Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Addio, Amore!
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PARTE PRIMA

V.

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V.

 

Cesare Dias proteggeva le assiduità del suo giovane amico Luigi Caracciolo, presso la sua pupilla Anna Acquaviva. Le proteggeva correttamente, con quella fine e giusta misura che egli adoperava in tutte le cose, senza aver l'aria del padre che vuole assolutamente maritare una sua figliuola e che accarezza il fantasima di qualunque matrimonio.

In verità, cresceva in lui il desiderio di maritarla, di togliersi l'increscioso pensiero di quella sorveglianza, di affidare ad altri, a chi ne avesse più diritto, a chi potesse esercitarla molto meglio, di cedere a un marito, infine, la protezione di quell'anima debole e fragile, già infranta nel dolore una prima volta e minacciante sempre di ricadere in un dolce errore. Per tanti sintomi che non isfuggivano al suo occhio sagace, lo teneva una continua segreta inquietudine sulle rivoluzioni che potevano accadere nel cuore di Anna. È vero, però, che ella, tenuta continuamente da lui in un ambiente di pace e di freddezza, sempre corretta da lui ogni volta che la morbida fantasia, che il generoso cuore la facevano dare in un'esclamazione, in una frase, in un singhiozzo subito represso, sempre dominata col sarcasmo, con lo sguardo severo di chi si meraviglia e si dispiace che una malattia morale sussista ancora, sempre respinta da una parola mordente, da un cenno di disdegno che la sola pietà temperava, è certo, dunque, che Anna aveva molto cangiata la sua apparenza, il suo modo di vivere, tutta la manifestazione del suo pensiero e del suo sentimento.

Un senso di tenera obbedienza, una rassegnazione senza dolore, una umiltà affettuosa trapelava da qualunque cosa ella facesse o dicesse.

Si vedeva che ella spiava tutti i modi per riescire gradita, pur sacrificando tutto quello che era stato, un tempo, la sua idolatria; si scorgeva che ella studiava la forma e la sostanza del proprio discorso, e che si immergeva nel silenzio, quando proprio le tranquille e perverse teorie di Cesare Dias la ferivano mortalmente. Questo, egli chiamava darle un cuore di bronzo, avvezzarla a tutte le asprezze, a tutte le delusioni, elevare il suo spirito in una regione alta e sterile, dove fosse finito ogni entusiasmo, ma fosse anche finita ogni sofferenza: e bene spesso, quando egli faceva l'esperimento di sentirla vibrare unisonamente a quanto le diceva, Cesare Dias si gloriava dell'opera propria come un novello creatore, come colui che ha trasformato il metallo più indocile, più refrattario, quello dell'anima umana. Ma non era tranquillo. Tanta docilità, tanta obbedienza, espressioni passive di una volontà piegata, domata, gli davano sospetto: e si metteva a chiedere a se stesso, se la fanciulla non fosse un mostro d'iprocrisia, se ella non fingesse da mattina a sera, chi sa perchè, bruciando dentro, mentre era placida e calma di fuori, nascondendo Dio sa quale disegno, mentre di fuori misurava finanche le parole.

Ma non era stata sempre un tesoro di lealtà, la sua vita? Ma non aveva ella peccato di troppo oblio, di troppa magnanimità? No, non era possibile. Cesare Dias conosceva assai bene la natura umana, quella cattiva e quella buona, per credere che si potesse cangiare l'intima essenza di uno spirito, e che potesse diventare ipocrita chi non aveva mai mentito. Eppure, non poteva essere tranquillo. Quale ragione profonda, potente, che egli ignorava, di cui egli dubitava, a tratti, quale causa segreta e fortissima aveva indotto Anna Acquaviva a piegare il suo temperamento, il suo carattere, a vincere l'entusiasmo, a velare il tono della voce, a frenare le lagrime che volevano sgorgare, a dir di sì, sempre sì, sempre, anche quando le più semplici o le più care idee, sue del passato erano contraddette? Quale mano invisibile, lentamente, ogni giorno aveva cancellata una riga dal libro del passato, fino a che ella niente più vi potesse leggere, e che dovesse cifrare la sua novella vita dal giorno in cui era fuggita a Pompei?

Ah no, no, Cesare Dias non era rassicurato; conosceva la forza della propria volontà, sapeva quale era il proprio dominio sopra altrui, misurava anche tutte le speciali condizioni di dolore, di vergogna, di infermità fisica in cui aveva ricominciata l'educazione di Anna Acquaviva: ma non bastava. Vi era qualche altra cosa.

Di Laura non si preoccupava: la bellissima e saggia Minerva si sarebbe maritata, se voleva, dopo, quando le piaceva, con chi le piacesse: egli era certo che Laura avrebbe fatta da una buona scelta. Egli era del parere di tutti gli uomini di quarant'anni, che quando vedono una fanciulla di venti, dicono: bisogna maritarla. Ma Anna Acquaviva era un carico così pesante d'anima, che solo il matrimonio poteva dare al tutore la libertà.

Così, gentilmente, sempre che poteva farlo senza dare nell'occhio, Cesare Dias portava Luigi Caracciolo dalle ragazze. Qualche volta, in teatro: qualche volta, quando le incontrava, passeggiando a piedi, alla Villa, dov'egli sapeva che esse andavano e dove si faceva trovare così per combinazione; insieme qualche volta, in un concerto o in qualche rara festa, dove le fanciulle intervenivano se una loro lontana parente, una marchesa Sibilia, una siciliana, le poteva accompagnare. Coglieva l'occasione sempre: appena Cesare Dias si accostava alle fanciulle Acquaviva, in pubblico, si poteva esser certi che dopo due minuti appariva il biondo e bello Luigi Caracciolo. Era, certo, una tacita intesa fra quei due, una cosa forse neppure detta, ma fatta così semplicemente, così naturalmente, che non si prestava a pettegolezzi. E d'altronde non era lodevole Cesare Dias, di voler bene maritare una sua pupilla?

Anna aveva l'aria di non accorgersene. Quando il suo tutore appariva, presentandosi alle ragazze con quella fine eleganza di modi che era una delle sue seduzioni, ella lo accoglieva con un sorriso luminoso, stendendogli la mano, fissandolo con gli occhi brillanti di gioia, stando a sentire quello che ei diceva, e da tutto il suo contegno trapelava una benevolenza umile, di essere inferiore, che un incontro, un saluto rendono felice. E quando arrivava Luigi Caracciolo, francamente essa gli stendeva la mano, parlava con lui un poco, conservando, senz'alterigia, una grande distanza. Anche lui trattandosi di signorine che conosceva da poco, si teneva riservato, pur volendo mostrare, come aveva, un certo spirito, una certa coltura: e si scorgeva, osservando finamente, che egli portava Anna su certi soggetti favoriti, dove egli poteva sfoggiare quello che sapeva, e dove Anna poteva dirgli la sua opinione in proposito. Ma le conversazioni, anche, erano così brevi! Al teatro in un intervallo: alla Villa, in una passeggiatina su e giù, di dieci minuti; in un ballo, la durata di una quadriglia; e sempre presente o Laura, o Stella Martini, o la zia Sibilia; e sempre presente, o sorvegliante da lontano, il tutore Cesare Dias. Il discorso non diventava mai molto serio, restava nei limiti della graziosa frivolezza mondana. La relazione fra Luigi Caracciolo e Anna Acquaviva era quella comune alla gente aristocratica, che salvo casi eccezionali, salvo rari amori prepotenti, si fonda sopra la mutua convenienza e sopra una incipiente simpatia. La rigorosa regola nobiliare inibisce ogni colloquio, ogni intimità, ogni abbandono dello spirito, ma bene spesso, se non è un inganno il valore della fortuna annunziata, è un inganno reciproco, una reciproca inconscia illusione, in buona fede, sul proprio carattere. Ma anche le donne di gran sangue hanno più modo di sopportare la freddezza coniugale: han la forma levigata, che le salva dal mostrare le loro tragedie: hanno soccorsi ed aiuti morali dalla ricchezza, dalle distrazioni. La corte di Luigi Caracciolo ad Anna Acquaviva era dunque fatta come tutte le altre, nel loro principio, vale a dire in una forma così mite, così poco noiosa che poteva esser tollerata anche se non piaceva, e che poteva esser subito dimenticata, se il presunto fidanzamento non accadeva.

Lentamente, però, nel carnevale, la corte di Luigi Caracciolo si venne così accentuando, che egli ebbe proprio l'aspetto dell'uomo innamorato: compariva dovunque andassero le ragazze, immancabilmente; non si scompagnava da loro, che quando non era più possibile di starvi insieme; e pareva che inventasse tutte le combinazioni per poter vedere quasi ogni giorno le due fanciulle.

Volontario o involontario, Cesare Dias era complice di Luigi Caracciolo. Costui, adesso, s'ingegnava di entrare più in intimità con Anna: se ella parlava di un libro, glielo mandava, con un bigliettino, e segnava col lapis alcuni brani più sentimentali del libro e, dopo, ne domandava il parere alla fanciulla: se ella nominava un'amica d'infanzia, egli voleva sapere tutti i particolari di quell'amicizia con quell'interessamento che tutti gli innamorati prendono per le più semplici cose della donna che amano: e in fondo a tutto, poi, vi era una pungente curiosità di conoscere qualche cosa del primo amore di Anna Acquaviva. Egli aveva inteso dire, così, vagamente, che ella aveva avuto una grande passione infelice e che, dopo, una malattia l'aveva messa in pericolo di morte.

E di fatti a certi pallori che improvvisamente egli vedeva diffondersi sulla faccia di Anna, a certe intonazioni di voce mentre parlava, a certe parole che, pronunziate da qualcuno, pareva la facessero partire per il paese dei sogni, egli vedeva che una immensa scossa aveva subìto l'anima, avean subìto i nervi di Anna. Ah, ella aveva avuto il suo segreto, con quegli occhi così pieni di visioni, con quell'istantaneo e fugace tremolìo delle labbra, con quel suo silenzio profondo. No, non voleva discorrerne e il bel Caracciolo, che aveva molto spirito e molta finezza, ci si ostinava, ci si irritava, quando si nominava l'amore: e il suo animo si rivelava, allora solo si vedeva che egli era innamorato, non molto, alla sua maniera, ma innamorato. In quanto ad Anna, qualunque accenno al passato, massime se fatto in presenza di Cesare Dias, la turbava, la faceva trascolorare. Spesso si allontanava, quasi che non potesse reggere a un'impressione troppo forte: o se era lieta, la sua allegrezza scompariva, una tetraggine invincibile vi succedeva, o se l'allusione era troppo trasparente, gli occhi le sfavillavano di sdegno, tutto il suo viso si serrava chiuso nell'offesa, e non era possibile più di strapparle una parola. Ma se era invece Cesare Dias che faceva allusione a un amore, a una delusione, al crollo di una speranza, alla follia della passione, allora essa, chinando gli occhi, taceva, ascoltando tutto, rassegnatamente, senza dar segno di dolore, di collera. S'intendeva che ella considerava Cesare Dias come il suo giudice naturale e che da lui solo, in qualunque ora della vita, avrebbe tutto sopportato.

Luigi Caracciolo, che era acuto, vedeva bene tutto questo e, tormentato dalla curiosità, talvolta, aveva lealmente chiesto a Dias di che si trattasse. Costui, con quel suo sprezzo di tutte le sciocchezze umane, gli aveva ripetuto, che sì, sì, Anna Acquaviva aveva avuto dell'interesse – è la parola degli uomini corretti – per un giovane, un bravo giovane, che del resto si era condotto come se fosse un gentiluomo. E perchè non era stato possibile il matrimonio? Il giovane era povero. E la ragazza lo aveva molto amato? Mah... un'esaltazione, una fantasia, ciò succede alle ragazze un po' vivaci, intelligenti. E adesso, lo aveva dimenticato? Sì, perfettamente dimenticato.

Questo dialogo, per poco, appagava Luigi Caracciolo: ma sentiva che non era quella tutta la verità, e che solo Anna Acquaviva gliel'avrebbe detta, chiedendola. L'aveva apprezzata leale. E quando si trovavano insieme, sempre, veniva in mente a Luigi di chiederle del suo amore passato: la domanda gli bruciava le labbra. Ma, per riguardo, la respinse sempre.

Però, con tutto questo, le assiduità di Luigi Caracciolo erano diventate così chiare e Cesare Dias aveva tanto il contegno di un vecchio parente che, sempre serbando la massima dignità, favorisce un fidanzamento di fanciulla, che non riesciva più ad Anna fingere di non saperne nulla. Talvolta, quando il suo tutore si presentava, a braccetto di Luigi Caracciolo, Anna diventava nervosa, fissava Cesare Dias con un'espressione vivissima di interrogazione, quasi volendogli dire: ma perchè fate questo? Egli aveva l'aria di trascurare questa muta domanda di Anna: egli sentiva bene che per arrivare al suo scopo, gravi sarebbero stati gli ostacoli da superare e che convincere Anna a sposare Luigi Caracciolo era voler prendere una fortezza inespugnabile. Ma con la sua ostinata volontà contava di vincere. Non vedeva forse l'umiltà di lei? Non la vedeva chinar gli occhi e abbassar la voce, non era forse anche il cuore che s'inchinava così? Non sembrava adesso ella fatta di una docile cera, dove la mano dello scultore potesse mettere la sua impronta imperiosa? Soltanto... egli non era certo che Anna avrebbe obbedito in questione di amore, di convenienza matrimoniale. Ella si sarebbe certo ribellata; anzi, già si ribellava. Con una irritazione latente, intravvedendo le intenzioni di Luigi Caracciolo, fremendo di collera interna quando vedeva che queste intenzioni erano approvate da Cesare Dias, ella si sfogava trattando Caracciolo con quella scortesia che è sempre pronta all'attacco, che non ammette difesa e con cui le donne crudelmente avvelenano quelli che esse non amano. Lo contraddiceva, spesso, per partito preso: se egli parea sentimentale – egli era spesso sentimentale, alla sua maniera, con un fondo di sensualità, – ella diventava ironica, diceva dei paradossi contro il sentimento, prendeva a prestito dal suo tutore il lieve, ma pur doloroso flagello del sogghigno: la voce si faceva aspra ed ella sembrava cattiva. Sempre amabile, Luigi Caracciolo finiva col darle ragione, ma si vedeva che lo faceva obbedendo a un senso interno di affetto. Egli aveva l'aria di sentire il torto di lei e di darle ragione, solo perchè era donna, perchè era una cara persona che gli piaceva moltissimo.

– Voi approvate per compiacenza: che debolezza! – diceva lei, arrabbiata, come si arrabbiano ingiustamente e scortesemente le donne, con gli uomini che esse non amano.

E il piccolo sorriso del bel Luigi Caracciolo che diceva esser vero ciò e che soggiungeva esser graziosa la debolezza con le persone a cui si vuol bene, la seccava assai. Come tutte le anime che portano in una gran parola segreta, Anna desiderava che tutto intorno ad essa si armonizzasse col suo pensiero dominante; e quando tutto intorno le era contrario, un profondo rancore la faceva diventare tetra, e la persona che riassumeva in questa contraddizione, colui che con la sua presenza, co' suoi discorsi combatteva, inconscio, l'eterna idea di Anna, le diventava odioso. Costui era Luigi Caracciolo. Pareva ritrosia di fanciulla; ma poteva anche sembrare, a volte, una vivace antipatia. Finì per osservare Cesare Dias, che aveva l'occhio acuto, e che, senza darlo a divedere, sorvegliava la coppia: due o tre volte quando Anna aveva cercato di evitare la più semplice conversazione o un ballo di più, trattando Caracciolo con assai scarsa cordialità, egli aveva notato ciò, e solo un piccolo aggrottamento di sopracciglia aveva indicato la sua noia. Un giorno però, che ella aveva voltato le spalle a Caracciolo, in un concerto, Cesare Dias, uscendo le disse:

– Avete trattato assai male Caracciolo, Anna.

– Non mi parediss'ella, fremendo pel tono duro delle parole e più pel senso che contenevano.

Pare a me – disse lui, recisamente. – Vi prego di non farlo più.

Obbediròmormorò ella.

Ma per varii giorni fu di un umore atroce. Laura, che seguitava a dormire nella stanza di lei, udì che ella sospirava, la notte, anche nel sonno. Due o tre volte, un po' inquieta, le aveva chiesto che avesse: e malinconicamente, intenerita dalla domanda, Anna aveva risposto:

– Non ho niente, niente: dormi in pace.

Quando rivide Caracciolo, lo trattò con una esagerata dolcezza, in cui quasi quasi si rivelava lo sforzo di essere amabilissima. Egli prese tutto per moneta contante: ma Anna, ogni tanto, si voltava a Cesare Dias come se egli fosse il suo suggeritore, per prenderne la parola. E dopo tre o quattro incontri, in cui ella aveva caricato le tinte della sua cortesia, ne chiese a Dias trionfalmente:

Va bene così?

– Di che? – domandò lui, distratto.

– Il modo come tratto Caracciolo.

– Avete bisogno di approvazione? – chiese lui, meravigliato. – Quello è un obbligo di cortesia.

– Siccome mi avevate detto... – balbettò lei, umilmente.

– Vi ho detto qual era il dovere di una fanciulla costumata, ecco tutto.

Ella chinò il capo, contrita. Aveva fatto quello sforzo di dolcezza per piacere a lui, Cesare Dias, e Cesare la trattava così male! E non potendo contro lui aver neppure un minuto di collera, neppure un minuto di reazione, tutta la sua antipatia nascente per Luigi Caracciolo crebbe e si sviluppò in poco tempo. A farlo apposta – non era forse un motto d'intesa? – tutti quanti ne elogiavano la simpatia, la posizione, e quel senso più profondo d'intelligenza che lo rendeva superiore ai giovani della sua classe. Luigi Caracciolo pensa questo, Luigi Caracciolo dice quest'altro, Luigi Caracciolo viene oggi: perchè non è venuto Luigi Caracciolo? Sua sorella istessa, così taciturna ed estranea a tutte le vicende umane, Stella Martini, la zia marchesa Sibilia e quanti altri pochi ella vedeva, infallibilmente, le parlavano di lui. Ella levava le spalle, senza rispondere. Taceva, il suo silenzio era una concessione; ma tacendo si capiva che pensava delle cose spiacevoli. Però quando era il suo tutore che nominava Caracciolo, vantandone l'eleganza, non solo, ma anche una certa serietà di condotta, allora ella diventava nervosissima; lo guardava meravigliata che potesse dire bene di un personaggio volgare e antipatico, e sorrideva d'ironia, vedendo che Dias ne seguitava a parlare con gravità. E un giorno, presa da una vivace impazienza, non sopportando più questa lenta imposizione che le veniva fatta, ma non sopportando specialmente che Dias, a lei proprio, proprio lui, le vantasse un altr'uomo, volle dire qualche cosa:

– Ma lo prendete proprio sul serio? – chiese a Dias.

– Chi? Caracciolo?

– Già, Caracciolo.

– Io prendo sul serio ogni uomo, quando lo merita: e me ne intendo, ve lo assicuro.

– Non voglio contraddirvi: – diss'ella pianamente – ma non è questa la mia opinione.

– Voi avete un'opinione, in proposito? – egli riprese, con una velatura di disdegno.

Sissignore, ne ho una anch'io.

– E perchè?

Mah... così.

– Le opinioni delle ragazze non contano, mia cara. Siete molto intelligente, non vi è dubbio: ma non capite niente.

– Ma insomma – esclamò ella, turbata assai – volete persuadermi che Caracciolo è una persona di talento?

– Sì – disse lui.

– Che è una persona di cuore?

– Sì – replicò lui, seccamente.

– Che è simpatico, infine?

– Sì – egli ribattè per la terza volta.

– Ebbene, ebbene – ella disse, sconvolta – io lo trovo sciocco di mente, arido di cuore e spesso ridicolo nei modi. Nessuno mi convincerà del contrario. Quello è una bambola, non un uomo. Così fosse un uomo. Queste cose le intende anche un ignorante.

Trovo inutile d'insistere su ciò, mia caradisse Cesare Dias, diventato un po' pallido, ma serbando una apparenza glaciale. – Io non ci entro. Io non ho bisogno e non m'importa affatto di convincervi, su nulla. Pensate quel che volete, di chiunque; non è compito mio di raddrizzare la vostra fantasia. Vi avverto che ho ancora, a vostra disposizione, una quantità d'indulgenze per molte stravaganze; ma che, fra tanti, un gran difetto trovo imperdonabile: l'ingratitudine. Avete inteso? Io detesto gl'ingrati.

– Ma che volete dire? – esclamò lei, angosciata.

– Null'altro: buona sera.

Voltò le spalle e se ne andò. Stette dieci giorni senza riapparire in casa Acquaviva. Non aveva mai mancato per tanti giorni, quando stava in Napoli. Stella Martini, non vedendolo, ingenuamente, mandò a chiedere sue notizie. Cesare fece rispondere dal suo cameriere, senza neppure scrivere lui una riga di risposta, che egli stava benissimo in salute, che ringraziava della premura. In realtà era furioso che nella prima scaramuccia con Anna a favore di Luigi Caracciolo, costei lo avesse battuto; furioso non solo per il suo amor proprio offeso, ma perchè quel piano di matrimonio si andava dileguando. Ma andate a giuocare di finezza, con una giuocatrice di audacia e di abbandono, come Anna Acquaviva! La sua collera era mescolata di vivaci sospetti, ancora confusi, ma sempre più vivaci, poichè era impossibile che la condotta di Anna non avesse un movente segreto; ed egli arrivò persino a dubitare, che ella fosse ancora innamorata di Giustino Morelli.

Intanto, saggiamente, si asteneva dall'andare in casa Acquaviva, sapendo che con tutte le donne, tranquille o stravaganti, il metodo dell'astensione è sempre efficace. Difatti Anna si era immediatamente pentita di quello che aveva detto, non perchè non fosse la verità, ma perchè sentiva di aver offeso Cesare Dias, forse assai profondamente. Ma come poteva fare, come poteva fare, Signore? forse che ella non aveva capito qual'era l'intenzione del discorso di Cesare Dias, forse che ella poteva tollerare da lui, proprio da lui, una simile intenzione? Fino a che aveva potuto, per non dispiacergli, per non dargli di ancora una pessima impressione, ella aveva sopportato quel Luigi Caracciolo. Ma ora! Ma ora che aveva dovuto udire dalla bocca di Cesare Dias istesso l'elogio di Luigi Caracciolo, ora che per costui ella aveva dovuto litigare con la sola persona innanzi alla quale si sarebbe inginocchiata, anima e corpo, ora non pareva più possibile affidarsi al tempo e tutto doveva decidersi subito.

Pure, l'assenza sprezzante di Cesare Dias le cagionò una cocente amarezza. Il suo pentimento, la sua mansuetudine si mantennero profondi nei primi giorni, in cui egli non si lasciò vedere, sentendo, riconoscendo ella di aver avuto torto, nella forma. Avrebbe dovuto tacere, quando aveva udito nella sua voce fremere lo sdegno: e invece, incauta, superba, aveva levato la testa e la parola, per offenderlo! Nei due primi giorni, massime nelle lunghe ore di veglia notturna all'oscuro, soffocando i sospiri, perchè Laura sua sorella non udisse, mille volte ella pensò di scrivergli due parole per chiedergli perdono, ma subito dopo pensava che forse lo avrebbe così irritato maggiormente; e intanto, mentalmente, si umiliava innanzi a lui, gli domandava quel perdono, sempre, come fanno i bimbi, nel pianto. Credeva, sperava che sarebbe ritornato e calcolava di andargli incontro, mentre entrava, di stringergli la mano e di dirgli una leale parola di scusa: non aveva ancora misurato, che cosa potesse essere la silenziosa vendetta di lui.

Egli non venne. E allora in Anna un sordo dolore si sovrappose alla sua contrizione, il dolore continuo dell'assenza che punge come un tribolo e che niente viene a calmare, poichè tutte le cose umane ricordano quell'assenza: un sordo dolore che finì per convertirsi in una smania segreta, che la faceva trasalire a ogni rumore di campanello, a ogni vettura che si fermava nella strada. Ella non aveva più requie. In se stessa lo accusava d'ingiustizia, osava dire altro. Perchè era così ingiusto con lei, che viveva soltanto, dal fatale giorno di Pompei, per ubbidirgli, anima devota, anima schiava? Perchè punirla così, lei che aveva riconosciuto solo la nullità di un Luigi Caracciolo? Ogni ora che trascorreva aumentava le sue tribolazioni, tanto più che non aveva un cuore in cui sfogarsi, un petto su cui piangere: e nel riserbo in cui si manteneva, non osava neppure osservare, che Cesare Dias non veniva da varii giorni. Solo Stella Martini, due volte disse:

– Il signor Dias non si vede... sarà occupato.

– Forse – rispose distrattamente Laura.

– Forse – rispose con voce fievole Anna.

Ma null'altro. E dentro intanto si sentiva consumare dall'inquietudine, dalla pena, dal sospetto, dalla gelosia. Sì, dalla gelosia! Non aveva mai pensato che anche la vita di quell'uomo doveva avere il suo segreto d'amore, lungo o breve, frivolo o profondo, come lo ha ogni uomo, per un mese, per un anno, per dieci anni: come lo deve avere specialmente un uomo ricco, disoccupato e forte, come Cesare Dias; non ci aveva mai pensato, ingenua, sciocca, quasi che le altre donne non esistessero, quasi che molte non meritassero di essere amate, quasi che egli non fosse degno della più bella! Adesso, nell'amarezza dell'assenza che non ha conforto, questo pauroso pensiero era sorto, e nelle agitate cogitazioni si ripresentava così cruccioso, in certi momenti, che le pareva insopportabile.

Era mai possibile che in quel mondo di belle donne eleganti e disoccupate, egli non avesse una donna che amava, ove forse andava a passare le ore di cui non dava conto, dove forse, oh Dio, passava queste intere giornate, in cui non si lasciava più vedere? In capo ad una settimana il movimento psicologico di Anna era così tumultuario, vi si agitavano turbinosamente tanti sentimenti, che ella sentì di nuovo che la sua testa si smarriva, come quando aveva voluto fuggire con Giustino Morelli. Come allora!... Più di allora!

Allora non aveva mai conosciuti i brucianti affanni della gelosia, che guastano per sempre ogni purissima gioia dell'amore; allora colui che ella amava, aveva per lei una devozione così assoluta, che ella non aveva mai il senso della gelosia, amaro come il fiele, di cui coloro che amano veramente, non si guariscono mai. Ma chi era, dunque? Di quale donna si trattava? Quale era la persona che lo attraeva così profondamente da fargli dimenticare la sua fanciulla? La contessa d'Alemagna, forse! non ne aveva Anna inteso parlare, così, riservatamente, qua e , ma sempre con una vaghezza di notizie? Ma doveva esser lei, proprio lei, la bruna vivace con degli occhi azzurri, dalla carnagione fiorente di giovinezza, dai vestiti eleganti nell'originale audacia, lei, una incantatrice irresistibile! Ahimè, la povera Anna, negli otto giorni di assenza di Cesare Dias, conobbe tutte le fasi della ingenua speranza e della ingenua disperazione, della gelosia torturatrice che avvilisce e che esaspera, tutti i combattimenti di chi è prima in lotta con se stesso, poi con le cose che lo circondano e con le persone che sembrano nemiche, come le cose. Egli non veniva, non veniva, forse non sarebbe venuto più. Glielo aveva detto: egli detestava gli ingrati. Ingrata, lei! Ma doveva dunque ringraziarlo, poichè egli voleva maritarla a Luigi Caracciolo? Ingrata, lei, è vero? Tre o quattro volte si era seduta al tavolino per scrivergli una lettera, dicendogli di ritornare: ora scriveva un semplice bigliettino, tutto timido, ora una lunga lettera passionale, piena di bizzarrie e di contraddizioni, dove la parola amore non era certamente scritta, ma dove si leggeva in qualunque altra parola: ora era una lettera d'amore, breve e rude: ma tutte queste varie forme, in cui si sfogava la sua passione e il cruccio di non vedere Cesare Dias, finivano per sembrarle o sfacciate, o frivole, o inefficaci: ed ella lacerava tutto, disperata, non sapendo più che mezzo adoperare per ricondurlo in casa Acquaviva. Fu ella che suggerì candidamente a Stella Martini, che mandasse da Dias a chiedere notizie: e la secca risposta che Dias era in Napoli e che stava bene, la fece gelare; fu ella che cercò di uscire, di andare in qualche posto, dove potesse incontrare Cesare Dias. Laura preferiva, spesso, restare a casa, leggendo un libro, o lavorando a una bellissima tovaglia di altare, di trina che imitava l'antica, od occupandosi del governo di casa, ciò che faceva da quando era stata malata Anna: e Anna usciva sempre con Stella Martini, quasi fosse stata presa, a un tratto, da una feroce smania di veder gente. Giusto, in un pomeriggio di febbraio, incontrarono Dias, a piedi, per il marciapiede di via Caracciolo. Ella si fece pallidissima e si fermò, decisa a non lasciarlo passare avanti.

– Oh come state?... bene, nevvero? – gli chiese, tremando.

Benissimodisse Cesare Dias, con un lieve sorriso.

– Non vi abbiamo visto più – soggiunse Stella Martini che lo rispettava profondamente, perchè egli le usava una quantità di riguardi.

– ... non mi paredisse lui, con aria sbadata.

Mancate da varii giornimormorò Anna, guardandolo negli occhi.

Varii?

– Otto giorni.

– Otto? Sono proprio otto? Ne siete sicura?

– Li abbiamo contati – ella soggiunse, voltando la testa in , come se volesse guardare il mare.

        Grazie della cortesia – e s'inchinò galantemente.

Ella si sentì punta dalla parola e dal gesto.

– Non è per cortesia, è per affetto..., è per gratitudineaggiunse, fissandolo.

Beneapprovò lui, con finezza. – Vi mettete sulla buona strada. Verrò domani a trovarvi.

E con la sua solita correttezza, si allontanò, non volendosi fermare per molto tempo con quelle signore. Stella Martini e Anna proseguirono verso Mergellina, camminando un po' più presto, quasi quell'incontro avesse loro ridata l'allegria. Ella andava vivamente, guardando il mare, con un indefinito sorriso sulle labbra, con un lieve colorito che le saliva alle guance pallide, ravvivandole. Stringeva le mani nel manicotto: non aveva egli stretto una di quelle mani, prima di separarsi da lei? Non parlavano, ma giunte a Mergellina, tornarono indietro, pian piano, poichè ella sperava d'incontrarlo un'altra volta: era l'ora della passeggiata. Difatti lo incontrarono di nuovo, ma in carrozza; era salito sopra l'alto carrozzino di fabbrica viennese, elegantissimo, che Luigi Caracciolo guidava maestrevolmente.

Anna Acquaviva li vide venir da lontano, rapidamente: salutò e sorrise, ad ambedue, con un sorriso così luminoso di persona felice, che Luigi Caracciolo lo prese per e sferzò più lietamente i due alti cavalli che facevano la trottata, quasi danzando: e Cesare Dias ne fu contentissimo, perchè quel sorriso gli parve il compimento delle parole dette da Anna. Ed essa, quando Stella Martini, arrivate che furono al largo della Vittoria, le chiese se voleva ancora passeggiare, rispose di no, che voleva ritornare a casa. Lo aveva visto, gli aveva detto che lo aveva aspettato con ansia, aveva ottenuta da lui la promessa che sarebbe andato a casa Acquaviva il giorno seguente: lo aveva incontrato di nuovo, gli aveva sorriso; questo doveva bastarle, non doveva chieder troppo alla Provvidenza, in un sol giorno. Anna se ne andava a casa, contenta quasi che avesse riacquistato un tesoro: eppure egli era stato freddo, disdegnoso, Cesare Dias! Ma che importava ad Anna Acquaviva? Lo aveva riacquistato: ecco tutto. E purchè ella potesse godere un'altra volta della cara presenza, purchè ella potesse udire la sua parola, sedendo presso a lui, interrogarlo, rispondergli, purchè egli venisse ogni giorno, a quella tale ora ed ella potesse fingere a se stessa, che quell'ora le fosse personalmente consacrata, non importa, non importa! Certamente era stato un caso averlo incontrato, e se quel caso benedetto non fosse avvenuto, potean forse passare quindici giorni, senza che egli riapparisse: certamente, Cesare Dias, non vi aveva messo nulla di suo, a passeggiare per via Caracciolo, giusto in quell'ora che Anna vi era: certamente lei e Stella Martini lo avevano quasi pregato di ritornare: ma tutto questo gli rassomigliava tanto, era così tutto lui in quella condotta, che Anna si contentava, pensava che era già una gran fortuna aver procurato quella pace, senza bisogno di lettere.

Ella benediceva il caso, e la giornata, e la dolcezza di quel pomeriggio di febbraio, in cui lo aveva riveduto, anche se aveva dovuto udire la stessa voce un po' sarcastica, puntata dallo stesso sarcastico sorriso. Stella Martini le parlava; ma ella rispondeva a monosillabi, sorridendo, chinando il capo, simile a colui che si porta in una felicità segreta e sorride dell'inconscio mondo.

Così Anna discendeva, nell'amor suo, in quello stato crescente di adorazione, in cui basta la sola persona amata, per far trasalire di gioia un'anima: stato di adorazione in cui la persona amata può esser tutto, cattiva, perversa, indifferente, disprezzante; può avere nel suo aspetto, nella sua voce anche l'odio, non importa, non importa, purchè venga, purchè si degni di farsi vedere, purchè si degni di farsi adorare! E quando un'altra voce, ahimè, molto fioca, le andava ripetendo, quasi a intorbidarle la felicità di quell'ora, che, infine, egli era molto disdegnoso, molto indifferente, preso da altri interessi morali, non dando nessun peso alle sofferenze taciturne di Anna, anzi disprezzandole, ella crollava il capo, già vinta, già legata per sempre, mormorando fra la parola della dedizione:

– Egli è così.

Egli era così e così bisognava accettarlo, poichè nulla al mondo lo avrebbe mutato e poichè sarebbe forse male che si mutasse. Egli era così, assai diverso da quanti ella aveva conosciuti, tipo solitario, pensante e vivente un pensiero e una vita morale opposta a quella di Anna. Accettarlo così: o perderlo.

– Stava bene, il signor Diasdisse Stella Martini. – Verrà domani...

Domani, sì – soggiunse Anna sorridendo.

– La sua assenza mi dispiaceva tanto.

– ... anche a me.

– Voi gli volete bene, è vero? – domandò ingenuamente Stella Martini.

– ... sì – fece Anna, dopo una esitazione.

– Egli è buono... in fondo... malgrado quelle cose che dice... – osservò la damigella di compagnia, nella sua bonarietà.

– Egli è così – mormorò Anna, con un gesto della mano che accennava al fatto compiuto.

Quando rientrarono a casa, Laura osservò subito l'aria raggiante e umile, nel medesimo tempo, di Anna. Costei andava e veniva, senza posare il manicotto e il cappello, non potendo star ferma. Poi, a un tratto, si fermò, e disse a Laura:

Sai, abbiamo incontrato Dias...

– Ah! – fece Laura, senza interessarsi.

– Sta benissimo.

Era naturale.

– ... e verrà domani.

Beneconchiuse Laura.

E si allontanò con la sua aria di vergine saggia che conosce tutto, che apprezza tutto e che non si meraviglia più di nulla. Pure, l'indomani, mentre Anna, subitamente intimidita, udendo il campanello che annunziava Cesare Dias, se n'era fuggita nella propria stanza, fu Laura che gli andò incontro, col suo bel sorriso di persona tranquilla.

– Oh savia Minerva! – l'interpellò Dias, stringendole la sottile mano bianca. – Voi state bene, è naturale, perchè voi non potete essere inferma: e voi non avete affatto contato i giorni della mia assenza. Io v'intendo. Io sono savio come voi: anzi come tutti i sette Savii della Grecia.

Ella rispose con un sorriso: Cesare Dias la guardò con ammirazione. Poi venne Anna: era un po' imbarazzata, e il pallore e il rossore si alternavano sul suo viso. Parlava a scatti, subitamente inquieta: gittava delle occhiate scrutatrici a Cesare Dias, il quale, invece, conservava tutta la sua superiorità di animo, arrovesciandosi sulla sedia, chiacchierando con la solita familiarità, quasi non fosse mai mancato un minuto da quella casa. Ebbe anche lo spirito di non nominare affatto Luigi Caracciolo, e Anna, che aveva aspettato questo nome per poter mostrare a Dias la propria docilità, fu delusa. La questione sorta fra loro e che si era chiusa con quell'amaro rimprovero d'ingratitudine di Dias parve dimenticata; la persona che l'aveva provocata era sparita nel nulla. Anzi Dias ebbe il contegno magnanimo dell'uomo che non ha neppure rammentato la causa dell'offesa, per delicatezza; e Anna si vide più che mai confusa da quell'alterezza generosa. Durò qualche giorno tale astensione: poi, vedendo che Anna per farsi perdonare quella prima scaramuccia, cedeva a ogni cosa che egli dicesse, assai felice di potersi mostrare docile con Dias: pian piano Luigi Caracciolo rientrò in campo, riprese terreno e finì per diventare di nuovo e più di prima un personaggio importante di quel gruppo. Egli riapparve, discretamente incoraggiato da quel sorriso che aveva ricevuto in via Caracciolo, fantasticando di un qualche lento o improvviso mutamento nell'animo di Anna: e le sue maniere avevano acquistato, in quel periodo di assenza, come una novella tinta di dolcezza; egli trattava adesso la fanciulla con un ossequio di anima devota, che vive la sua vita alle ginocchia della persona amata. Ella non aveva potuto frenare un movimento di repulsione, quando lo aveva riveduto, perchè non gli potea perdonare di averla fatta litigare con Cesare Dias: ma Luigi non se n'era accorto, ed ella si era subito rimessa, decisa a trattarlo bene, fino a che poteva. Però mentre ella, per piacere a Cesare Dias, s'inebbriava di sacrificio, con gli occhi chiusi per non vedere il suo pericolo imminente, dentro si consumava sentendo che le sue transazioni erano vigliacche e che l'avrebbero condotta a un dolore più profondo. Si comprometteva con Luigi Caracciolo, senza volerlo, ogni giorno di più: vale a dire, come si compromette una ragazza che si deve maritare con un giovane, prendendone i fiori, rispondendo a un biglietto, accettandone la conversazione che gira intorno intorno all'amore, udendone i complimenti che hanno entità di dichiarazione amorosa, ascoltandone i racconti del passato e i progetti dell'avvenire: e alla sera, quando si trovava sola, ella, riassumendo quello che aveva fatto nella giornata, fremeva di collera, di disprezzo per la propria debolezza, poichè tanti passi aveva fatto sulla via del pericolo. Ma la paura di vedere sparire, per otto giorni, ancora una volta, Cesare Dias, la paura che egli andasse di nuovo a passare gli otto giorni del rancore presso la contessa d'Alemagna, o presso un'altra qualunque donna che egli amasse, la rendeva così vile, che ella seguitava a transigere, non sapendo più dove si sarebbe fermata, sentendo di giungere presto a una delle terribili giornate della sua vita. Cesare Dias, un po' tranquillato sul conto di Anna, si mostrava soddisfatto, paternamente, e pareva quasi che egli attendesse una imminente occasione propizia, per lanciare la grande parola. Anna quasi gliela vedeva apparire sulle labbra, questa parola suprema, e impallidiva di spavento. Adesso l'umore di Anna era diventato così variabile, così nervoso, che ella passava dalla tristezza al pianto in un minuto e che, talvolta, mentre fioriva la conversazione intorno a lei, ella si concentrava in un pensiero profondo, tetro, donde non si scuoteva, come se tutta l'anima sua fosse presa.

– Che avete? – le diceva Cesare Dias.

– Nulla – mormorava lei, passandosi una mano sugli occhi.

E riappariva sorridente: egli capiva di aver fatto un piccolo miracolo. Ma era uomo assai acuto e comprendeva che il tempo stringeva, che bisognava prendere Anna in questo momento d'immensa dolcezza, o giammai più. Luigi Caracciolo si faceva più pressante: egli amava Anna e glielo diceva in ogni sguardo, in ogni parola: Luigi Caracciolo chiedeva di essere amato con ogni sguardo, con ogni parola; e Anna si arretrava, piena di una grande vergogna, come se tutto quell'amore offerto e richiesto fosse una grave offesa al suo pudore. E il tempo stringeva! Tutte le persone che incontravano Anna, si congratulavano del suo prossimo matrimonio ed invano ella rispondeva no, che non era vero; la gente crollava il capo, sorridendo, dicendo che ella doveva rispondere così: e allora interrogavano Stella Martini che sorrideva, vagamente, senza dire no, il che confermava, infine, tutte le dicerie di matrimonio. Il cerchio intorno ad Anna si veniva sempre stringendo, sempre più; ed ella si sentiva la voglia di gridare, di urlare che non era vero, che ella non avrebbe sposato Luigi Caracciolo, che ella amava un altro uomo.

Fu in un giorno di primavera, giusto un anno dopo la grave malattia che ella aveva superata, che fra lei e Cesare Dias avvenne la spiegazione. Nel pomeriggio del giorno innanzi, pallida, esasperata dalle insistenze di Luigi Caracciolo, che pretendeva assolutamente una risposta a una lettera che le aveva scritta, ella si era accostata a Cesare Dias che parlava con Laura, e gli aveva detto, sottovoce:

– Vorrei parlarvi.

Giusto! – disse lui, voltandosi vivamente – anch'io.

– Allora, domaniripetette ella, sempre pallida.

Domani, nella mattinata; aspettatemi.

Ricominciò il suo discorso con Laura. Anna si andò a sedere nel vano di un balcone; la testa le girava. Pensava che bisognava aver coraggio, molto coraggio, e ripeteva fra questa parola, con la insistenza delle persone che temono di smarrire la ragione. Cesare Dias se ne andò, con la sua solita disinvoltura, mentre ella restò la sera e la notte come una sonnambula, vegliando, addormentandosi in brevi sonni agitati, in cui mormorava le monche frasi che avrebbe dovuto dire l'indomani a Cesare Dias; e le pareva che egli le rispondesse vittoriosamente, che tutti i suoi argomenti fossero ribattuti da lui e che ella si affannasse, non trovando più parole e più fiato per convincerlo, soffrendo l'incubo di quella discussione. Oh! ella era inquieta, assai più della sera innanzi, in quella lieta mattinata di primavera, e la teneva un interno tremore, quasi le dovesse cogliere una sventura; era inquieta, e il sole allegro che entrava dal balcone non giunse a vincere il tremore delle sue fibre, a dissipare l'inquietudine del suo spirito. Con gli improvvisi entusiasmi mistici delle anime passionali, ella avrebbe voluto andare in chiesa, quella mattina, nella vasta e pacifica chiesa dei Gerolomini, così piena di fresche e carezzanti ombre, dove è così dolce il pregare; ma fu vinta dal rispetto umano, si vergognò di rivelare così il suo turbamento. Ogni tanto, fra , mentre aspettava Cesare Dias, andava dicendo, monotonamente:

– La Madonna mi deve aiutare.

Però, quando vide apparire Dias, così corretto e sereno nel medesimo tempo, quando lo udì intavolare una breve conversazione con Laura e Stella; quando, per la millesima volta, ella ebbe l'impressione di quella indifferenza, sì, di quella indifferenza, Anna si rinfrancò un poco e pensò che, forse, tutto si sarebbe accomodato, almeno per allora, senza dover dire la gran parola. Laura e Stella, discretamente, quasi avvertite, si allontanarono: ella ebbe un brivido, vedendo che Cesare Dias aspettava, in silenzio, diventato un po' grave. Allora Anna, sentendo di non potere più dare indietro, mise la mano in tasca e cavò la lettera di Luigi Caracciolo, offrendola a Cesare Dias perchè la leggesse. Egli ebbe una fugace espressione di meraviglia in viso: poi le domandò permesso di leggere, con un galante saluto. Lesse: tacque; e, silenziosamente, restituì la lettera piegata ad Anna.

– Che ne dite?

Mah!... – fece lui, che non voleva pronunciarsi. – Vi sembra una lettera seria?

– Sì: è seria.

– È facile che m'inganni – ella disse, con accento profondo: – per questo ho domandato consiglio a voi. Voi... ne capite...

– Un poco – disse lui, sorridendo.

Parlavano piano, seduti accanto, senza guardarsi in faccia. Ogni volta che ella riprendeva il discorso, però, le si velava la voce.

– Non vi pare... audace?

Caracciolo, per quella lettera?

– Sì.

– Non mi pare: gli innamorati scrivono sempre. Talvolta... non mandano lettere, ma scrivono.

– È vero – ella mormorò, enigmaticamente.

– Costui vi ama: dunque vi scrive.

– Mi ama? – ella domandò, fremendo.

– Già.

– Ne siete certo?

Certissimo.

– Ve lo ha detto?

– Me lo ha detto.

– E che gli avete risposto?

– Io? Nulla. Non mi domandava nulla. Mi raccontava un fatto, così. È da voi che vuol sapere qualche cosa...

– Da me? – esclamò lei, arretrandosi.

– Ogni lettera chiede risposta, dalla persona a cui è indirizzata.

– Io non risponderò – ella soggiunse, piano.

– E perchè? – diss'egli, mostrando una certa sorpresa.

Perchè non ho nulla da dirgli.

– Non lo amate?

– No.

– Neppure un poco? Non vi è neppure simpatico?

– Non lo amo e non mi è neppure simpatico.

– Non mi pareva... – osservò lui, già diventato serio, innanzi all'ostacolo che egli vedeva insormontabile.

– Vi siete ingannato...

Vedevo che lo ricevevate bene, che gli parlavate con cortesia, che ascoltavate i suoi complimenti con piacere; questo è molto, per una ragazza – e aggrottò un poco le sopracciglia.

– Per farvi piacere: perchè era amico vostro – gridò lei, stendendo le mani, volendosi giustificare.

Graziedisse seccamente.

Un silenzio si fece: egli continuava a scherzare con la moneta antica che pendeva dalla catenella dell'orologio, e teneva gli occhi bassi.

Sicchè – egli riprese, volendo andare sino in fondosicchè voi non sposereste Luigi Caracciolo?

– No: mai.

– È un bravo giovane, però: ha un bel nome; una bella fortuna; e vi ama, poi.

– Io non l'amo e non voglio sposarlo.

– Non serve l'amore, pel matrimonioosservò Cesare freddamente.

– Per altri, forse: per me, servegridò lei, sgomentata sino nel fondo del cuore da quell'assioma.

– Non conoscete la vita, mia cara. Un matrimonio d'amore e uno di convenienza hanno ugualissime le probabilità di felicità e d'infelicità: e allora, a che vale la passione? A nulla.

Ella chinò il capo, non convinta, ostinata nella sua fede, ma rispettandolo nelle gelide sue idee, di uomo invecchiato anzi tempo.

– Se non volete Luigi Caracciolo, dovrete cercare di non vederlo, è vero?

– Lo sfuggirò.

– Vi cercherà lui.

– Non escirò.

– Vi scriverà.

– V'ho detto che non gli rispondo.

– Egli si ostinerà, lo conosco: e la cosa che chiede è abbastanza importante, perchè non si ostini.

– Voi gli direte che questo matrimonio non è possibile.

– Ah no, poi, mia cara: queste disgraziate ambasciate io non le portodisse lui, con voce già iraconda.

– Non siete... non siete il tutore? – mormorò lei, tremando.

– Sì, sono il tutore, ma avrei preferito, mia cara, che Francesco Acquaviva non me lo avesse lasciato, questo incarico. Francamente, preferirei non esservi niente.

– ... sono... così cattiva? – chiese ella, supplichevole, con le lagrime agli occhi.

– Io non so se siete buona o cattiva: non perdo il tempo a fare delle definizioni, io. So soltanto che vi è un bravo giovane, bello, ricco, che vi vuol bene, e che voi, senza una ragione al mondo, voi lo rifiutate. So che costui vi vuole sposare, anche se non lo amate, con tutta la vostra... sì, diciamo la parola, la vostra stravaganza... e voi lo rifiutate. Scusate, cara Anna, ma io vorrei domandarvi: se credete sia facile, che un altro uomo vi sposi?

– Come sarebbe a dire?

Dico: credete facile che un altro vi chiegga?

Spiegatevi, non vi capisco – ella domandò, pallida ad un tratto, perchè aveva capito.

– Mia cara, voi avete dunque dimenticato il passatodisse, gelido.

– Che passato? – gridò ella, fieramente.

– Niente altro che una fuga da casa, mia cara, niente altro che questo; e una giornata passata a Pompei, con un giovanotto.

– Oh Dio! – e si nascose la faccia fra le mani.

– Non esclamate, Anna, questo è un momento serio, state in voi; rammentatevi che quanto faceste, una fanciulla onorata non lo fa; che Luigi Caracciolo non sa, o sa appena; ma chiunque lo sapesse, lui, un altro, non vi sposerebbe, mia cara. È duro, è doloroso, ma ve lo debbo dire. Sposatelo, sposatelo. È il consiglio di un amico, di un vero amico, sposate Luigi Caracciolo.

– Io ho errato – ella disse, con voce sorda; – ma non mi avevate, voi e Laura, perdonato?

– Sì, sì; ma i mariti, i fidanzati non perdonano queste cose. Con che gelosa cura io l'ho tenuto nascosto, questo segreto! Neanche un padre per una figliuola; e voi disprezzate l'occasione, la lasciate sfuggire, senza pensare che non ritornerà mai più. Ma un altro uomo innamorato e cieco come Caracciolo, dove lo troverete?

– Io ho commesso un errore, è verodiss'ella, ritornando sempre alla stessa idea – ma non mancai all'onore.

E lo guardò in volto.

– Ma disgraziata, non ci sono che io che so questo! – gridò lui, ormai esasperato.

– A me bastadiss'ella, semplicemente.

Egli si scosse. Ma non voleva lasciar passare quell'ora, senza dire tutto.

Anna, Anna, voi siete una fanciulla folle, ecco quello che siete. V'innamorate di un poveretto, e contrastata da noi, scappate di casa, arrischiate l'onor vostro, vi salvate per un miracolo: dopo, vi ammalate, guarite, avete dimenticato il poveretto, e una simpatica persona vi vuole, voi la rifiutate! Questa è una pazzia, Anna, sposate Luigi Caracciolo, ve lo chieggo io.

– Non potete chiedermi questo – mormorò.

– L'amore è una chimera: sposate Caracciolo.

– Non posso.

– Ma perchè? Non basta la ragione di non amarlo!

Cercate l'altra ragione – ella disse, misteriosamente.

– La troverò.

Cesare Dias aveva detto queste parole con un tono di minaccia, insolito in lui. Ma era insolita in lui anche la collera; e più di tutto, insolita l'asprezza della forma, con cui aveva assalita la fanciulla. Era una delle due o tre circostanze della sua vita, in cui egli era giunto all'esasperazione, sentendo tutta la sua forza spezzarsi contro un ostacolo misterioso o invincibile; e che lui, uomo esperto, uomo sagace, a quarant'anni, capace di riescire nelle più difficili posizioni, pronto a tutto, pur di ottenere il suo scopo, si facesse vincere da una debole e stravagante fanciulla, gli dava una collera intensa. Ella stava seduta, sbiancata nel volto, tutta tremante, pensando solo che egli le aveva rinfacciata la sua fuga, ripetendo a se stessa la crudele frase che ciò le rendeva impossibile il matrimonio, con qualunque uomo lo sapesse. E un'amarezza la invadeva, avvelenandole il sangue; per la prima volta ella intendeva il peso del rimorso e si pentiva profondamente dell'errore commesso. Ah, se avesse potuto annullare il passato, se avesse potuto lacerare quel foglio dal libro della sua vita, se avesse potuto fare, che quel fatale giorno di Pompei non fosse!

– Voi siete innamorata di un altro, è vero? – egli le chiese, con un sorriso sarcastico.

Anna non rispose, con le mani prosciolte in grembo e gli occhi smarriti. Come camminava dritto alla verità, Cesare, e come ella tremava, ormai, che egli sapesse la verità!

Perchè non mi rispondete? Siete ancora innamorata, è vero?

– Ancora, come? – esclamò lei, trasalendo.

Dicevo, che per rifiutare Luigi Caracciolo, dovete avere in cuore un altro uomo. Voi altre fanciulle credete all'eternità della passione, alla fedeltà fino alla tomba, a una quantità di fisime simili. Voi amate ancora Giustino Morelli?

– Ah, insultatemi meglio, non mi avvilite, non mi calpestate! – gridò lei, in preda a una convulsione di pianto, di singhiozzi.

Calmatevidisse lui, guardandola con una fredda curiosità, mentre ella piangeva.

– Per carità, non mi fate più quell'affronto, ve ne prego: ditemi tutto, me lo merito, ma non quello, non quello!

Calmatevireplicò Dias, fissandola sempre curiosamente. – Parleremo di ciò un altro giorno.

Sentite, sentite – ella riprese, esaltandosi, fiammeggiando nel volto – non ve ne andate ancora, perdonatemi prima, se ho disturbato un vostro progetto, rifiutando Caracciolo! Ma non posso, vedete, proprio non posso... Non potrò mai... Voi sorridete della mia parola mai, è vero? Avete ragione di sorridere, il cuore umano è così fallace! Perdonatemi, ma vedrete... vedrete poi, che non avevo torto... e che non avrete nessun fastidio, nessuno, da me, mai più... Io sarò così docile, così umile, per tutto quello che vorrete... innanzi a voi, mi sento così piccola, così meschina, così povera cosa!

E piangeva adesso, dirottamente. Senza che quasi se ne accorgessero, le persone di Giustino Morelli che era il passato e di Luigi Caracciolo che era l'avvenire, erano sparite dalla discussione; e solo loro due, Cesare Dias e Anna Acquaviva, restavano in causa, ella pregandolo e scongiurandolo come una creatura infelicissima scongiura il signore della propria vita, egli ascoltandola con una crescente curiosità, quasi gli si squarciasse un velo innanzi agli occhi e gli si rivelasse uno spettacolo non inaspettato, ma sempre meraviglioso. E se nella prima battaglia era stato sconfitto, il suo orgoglio di uomo intendeva di essere stato il vincitore: un fugace sorriso gli rianimò la fisonomia.

– Non piangetedisse.

– Ah lasciatemi piangere... io sono una creatura così infelice: così misera... io ho giuocato così follemente la mia vita... ma non sapevo... ve lo giuro, che non sapevo nulla... adesso, adesso tutto è finito... io sono una donna perduta...

– Non esagerate...

– Oh, voi lo avete detto, voi avete ragione, le fanciulle oneste, che han caro l'onore, gelose della reputazione, non lasciano la casa, non si gittano nelle braccia di un uomo, che per combinazione è un galantuomo... Quanto avete ragione, voi solo, sempre, voi che siete così saggio! Ma se sapeste... se sapeste che è questa follia che mi sale dal cuore al cervello... se sapeste come io perdo la testa, quando la passione m'infiamma... avreste pietà di me.

– E non piangete più – disse, a bassa voce.

– Ah il pianto di una esistenza non cancella il passato – ella disse, dolorosamente, quasi questo lamento le fosse strappato dal cuore.

Addio, Annadisse egli, levandosi.

– Non ve ne andate – e gli prese le mani – non vi ho detto niente, non vi ho potuto spiegare... ve ne andate in collera con me... o piuttosto, sì, è meglio finire, oggi non ho più la forza di resistere a questo colloquio, sento che impazzisco... e poi voi vi annoiate... avete ragione; le donne che fanno le scene, annoiano... ma dovete sapere, dovete... Vi scriverò, vi scriverò tutto... me lo permettete, è vero?... dite che me lo permettete... io non posso stare senza scrivervi tutto...

Scrivete – egli disse, piano, voltando la testa in .

– E mi perdonate? – ella disse, accostando il suo volto a quello di lui.

– Io non ho nulla da perdonarvi – e si arretrò vivamente, – scrivete. Addio, Anna.

Ella si era seduta affranta, come precipitata nel sonno, da una incommensurabile altezza. Dias se ne andò, un po' pensoso, salutando distrattamente Laura e Stella nel salone. Le due donne entrarono nel salottino, a raggiungere Anna.

– Ebbene, è fatto questo matrimonio? – chiese tutta lieta Stella, senza vedere gli occhi rossi, il pallore, il turbamento di Anna.

– No – disse costei – ora, mai.

E Stella, colpita, rientrata nel suo riserbo di povera damigella di compagnia, trovò un pretesto per lasciar sole le due sorelle. Laura si era messa a lavorare a quel merletto mirabile, per la sua tovaglia di altare; Anna stava seduta allo stesso posto, con gli occhi coperti dalla mano, sospirando ogni tanto. Così passò un'ora. Laura levò la testa e col suono di voce più limpido, domandò:

– Tu sei innamorata di Cesare Dias?

– Sì – disse semplicemente Anna.

Laura, abbassate le tenui palpebre, lavorava di nuovo.

 


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