Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Nel paese di Gesù
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NAVIGANDO VERSO SORIA

III. Il Cairo

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III.

 

Il Cairo

 

 

Chiarissimo, con una prima luce mattinale già bionda, attraversato da grandi soffi freschi, già rumoroso di un rumor gaio e quasi armonico, già percorso in tutti i sensi da una strana fola, il Cairo, nell’istantaneo sorriso che schiude le vostre labbra, vi ha già aggrappato col suo uncino. Le nebbie della stanchezza morale, i cinerei veli della indifferenza si sollevano, si dileguano, spariscono. Attorno a voi, tutto si agita, tutto si muove, tutto vive: ed è un’agitazione piena di fervor lieto, un movimento quasi giovanile e ridente, una vita fremente nella sua essenza di piacere. Le eleganti botteghe abbassano le loro tende, con lo strider dei ferri che le sostengono contro la crescente fiamma del Sole: e gruppi di avventori, di amici, di viandanti disoccupati, vi si fermano innanzi, chiacchierando vivamente in arabo con sonorità gutturali e pur dolci, dove la sillaba al mette sempre la sua mollezza, la sua liquidità, chiacchierando in greco con sonorità soavi musicali, chiacchierando in francese, con quel rapido cinguettìo di uccellini al tramonto. Arabi in grandi camicie candide, in camicie di cotonina azzurra, a piedi nudi, a gambe nude, corrono, col loro piccolo turbante bianco avvolto intorno al berretto messo di traverso, corrono, chiamandosi rincorrendosi, gridando, dialogando a distanza; turchi avvolti nella lunga tunica di seta a righe, incrociata sul petto e sui fianchi, tenuta stretta da una cintura che gira due volte intorno alla persona con un turbante più largo, più musulmano, vanno con nobile lentezza, ma i più stanno fermi, innanzi ai piccoli caffè; beduini vestiti di bianco e di nero, coi lunghi volti olivastri e i maliziosi occhi dolci sotto gli ondeggiamenti del mantello alzato sulla testa, calante sulla fronte, sotto un cordone di lana e di oro che lo stringe, passano rapidamente; donne fellah, tutte vestite di nero; con certi occhi pensosi e incerti, che spuntano di sopra al velo, vi urtano lievemente, sparendo cariche di roba, cariche della loro anfora di acqua; europei in abito europeo, ma col fez, vanno ai loro uffici egiziani; europei col cappello europeo si recano al loro lavoro europeo, ai loro affari fra orientali ed europei; inglesi in elmo di sughero e signore inglesi in elmo di sughero, anch’esse, coperte da sette od otto metri di mussolina bianca che pende da tutte le parti, attraversano le vie; preti greci in gran tuba nera, con gran barba brizzolata, con gli occhi un po’ estatici, quasi assorbiti, si recano alle chiese di lor fede; soldati inglesi, elegantissimi, di una correttezza squisita, si pavoneggiano superbamente, soldati egiziani, vestiti di bianco, col cinturino sullo stomaco, sono meno eleganti, ma non meno superbi; contadini vestiti in tutte le maniere egiziane, cioè con camicie, niente altro, di tutti i colori, entrano da tutte le porte del Cairo a vendere la loro merce; spacciatori di acqua fresca fanno tinnire, in suono molto melodico, due dischetti di ottone, uno contro l’altro; venditori di semi cotti al forno, venditori di albicocche, venditori di banane, venditori ambulanti di caffè, gridano la loro merce. E trascorrono carrozze europee, dove siede un pascià avvolto nel suo mantello candido, con una gran barba candida sul petto; carrozze dove si fanno trasportare i ricchi levantini vestiti da poole, tutti di apparenza inglesissima, salvo il fez: e cammelli carichi di mercanzie; e carretti lunghi e stretti, che hanno scaricato la loro merce e trasportano, ora, dieci o venti arabi, seduti da tutte le parti, con le gambe pendenti; e, infine da tutte le parti, asinelli i piccoli, i graziosi, i graziosissimi asinelli, dal manto bigio, dal manto marrone, dalla testina fine, dalle gambette fini, che corrono senza averne l’aria, che fuggono, portando addosso un grosso signore levantino, o un bimbo europeo, o un inglese vestito color nocciuola, o un arabo, la cui camicia si gonfia, pel vento, al trotto. Questi asinelli, questi bourichi sono la delizia del genere umano, al Cairo. Se ne trovano a ogni dieci passi, fermi lungo il marciapiede lastricato, mentre la via da percorrere non è lastricata: l’asinaio, per lo più, è un monello bruno, seminudo, dalle gambe sottili, come quelle del suo bouricho e la corsa che costa, in tariffa, venticinque soldi per gli stranieri e per gli ignoranti, ha degli accomodamenti a quindici soldi, persino a cinque soldi. In un minuto, la contrattazione fatta, il passeggero, diciamo così, salta sulla comoda sella araba, il piccolo asino fugge via, come un lampo, e l’asinaio vi si slancia appresso, con lo stesso passo, con la camicia che diventa un palloncino, per l’aria. Ed è, dappertutto, questo trotterellar rapido di asinelli, questo sgambettare di asinai, questo apparire e sparire dei piccoli animali intelligenti e instancabili, di questi arabetti fini e svelti come un dardo. Ah, se selciassero, mai, le vie del Cairo, e gli asinelli non vi potessero più trottare e ne dovessero sparire, una delle più leggiadre, delle più caratteristiche cose ne sparirebbe.

 

 

 

Dopo il meriggio, il movimento si raccheta. Le carrozze si fanno più rare; i cammelli hanno volto la testa verso le porte della città, per ritornare ai paeselli, ai borghi, d’onde vennero; i carretti si trascinano più pigramente; alcune botteghe sono chiuse; altre hanno abbassate le loro tende, completamente. L’ora caldissima incombe sopra il Cairo. Tutti fanno la siesta. Coloro che sono addetti allo inaffiamento inondano le vie coi loro grandi getti di acqua, dai tubi di caucciù. Nelle botteghe orientali resta solo qualche ragazzetto a custodirle: egli agita lentamente un ventaglio, contro le mosche. Gli asinai, stringendo mollemente fra le dita il loro frustino, si appoggiano sulla sella del loro bouricho, e dormono in piedi, a occhi socchiusi. Negli oscuri bazar turchi e arabi, nelle bottegucce in penombra, sotto gli androni dove non penetra il sole, ma penetra il calore, i turchi, con le mani stanche dai gesti molli, continuano a ricamare delle cinture di pelle, a pulire dei vecchi argenti musulmani, ma sonnecchiano. Nei palazzi signorili, dalle finestre tutte aperte, dalle tende tutte abbassate, dalle verande fiorite coperte di stoffe leggere multicolori, ogni cura minuziosa è spesa, perchè l’aria vi entri, più fresca, e non vi entri il sole: grandi e ameni giardini le circondano: i ventilatori vi agitano la poca aria: grandi zampilli di acqua irrorano i giardini: grandi fontane cantano nei larghi cortili. In quell’ora si fuma, si contempla, si sogna, si dorme. La contemplazione sonnolenta, quella che è il prestigio più bizzarro della vita d’Oriente, avvolge l’essere. Si odono tutti i rumori, ma attenuati e sordi: se un po’ di vento si fa sentire, subito se ne prova il refrigerio: il trillo degli uccellini è persistente, ma velato: il tintinnìo dei dischetti dell’acquaiolo, nota costante d’Egitto, sembra una musica leggera lontanissima: e, mentre non dormite, la vostra volontà dorme, talmente, che vi sembra di una difficoltà enorme, quasi impossibile, svolgere una sola pagina del libro dove leggeste due righe.

Ma, quando il sole declina, e, sotto il sussulto della ridesta fantasia, voi uscite per le vie del Cairo, il magnifico contrasto, in cui è riposta tutta la sua bellezza e tutta la sua fortuna, vi risulta, preciso e limpido. Giacchè essa è assolutamente europea e assolutamente orientale, insieme, e questi estremi non si urtano, ma si uniscono o si fondono, pur conservando i loro caratteri. I caffè, dai più grandi ai più piccoli, sono pieni di egiziani e di turchi, immobili innanzi a una tazzina di caffè, taciturni, anche quando sono in quattro o cinque, tenendosi un piede nella mano: accanto a loro, alcuni inglesi bevono il loro ale, in silenzio grave. Presso la bottega del confetturiere greco che vende i loukoumìs e le conserve di fragole, di arancio, di mastice, di cioccolata, vi è quella del pasticcere francese, piena di petits fours, di soupirs, di madeleines di babas; e la sigaretta, da quella che costa un centesimo alla squisita che ne costa sei, fumiga su tutte le labbra, dall’arabo seminudo al beduino snello e superbo, dal commesso livornese all’elegantissimo levantino, dal greco ciarliero all’inglese impettito. La vita crepuscolare, data al lusso, all’ozio, al piacere, vi dice quanto sia essenziale il contrasto, e quanto sia invincibilmente seducente. Sulla via di Ghesireh, che è la passeggiata alla moda del Cairo, che è il suo Bois de Boulogne, dopo aver attraversato cinque o sei strade aristocratiche, tutte fatte di ville e di villini, fra giardini grandi e piccoli, dopo aver varcato il ponte di Ghizeh, sul Nilo, lo spettacolo diventa sempre più vario, più bizzarro, più nobile. Qui, in un vasto prato che attornia una palazzina, due o tre famiglie inglesi giuocano al tennis, al crocket, mentre al limitare del parco un gruppo di giovanotti inglesi galoppa, lanciando i suoi focosi cavalli: e i servi neri aspettano, pazienti, tenendo al morso gli impazienti cavalli di ricambio: piccoli breacks passano, carichi di bei ragazzi, di bambinaie, di governanti. Più innanzi, la passeggiata di Ghesireh vede trascorrere gli equipaggi più correttamente viennesi e londinesi, dove le belle signore di Levante mostrano le loro vesti di un gusto squisito, forse troppo vistoso: un sais le precede. Il sais è una delle istituzioni del lusso egiziano, più simpatiche. Questo sais è un arabo, per lo più, scelto fra i più belli, fra i più perfetti di forme, agilissimo, vestito di lievi mussole bianche, con una giacchetta rossa o azzurra, tutta ricamata d’oro: egli ha un berretto anche ricamato d’oro e circondato di mussola bianca, un corto sciabolotto attaccato alla cintura di metallo, e nelle mani una mazza lunga e sottile. È scalzo, naturalmente. Correndo, fuggendo, egli precede sempre la vettura aristocratica, facendo far largo, e le sue gambe corrono più dei cavalli, le mussole bianche si agitano al vento: egli ha l’aria di volare. Quando i padroni lo comandano, egli sale in serpa: talvolta, si attacca dietro alle balestre della vettura, in una posa fiera e non curante. Anzi, dietro uno stage, vi erano due sais, immobili, così, fantasticamente belli, bruni nel bianco, scintillanti d’oro, pronti a saltare, a correre, a volare. Poi, per la via di Ghesireh, sempre delle amazzoni, dei bei soldati inglesi col minuscolo berretto messo di traverso, per civetteria, dei tiri a quattro e qualche carrozza musulmana, chiusa, con una signora tutta velata, dentro, e ancora dei somarelli, che corrono verso i villaggi vicini: e più lontano, lento, instancabile, l’ondeggiamento del dromedario, che se ne va verso l’orizzonte. Un suono di chitarra — è una chitarra? è una guzla? — viene da una piccola osteria: suono gutturale e triste, malgrado il suo trillo. Da un grande albergo in costruzione o ricostruzione sul Nilo, Ghesireh Palace, escono centinaia di muratori arabi, a frotte, grossi e piccini. In un campicello, un turco, buttato giù, saluta la Mecca e il Profeta per la quarta o la quinta volta, nella giornata. Qua e , nei caffettucci, si ode rumor di bottiglie di gassosa, stappate. Delle etère di tutte le nazioni si fanno trasportare, in carrozza, fra i palmizi e i bianchi elek. Il sole tramonta, d’un tratto solo: un fresco, prima delicato, poi vivissimo, vi ferisce. Appaiono dei mantelli bianchi. Le carrozze, le amazzoni, i cavalieri, van più lenti. Se si guarda bene, innanzi a , si vedono, lontano, le Piramidi.

 

 

 


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