non lo portate con voi? Perchè non lo sottraete a quell'ambiente dove egli si consuma di dolore?
— Io voglio farlo. Io lo farò, — disse Ranieri Lambertini.
— E quando?
— Il giorno che Rachele Cabib sarà mia, io partirò per l'Inghilterra.
— E quando?
— Ahimè! — disse Ranieri Lambertini. — Quel mostro mi ha, forse, tolto per sempre Rachele! Ma io lo troverò e lo ucciderò.
— Chi?
— Ah! — disse Leslie, con un enigmatico sorriso.
— Quello che Roberto non ha potuto fare, non so perchè, lo farò io, ve lo giuro!
— Leggete prima la sua confessione, — soggiunse l'agente di polizia, con uno sguardo suggestivo.
— Chi sa quale cumulo di inganni, di menzogne, di doppiezze è in questo scritto.
— Se non avete letto!
— Leggerò, leggerò. Tanto vi preme che io sappia i segreti di questo infame?
— Mi stupisce che questi segreti non interessino potentemente voi! —
E il detective coprì Ranieri Lambertini di uno sguardo così magnetico che, macchinalmente, costui stese la mano per prendere il manoscritto sul tavolino.
— Dove fu trovato? Ma lo avete detto? — domandò ancora una volta, quasi fosse confuso.
— Sì, l'ho detto. Sulla tomba di Maria Cabib.
— Chi l'ha trovato?
— E costui lo ha dato a Roberto?
— Sì; costui lo ha conservato e quando Roberto è andato per la solita visita quotidiana, al camposanto, glielo ha dato.
— E non fu visto chi lo deponesse colà?
— No.
— A quale ora?
— Pare, nella notte. Il manoscritto era molle di rugiada mattinale, malgrado il suo involucro di pergamena.
— Marcus Henner deve aver approdato di notte, a Cowes, come nella notte del delitto. Il cimitero è poco lontano dalla riva. Avrà scavalcato il muro del camposanto che non è alto.
— Di notte?
— Di notte. Egli non temeva nulla, — disse Dick Leslie.
— Credete che ora tema qualcuno? — domandò Ranieri, senza intendere bene.
— Eh! Chi sa!
— Roberto ha letto questa lettera?
— Sì.
— Ed ha pensato di mandarmela?
— Sì.
— E perchè?
— Ma leggetela, in nome di Dio! — gridò l'agente di polizia, a cui era scappata la pazienza.
— Avete ragione, — mormorò lentamente Ranieri Lambertini. — Il mio spirito è molto fiacco in questo momento e non vorrei rabbrividire di orrore, ancora una volta.
— Rabbrividirete, — disse Dick.
— Voi conoscete il contenuto di questa confessione?
— Sì: è atroce!
— E allora, ditemelo.
— No, signore; ho istruzioni di chiedervi la lettura di tale manoscritto e non di narrarvelo.
— Sta bene, — disse freddamente Ranieri Lambertini, riprendendo i suoi spiriti dispersi.
Il manoscritto di Marcus Henner, quello che conteneva il segreto di costui, era chiuso in una busta di carta-tela, con un suggello grande, nero, su cui erano impresse le armi di Alimena. Dentro, il manoscritto era formato di grandi fogli di carta inglese, minutamente coperti da una piccola calligrafia, in inchiostro così rosso che pareva sangue. Non era una lettera, non era indirizzata a nessuno.
L'ampio primo foglio portava, in cima, certi caratteri strani, appartenenti a qualche lingua ignorata, come il Caldaico e il Siriaco:
nome di quel Dio che si chiama
E la confessione, dopo questa invocazione, cominciava così:
«Ho commesso un orribile delitto. Ho ucciso una donna debole, inerte e indifesa. Io solo l'ho uccisa. E il mio delitto si è compiuto in una maniera tanto atroce, che, al solo pensarvi, i capelli si rizzano sul mio capo seminudo, e l'agghiacciato sudore del rimorso ne bagna le radici.
«Questo non è il mio primo delitto, ma è certamente il più grande, il più infame, e malgrado il potere e la bontà di Dio, malgrado che io abbia servito sempre fedelmente il Signore d'Israele, non credo di poter trovare perdono dinanzi al suo trono di gloria. Sono quindici giorni che ho ucciso Maria Cabib, e non ho mai più potuto dormire; io, come Macbeth, ho ucciso il sonno. Da quindici giorni, appena cade la notte, un'allucinazione spaventosa mi coglie, e io vedo innanzi a me, attorno a me, sempre accanto a me, Maria col cranio sfracellato, con una lunga riga di sangue, che le cala lungo i capelli neri disciolti e le insozza il bianco vestito; io la vedo agitare innanzi a me minacciosamente il suo moncherino sanguinoso, simile a quel giorno di follìa, in cui, avendola immersa nel sonno ipnotico, esercitai contro lei che mi odiava e contro me che l'adoravo, la crudeltà di tagliare il più bel braccio ch'io avessi visto al mondo. Da quindici giorni, io temo la notte come la mia maggiore nemica, io non posso veder cadere le ombre notturne, senza esser preso da una ossessione che mi fa tremare le vene e i polsi. Come farò a vivere con questo notturno fantasma, che mi perseguita co’suoi occhi ardenti e desolati, col suo braccio mozzato, con la sua unica mano deprecante al mio capo esecrato; come vivrò io con quest'ombra, che mi tortura più di quanto Maria mi torturasse viva col suo disprezzo? E come potrò vivere, dopo aver ucciso Maria, la mia regina e il mio idolo? Ho deciso, dunque, di morire! Se io non mi uccidessi, questo fantasma con le sue mani di ombra mi condurrebbe immancabilmente alla follìa ed alla morte. Non è in un manicomio, come un volgare lipemaniaco, che deve morire Marcus Henner, il grande scienziato, l'uomo che ha rapito a Dio il segreto di dominare la volontà umana, il più glorioso figliuolo d'Israele, dopo Mosè. Che un castigamatti debba somministrarmi la doccia e serrarmi le membra nella camiciuola di forza, è una fine troppo umiliante e che fa ribrezzo al mio smisurato orgoglio. Meglio perire subito, di mia elezione, dando la mia vita a colei che ho uccisa, dandogliela in olocausto del più imperdonabile delitto che mai uomo potesse commettere: l'uccisione della persona che più amava.
«Io mi ucciderò alla fine di questa confessione. Sentendo che nella vita esistono gioie e dolori, che mille volte ne aumentano il prezzo, io ho sempre disprezzato il suicida: colui che rinunzia all'esistenza prima del termine fatale assegnatogli dal Signore, è stato per me sempre un buffone o un vile. Ora, io mi ricredo. Da lungo tempo il sorriso è sparito dalla mia vita, e forse non vi apparve mai, se può chiamarsi sorriso il ghigno superbo di un uomo, che tentò di elevarsi audacemente sino al cielo. Io non ho riso mai e non fui mai ridicolo; io, non essendo un buffone, sono dunque un vile, forse.
«Il sentimento tremendo che mi coglie quando le tenebre si addensano sulla terra, e lo spettro di Maria mi appare e non mi lascia mai, sino a che il gallo canti al chiarore dell'alba, questo sentimento che sconvolge i miei sensi e disperde i miei spiriti, è la paura forse? Non lo so. So che io, che ho resistito alle crisi estreme dell'esistenza, che ho anatomizzato senza tremare i cadaveri distesi sul marmo della sala mortuaria, so che ho inteso senza tremare il grido delle vittime, che dovevan perire per assicurare alla scienza un suo segreto: io che ho avuto ogni sorta di coraggio, in ogni sorta di pericoli. Ma, vedete, le ombre sono più forti della realtà; e io ho forse paura di un fantasma e per questo fantasma io muoio.
«Quando questo manoscritto, che io depongo in una notte tempestosa d'inverno sulla tomba di Maria Cabib, in una notte simile a quella nella quale io commisi il più imperdonabile misfatto, quando questo manoscritto sarà nelle mani dei miei nemici, ultimi nemici, conte Ranieri Lambertini e conte Roberto Alimena, l'anima di Marcus Henner sarà già da un pezzo davanti all'eterno suo Giudice, per mia elezione, ed in olocausto all'assassinio di Maria. Scrivo questo, non per giustificarmi, perchè non riconosco altro magistrato sulla mia coscienza che il Dio d'Israele, ma lo scrivo perchè si conosca che cosa fu il mio segreto e quale fu la causa della mia morte. Dovrei, forse, sparire, come il fumo nell'aria dileguarmi, ma non so quale acre desiderio di volgere e di rivolgere il pugnale che m'ha trafitto nella mia piaga, mi tiene e mi vince. Oramai i due gentiluomini che mi hanno preso — l'uno il cuore di Maria e l'altro il cuore di Rachele — non possono cogliermi più. Io mi metto al sicuro d'ogni loro vendetta, votandomi alla morte, quando appena ho toccato la maturità dei miei anni, quando il mio talento e la mia scienza sono nel loro pieno sviluppo, quando la mia fortuna era per giungere all'apice.
«Ma gli uomini che hanno un grande ideale debbono vivere casti e senza amore.
«Sparisce con me una delle energie più violente e più atte a scoprire verità, a creare e a regolare i fatti della vita, una delle volontà più efficaci e più proterve.
«Muore con me una forza che mai più riapparirà nel mondo: sparisce una leva possente, sulla quale un mirabile edificio di pensiero e di scienza si poteva levare; muore un uomo che conosceva i segreti, che asserviscono l'uomo all'uomo. E tutto questo perchè due occhi dolenti e affascinanti m'han guardato un giorno, e perchè io chiesi invano a questi occhi uno sguardo di amore, perchè una bocca porpurea m'è apparsa, e io domandai a questa bocca dei sorrisi, delle parole, dei baci, che mai mi furono accordati. Io ho tradito la Scienza per la Donna, e la Donna mi ha perduto.
«Io ho ucciso Maria, questa innocente, questa poveretta, che io adorava: io ho perduto Rachele, la figliuola di Maria, che bella come sua madre, come sua madre ha respinto ferocemente il mio amore, e, poichè nulla più mi resta di queste due donne, poichè io non potrei essere amato, più mai, poichè mai più io potrò amare una donna, nel mondo, perisco, così. Altra, altra, era la mia missione sulla terra, anzi che quella di asservirmi a un cuore freddo e sdegnoso di donna; io era chiamato ad altri e supremi destini. Quella sovranità che non possiede più il popolo di Israele, io avrei potuto restaurarla, col mio potere e coi soccorsi dei grandi milionari ebrei: io avrei potuto mettermi a capo del mio popolo! Ma, ecco, l'uomo ha voluto amare; e il Re ha perduto la corona.
«La corona e la vita. Debbo morire. Sparita Maria, sparita Rachele, che debbo io più fare sulla terra? Sono gobbo, calvo, brutto, sporco: faccio paura agli uomini, ribrezzo alle donne. Quando ne ho voluta una, non l'ho potuta avere che nel sonno ipnotico: è una cosa orribile, ma è così. Queste infelici, quando erano sveglie, mi guardavano disgustate e sgomente; se io avessi preso loro una mano, l'avrebbero ritratta con orrore, e ogni volta che ho tentata una seduzione, ne ho avuto le beffe e le amarezze, in cambio. Però, quando io comandava di dormire, esse dormivano; e dormivano nella mia stanza da studio, dove erano sole con me, dove nessun altra volontà che la mia poteva agire su loro, dove nessuno le sottraeva a me; allora, morendo di rabbia, di crepacuore, io comandava a una di esse, a quella che, in un giorno critico mi capitava innanzi, comandava di amarmi per un'ora, e la suggestione ipnotica mi dava quella donna, e io la possedeva, piangendo d'ira, maledicendo la mia vita e la mia fortuna. Morirò, morirò, perchè la mia esistenza è finita nella sera che io ho uccisa Maria.
«Come posso vivere? Sentite. La mia istoria è quella di un immenso orgoglio e di un immenso dolore. Io sono tedesco, per mio padre, e russo, per mia madre. Sono nato a Berlino, ma non vi sono restato che poco tempo, giacchè mio padre e mia madre hanno sempre fatta una vita randagia e disordinata. Ambedue israeliti, mio padre era medico e mia madre ritenuta come una cultrice della magìa. Pallida, esangue, magra, con certi occhi ardenti come carbonchi, io me la ricordo sempre, col viso curvo sopra certe sue miscele, bollenti in una piccola caldaia di argento, curva sopra certi suoi grossi libri, scritti in lingue sconosciute a me fanciullo. Mio padre la rispettava e la temeva: spesso si chiudevano in una stanza, insieme, e io udiva degli strani canti uscire di là dentro e delle bizzarre esclamazioni esser pronunziate dalla voce alterata di mia madre. Non avevo paura, io, no; ma una curiosità terribile agitava la mia curiosità di fanciullo; e mentre la professione di mio padre mi attirava molto, le misteriose occupazioni di mia madre mi affascinavano. Eravamo poveri, è vero, ma, spesso, insolitamente, correva denaro in casa. Personaggi sconosciuti venivano da noi, nella notte, e conferivano con mia madre. Io mi alzava dal mio lettuccio e, seminudo, scalzo, andavo a origliare. Talvolta essa parlava o cantava; strani profumi d'incensi, di mirre, venivano dalla stanza. Io sonnecchiava, a quella porta; i profumi mi stordivano. Mia madre mi trovava colà, mi prendeva nelle braccia, mi toccava la fronte ardente con le sue mani fredde. Lentamente, mentre mio padre m'iniziava agli studi pratici di medicina e io seguiva gli studi scientifici, in età ancora giovanissima, con una precocità straordinaria, mia madre m'iniziava allo studio delle scienze occulte; e, presto, io, appassionatissimo, fui il suo miglior sussidio in queste esercitazioni del potere umano. Da dodici a venti anni, io sono passato a traverso la vita, senza vederla, studiando sui libri e sulle erbe, interrogando tutte le sorgenti dell'esistenza, conoscendo i segreti della scienza e della magìa, imparando tutti i misteri del magnetismo e dell'ipnotismo. Presto, a ventidue anni, io era più forte, più sapiente di mio padre e di mia madre presi insieme: eravamo sempre poveri, ma la mia superbia non aveva confine.
«Di già la fama della mia sapienza si era diffusa nella popolazione ebrea e cominciavano a venire a consultarmi, i più poveri, i più infelici; e io li curava per nulla, alcuni guarendoli fittiziamente, sotto il potere dell'ipnotismo. La mia reputazione cresceva, ma non la mia fortuna; del resto, ero brutto e gobbo, anche giovane. Ciò, allora, non mi affliggeva molto, giacchè la scienza e il potere formavano il mio duplice ideale. Volevo essere ricco e grande; dopo, io pensava, sarei stato amato, adorato.
«Mia madre, che vedeva in me, non solo il figlio, ma il successore, non solo il sapiente, ma il dominatore dei popoli, me lo diceva sempre. Del resto, ella mi consigliava a essere casto, fino a che avessi avuto denaro e gloria: dopo, ella mi diceva, che avrei avuto a mia disposizione le donne più belle e più passionali. Difatti, per vari anni non pensai alle femmine; ero egoista, volevo accumulare una fortuna e prendere un posto altissimo nella società israelita.
«E, difatti, usando di quell'arme sicura e implacabile dell'ipnotismo, che ci dà nelle mani le persone e le loro volontà, le anime e i loro segreti, io arrivai ad esercitare un dominio straordinario su quelli che mi circondavano e su quelli, più lontani ancora, che venivano a me. Ma specialmente sui cristiani, io ho esercitato tutta la mia forza d'ipnotista e tutti i segreti della magìa di mia madre. Ah, come li ho odiati bene questi cristiani e come li ho polverizzati, tutti quelli che sono capitati sotto la mia volontà! Come ho spezzato i loro cuori e rovinato le loro esistenze, senza che essi potessero intendere tutta la mia vendetta! Era una vendetta annosa, quella che esercitavo contro loro, giacchè io era, in fondo, un uomo pio e adoravo il Dio di Abramo e di Mosè; era la vendetta del nostro tempio crollato, della nostra fede precipitata, della nostra nazione dispersa, della nostra fortuna distrutta: la vendetta contro i cristiani, contro queste belve dall'aspetto mite che ci perseguitano da secoli, che non ci danno tregua e che sono, adesso, nelle nostre mani, perchè siamo i più ricchi, i più furbi, i più forti, i più audaci.
«Ognuno di noi conserva nel cuore questo spirito di vendetta, contro i cristiani, ma non tutti possono esprimerlo e non tutti possono svilupparlo. Lo dichiaro; sempre che ho potuto avvilire, vituperare, rovinare un cristiano, io l'ho fatto con ferocia e con entusiasmo. Dio di Abramo e di Mosè, tu devi essere contento di me!
«Ma la Germania, dove noi per uno strano caso risiedevamo da più anni, mentre per molto tempo eravamo andati vagabondi, la Germania mi parve un campo troppo ristretto per la mia immensa ambizione. Fervevano allora i primi moti nihilisti, e dalle conflagrazioni politiche, come dall'esaltazione delle anime, non poteva che trarre vantaggio la mia fortuna. Deliberai di lasciare Berlino e di portarmi in Russia, dove il campo sarebbe stato vasto in una società così convulsa e così bizzarra. I russi sono molto mistici, quasi tutti credono allo spiritismo, e l'ipnotismo li seduce più di qualunque altro popolo. D'altronde, la Russia è piena di ebrei, e io avrei trovato un ampio mondo, dove sviluppare tutta la mia attività e tutti i miei desiderî di gloria.
«Ahi, non avessi mai lasciato il mio paese natìo! Fu dal giorno in cui lasciai la terra tedesca e misi il piede sul vulcanico suolo russo, che cominciarono tutte le mie sventure, giacchè io sono stato il più sventurato tra gli uomini.
«Ho avuto denaro, potenza, e gloria; sono stato ritenuto dai miei confratelli ebrei come discendente in linea retta da Mosè, come un loro capo, quasi come un loro re. Ho sbaragliato i miei nemici, vinto i miei detrattori, strappato alla scienza molti dei suoi segreti; e tutto questo mi è accaduto in Russia, il paese della intelligenza e del sogno, il paese della forza e dell'allucinazione. Ma è anche in Russia, che io ho conosciuto Maria Cabib, e che tutto il mio destino ha detto colà la sua parola decisiva. Se oggi, ricco, forte, potente, senza legami, senza vincoli, non vecchio, io preferisco di scendere nella tomba nella forma più atroce, è perchè io, in un giorno d'inverno, ho visto apparire la dolce e voluttuosa ebrea avvolta nella sua pelliccia e pensosa sotto il suo berretto di velluto.
«Io preferii, andando in Russia, di vivere sei mesi a Pietroburgo e sei mesi a Mosca, dove batte il cuore della vecchia Russia; e dalle due metropoli facevo continuamente delle escursioni a Kazan, a Kiew, a Odessa, e in regioni anche più lontane, per cercare tutti i miei fratelli ebrei, e per curare con l'ipnotismo le grandi signore nevrotiche, e i gentiluomini chiusi nei loro castelli perduti tra la neve. Io non temeva nè la polizia moscovita, nè i nihilisti, nè il freddo; e viaggiavo continuamente da un capo all'altro della Russia, tanto che alla fine non vi fu ebreo russo che non mi conoscesse, e non vi fu principessa che non mi chiamasse nelle sue crisi nervose. Fu in quel tempo, che il nome di Marcus Henner cominciò ad essere annoverato tra quelli degli scienziati europei, e ch'io potei far dimenticare a' cristiani dotti la mia turpe origine semita. Io guadagnava molto denaro, ma ne spendevo anche molto, per aiutare i miei fratelli poveri, acquistando così una popolarità segreta e profonda che mi ha aiutato in tutti i miei disegni.
«Fu allora anche che sposai una giovane galiziana che viveva a Pietroburgo, che io non amavo punto, e che mia madre volle per forza farmi sposare. Clara Meyer era bella, orfana e povera: aveva un carattere dolce e tenero, un temperamento timido e sensibile e una salute gracile di fiore delicato. Io le faceva, come a tutte quante le donne, ribrezzo e paura; ma poichè era abbandonata nel mondo, poichè si vedeva perduta in una lotta impari con le cose e con gli uomini, ella superò per un istante le sue ripugnanze e le sue paure, e mi sposò in preda a una malinconia mortale. Mia madre aveva voluto questo matrimonio, perchè nella sua preveggenza materna, temeva l'influenza del femminile su me e voleva sottrarmi alle seduzioni muliebri, mercè il matrimonio e forse i figli.
«Ma questa unione conservò un carattere di suprema tristezza; Clara Henner, mia moglie, non potè mai superare completamente la repulsione che io le ispirava e di nuovo ebbe paura di me, come di un mostro nel fisico e nel morale.
«Io, comprendendo questo ed essendo orgoglioso all'estremo, fui con Clara Henner marito freddissimo e disdegnoso. La lasciavo sola per lunghi intervalli; non dormivo nè nel suo letto, nè nella sua stanza; le tenevo nascosta la mia fortuna e non l'avevo iniziata a nessuno dei segreti della mia vita. Più volte la ipnotizzai, per strappare a lei delle parole d'amore e dei consensi che giammai, nello stato di veglia, ella mi avrebbe concesso; ma la sua salute era così fragile, che uscendo dagli accessi ipnotici, ella cadeva in preda a forti palpitazioni di cuore, ed io le faceva orrore più che mai. Penso che ella fosse infelicissima con me, tanto più che io la sospettava di seguire celatamente le pratiche della religione cristiana e per questo la tormentavo con le mie domande e la perseguitavo con le mie beffe. Ella temeva di tutto, di mia madre che le si mostrava dura e sprezzante, di mio padre che negli ultimi anni aveva preso l'abitudine di avvinazzarsi, di me soprattutto che conducevo una vita misteriosa e complicata, piena di strane cose e di pratiche singolari. Quante volte ho visto il pallore della paura su quel viso delicato e mi sono divertito barbaramente ad eccitarlo coi miei discorsi feroci e cinici! In breve, Clara Henner diventò nella mia casa una cenerentola sempre tremante e che segretamente odiava il suo marito e padrone. Ella non ebbe mai figliuoli, e questo le fu sempre amaramente rimproverato da mia madre e qualche volta anche da me. La mia ambizione mi dava il desiderio di avere un erede ed un successore.
«Ma Clara Henner non è nella mia vita travagliata e combattuta che un pallido incidente di cui la mia grande anima non si è nè commossa, nè occupata. Più tardi, ella ha avuto la forza di fuggire lontano da me, ed io non ho fatto nulla per riprenderla, sebbene conoscessi la sua strada. Ho lasciato che ella andasse a morire in pace dove meglio le piaceva, senza voler disturbare la sua morte, come avevo disturbata la sua vita.
«Io credo che, a quest'ora, Clara Henner sia morta. Ho sempre sospettato che la sua anima tenera si fosse piagata al cristianesimo, e ciò ha reso, nei tempi lontani, più profondo l'abisso che ci divideva. So, difatti, che, più tardi, ella era entrata in un convento e che vi era giunta inferma gravemente, di una malattia di cuore contratta sino dalla giovinezza, malattia aumentata dalla triste e angosciosa vita durata accanto a me. Certo, io ho formato l’infelicità di quella donna e ne ho affrettata la fine. Ma perchè ella si è trovata sul mio passaggio? Perchè ella è entrata nella mia orbita fatale? In questa vita bisogna o avere il cuore di bronzo o spezzarsi. Ella si è spezzata; era, in fondo, una debole femminetta, indegna di dividere la sorte di un dominatore come me.
«Certo ella non mi ha mai amato di amore; ma la forte, la immensa passione che scoppiò nel mio animo, quando incontrai Maria Cabib, aumentò la tristezza mortale di Clara Henner e le tolse l'ultimo raggio di felicità di cui quell'anima diseredata avrebbe potuto godere, cioè la pace. Clara Henner non fu mai gelosa di me, perchè non mi amò mai; ma da quando Maria Cabib ebbe tutto il mio cuore e arse i miei sensi, ella perdette anche la mia pietà. Fui crudele, scellerato, con lei: lo confesso e non me ne pento, giacchè io ho molto sofferto e ogni rimorso è spento nel mio arido cuore, ogni rimorso che non sia quello della uccisione di Maria!
«Quando ho conosciuto Maria Cabib, io aveva trentacinque anni; ella non ne aveva ventitrè. Ma i miei trentacinque anni, brutto, gobbo, spelato come ero, valevano per cinquanta; mentre i ventitrè anni di quella donna era per lei la giovinezza splendida e irresistibile. Quanto era bella! Non ho mai visto un volto così puro di linee, così perfetto di colore. Non ho mai incontrato una persona così formosa e intanto così snella e così elegante; non ho mai visto, in una fisonomia muliebre, la fierezza e la dolcezza riunite insieme, in un'armonia così sovrana. Più fiera che dolce, forse, allora; giacchè la coscienza della sua irresistibile beltà e gli omaggi di tutti coloro che l'adoravano, empivano quell'anima di orgoglio. Dopo, quell'anima si è piegata sotto la mano del destino — non sotto la mia, ahimè! — e si è fatta dolce e tenera, non per me, mai! Ma il suo orgoglio è stato supremo: più grande persino del mio, che ero un conquistatore di popoli e un dominatore di volontà.
«Maria Cabib era la moglie di un vecchio ebreo, che aveva almeno trent'anni più di lei; ella aveva una sola figliuoletta, una bimba di quattro o cinque anni che le rassomigliava stranamente. Essi vivevano a Mosca da molti anni, ma non erano russi, erano ebrei di Germania. Ella si chiamava Miriam, ma aveva trasformato il suo nome, in quello della madre di Gesù, per un suo capriccio.
«Mi accorsi più tardi, molto più tardi, che ella non aveva obbedito a un capriccio, assumendo quella forma nazzarena del nome. Troppo tardi!
«I Cabib vivevano agiatamente, poichè Mosè negoziava di pietre preziose, specialmente di torchesi e di smeraldi; si diceva anzi che, il Mosè fosse molto ricco e nascondesse i suoi denari, per paura di furto o di persecuzione. Maria amava il lusso e i piaceri, ma il marito non cedeva che con riluttanza ai desiderî di sua moglie. Ella avrebbe voluto sfoggiare, ma Mosè la tratteneva sempre sulla via della prodigalità, e ciò era cagione spesso di malumori fra loro. Più di una volta, lo seppi dopo, Maria Cabib aveva minacciato suo marito di fuggirsene via, portando seco la piccola Rachele che egli adorava. Amava egli sua moglie? No. Amava molto il danaro, ecco. Sua moglie ne spendeva troppo, e ciò lo torturava. Era egli geloso di Maria? Chi sa! Certo era che Maria era circondata di corteggiatori ed egli non la sorvegliava o non aveva l'aria di sorvegliarla. D'altronde, Maria trattava questi corteggiatori con grande superbia e con grande disdegno; nessuno aveva saputo ispirarle niente. Solo, un giovane studente tedesco, nel suo paese Jean Straube, era accolto meno male da lei; ma era cristiano e non dava quindi sospetto. Una ebrea può essere fedifraga al marito, non lo è mai con un uomo di un'altra religione. Questo io pensavo, allora. Presto dovetti accorgermi che. … è troppo odioso il dirlo, ora, e la penna mi cade dalle mani.
«Io ho conosciuto Maria Cabib, in una funzione religiosa della sinagoga di Mosca; ella era fra le donne in prima fila, e quando i miei occhi la scorsero per la prima volta, io sentii quel calore bruciante nel petto, che è presago delle grandi commozioni dei sensi e dello spirito. Mai una donna mi aveva fatto una simile impressione, e io ero stato con esse molto altiero, sentendo il loro ribrezzo e la loro paura. Per tutto il tempo della solennità religiosa io non cessai di guardarla. Ella non pregava. I suoi occhi distratti e assorbiti in un superbo pensiero, ora si chinavano a terra, restando immoti, ora si levavano al cielo. Era vestita sfarzosamente e carica di gioielli, le sue mani bianche, meravigliose, nude, scintillavano di anelli, i suoi polsi, sottili e rotondi, erano carichi di braccialetti. Pensai che per baciare quella mano, per mordere quel polso, io avrei data la mia scienza e la mia vita; e mi bruciò tale fiamma della sua persona che io pensai subito di essere un sacrilego. Ero pio, ancora, cioè mi vedevo così vicino al Signore d'Israele, da non dovere e non poter peccare nel suo tempio. Ma fui subito punito, giacchè la bellissima donna non mi gettò neppure uno sguardo, giacchè ella si unì a suo marito, uscendo dalla sinagoga, e non si voltò neanche a salutare colui che la vedeva passare tremando di emozione. Io conosceva Mosè Cabib e lo aveva salutato. Egli mi rispose, non lei; mi avvicinai, ella affrettò il passo e sparve insieme a Mosè, lasciandomi sdegnato e desolato. Da quel giorno sono cominciate le mie sofferenze per Maria Cabib, e furono più o meno amare, più o meno strazianti; ma non finiranno mai e non finiranno che quando avrò chiuso questo fascio di carte e chiusa per sempre questa mia vita. Quello fu il simbolo di ciò che sarebbe stata la mia lunga ed inane passione per questa donna, di cui dovevamo morire lei ed io.
«Il giorno seguente a quello in cui avevo incontrato Maria Cabib nella vecchia sinagoga della vecchia capitale russa, io cercai di rivedere quella donna che in una sola ora aveva portato via la mia anima e che doveva per sempre dominare i miei sensi. Ero, come ho già narrato, in buone relazioni con Mosè Cabib, e costui anzi aveva una palese suggezione di me. Andai a cercarlo alla Borsa e cercai di farmi condurre a casa sua. Ma lo trovai singolarmente freddo su questo rapporto, giacchè gli ebrei non amano di mostrare molto le loro donne anche ai loro correligionari. Compresi che gravi ostacoli mi dividevano dalla bellissima donna che avevo sentito di amare nel primo terribile momento in cui l'avevo veduta, e che oramai tutte le mie forze sarebbero state rivolte a vincere queste enormi difficoltà. Oramai la mia ambizione smisurata aveva una ragione di essere, e se io ero brutto, laido, deforme, avrei saputo essere così ricco e glorioso, da sedurre qualunque restìo cuore femminile. D'altronde Maria Cabib mi parve una donna orgogliosa, e da codeste superbe creature vi è tutto da aspettare, il massimo dolore e il massimo piacere.
«Già la mia potenza magnetica, che in altri paesi meno fantastici e meno esaltati della Russia avrebbe avuto minore successo, aveva raccolto intorno a me la più grande società moscovita, ed io viaggiavo continuamente fra Mosca e Pietroburgo, fra Kiew e Odessa, fra Karan e Varsavia. Segrete consultazioni mi chiamavano spesso nella notte, e io avevo nelle mani molte grandi anime e molti grandi cuori, maschili e femminili. Malgrado che l'accesso presso Maria Cabib mi fosse negato, io era certo di penetrare sino a lei e di sedurre il suo animo ritroso. Già, lentamente, con un lavoro quotidiano e continuo, io aveva vinto l'animo di Mosè Cabib. In fondo, quest'uomo era estremamente mistico nel suo animo di ebreo calcolatore. Egli era un singolare miscuglio di banchiere e di sognatore, un uomo che non temeva gli uomini, ma che temeva i fantasmi, un uomo che avrebbe spogliato suo fratello, ma a cui l'ipnotismo dava un terrore strano, mentre esercitava su lui un gran fascino. Due o tre volte, in casi complicati e bizzarri di isteria, di seconda vista, di suggestione, io avevo voluto che Mosè assistesse ai miei esperimenti e lo aveva visto esterrefatto e tremante levare gli occhi su me, come sopra una possente miracolosa immagine. In quell'essere ignorante, malgrado la sua furberia, io sentiva di poter agire sicuramente e vittoriosamente, io sentiva di potermi impadronire di lui, per poter essere padrone successivamente della donna che egli troppo indegnamente possedeva.
«Certo, la passione ardeva in me già possente e senza alcun pascolo, salvo delle più lontane speranze. Non mi era dato di vedere la bellissima donna che rarissimamente, in qualche spettacolo pubblico, dove suo marito la conduceva a malincuore, e dov'ella appariva sfarzosamente vestita, carica di gioielli, altiera e taciturna, non degnando neanche di rivolgere i suoi fieri e superbi occhi su me, o sogguardandomi con tale glaciale indifferenza, da darmi un brivido di terrore. Io, però, ebbi la forza di non fare nessun passo falso; non tentai neppure di penetrare in casa, prima di possedere per intiero l’animo di Mosè Cabib. Io voleva togliergli la moglie e, per far questo, bisognava che Mosè Cabib diventasse il mio più vile schiavo e che egli stesso mi lasciasse libero di portar via la femmina, che era la sua sposa e che era la madre della sua figliuolina.
«In questo frattempo, io seppi frenare il mio cieco ardore che mi abbruciava ogni qual volta m'era dato d’incontrare la creatura squisita. Che ho sofferto, mio Dio, in quel periodo!
«Ma, almeno, avevo una sublime speranza di essere amato un giorno da Maria; speravo certamente di far mia quella orgogliosa anima e di possedere quel bellissimo corpo. Questa speranza mi sosteneva nei lunghissimi giorni, in cui io serrava intorno a Mosè Cabib una rete così fitta, da cui egli non si sarebbe mai potuto distrigare.
«Per consolarmi, però, di questo oscuro e tetro lavoro di talpa, io mi faceva raccontare minutamente tutta l'esistenza di Maria, sino ai particolari più intimi. In questi racconti che mi dicevano cose spesso troppo intime, io sentivo raddoppiare il mio cieco ardore e la mia fiamma trovava un alimento che mi faceva fremere di passione.
«Ho detto, che ella forse amava un tale Jean Straube, un tedesco che da studente era diventato professore di filosofia, e che s'era fatto mandare a Mosca per seguire la donna che egli aveva amata da fanciullo. Esercitai per la prima volta il mio potere su Mosè Cabib, suggestionandolo a mandar via di casa questo visitatore sospetto, a cui la donna teneva troppo e di cui Mosè non aveva nessuna diffidenza. Per la prima volta, anche, mi posi indirettamente in urto con Maria, giacchè ella resistette rudemente, prima ai consigli, poi agli ordini di suo marito. Ella dovette comprendere che sopra Mosè Cabib agiva una volontà più forte del suo fascino, e che una potenza misteriosa veniva a turbare i suoi amori, presunti amori, con Jean Straube. Finalmente, usando tutti i miei mezzi, indussi Mosè Cabib a scacciare di casa l’importuno rivale e ottenni una vittoria cruenta.
«Maria non perdonò a suo marito questo fatto, e per punire lui, e forse me, anzi sicuramente me, si chiuse in casa e non volle più uscire, per vari mesi. Io non la vidi più. Però, con le mie indagini, poichè avevo a mia disposizione tutta una polizia segreta, potei sapere che ella era in corrispondenza quotidiana col giovane tedesco. Mi fu dato, ogni tanto, d’intercettare qualche lettera. Ella scriveva a questo miserabile lettere piene di trasporto e che indicavano in lui il suo amante, da vari anni.
«Ho conservato queste lettere che formarono allora la mia più grande tortura e che ancora oggi, prima di morire, ho rilette per rivoltare nella piaga un coltello, che l'ha inacerbita e avvelenata. Da qualcuna di queste lettere mi risultò, allora, che segretamente Maria Cabib vedeva questo Jean Straube, ma solo più tardi, molto più tardi, seppi il come e il dove.
«Da quel momento, la morte di Jean Straube fu da me segretamente decisa. Non avevo mai ucciso, sino allora: non già che mi rattenessero la paura o il rimorso. Disprezzavo e disprezzo la vita umana: ma a qualunque mio comando io aveva visto piegare innanzi a me tutte le volontà e non avevo avuto bisogno di uccidere.
«Furente di gelosia contro quello sciocco studente tedesco la cui sola qualità era di essere giovane — era anche molto, molto bello, simile a un Lohengrin della leggenda — e di rappresentare per Maria Cabib il primo amore, giurai a me stesso che se diversamente non avessi potuto infrangere questo nodo di amore, avrei ucciso senz'altro il mio fortunato rivale. Dirò appresso come compii questo delitto e come esso non fu inutile, sebbene mi alienasse ancora di più l'anima ritrosa di Maria.
«Intanto, io aveva preso un dominio assoluto sopra Mosè Cabib e mi ero messo alla testa di tutti gli israeliti russi, polacchi, galiziani. Alla mia casa, in Mosca, di giorno e di notte, per non dare sospetto alle autorità, costoro accorrevano da tutte le parti a prendere ordini, a portare notizie, a domandare soccorsi, a depositare denaro, a organizzare quel sistema di sviluppo economico e morale, quel sistema di difesa palese e di segreta offesa, di cui ha tanto bisogno il popolo ebreo, dovunque si trovi. L'ipnotismo, la suggestione, tutte queste forme perfezionate del magnetismo, del potere che ha un sol uomo sugli altri uomini, mi davano un'aureola misteriosa, mistica, che raddoppiava lo sgomento e il rispetto che si aveva di me; tanto che io sembrava, agli umili, una emanazione diretta di Jehovah. Tutto mi andava a seconda, salvo l'asprezza, l'orgoglio, il mutismo con cui mi trattava Maria: contegno che, ahimè, dopo quindici anni di convivenza non si è mai mutato. Avevo ottenuto da Mosè Cabib di essere introdotto in casa e ci andavo sempre; ma centinaia di volte, Maria, per non vedermi, si chiudeva nella sua camera, carcerata volontaria, e non vi erano preghiere, scongiuri di nessuno che avrebbero potuto deciderla a uscire. Ella mi odiava; di più, io le faceva schifo. Una volta che restammo soli e che le presi, tremando, una mano, ella rabbrividì, urlò, pallida di ribrezzo come se avesse toccato la pelle di un serpente: fuggì via. Per quindici giorni, non la vidi.
«La mia furberia grande era stata di convincere Mosè Cabib che sua moglie, la sua Maria, era un soggetto ipnotico perfettissimo e che avremmo potuto trarre da lei i più alti segreti mistici e terreni. L'uomo era avido assai, e io gli aveva fatto intendere che per mezzo delle rivelazioni fatte nel sonno ipnotico, noi avremmo potuto sapere dove si nascondessero i maggiori tesori della terra, nelle casse e nelle miniere, nei forzieri dei ricchi e nei sotterranei antichi, dove gli ori e le gemme sono stati sepolti, da centinaia di anni. Man mano io era venuto persuadendo Mosè, che Maria ci poteva fare ricchi come dei re, se solamente avesse voluto lasciarsi ipnotizzare. Io vedeva gli occhi di quell'uomo luccicare di cupidigia, quando gli ripetevo questi discorsi che lo esaltavano; e sentivo che egli mi avrebbe dato in mano Maria, quando lo avessi voluto. Lo indussi a ricevermi di notte, in casa sua, il che non avrebbe fatto per nessuno; ma solo una notte mi fu possibile vedere Maria, e la trovai sempre identica, fredda, sdegnosa, muta. Ma quanto era bella in quella espressione, e come io mi sentiva ardere di passione, a ogni suo atto di disdegno, sentendo di amarla mille volte di più! Quando ella si accorse che mi era permesso di andare, anche di notte, in casa sua, si chiuse sempre in camera, con la chiave e col catenaccio. Restavo solo, con Mosè, a divorare la mia rabbia e la mia gelosia.
«L'orrore che io le faceva, ella lo aveva comunicato alla sua figliuolina. La piccola Rachele non aveva che cinque anni e già mi fuggiva, già mi guardava con ribrezzo, già non lasciava che neanche le toccassi l’orlo della gonna. La piccolina era bellissima, come sua madre, e le viveva sempre accanto, attaccata alle sue vesti, adorando la sua giovane madre, trattando con freddezza e rudemente tutti, persino suo padre. Mi venni convincendo che Rachele doveva essere figliuola di Jean Straube, giacchè solo così si poteva spiegare il geloso amore di cui la circondava Maria e il contegno non filiale che la bimba teneva con suo padre. Presi a odiare questa fanciulletta, e giurai che l'avrei divisa da sua madre, per sempre. Così feci, ma quale terribile punizione ebbi di questo altro mio peccato!
«Intanto, visto che gli affari di Mosè Cabib andavano male, io cominciai a dargli denaro, ora con una scusa, ora con un'altra: lo indussi a largheggiare con sua moglie e a tentare di lanciarla nei piaceri, per cercare di stordirla e per condurla ai nostri fini. Egli mi obbedì; Maria si prestò prima riluttante a questi svaghi, a questi modi liberi di vivere; ma, la sua natura orgogliosa prendendo il disopra, ella si abbandonò al lusso e alla gioia di vivere. Circondata, ammirata, corteggiata, io ebbi il malinconico e solitario piacere di poter essere l'origine dei suoi trionfi. A casa di Mosè si teneva corte bandita, e io arrivai alla follìa di comperare un castello e di offrirlo per dimora alla donna che amavo. Vi furono feste, balli, cacce, rappresentazioni teatrali. Mosè Cabib era accusato di gittare la sua misteriosa fortuna per la finestra, mentre era io che gli forniva il denaro per queste pazzie. Maria non ne sapeva nulla. Sono certo che, se lo avesse saputo, avrebbe rifiutato tutto, tanto mi detestava. Io spendeva delle migliaia di rubli per una donna e consumavo anche denari non miei, mentre non giungevo neppure a stringerle la mano. Che importa! Maria era la mia pazzia e sentivo, da allora, che sarei vissuto e morto per essa. Ora, a quindici anni di distanza, non avendo mai cessato di amarla, avendola solo tradita per sua figlia Rachele, perchè era sua figlia e perchè le rassomigliava, io compio la mia decisione di allora; giammai, giammai, nè la madre, nè la figliuola, sono state mie; e Maria Cabib è stata quindici anni nella mia casa, mia prigioniera! Non debbo io morire, poichè ella è morta, poichè Rachele è anche perduta per me? Non debbo io morire, poichè Maria ha avuto un altro amante, un uomo che non conosceva, a cui si è data improvvisamente, a cui ha appartenuto un mese, mentre io agonizzava di collera e di gelosia? Morrò, ora.
«Dissi in un altro foglio di questa confessione, che avevo persuaso Mosè Cabib che Maria sua moglie, nello stato di sogno magnetico, poteva raggiungere la massima veggenza, e porci sulle tracce di molti tesori nascosti sotto la terra. Ma si sarebbe mai ella fatta addormentare? La vita dispendiosa ed elegante, che oramai ella faceva co'miei denari, l'aveva resa più orgogliosa e più intrattabile. Pure, in una notte, con la complicità di Mosè Cabib, io potei fare il primo tentativo. Alle due dopo mezzanotte penetrai in casa di Mosè, avendomi lui aperta la porta, e, tremando di gioia e di sgomento, entrai nella camera di Maria, dove non ero mai giunto. Ella dormiva. Quanto era bella! In quel momento, tutta la mia volontà cadde, e sentii che non sarei stato capace di tenerla sotto l’influsso magnetico. Ella al rumore si svegliò spaurita, e levandosi sul letto gridò a suo marito di cacciarmi via. Ella era così sdegnosa, così disprezzante, che tutta la mia ira e la mia gelosia repressa scoppiarono. Ripresi d'un tratto quella terribile volontà, che ha visto piegare innanzi a sè le energie più vivaci e più ardenti, le anime più temprate all'azione.
«Guardai negli occhi fisamente per vari minuti la donna sdegnosa, e mentre una orribile lotta le si rivelava sulla faccia, gli occhi si smarrivano conquistati dal mio influsso. Fu, lo ripeto, una battaglia lunga fra la mia volontà e la sua; ella si dibatteva contro l’ipnotismo, si torceva come in convulsioni, volendo assolutamente respingere il mio potere, sentendo che in quel sonno sarebbe stata la sua perdita. Ma cedeva, intanto, linea per linea, cadendo nel torpore ipnotico, mentre io emanava tale forza da sentirmi diventato un leone di suggestione.
I miei occhi, le mie mani che stringevano le sue tempia, tenevano concentrata la mia vita in una forma centuplicata; e quando Maria Cabib fu perfettamente addormentata, io caddi estenuato sopra una sedia e giacqui come morto.
«Ma l'orrore di quello che avevo fatto non mi fu palese, che più tardi, quando vidi che Maria era caduta in uno stato di assoluta catalessi.
«Ella rimase tutta la notte immersa nel sonno ipnotico, e nessuna mia parola, nessun mio sforzo arrivarono a trarla da quel torpore che somigliava tal quale al sonno della morte.
«Il marito si era dato alla disperazione, perchè credeva che gli avessi uccisa sua moglie, e tutte le mie parole non giungevano a rassicurarlo; conoscevo molti mezzi sanitari per ridestare gli ipnotizzati, ma nella mattinata seguente io li adoperai tutti, senza nessun risultato. Il terribile fu quando la piccola Rachele venne ad abbracciare sua madre, come al solito, e, non avendola potuta risvegliare coi suoi baci, si mise a gridare che sua madre era morta e che io l'aveva uccisa.
«Per tre giorni e tre notti, io tentai invano di restituire alla vita normale quel corpo vinto da un sonno di piombo, e non riuscii che a constatare tutta l’insufficienza della mia volontà! Mosè Cabib non faceva che disperarsi e piangere, la bimba urlava a traverso la casa, ed io mi vidi spinto alla disperazione.
«Io era certo di non trovar mezzo per farla rinvenire. E se fosse rimasta così fino alla fine dei suoi giorni? Di catalessi si può vivere lungamente, ma era proprio una catalessi quella? Per tre giorni, la vita continuò ad essere anormale, sotto quel sonno ipnotico, ma al quarto giorno mi parve che Maria avesse il viso consunto e più pallido, e che il polso si venisse affievolendo. Mi è impossibile descrivervi il mio spasimo.
«Avevo da me stesso perduto una donna che adoravo, ed ella mi moriva innanzi, senza che io potessi soccorrerla. Non volevo e non potevo invocare altri aiuti, perchè temevo che qualunque altro medico avrebbe scoperto la ragione di quel sonno così simile alla morte e avrebbe denunciato il marito e me, per tentato omicidio. D'altronde, le forze della dormiente si andavano sempre più affievolendosi e io temeva che mi morisse innanzi, a un tratto, senza neppure svegliarsi, senza dare l'ultimo bacio a sua figlia. Allora, concepii un piano infernale, giacchè a nessun modo avrei voluto lasciar morire Maria in quella casa e abbandonarne il cadavere nelle mani dei becchini. Nella quarta notte, sempre tenendo fra le mani il polso di Maria, chiamai Mosè Cabib che piangeva, ai piedi del letto, e gli dissi che, forse, Maria era morta o che sarebbe morta fra poco; che, per la smania di voler diventar ricchi come Cresi, noi avevamo commesso un delitto e che alla polizia russa non sarebbe parso vero di carcerarci, tanto ci teneva in sospetto, perchè ebrei e perchè viventi una vita misteriosa. Gli soggiunsi che bisognava nascondere la prova del nostro delitto, cioè il corpo di Maria, e portarlo via, lontano; a questo avrei pensato io, fuggendo la notte istessa da Mosca, in vettura, sino a un lontano castello dove potevo far perdere le mie tracce; egli stesso doveva fuggire, con Rachele, tanto che non si potessero più trovare tracce dell'esser suo; io solo avrei saputo dove egli fosse. Gli davo denaro, molto denaro!
«Sulle prime, si oppose fortemente. Quell'uomo amava sua moglie e non voleva abbandonarla nè morta, nè viva; del resto, la morte non era accertata. Quanto dovetti combattere con lui! Lo minacciai, lo pregai, piansi, innanzi a lui: non mi sono mai tanto umiliato davanti a un essere vivente, come a Mosè Cabib. Ma morta, morente, viva, io non gli avrei più lasciata Maria, mai; ed egli comprese che avrei preferito denunziare me e lui, anzi che lasciargli quel corpo esanime. Le minacce mie lo turbarono assai, ma molto più lo convinse la promessa che io gli avrei restituito Maria, se ella fosse sopravvissuta a quella crisi terribile: glielo promisi sulla testa di Jehovah e sentii in quel momento di essere uno spergiuro e un sacrilego. Ma che non avrei fatto, pur di non lasciarmi rapire quel caro, quel prezioso deposito?
«Fu nella quinta notte che, a traverso la neve che fioccava, io potei compire il mio bizzarro e appassionato disegno. Due carrozze aspettavano alla porta di casa Cabib, a notte alta; in una entrò Mosè Cabib tenendo nelle braccia la povera Rachele addormentata e ancora singhiozzante nel sonno; vi entrò dopo aver mille volte baciata e abbracciata la fredda faccia di sua moglie. Ella non era ancora morta, ma la vita languiva tanto, in lei, che pareva un sogno.
«Io pensai che sarebbe morta in viaggio, attraversando quella gelida vastità della campagna russa; ma portai via quel corpo stretto nelle mie braccia, come avrei portato le Tavole della Legge, di Mosè profeta.
«Io gli aveva giurato sul nome stesso di Dio di avvertirlo, dovunque mi trovassi, della sorte riserbata alla povera donna, che noi avevamo messo in fin di vita.
«Ma nell'animo mio ero bene deciso a non dirgli mai più nulla intorno a Maria. Per avere quel corpo, avevo sciupato una fortuna, avevo commesso un delitto, e avevo compromesso la mia libertà e la mia vita; anche se ella fosse morta, non l'avrei lasciata giammai. Come vi ho detto, Mosè Cabib era partito in carrozza alla volta della frontiera austriaca, mentre io mi dirigeva con quel carico verso la Polonia; per un giorno intiero camminammo in carrozza, a traverso dei deserti di neve, senza che potessi accorgermi d'essere inseguito. Avevo composto con le mie mani un potentissimo cordiale, di cui io solo conoscevo il segreto, e che avrebbe ridato la vita all'essere più sfinito; e ogni cinque o sei ore ne versavo un cucchiaio nella bocca della esanime Maria. Per qualche ora, il polso le si rinforzava un poco, e un leggiero colorito roseo le si diffondeva sulle guance; ma era una fiamma fittizia, che poco dopo s’illanguidiva quasi fino a spegnersi.
«Al secondo giorno mi parve che una troika corresse precipitosamente dietro la nostra carrozza di posta; ma tirata da un sol cavallo, lontano come un punto nero nello spazio bianco, non aveva speranza di raggiungerci. Però quella corsa furiosa dietro noi mi insospettì. Chi poteva inseguirci? Non Mosè Cabib, il quale, rispettoso della mia volontà e soprattutto vinto dalla paura, aveva preso la strada verso Vienna; non la polizia russa, perchè allora mi avrebbero inseguito dei gendarmi a cavallo, e non una semplice troika, dove probabilmente non si trovava che un solo uomo. Ad ogni modo, feci affrettare la corsa dei miei tre cavalli, e presto potemmo perdere di vista quel punto nero. Ma rimasi inquieto. Invece di passare la notte in un villaggio, ove trovavasi il cambio dei cavalli ed un albergo, dove avrei potuto mettere al riparo dal freddo e dal disagio la povera catalettica, volli ripartire nella notte istessa, malgrado il parere contrario dell'albergatore e de' postiglioni, temendo di essere sorpreso nella notte in quell'albergo da qualche ospite spiacevole. Partimmo in mezzo al lento fioccare della neve, illuminati da una luna scialba, che appariva e spariva tra le nubi; i rari alberi disseccati mettevano delle ombre nere e paurose sul bianco lenzuolo della neve; e noi correvamo sempre così furiosamente, che a un certo punto, in un urto contro il macigno che attraversava la via, l'asse della carrozza andò in pezzi e uno dei cavalli cadde morto.
«Eravamo in un posto assolutamente deserto: non ombra d'abitazione, non un lume, nulla, salvo che tutto intorno il tetro fantasma della neve che ci avvolgeva. I postiglioni ed io bestemmiavamo come dannati, essi cercando di riparare alla meglio la rottura dell'asse, ma dichiarando che non avrebbero potuto andare innanzi con due soli cavalli. Eravamo lì da mezz'ora, soli nella notte profonda, ed io digrignavo i denti dalla collera contro Dio e contro gli uomini, quando un rumore lontano mi riscosse: era il galoppo di un cavallo. Pensai subito, che qualcheduno sarebbe venuto al nostro soccorso, ma nell’istesso momento mi rammentai di quella troika, di quella velocissima carrozza che durante la giornata pareva ci avesse seguìto con tanta ostinazione. Però, sperai che fosse più un aiuto che una persecuzione; qualunque fosse stato l'uomo che guidava quella carrozza, gli avrei pagato a peso di oro il suo cavallo, per attaccarlo insieme ai miei, e l'asse per riattare il mio.
«Il galoppo si affrettava. Noi sbarravamo la via, e io aveva già detto ai miei postiglioni che speravo un soccorso da colui che si avvicinava, pensando tra me che glielo avrei anche strappato a forza.
«Difatti, la troika apparve in fondo alla via, correndo su noi a galoppo sfrenato. Io era disceso dalla carrozza, e le andai incontro. Ero armato di due revolvers e di un pugnale, che non mi lascia mai, e la cui semplice puntura uccide in un minuto. Mi fermai in mezzo alla via, solo, sbarrando la strada alla leggiera carrozza.
«L'uomo che la guidava era avvolto nelle pellicce, e un berretto era abbassato sugli occhi; parve che volesse passare sul mio corpo, ma io mi gittai al morso del cavallo, e con una forza straordinaria lo trattenni.
«— Chiunque tu sia, — gli gridai — soccorrici! Dammi il tuo cavallo e la tua carrozza ed io ti darò tutto quello che vuoi! —
«L'uomo saltò dalla troika, gittò il suo berretto sulla neve, e mi gridò:
«— Vengo a chiederti Maria, vile rapitore di donne!
«— Essa è qui, — gridai con un riso beffardo. — Ma tu non l'avrai, Jean Straube. —
«E, in quell'ora, cento metri lontano dalla mia carrozza, cominciò una lotta terribile fra me e l'amante di Maria. Ci eravamo afferrati così violentemente, che nessuno di noi due aveva potuto porre mano alle armi. Ci stringevamo per soffocarci, ci sbranavamo, ci mordevamo rotolando insieme sulla neve, e se egli era più giovane e più forte di me, io era animato da tale disperazione, che gli tenevo testa.
«Cercavo in tutti i modi di poter prendere il mio pugnale, giacchè in fine sentivo che quell'uomo vigoroso avrebbe preso il sopravvento. Difatti, mentre avevo quasi l'aria di cedere alle sue strette, liberai una mano, e mentre egli mi metteva il ginocchio sul petto per strangolarmi, io lo punsi al collo col mio pugnale.
«Jean Straube morì immediatamente: sentii le sue mani rallentarsi e gelarsi attorno al mio collo. Il suo corpo cadde di piombo a terra, ed io, levatomi dalla sua stretta mortale, riposi l'arme terribile e, preso pel morso il cavallo, lo condussi presso la mia carrozza. I postiglioni mi guardarono sgomenti, ma nulla mi dissero: la lotta era stata breve e lontana. Essi compresero, che io, per amore o per forza, aveva strappato il cavallo e la carrozza al viaggiatore.
«Ma, quale fu il mio stupore, quando rientrando in carrozza, trovai Maria sollevata sui cuscini, con gli occhi aperti e stralunati, che mi sputò in faccia questa parola:
«— Assassino! —
«Ma, mentre io mi slanciavo verso lei e le prendevo le mani fra il furore e la gioia, ella ricadde pesantemente sul fondo della carrozza e ripiombò in uno sfinimento mortale. Noi potemmo accomodare la nostra carrozza, rompendo la troika del mio rivale ucciso, e ripigliammo la via di Varsavia col suo cavallo. Il corpo di Jean Straube rimase a traverso la via sulla neve, in pasto ai lupi, che abbondano nella gelida Russia.
«Noi entrammo a Varsavia, senza ingombro, e vi restammo quindici giorni, senza che io fossi disturbato da nessuno. In quel tempo, la catalessi di Maria crebbe; oramai, ella non viveva che come una statua di cera, bianca, smorta, con le mani lungo la persona, coi capelli neri, fluenti in due trecce, e gli occhi, le cui palpebre erano diventate violacee, chiusi ermeticamente. Ma ciò che appariva terribile sul suo volto, era una espressione di raccapriccio costante, che aveva dovuto rimanerle da quel minuto di lucido intervallo, in cui mi aveva visto assassinare Jean Straube.
«Disperato di avere innanzi a me un cadavere, che pure era vivente, osai di chiamare a consulto le illustrazioni mediche di Varsavia. Io nascosi loro che Maria era caduta in quel letargo da che io aveva commesso la imprudenza di addormentarla nel sonno ipnotico; ma uno di loro lo comprese e, rimasto solo con me, mi disse questa verità tremenda; che io aveva cagionato quella strana infermità e che avrei portato il rimorso di quella povera donna; che un solo rimedio poteva trarre per sempre la infelice dal letargo in cui era caduta, ed era un fortissimo dolore fisico di qualunque genere esso fosse; uno spasimo inenarrabile infine. Io inorridii a questa idea e partii da Varsavia il giorno dopo, recandomi a Parigi.
«Il viaggio, con quella donna catalettica, mi fu difficoltosissimo; io indussi mille sospetti, e corsi continuamente mille pericoli. Dovetti a forza di denari, di astuzie, di audacie, superarli. Quando fui a Parigi, tentai di nuovo la facoltà medica, la quale mi dichiarò Maria inguaribile, salvo che una fortissima emozione la destasse per sempre da quel sonno fatale. Di più, un medico ipnotizzatore come me completò i consigli del medico di Varsavia, dicendomi che per ridestare Maria bisognava esporla ad un'operazione chirurgica che le procurasse un dolore dei più tremendi! Credetemi, o voi che mi leggete e che mi siete nemici, che io esitai due mesi prima di commettere quella che a tutti sembrerà una nefandezza, ma che solo l'idea della morte di questa donna, che io adorava, mi condusse a commettere.
«Nella notte atroce che dedicai a questa opera terribile, io ho visto imbiancare gli ultimi capelli che rimanevano sul mio cranio deforme, e non ho mai provato nella mia vita uno schianto simile, come quando, in compagnia del primo chirurgo di Francia e del suo assistente, io vidi sotto i miei occhi recidere il braccio sinistro di Maria.
«Come son qui scrivendo, ero in quella notte, e sono vivo ancora; ma, al grido di belva, colpita mortalmente, che uscì dal petto della mia povera vittima, si unì un grido straziante, il mio.
«Io conosceva un segreto mirabile, per preparare i corpi e per lasciar loro un'apparenza geniale di vita; anzi questo segreto era stata una delle origini della mia fortuna come medico. Ero certo di poter conservare quella povera mano tagliata, ma quando ebbi dinanzi a me il moncherino sanguinante della bellissima donna, quando vidi quel corpo così orrendamente mutilato torcersi dal dolore e udii da quella bocca adorabile e adorata uscire delle parole di maledizione, quando vidi quegli occhi bellissimi così carichi di un odio immortale, io pensai se non sarebbe stato meglio non infliggere quello sfregio e quella tortura a Maria Cabib, se non sarebbe stato meglio lasciare immersa la catalettica nel suo sonno invincibile, donde sarebbe passata senz'accorgersene alla morte: ma ero pazzo d'amore, e la pazzia di amore negli esseri come me, sventurati ed orgogliosi, assume quasi sempre l'aspetto della crudeltà più bieca.
«Io aveva per sempre deturpato il corpo di Maria ed avevo per sempre alienato da me la sua anima.
«Ella guarì di ambedue i suoi mali, poichè il dolore indicibile del braccio tagliato aveva per sempre fugato la catalessia, e guarì anche di quel tremendo taglio, poichè era giovine, sana, ed i migliori chirurghi vegliarono questa donna che rappresentava il segreto maggiore della mia vita.
«Nella notte, piangendo come un fanciullo, io imbalsamai quella mano e quel braccio che sotto ai miei ordini e sotto ai miei occhi erano stati distaccati da quel corpo. Io mi arrestava nelle mie operazioni, per baciare quelle dita fredde, per coprirle delle mie rade e brucianti lagrime; io compii un miracolo dell'arte sanitaria dando a quella mano tagliata l'aspetto migliore della vita; io caricai di gemme quelle dita e quel polso delicato e rotondo; io macerai nei profumi quelle pelle delicata e deposi in uno scrigno di velluto quel prezioso tesoro che non mi lasciò mai più e che io portava meco nei miei viaggi quando doveva per forza allontanarmi da Maria.
«Quand'ella dormiva sola nella stanza, dove la sua imperiosa volontà di donna mai vinta, mai domata, mi impediva di entrare, io passavo la notte nel mio studio, tenendo sotto i miei occhi quella mano tagliata e guardandola come se fosse la reliquia più cara, l'origine della mia forza e della mia vita.
«Dal giorno malaugurato, in cui io smarrii in un vagone di prima classe la mano tagliata sulla linea di Napoli e di Roma, io sentii che eravamo perduti, e che Maria, Alimena ed io saremmo periti per quella mano perduta.
«Ma fra me e la donna a cui avevo tolto tutto, il marito, la figlia, le ricchezze, la vita sociale, l'amante, ed in ultimo di cui io aveva per sempre sfregiata la beltà, si stabilirono delle relazioni così bizzarre, così singolari e così tormentatrici, per me e per lei, che io non so come noi abbiamo potuto resistere quindici anni senza morire. Io la tenevo prigioniera, è vero; ma ella era una prigioniera così orgogliosa, così fiera, che sprezzava e dominava il suo carceriere; ella sapeva tutto e mi rinfacciava tutto. Ella mi aveva visto uccidere Jean Straube e, sempre che lo poteva, mi gettava sul viso la parola di assassino: era in mio potere e spesso la collera mi accecava, ma quando arrivavo fino a lei per vincerla con lo sgomento o con la violenza, essa possedeva in sè tale forza di disprezzo, ed esercitava su me tale fascino, che io mi arretravo scoraggiato ed avvilito. Mille volte avrei potuto possedere quella donna, che era il desiderio bruciante del mio sangue, ma una folle speranza mi teneva di indurla ad amarmi con l'amore ostinato, con la solitudine, con l'abbaglio del potere e della ricchezza, con la promessa di farle rivedere la sua figliuola.
«Io ho sperato che il tempo, che la mia servitù amorosa, che l'aver io commesso quanto un uomo può commettere di male o di bene per avere una donna, spietrassero quel cuore senza tenerezza e lo inducessero almeno alla indulgenza ed alla carità. Tutto fu vano, tutto.
«Bisogna dire che io, invaso dall'amore, tentavo ogni giorno di esprimerle questa mia passione con le parole più ardenti. Mi sentivo brutto, deforme, laido, e leggevo tutte queste dolorose verità negli occhi di Maria; ma avevo una fede immensa nelle potenze induttive di una grande passione.
«L'ho detto; contavo sul tempo e sulla solitudine; ebbene, mai una volta che io fossi uscito dalla stanza di quella fierissima donna senza portar via uno sgarbo e un maltrattamento. Ella si rideva di me e delle mie minacce; ella mi disprezzava e mi odiava nel medesimo tempo, ma il disprezzo era più forte dell'odio; ella aveva un tal modo di scacciarmi da sè, quand'io me le avvicinavo troppo, che mi faceva rabbrividire di dolore, ma che mi allontanava. Chiunque leggerà queste ultime carte riderà di me; quand'io dirò che quella donna, tenendola in casa mia, sottratta agli occhi di tutti, sola, di cui nessuno avrebbe inteso neanche il grido di morte, rideranno tutti, sapendo che io non l'ho posseduta!
«Ma chi ha amato veramente ed ha sentito l'infelicità del ridicolo, la peggiore di tutte, abbassarsi sul suo capo, potrà comprendermi e non ridere. Questo eterno sasso di Sisifo che era il disprezzo di Maria mi è continuamente ricaduto sul petto, ogni giorno, per quindici anni, ed ha estenuate in me tutte le sorgenti della vita. Io sono stato sempre più ricco e sempre più potente, legioni intiere d'israeliti hanno dipeso da un solo mio cenno, ed io, si può dire, sono stato il loro re occulto e misterioso, capace di mobilizzarne un esercito anche per la soddisfazione di un mio capriccio. A Londra, a Parigi, a New York, dovunque io sono stato, la più nobile clientela ha frequentato la mia casa d'ipnotizzatore, ed io ho veduto ai miei piedi le più belle donne di Europa. Ma che importa tutto questo? La sola persona, a cui io teneva, mi ingiuriava se io le parlava d'amore. Ostentatamente si dava alle preghiere cristiane per farmi irritare, sapendo che io odiavo tutta la razza cristiana e le sue ipocrisie. Ella diventava più bella, più pensosa, più mistica ogni giorno, e la sua anima mi sfuggiva sempre più, diventando più pura e più elevata. L'antica donna, amante dei piaceri e del lusso, periva lentamente in lei, e il suo spirito si librava in plaghe, dove mi sfuggiva completamente.
«Io tentai verso il quarto o quinto anno della nostra dimora insieme, un mezzo disperato. Ancora una volta, malgrado la terribile prima prova che ne avevo fatto io immersi Maria Cabib nel sonno ipnotico. Lo feci con una trepidazione grande, addormentandola solo leggermente, ed un'altra irrisione del destino toccò alla mia volontà. Quando più alta ruggiva la collera della prigioniera contro me, io la suggestionava e la facevo cadere nel sonno ipnotico. Ma era solo un lieve torpore, che le calmava i nervi, ma non ne vinceva la volontà.
«Maria, sì, mi rispondeva quietamente, ubbidiva sino a un certo punto alle mie suggestioni e qualche volta, con uno sforzo singolare, io arrivavo a farle dire, per mio suggerimento e sotto il dominio della mia volontà, che ella mi amava. Ma, appena nel sonno ipnotico, io le toccava la mano, appena le dicevo di stringere la mia, ecco, ella si ribellava anche nel sonno e mi sfuggiva lasciandomi disperato, piangente ed esausto.
«Mentre avevo piegato sotto la mia, le volontà più tenaci e domato i nervi più vibranti, quella misera donna mutilata, carcerata, in mio potere, non sentiva i miei ordini, che per darmi una fugace, derisoria illusione di bene, che per infliggermi il dolore di vedere inutile anche la mia scienza e la mia influenza.
«Io ho cambiato paese, clima, ambiente, ho provato a lasciar sola Maria per molto tempo, ho provato a non abbandonarla mai un minuto, ho tentato la persuasione e la forza, mi sono gittato ai suoi piedi ed ho tentato di uccidermi: a nulla è servito! Nella vita ella mi si è ribellata sempre e, nel sonno ipnotico, ella è stata un essere passivo, muto, sino a quando non le ho chiesto qualche prova d'amore.
«Cento volte ho pensato di restituirla a suo marito ed a sua figlia, visto che era inutile trattenere carcerata una donna, com'io teneva lei, ma nell'ultimo momento non ho osato dividermi da lei. Un ultimo dolore narrerò qui, ed avrò finita l'iliade di un uomo che ebbe tutto nella vita di quanto fa felice gli altri uomini, e a cui mancò tutto, perchè mancò l'amore.
«Io avevo conservato delle relazioni di lettere con Mosè Cabib, a cui avevo scritto che Maria era morta in Germania e che io l'aveva sepolta nel piccolo cimitero di Dusseldorf. Egli, io credo, non prestò mai fede totalmente alla mia bugia, ma per rispetto a me non ebbe mai l'aria di dubitarne. Gli mandavo continuamente del denaro, giacchè egli era caduto in grande miseria e faceva l'antiquario a Roma, e continuamente ricevevo notizie della piccola Rachele, che cresceva in beltà ed in grazia, ma cresceva anche in superbia, come superba era stata sua madre.
«Quando rividi quella fanciulla, ella aveva sedici anni, ed era così rassomigliante a sua madre, così bella, così florida, che io fui preso da un folle ed inane desiderio di avere la figlia, poichè non avevo avuto la madre. Inane desiderio!
«Avevo quasi cinquant'anni ed ella ne aveva sedici; ero diventato più brutto e più storto di
prima, facevo ribrezzo a me stesso ed ebbi la folle idea di poter cogliere quel fiore di grazia e di beltà, non a me destinato: e, così, fatalmente, per queste due infelici passioni, io procurai l'infelicità di due donne che più avevo amate nella vita, diventando per esse sempre più un oggetto di odio e di orrore.
«Tentai di uccidere il conte Ranieri Lambertini, che mi toglieva Rachele, come di perdere il conte Roberto Alimena, che mi aveva tolto la mano di Maria e che tentava di togliermi la sua persona; ma il destino si burlò di me, perchè io non giunsi che a ferire mortalmente il primo, e il secondo raggiunse me e mi tolse Maria.
«Sapete come ho uccisa quella donna? Io ho tentato sopra lei un mezzo estremo, quello della suggestione a distanza, che qualche volta mi era riuscito con qualche altra persona. Quando ritornai nella mia casa di Londra da Dublino e la trovai vuota, Maria fuggita, fuggiti i miei servi, io decisi di ucciderla e di uccidermi. Passò un mese prima che io conoscessi dove il conte Alimena aveva condotto seco Maria, ed in quel mese io ho sofferto tutte le torture più atroci della gelosia, giacchè aveva compreso che Maria si era data al suo rapitore. Ella era ancora bella ed Alimena era giovane ardente e innamorato. Ogni minuto di quei trenta giorni mi è colato sul cranio, come una goccia di piombo fuso, e m'ha devastato l'anima. Quand'io seppi che ella era nell'isola di Wight, mi recai colà, determinato ad ucciderla, in qualunque modo, penetrando in casa, corrompendo un servo, forzando una porta come un ladro, come un assassino. Per due notti, rimasi in barca, sulle acque, sotto la casa di Maria e di Roberto, e per due notti tentai la suggestione a distanza.
«Figuratevi che doveva essere il mio spirito, in quelle due notti; non sapevo se la mia volontà, di lontano, avrebbe potuto mai soggiogare quella di Maria; dovevo nascondermi e nello stesso tempo fare tale sforzo di volontà per uccidere la sola donna che avevo amata. Era un’impresa pazza, disperata, che tentavo solo perchè mi sentivo, anche io, giunto alla fine della mia vita. Proprio, come un pazzo, ho errato per due giorni intorno alla villa di Cowes, come il jaguaro che restringe i suoi giri intorno alla sua preda; e nella notte scendevo nella barca; sul mare oscuro e irato, giacchè eravamo in pieno inverno, fissando i miei occhi ardenti e folli sulla finestra illuminata, quella della loro stanza. La sola idea che quei due si baciassero ancora, dietro quella parete, mi rendeva frenetico e non so chi mi ha impedito di forzare la porta di quella villa, di penetrare in quella camera e di ucciderli uno nelle braccia dell'altra! Non potendo avere la vendetta del leone, avrei avuta quella del rettile. Ella sarebbe venuta alla finestra: e io avrei comandato a lei di buttarsi giù: ella si sarebbe buttata.
«Fu nella seconda serata, in barca, che io giunsi al colmo della esasperazione. Non vedevo nulla, non sapevo nulla, non credevo più alla mia suggestione; e, malgrado tutto, la mia volontà aveva tanta forza, in quel momento, che io mi sentivo spezzare il cranio. Ah, che grido di trionfo, io dovetti soffocare nel mio petto, quando vidi un'ombra bianca apparire dietro i cristalli e fermarsi, colà, e guardare nel vuoto. Era Maria. Era lei. Veniva alla mia chiamata. Non aveva mai voluto obbedirmi, nel sonno ipnotico, quando io le avevo comandato di amarmi; adesso ella obbediva, quando io le comandava di morire. …
«Commisi il delitto. Commisi questo delitto così infame che nessun Dio, nessun uomo potrà mai perdonarmi. Ho ucciso a tradimento, col più nero tradimento, una creatura inerme che l'uomo da lei amato non poteva difendere, ho ucciso una creatura innocente. Sì: ella era innocente e io l'ho carcerata per quindici anni; le ho tolto suo marito e sua figlia; le ho ucciso il suo amante; le ho levato la libertà e anche la bellezza, giacchè si deve essere bella per qualcuno, per essere bella. Per quindici anni le ho imposto la compagnia di un essere deforme, brutto, laido, quale io mi sono: e pretendevo che mi amasse; e le ho inflitte lunghe torture morali e fisiche; e le ho tagliato il braccio, deturpandola. Dopo, l'ho uccisa; mi sono valso di un'arme inafferrabile, senz'aver paura della giustizia, poichè quello era un suicidio e non un omicidio; l'ho uccisa come si strangola un bambino nell'ombra. Sono un assassino, il più atroce degli assassini, giacchè questa donna non mi aveva fatto alcun male.
«Ora, dal minuto tremendo in cui io ho visto il corpo di Maria cadere dalla finestra, per mio comando, e ho inteso battere quel cranio sul selciato, innanzi alla villa, mi si è spezzato qualche cosa, nel petto. Avrei voluto, almeno, portare via quel corpo esanime, come quindici anni prima, ero fuggito da Mosca, rapendo la donna immersa nel torpore profondo; ma allora, allora, io sperava di vederla rivivere, io la portava meco, io sperava tutto, persino l'impossibile, persino di essere amato! Ora il cadavere non l'ebbi. Egli discese; egli raccolse quel povero corpo infranto e lo depose sul letto dei loro amori; egli compose quelle membra, baciò quei capelli neri meravigliosi, rete e catena di amore; egli coprì di fiori quella cara salma. Ah, egli ha udito il mio orribile scoppio di risa, dal mare, quand’io lo vidi gittarsi su quella morta! Ma egli non sa che quel riso mi infranse il petto.
«Muoio, fra un'ora. L'ultimo dei miei servi fedeli porterà questo manoscritto nel piccolo cimitero di Cowes, sulla tomba di Maria Cabib che io amai e che io uccisi. Voglio che il mio segreto si conosca. È la mia espiazione; in queste carte è la confessione di tutta la mia disfatta, giacchè io ho amato quella donna e non ne sono stato amato, giacchè se io l'ho uccisa, adesso, per lei mi uccido. Ricchezze, potere, gloria nella scienza, nessuna più di queste chimere mi tiene. Sono un vinto, sono un misero, sono la più miserabile creatura del mondo, l'ultimo verme della terra. Non mi piangerà nessuno e molti mi malediranno. Non m'importa. Abbastanza, da me mi odio e mi disprezzo.
«Muoio, fra un'ora. Pungerò la mia vena al collo e vedrò scorrere tutto il mio sangue: è un modo di morire che mi piace, giacchè è questo sangue bruciante di passione che mi ha portato alla morte, questo sangue dove ardeva la fiamma di un uomo giovane e bello, mentre io era un mostro di bruttezza. E voi, Ranieri Lambertini, Rachele Cabib, Mosè Cabib, Roberto Alimena, siate contenti, siate felici tutti, giacchè il vostro odiato e temuto nemico, il vostro persecutore implacabile, il terribile Marcus Henner, morirà svenato, fra un'ora, vendicherà tutti voi. Ma per lei, io vi perseguitava e vi odiava, per lei io voleva la vostra morte, per lei io ho fatto quello che ho fatto, per lei io muoio, giacchè nessuno di voi avrebbe potuto colpirmi, mai, e quella innocente mi ha colpito, morendo.
«Ah, potesse il mio cadavere andare sotterra, con lei, nella stessa bara! Potessi io, dopo morto, ridurmi in polvere, accanto a lei, nella terra nera! Non mi è dato! Sino all'ultimo giorno del mondo, viva, morta, Maria Cabib non sarà stata mia, giammai, giammai.
. . . . . . . . . . . . . . .
La lettura di quel lungo manoscritto era durata abbastanza, e Ranieri Lambertini compiendola aveva il volto tramutato come colui che abbia già risoluto il problema della sua vita. Levò gli occhi in faccia a Dick Leslie, e gli disse con voce fioca:
— E poi? Si è egli veramente ucciso?
— Sì, o signore. Come lo ha detto, si è ucciso.
— Si è svenato?
— Lo hanno trovato solo, chiuso nella sua casa di Broadway, da cui aveva licenziato fin l'ultimo servo; egli giaceva in un lago di sangue. Questo suicidio non fece chiasso che per un giorno a Londra. Troppa gente vi si uccide o vi è uccisa, perchè il pubblico se ne preoccupi troppo.
— Marcus Henner è dunque morto? — esclamò Ranieri, come se parlasse a sè stesso.
— Sì, e con lui è sparita ogni traccia della sua vita. Egli ha bruciato, prima di morire, tutta la sua corrispondenza, molti manoscritti, molti registri, e così nulla si è potuto conoscere dal pubblico di questa singolare e miserabile esistenza. Egli ha però, — soggiunse Dick Leslie — lasciato un testamento; tutti i suoi beni che sono immensi, vanno agli ebrei poveri della Palestina.
— A Roberto dunque è sfuggita la sua vendetta? — chiese, come trasognato, Ranieri Lambertini.
— Sì, gli è sfuggita; ed è per questo, che io temo per lui, — disse a bassa voce il detective.
— Voi dovete raggiungerlo, — gli disse subito Ranieri — raggiungerlo e tenerlo d'occhio.
— Così farò, — rispose tranquillamente l'agente di polizia. — Questa sera stessa io partirò per Londra e per Cowes: io spero di strappare a quel cimitero, a quella tomba, l'amante disperato.
— Compite quest'opera caritatevole, — disse con voce commossa il conte Ranieri Lambertini. — Io non posso partire, io debbo aspettare qui la mia sentenza. —
Intanto, Dick Leslie si era levato, ma non se ne andò. Pareva che avesse un'ultima cosa da dire; e difatti mentre Ranieri Lambertini lo guardava con occhi smarriti, gli soggiunse:
— Io vi ho portato una terza lettera.
— È vero! — rispose il conte. — È di Maria Cabib, diretta a sua figlia Rachele. Sapete voi, caro Leslie, che contenga questa lettera?
— Io lo ignoro, signor conte. Ebbi solo istruzioni di consegnarvela, e null'altro. Ora, io non so che vi è scritto dentro, ma posso darvi un sol consiglio: mandatela subito alla signorina Rachele, nel convento ov'ella si trova.
— Credete che questa lettera possa mutare il mio destino? — chiese ansiosamente Lambertini.
— Lo ripeto, non lo so. Mandate la lettera, mandatela presto. —
Così, i due che probabilmente non si dovevano più rivedere nella vita, si lasciarono in quelle ore pomeridiane, poichè metà della giornata era trascorsa nella lunga lettura. Ancora una volta, Ranieri Lambertini raccomandò a Dick Leslie di vegliare sopra la salute di Roberto Alimena, e ne ottenne una seconda promessa, seria come la prima, giacchè gl'inglesi non sono abituati a promettere invano.
L'agente di polizia, dopo essersi licenziato da Ranieri Lambertini, non prese neppure il tempo di fare una passeggiata per Napoli, che egli non conosceva, e dopo aver mangiato e dormito, ripartì col treno di Roma della sera.
Poichè l'ora era tarda, Ranieri Lambertini non potè inviare la lettera della povera Maria Cabib a sua figlia, che l'indomani, nè Rosa che aveva fatto quella commissione, potè avere la consolazione di vedere la novizia suora Grazia.
Passarono così otto giorni, in cui Ranieri Lambertini che aveva messo per le parole di Dick Leslie molta speranza in quella misteriosa lettera suggellata, scritta da una morta a sua figlia, a poco a poco sentì smarrirsi tutta la sua fiducia, e si sentì ripiombare sotto il peso di una fatalità implacabile. Era dunque stato inutile lo scellerato assassinio di Maria Cabib, e il terribile suicidio di Marcus Henner: l'infame gobbo dominava anche dalla tomba i cuori dei superstiti, e come aveva distrutto l'esistenza della povera madre di Rachele, aveva minato e distrutto l'esistenza della figliuola.
Invano il conte Lambertini aveva mandato sette od otto volte Rosa al convento delle sepolte vive: giammai costei aveva potuto vedere Rachele. Oramai, quando ella ritornava di lassù, si gittava scoraggiata sopra una sedia e non rispondeva neppure più alle domande affannate di Lambertini.
Costui, nelle lunghe ore d'inutile attesa, in quella stanza di albergo, dove viveva sempre più solingo, leggeva e rileggeva le due lettere di Roberto Alimena, e di Marcus Henner, e contro quel morto lo teneva un'ira così truce, che nessuna corrente di pietà arrivava a temperare.
Tutto il dramma di Marcus Henner, che aveva vissuto come Prometeo col fegato divorato da un'aquila, non gli ispirava che ribrezzo ed ira. L'amore potente e sventurato che aveva fatto di quel grande ebreo un micidiale, gli faceva orrore; e anche dopo la morte, il deforme dottore da’ freddi occhi verdi, col suo cofanetto ove giaceva la mano tagliata ed ingemmata di Maria Cabib, gli metteva addosso la collera impotente di chi ha perduto la sua vendetta.
E così, nella morte come nella vita, il grande ipnotizzatore, l'uomo che aveva piegato innanzi a sè tutte le volontà salvo una, e che aveva posseduto tutto nella vita, salvo l'amore di una donna, non arrivava ad ispirare pietà, neanche con la grandezza della sua espiazione.
Fu in capo a nove giorni, in un momento in cui l'anima di Ranieri Lambertini aveva percorso tutti i giri della tragica cupezza, e rimirava dinanzi a sè una sola soluzione, la morte, fu in quel nono giorno, che egli udì bussare alla sua porta.
Senza levarsi dalla poltrona, in cui giaceva abbattuto, egli disse di entrare a colui che aveva picchiato. Chi aveva picchiato entrò, e si fermò sulla soglia.
Era Rachele Cabib, più bella, più giovane, con gli occhi lucenti di amore fra le lacrime; ella tese le due mani a Ranieri Lambertini, e gli disse:
— Mia madre mi ha scritto di venire a te, di amarti fedelmente, sino alla morte. Eccomi! —