Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Nel paese di Gesù
Lettura del testo

SCIOLTO IL VOTO

IV. Adorando

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

IV.

 

Adorando.

 

Nell’anticamera dell’Angelo, che precede la cameretta funebre del Signore, fra le penombre, ove appena appena biancheggia la pietra su cui era appoggiato il divino e luminoso messaggero, sostano, in silenzio, tutti coloro che vengono ad adorare il sepolcro di Gesù. Essi aspettano il loro momento per penetrare sotto la bassa porticina di roccia, piegati in due, e per giungere sino alla tomba sacra. In questa celletta poco si distinguono i volti e le persone. Qualcuno s’inchina a baciare quella pietra dell’Angelo e recitarvi su qualche orazione: altri si addossano alle pareti, in attesa; qualche fruscio sottile di rosario smosso, qualche profondo sospiro rompe il silenzio. A mano a mano, qualche ombra d’uomo, di donna, esce dalla stanzetta del Sepolcro, dove ha finito la sua adorazione: esce curva, a ritroso, sparisce via, mentre coloro che aspettavano, ombre incerte, entrano curvate, piegate quasi sino a terra, nella seconda cella, mentre ancora, dalla chiesa, altre ombre indecise, fluttuanti, ansiose e pur stanche, penetrano nella stanzetta dell’Angelo, per attendere il loro turno: ombre certamente misere nel cuore e nella vita, che desiderano supremamente inginocchiarsi innanzi al sasso, dove fu composto il martire sublime. Questa folla sempre fluente di fantasmi è muta: è curva: non guarda intorno: non riconosce e non è riconosciuta, vinta dal raccoglimento e dalla preghiera, assorta nelle sue cure e nelle sue tristezze, ignara del suo vicino, unita veramente, col desiderio e con l’evocazione, al consolatore di tutti gli afflitti. Ogni linea, ogni colore, ogni carattere sparisce nella oscurità, in quella prima stanza, dove già il pensiero del visitatore si immerge nelle sue profondità incalcolabili, dove già l’anima sente la trepidazione di un appressamento supremo: e ognuno è chiuso in , raccolto quasi fisicamente, come sottratto alla vita esterna, chiuso nella sua già vacillante vita interiore, che si disegna sempre più confusa nello spirito, chiuso in quel tremore intorno che cresce, intuendo il contatto imminente con quella tomba.

E, invece, una piena luce scende dal tetto perforato nella stanzetta, ove fu deposto, avvolto nel velo mortuario, il corpo del Signore, che la misera madre e le pie donne avean asperso con le loro lacrime e deterso coi loro capelli: tutto vi si vede bene, precisamente. Così, i visitatori che arrivano, continuamente, dal basso androncino e che vengono a prostrarsi innanzi a quel marmo, mostrano la loro età e la loro condizione, le loro fogge e i loro costumi, i loro atti di pietà e di dolore, quasi quasi fanno udire le loro preghiere.

 

 

Pregare, pregare?

Colui che entra curvato, si rialza come abbarbagliato dalla soverchia luce e brancola, quasi cercando la tomba: e come il suo corpo crolla innanzi a quella pietra, così pare che crolli l’anima, in un oblio di ogni formola, in un abbandono spirituale, senza parole e senza idee. La preghiera? Il pellegrino, venuto di lontano, che ha superato stenti e difficoltà per giungere sino a Lui, che ha subito privazioni e tristezze, che ha sognato, così ostinatamente e così ardentemente, questo minuto di avvicinamento fra e il suo Signore, non ha forza di pregare. Prosciolte le membra, smarrita l’anima, non può esso riunire la parola al pensiero, non può dominare il suo pensiero; la fronte poggia sul sacro marmo, immobile; la bocca schiusa, immobile, tocca così il sacro marmo, quasi non avesse neppure la forza di baciarlo: non un atto: non un gesto: l’abbattimento più profondo, come se quella emozione avesse infranto tutto le corde dell’essere.

Qualcuno piange, sì. Appena caduto in ginocchio, come se il cuore si fosse spezzato, scoppia in disperati, alti, inconsolabili singhiozzi, battendo col capo e col petto contro quella pietra, irrorando di caldissime lacrime quel freddo sasso, abbracciandolo avidamente, stringendovisi come all’estrema salvazione umana, cercando di costringerlo a , come per immedesimarvisi, come per morirvi di dolore, di pentimento, di amore. Ma non una voce, salvo quei singhiozzi mai più uditi, che non si udranno mai più: ma non una domanda, non una invocazione, non una promessa, non un giuramento, come dinanzi a qualunque altare: non un mormorio sommesso di preci, di quelle che cullano, monotonamente, le lunghe malinconie dei supplicanti: solo questo clamore di pianto convulso, irrefrenabile, solo questo accasciamento, che somiglia alla morte.

Ed è il pellegrino latino, venga dalla Francia, dall’Italia, dalla Spagna, venga dalle lontane repubbliche del Sud America, che ha lo scoppio più violento di un misterioso dolore e di una irrefrenabile tenerezza, piena di lacrime: è quello che tocca il Santo Sepolcro con le mani, con la faccia, col petto, invano cercando di porre freno alle sue lacrime; è quello che vorrebbe dissolversi, vorrebbe dileguarsi in un mare di pianto, dove trovare la purificazione e la morte.

Voi riconoscete il pellegrino russo il più povero, il più umile, il più pio, il più taciturno e il più esaltato di tutti, alle sue croci profonde e larghe nel gesto, al suo grave corpo piombato a terra, nell’adorazione, e coverto da un gabbano sdrucito, da un paio di brache scolorite e grame, alla sua testa abbassata e singhiozzante su cui si abbassano, come onda i suoi capelli biondi e ricciuti, ai suoi occhi velati di silenziose lagrime, alle sue mani trepide, che stringono il vecchio berretto di pelliccia, al pallore del suo volto, dove appare un ardore religioso insaziato. Voi riconoscete al suo volto oscuro, tagliato da rughe forti e dure, al suo abito talare consunto alla sua espressione di fatica, alla sua prostrazione mistica, lunga e muta, il povero prete maltese, che è venuto dalla sua isola, quasi mendicando, in terza classe, sui battelli, dicendo messa in tutti i paesi della costa, della terraferma. Voi vedete gli occhi stralunati nella felicità della povera donna polacca che è in cammino da tre mesi, che percorre a piedi tutta la Siria, e che vive ancora per la pietà degli ospizi, dei ricoveri, dei passanti, baciando la mano a tutti, non sapendo nessuna lingua oltre il polacco eppure vivendo, non morendo, malata, fiaccata, ma arsa di un fuoco inestinguibile e che sviene di gioia, toccando il Santo Sepolcro. Voi vedete le mani aduste del misero contadino greco, che hanno tanto lavorato la gleba, da prendere il colore della terra e hanno toccato tanto gli alberi, da essere nodose come un tronco, voi vedete queste povere mani tremare, tremare, toccando quella bianca pietra, sognata nei mistici sogni e raggiunta a stento, portando la bisaccia e il bordone, proprio come gli antichi romei. E tutti questi antichi credenti, così miseri nell’aspetto, ma così ricchi nell’anima, tutti questi cristiani di ogni nazione, che partiti di lontano, con una fede così candida, e così alta, tutti quanti portano, alla loro adorazione, il carattere diverso della loro patria, della loro razza, del loro temperamento, della loro anima, ma tutti hanno, nella loro singolare, invincibile, irrefrenabile emozione, toccando il Sepolcro come un mancamento di tutto l’essere, come un deliquio spirituale e fisico, pensando, sentendo di poter morire in pace, dopo aver adorato quella tomba: il loro desiderio compiuto e la loro fatica suprema, tutto ciò che hanno patito e tutto ciò che hanno sperato e visto accadere, in quel momento, li vince come se veramente dovessero morire. Qualcuno, innanzi al Santo Sepolcro, è morto di commozione estrema e di estrema lassezza.

 

 

*

* *

 

 

Colà, l’adorazione del Sepolcro, è perpetua, in tutte le ore del giorno in cui il tempio è aperto, mentre nella notte, nei conventi che hanno le loro grate, i loro coretti sporgenti nella chiesa, si veglia e si prega. In tutte le ore del giorno, i pellegrini stranieri, si uniscono, si mescolano sempre a coloro che vivono in Gerusalemme, che vi arrivano ogni dai dintorni, e coloro che vi giungono dai paesi meno vicini di Soria. Tutti vengono a inginocchiarsi almeno per una volta, al letto di morte di Gesù. Ecco la donna di Gerusalemme tutta chiusa la persona nel suo grande mantello di mussola bianca, che le si abbassa sulla fronte; ella solleva il suo piccolo velo, talvolta lieve, talvolta istoriato, che le cela il viso e mostra il suo viso bruno, non bello, dalle linee irregolari, un po’ tormentate; si vedono i suoi magnifici occhi neri, di un nero torbido, pensosi; ella s’inginocchia e bacia il marmo, con reverenza dignitosa. Ecco il contadino di Bethania, vestito della lunga tunica di tela, del mantello ampio nero o bianco, e col capo coperto dal fazzoletto stretto intorno alla testa dal doppio cingolo, simile a quello dei beduini: egli si fa la croce, tre o quattro volte, in fretta, egli batte la fronte contro il marmo, preso da un impeto di devozione. La bella Bethlemita, la cittadina del felice paese dove nacque Gesù, vestita di azzurre lane ricamate di rosso, col fazzolettone bianco ricamato di giallo, di azzurro e di rosso, disposto a losanga sulla testa e sulle spalle, piega il suo nobile viso roseo, regolare, dai grandi occhi fieri e tranquilli, e abbassa la persona, con un atto pieno di dignità: mentre la contadinella di Ain-Karen, di San Giovanni nelle Montagne, la discendente del Precursore, piccola, minuta, bruna, graziosissima, con piedi e mani infantili, scalza, vestita di azzurro cupo, si tira sulla fronte il suo scialle di tela bianca, fine come seta, nascondendo la triplice fila di monete d’oro e d’argento che le circonda i capelli, s’inchina, lei e il suo piccolissimo figliuolo, nascosto dentro lo scialle, e mamma e figlio baciano il Sepolcro. La beghina della colonia russa, residente in Gerusalemme, entra, vestita di nero, portando un largo fazzoletto bianco chiuso al collo e cingente il petto, uno stretto fazzoletto bianco che le stringe, come una cuffia, tutta la testa: essa è riconoscibile, questa specie di monaca senza clausura, nel rito scismatico, ai suoi grandi segni di croce, con cui abbraccia anche la terra, ai suoi prosternamenti profondi!

E un seguito di uomini in turbante, in fez, in berretto, col cappello, vestiti alla turca, all’araba, all’egiziana, all’europea, ricchi, poveri, mendicanti, talvolta così luridi e così disfatti, questi ultimi, da fare ribrezzo e pietà, viene verso il Sepolcro a curvare la persona, a piegare il ginocchio: e tutti i religiosi, dai miti e buoni francescani ai bianchi domenicani, dai preti greci in tuba nera ai preti armeni dal gran cappuccio di seta nera, donde lampeggiano certi occhi vividi e donde ondeggia una gran barba nera, dai preti missionarii latini, alle Suore di San Giuseppe, dalle europee stabilite a Gerusalemme, vestite di scuro, facenti una vita quasi monacale, non vi è chi non venga a salutare, all’alba, al meriggio, alla sera, la tomba del Signore.

Gente bianca, gente bruna, gente nera, arabi, europei, negri, abissini, siriaci, greci, niuno osa passare innanzi alla grande porta a ogiva, senz’esser misteriosamente attratto, a entrare in chiesa e a baciare quel sasso.

Fra tutta questa gente, di continuo, vi è un fiotto che mai non cessa, di ragazzi, di ragazze, di bimbi, di bimbette appartenenti a tutte le Nazioni che sono a Gerusalemme e che vengono a baciare il Sepolcro: massime nelle ore in cui finiscono la scuola, queste creature capitano pian piano, in silenzio, in punta di piedi, si ficcano fra le persone grandi, passano, sgusciano, si trovano presso la tomba, senza quasi farne accorgere nessuno. Tutti i bimbi di Sionne càpitano ogni giorno, in un puerile e tenero pellegrinaggio a venerare, infantilmente la pietra che serrò il protettore dei fanciulli, il buon Gesù. Me ne rammento un giorno, ne capitò uno, piccolissimo. Bruno bruno, sottile non portava che una tonacella gialla e rossa, stretta alla cintura da un nastro: era scalzo e rideva. Era troppo piccolo, però, per arrivare a baciare la pietra della sepoltura: saltò, ridacchiando due volte, per iscalare il Sepolcro, ma ricadde indietro: era troppo piccolo. Allora io lo sollevai nelle braccia ed esso, tutto contento stendendosi quasi sulla lapide, la baciò in fretta, con molti piccoli baci schioccanti. Yalla, yalla, (via! via!) gli gridò, in arabo, il prete armeno, che vegliava presso il Sepolcro: ma sorrideva, anche il prete. E mentre il piccolino, se ne fuggiva, senza far rumore, coi piedi scalzi, il prete armeno lo benedisse con un colpo di aspersorio e un po’ d’acqua di rose.

 

 


«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on touch / multitouch device
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2011. Content in this page is licensed under a Creative Commons License