Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Nel paese di Gesù
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SCIOLTO IL VOTO

I. In ferrovia

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SCIOLTO IL VOTO

 


 

I.

 

 

In ferrovia.

 

Or, dunque, per opera della civiltà, una ferrovia congiunge Jaffa, porto di mare, a Gerusalemme, che è sulla montagna. Il tragitto è di tre ore e mezzo. Parte un sol treno, ogni giorno, da Jaffa, per la città santa, alle due e mezzo pomeridiane. Per una costante combinazione di orario, i battelli egiziani, austriaci, francesi e russi, che toccano le coste di Sorìa, giungono sempre a Jaffa nelle ore della mattina e il viaggiatore, lo spinga la fede o lo muova la curiosità, non fa, ordinariamente, che sbarcare a Jaffa, salire al Jérusalem-hôtel, lavarsi le mani, far colazione ripartire, con la bocca bruciata da una tazza di caffè, bevuta in fretta, per Gerusalemme. Jaffa, chi la vede, chi l’ammira? Nessuno: quasi nessuno. Eppure è un assai bizzarro, assai interessante paese, tutto aperto e battuto dal mare, da un mare sempre tumultuoso, sempre furibondo, coperto di spume bianche: è percorsa dalle secche brezze marine, Jaffa, che ne spazzano, nelle perigliose ore serotine, quella umidità insalubre dei crepuscoli di Oriente: è superba dei suoi cento giardini, Jaffa, dove gli aranci dorati e i gialli limoni fra il verde lustrore delle foglie, fanno trasalire il cuore di chi rammenta, da tanto lontano, la soavissima Sorrento: e Jaffa è già ricca, già le sue ricchezze crescono, e le sue vie pittoresche, le sue casette si rifanno, si ricostruiscono, più comode e più belle. Le donne di Jaffa sono, a differenza di molte altre donne di Oriente, bianchissime: portano un gran manto di mussola bianca dal capo ai piedi, chiuso al collo e, talvolta, un velo sul viso, e le più austere un velo a disegni fitti, che ne nasconde tutta la fisonomia. Di quelle che sono più europee, che non portano velo, si vedono gli occhi castani, non neri, lunghi, dolci, un po’ fieri. Vanno con lentezza, a due o tre, insieme, avvolte nei candidi mantelli, ma poco parlano tra loro.

Ma chi può notar questo, chi può veder le altre grazie di Jaffa, con l’orario di questa ferrovia? Colui che volesse osservare, un po’ meglio, il primo paese di Palestina, si deve decidere a restare un giorno ed una notte, non essendovi altro treno in partenza. Ben pochi fanno questo: quasi tutti si lasciano prendere dalla fretta indiavolata degli inglesi e vanno via dopo due ore, da Jaffa. Questo viaggetto in ferrovia, è caro: costa quindici lire. Le classi sono due: la prima e la seconda. Ma la prima coi suoi banchi di legno appena lucidato, senza un cuscino, senza un appoggio per la mano, somiglia alle nostre terze classi: e la seconda somiglia alla nostra quarta, sulle linee di terz’ordine, rurali. Ambedue sono legate fra loro, da una semplice porta a vetri, quasi sempre aperta: la comunanza è assicurata largamente. Si parte, per lo più, con tre quarti d’ora di ritardo, poichè i turchi non sanno mai bene quanta gente possa arrivare, poichè essi perdono flemmaticamente la testa, mentre i viaggiatori, in tutte le lingue, protestano e gridano. Bisogna aggiungere una vettura o due, sempre: e fra il chiasso di tutti quanti, fra quelle finte e vere baruffe che sono speciali, in questi paesi, si parte, infine! Segno di croce: lettura pia. Ma è possibile?

Vi è sempre qualche intoppo, per la via. Alla stazione di Sejed, noi, per esempio, non abbiamo trovato acqua per la macchina: quaranta minuti di fermata. Ripartendo, il macchinista cerca di guadagnare il tempo perduto, dando tutta la forza alla locomotiva: profondo e segreto sgomento di chi viaggia. Le carrozze sono piccole e costruite alla meglio: la strada, in continua salita costeggia la collina, stretta, appena un palmo più larga del suo binario, e, per lo più, alla sua diritta, ha la collina, alla sua sinistra, un burrone, un torrente, un precipizio, una valle: le curve di questa strada improvvisata si seguono continuamente, in un serpeggiamento mai interrotto: la locomotiva e i vagoni ondeggiano sulle guide di ferro come una barca in mare, ed è preferibile raccogliersi, non guardare dai finestrini e aspettare gli avvenimenti. Gli sviamenti non sono infrequenti: sino ad ora, però, non sono accaduti incidenti gravi. Le stazioni intermedie fra Jaffa e Gerusalemme sono cinque: Lydda, Ramleh, Sejed, Dei-Abune e Battir. Si dovrebbe giungere alle sei a Gerusalemme: non vi si arriva mai prima delle sei e mezzo e, spesso, alle sette.

 

Ebbene, nulla è più antipatico di questa ferrovia. Mentre la nave, filante a traverso i mari, ha lasciato lentamente germogliare nel cuore tutti i semplici fiori del sentimento, mentre innanzi a quella prima figurazione reale di Terra Santa, si è avuto il sussulto che dànno i paesi dalle irresistibili memorie, mentre già, in voi, nasce quello stato d’animo fatto di muta trepidazione, di imminente tenerezza, di evocazione misteriosa, la ferrovia, brutalmente, falcia tutti i bei fiori della pietà religiosa e inaridisce le pure sorgenti della poesia.

La ferrovia, come tutte le cose necessarie, indispensabili agli interessi umani quotidiani, come tutte le pratiche cose che servono alla fretta, agli affari, ai calcoli, è volgare: ma, altrove, ha la sua importanza ragione di utilità, io penserei di dirne male. Non qui! Qui se ne deve dir male, molto, con violenza, in nome di tante cose dolci e amorose, che essa demolisce nello spirito del viaggiatore. Leggere stampato sopra un volgare cartoncino verde, sul biglietto ferroviario, il nome di colei che i salmi celebrano come la luminosa Sionne e che tutti i cristiani, dalle regioni più estreme del mondo, pensano e invocano come la città della Passione: entrare in uno di quei gabbiotti di legno fra tanti squilli di campanelli, fra tanti rumori, fra tanti urli; viaggiare in compagnia di turchi poveri e di turchi ricchi, che egualmente fumano, sonnecchiano, dormono, si svegliano, si tolgono le scarpe (quando i turchi hanno le scarpe, non vedono il momento di levarsele), che si prendono un piede con la calza o senza la calza, in mano, nella loro posizione favorita: viaggiare con questi ebrei pallidi, dai capelli riccioluti sulle orecchie, dai berretti di lana, dai berretti di pelliccia spelata: sudici, emananti cattivi odori, facenti capolino, con occhio fra curioso e beffardo dalla porticina della seconda classe: dover subire tutte le noie triviali, consuete di ogni viaggio che, altrove, sono insignificanti e qui dànno un grande fastidio: e trascorrere questo lembo di Palestina, di fuga, senza vederlo, senza poterlo osservare, poichè il treno balla la sarabanda sul binario e gli arabi strillano ancora, in tutte le stazioni, e fan chiasso in seconda classe, sempre. Ah come declinano il capo, recisi, i fiori della poesia! Voi sapete bene di passare, correndo, fuggendo, per quella pianura di Saaron, dove i Filistei vinsero i figliuoli d’Israele e presero loro persino l’arca della Santa Alleanza; che il treno lascia indietro la valle di Saaron dove Dalila sedusse Sansone e lo mandò prigioniero cieco, ma non vinto, a Gaza: che dopo, più in alto, voi vedete o non vedete la valle dei giganti, dove Davide vinse i Filistei. Più avanti, forse, non vi è la tomba del vecchio e fedele Simeone, che tenne nelle sue braccia il Divino Fanciullo e chiese umilmente al Signore di richiamare a il proprio servo giacchè aveva vissuto abbastanza per vedere il Messia: non è forse quello, lassù, il monte del Cattivo Consiglio, dove i Farisei si riunirono con Caiphas, per deliberare la morte di Gesù? Il treno è troppo rapido, voi sapete tutto, ma non vedete nulla, voi non afferrate una linea una tinta, voi non capite più niente: e con gli occhi stanchi, lo spirito disgustato, voi ricadete snervato sul vostro banco di legno, lasciandovi vincere dalla soffocante volgarità di questa ferrovia.

 

Il treno si approssima a Gerusalemme, e la tristezza diviene mortale. È, dunque, in questa forma frettolosa, affaccendata e seccata, che si deve arrivare alla città dei patriarchi e dei profeti, alla città di Davide e di Salomone, alla città ove Gesù ha vissuto, ha sofferto, è morto, sulla croce? Così, proprio così, senza raccoglimento, senza silenzio e senza divozione, Gerusalemme ci apparirà, alta sui monti che essa congiunge, da quello di Bezetha a quello di Gareb, da quello di Acra a quello di Ophel, dal Moriah al Sion? Non così trivialmente, non così laidamente la videro i fortunati, che potettero arrivarvi nei secoli trascorsi, dopo lunghi stenti, dopo inaudite fatiche, e parve loro, quale essa era, una mèta divina: non così la videro e si prosternarono e piansero i guerrieri di Dio, che, con Goffredo di Buglione, vennero a combattere e a morire, sotto le sue sante mura. Non così tutti coloro, di noi molto più felici, che, sino a pochi anni or sono, vi giungevano in carrozza, o a cavallo, o a piedi, ma lentamente, ma quietamente, potendo iniziarsi alla santa commozione che desta lo spettacolo delle sue prime case, delle sue torri merlate, delle sue antichissime porte, dei suoi campanili cristiani, che mandano al cielo gli squilli delle loro campane, potendo inginocchiarsi nella polvere e toccare la terra con la fronte. Noi, miserabili, siamo in un vagone di ferrovia; vi è un puzzo di macchina; si odono bestemmie di facchini, cento voci, cento rumori diversi, cento distrazioni. È così che noi dobbiamo giungere, a guisa di un insignificante viaggiatore anodino e anonimo, che va in un qualunque insignificantissimo paese, per risolvere alcune sue insignificantissime e inutilissime faccende, dove la presenza di Dio fu palese agli uomini e donde partì la poesia della Croce? Scorgeremo noi Sionne, come una città di affari e di piaceri, dove non si pensa e non si sente che per gli affari e per i piaceri? E il pascolo dello spirito? E le nostre emozioni? E le nostre lacrime? Dove, come piangeremo? Dove, come c’inginocchieremo, noi?

Oh, l’abominazione della desolazione di questa ferrovia non è per noi, essa è fatta per il popolo, che assegna al tempo il valore del danaro, per il popolo, che ha sempre fretta, che vuole andare dappertutto con la massima velocità, anche al Santo Sepolcro, che vuol veder tutto, nel minor tempo possibile, anche la casa di Maria di Nazareth, è per questi inglesi che si stupirebbero del nostro pallore, dei nostri pianti, delle nostre genuflessioni, è per gli inglesi, la ferrovia! Disgraziatamente, sono essi che vengono in maggior numero, qui; e le grandi valli, onde si ascende a Gerusalemme, sono già tinte del fumo male odorante della locomotiva. La Palestina ha bisogno degli inglesi, ne vive! La ferrovia ci voleva. Si sono spesi molti danari, per farla. È utile. Serve! Che fare? Chiudiamo gli occhi per assaporare tutta l’amarezza di una delusione. Secondo una pia costumanza, tutti i cristiani che vengono alla città santa, nel veder comparire la torre di Davide, dovrebbero intonare il magnifico salmo: Io mi sono consolato di questa parola, che mi è stata detta: noi andremo nella casa del Signore. E noi abbiamo messo dimora nelle tue case, o Gerusalemme...

ma come mormorare un salmo, in ferrovia, nelle preoccupazioni fastidiose dell’arrivo? Noi pregheremo questa sera, forse, sul Sepolcro.

Ma neppure questo ci è dato. Ci è riservato il colmo della tristezza. Secondo l’antico costume religioso, il cristiano che entra in Gerusalemme non può mettere piede in una casa, se non è andato ad adorare la Tomba Divina. Ahimè! Il treno giunge in Gerusalemme troppo tardi, massime in primavera, con le giornate ancora brevi. Abbiamo messo il piede nelle tue mura, o Sionne, ma il sole è tramontato, cade la sera: la chiesa del Santo Sepolcro si chiude col tramonto. Impossibile poter chinare la testa sulla roccia ove Egli fu deposto: impossibile sfogare questo bisogno di preghiera e di pianto. Insieme agli inglesi Cooks bisogna andare al New Grand Hôtel, svestirsi e rivestirsi, aspettando la campana della table d’hôte, pranzare con una minuta inglese, prendere il the, come se si fosse sulla Maloia, in Engadina o a Montecarlo, e dormire dieci ore, nella prima giornata, a Gerusalemme!

 

 

 


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