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Nella notte.
L’ora pomeridiana si avanza e declina: i visitatori del Santo Sepolcro vanno diminuendo, sempre più. Il giorno orientale, che principia alle cinque del mattino, non raggiunge la estrema ora del crepuscolo: esso finisce molto prima. Già, verso le quattro, i bazars si vuotano dei contadini, delle contadine dei dintorni: vanno via i cammelli scarichi verso Betlemme, verso San Giovanni nelle Montagne, verso i più vicini villaggi di Bethania, di Siloè: la, popolazione agreste di Gerusalemme ritorna alle sue lontane e prossime dimore. Spariscono, uomini, donne, bimbi, animali, nella via polverosa; per ritornare l’indomani, per ritornare ogni giorno. Chiunque se ne va, ha già salutato la tomba di Gesù. Anche le donne di Gerusalemme, come il giorno scende, rientrano nelle loro nuvole di mussola bianca, nel loro mantello candido, tenuto fermo, innanzi alla bocca, da una mano bruna inanellata grossolanamente di argento, col polso adorno di quei braccialettini di cristallo azzurro che si fabbricano a Hebron, paese di Abramo: anche esse, piamente, prima di chiudere la loro giornata, sono venute a salutare, affettuosamente, in silenzio, il Sepolcro. I mendichi cristiani, cha abitano in qualche capanna di fango secco, fuori la città, sotto il Monte degli Ulivi, mendichi laceri, sporchi, senza età, senza fisonomia, tanta è la loro sporcizia, l’arsura del sole, tanti sono gli stenti e tanto è deformativa la fame, i mendichi, anche essi, stringendo al petto la loro scodella di stagno, dove hanno raccolto qualche centesimo dalla pietà dei credenti, se ne vanno: quegli ammassi di cenci luridi spariscono dai pressi della chiesa, dalla chiesa istessa, mentre le loro dita aggranchite formano la umile sigaretta, che è il retaggio del soriano più povero e più infelice, senza la quale egli non vivrebbe. I pellegrini religiosi, di ritorno da qualche gita alla valle di Giosafat, alle Tombe dei Re, alle Vasche di Salomone, si affrettano agli ospizii latini, armeni, greci, russi, dove è costume di rientrare, prima che tramonti il sole: i più ricchi pellegrini se ne vanno ai due o tre alberghi di Gerusalemme, dopo aver inchinato, prima che il giorno muoia, l’augusto marmo. Sempre più solitaria e silenziosa, la grande chiesa. Ancora, verso il lato della rotonda che appartiene ai copti, vi è per terra accovacciata, presso uno degli enormi pilastri, qualche donna di cui non si vede il volto, immobile nella preghiera; poi, si leva e se ne va. Invece, sulla piazza, i venditori ambulanti di rosarii, di scapolari, di crocette, di medaglioncini d’argento falsi, raccolgono in certe bisacce la loro povera merce e spariscono; con essi, partono il venditore di panini dolci o l’acquaiuolo ambulante. Nessuno più discende dalla stradetta a scaglioni, che unisce mezza la città di Gerusalemme alla piazza: nessuno più appare sotto la porticina che appartenne ai Templari e che unisce l’altro lato di Sionne alla chiesa delle chiese. Il canto degli uccellini è più lento, è più fioco. Il sole è disceso. Un rumor cupo e profondo si allarga per gli archi, per le cappelle. Le porte della chiesa sono sbarrate sino all’indomani. Colui che, compiendo il maggiore atto di adorazione mistica, volle passare la notte in veglia, nella chiesa, presso la tomba, è oramai solo col suo Signore.
La notte è salita, quasi, dal basso in alto, mettendo la oscurità, prima intorno alle forti colonne della rotonda, poi sulle due gallerie superiori ed ha smorzato l’azzurro chiaro del lucernario: dietro i pilastri, intorno alle cappelle, per tutti gli avvolgimenti strani di quella singolarissima architettura, l’oscurità è diventata tenebra. Qua o là, fiochissimi punti luminosi. Lassù, dietro l’abside, si erge, alta, bruna, la seconda chiesa, quella del Calvario, legata a quella del Sepolcro da due erte scalinate di marmo: avvolta di nero, nella notte, solo qualche lampada appena scintilla, sul posto del Golgotha, dove fu conficcata, in terra, la Croce. Nella cappella di San Salvatore, in quella di Santa Maria Maddalena, dei nostri francescani, ancora qualche lumicino, tra l’ombra profonda: le cappelle sotterranee, tagliate nella roccia, dove sono le tombe di Giuseppe d’Arimatea o della sua famiglia, dove è stata trovata la Croce, coi loro piccolissimi lumi profondi, hanno l’aria di bocche nere, aperte nella terra, pronte a ingoiare. E l’anima travagliata e contrita, che domandò questo lungo e terribile colloquio notturno col suo Signore, che volle parlare al suo Dio come una sol volta si parla, nella notte, è presa da una emozione estrema. Tutte le sue facoltà fisiche sono paralizzate e annullate da questa commozione: tutti i suoi sensi sono aboliti o in preda ad allucinazioni bizzarre. Ritto, presso la porta della sacra edicola, non osando ancora entrarvi, non osando fare un passo nella chiesa, egli lascia il suo essere sommergersi.
Innanzi agli occhi spalancati sull’ombra, le proporzioni del tempio s’ingrandiscono, si fanno immense, si fanno vaghe, sterminate, senza confini: talvolta, come un soffio fa vacillare la luce delle lampade che ardono, sottilmente, qua e là, e sembra che uno spirito sia passato sovr’esse e le abbia fatte tremare. Non si odono, forse, dei passi lievi che sfiorano il suolo? Chi sospira, profondamente, nella notte? Vi è, forse, qualcuno laggiù, dove qualche cosa di bianco pare che trascorra? Tutto, tutto intorno nella chiesa deserta o forse non deserta, nel silenzio interrotto da susurri forse fantastici, è un assurgere d’ombre e di suoni misteriosi: l’occhio nulla vede, ma immagina dolenti e irosi fantasmi usciti dalle loro fosse lontane e venienti ad aggrupparsi intorno alla tomba delle tombe: l’orecchio nulla ode, ma la fantasia ode mormorii bassi, dove par quasi di riconoscere le voci piene di tristezza e piene di rampogna, di coloro che amammo, e che partirono prima di noi: e nelle brune onde notturne, quasi smisurate, in cui è immerso il tempio, par che viva e si agiti un mondo di figure svanenti, i volti lividi di morenti, di mani scarne e febbrili che si levano per benedire, per dare l’ultimo addio, mondo di tristezza e di paura, su cui si leva, pianamente, qualche parola sommessa e amara, qualche singulto soffocato, qualche grido sordo di chi muore, di chi muore...
L’anima, folle di dolore e di sgomento, in un moto disperato, penetra, vacillando, nella cameretta funebre e si stringe alla tomba, come un figlio al seno materno, come a una pietra che sia la salvezza suprema, come a una vivente pietra di soccorso e di amore. E le labbra convulse, la cui febbre si placa sul marmo gelido, nella notte profonda, ripetono ancora, al Signore, la grande, la incessante domanda, quella che, nelle ore più tetre e nelle ore più esaltate, sgorga dalla bocca di chi soffre e di chi crede, la domanda del figlio a suo padre, la domanda dell’Anima al Cielo, ma fatta, in quel momento, più alta, più solenne, più decisiva. «Poichè è la notte, poichè siamo soli, o Signore, poiché tu vedi quello che io penso, quello che io sento, Signore, poichè io venni qui, alla tua tomba, e volli restare una notte, in tua presenza, dimmi, o Signore, quale è la Verità e la Via!
L’anima aspetta. E come nel chiaror vivo delle quarantanove lampade che ardono perennemente sul Santo Sepolcro, si quetano i terrori vani dello spirito, pare che una novella serenità plachi l’agitata coscienza. In verità, quanto vi era dentro di falso, di gretto, di meschino, di frivolo, è crollato come un grande muro che impediva di bere l’aria viva, che impediva di vedere il cielo azzurro: sono scomparse le superbe e inani vicende dell’orgoglio: l’ardore misero e breve degli egoistici interessi, i desiderii fallaci e ingannevoli, le voglie cupide o basse, tutte le menzogne tutte le ipocrisie, tutti i tranelli dell’istinto, sono spariti, qui, questa notte, ora. È sciolto il duro nodo, che teneva l’Anima avvinta ai trionfi della vanità e ai piaceri dei sensi: l’immondo legame dello Spirito con tutte le gioie esteriori, con tutte le parvenze della bugiarda felicità, ecco, è troncato. Libera, l’Anima. Così volle, che venissero a sè, le anime, Gesù Cristo che fu sepolto qui: così le volle, staccate da quanto vi ha d’impuro e di mortifero nella vita: e così le ebbe, intorno a sè: e così le avrà, nel nome della sua fede: e così saranno libere, sempre, per divino potere, toccando la pietra della sua tomba. Potessero tutti gli uomini altieri e folli della loro alterigia, tutte le donne belle e giovani e folli della loro bellezza e della loro gioventù, potessero venire, qui, per vivere una notte in questa chiesa, dove è il Vostro sepolcro, Signore, presso questo letto funerario, dove Voi avete dormito il sonno della morte: tutta la loro superbia e tutta la loro vanità cadrebbero, nella lunga ora notturna, soli con Voi che portaste un’anima divina e che foste il più umile fra gli uomini: è in questa solitudine profonda, presso la lapide che ha chiuso il Vostro corpo martirizzato, che dovrebbero piegare la testa tutti gli egoisti, tutti gli spensierati, tutti gli indifferenti, coloro che vivono solo pel proprio benessere, coloro che vivono senza chiedersi la ragione della vita, coloro che disperdono, vanamente, le più nobili forze spirituali, qui, innanzi a Voi che amaste il più puro ideale, che sapeste amarlo, che sapreste farlo amare, che voleste morire perchè questo ideale vivesse, nei secoli dei secoli!
L’Anima pensa, ascolta, ricorda. Tante cose Egli disse, nella sua vita di profonde e indimenticabili parole! Pure, una è più vibrante, più misteriosa e più larga: Tu ti preoccupi di molte cose, o Marta, e una sola è necessaria. Una sola? Non è, dunque, necessario che i nostri desiderii si compiano, che i nostri sogni si realizzino, che i nostri amori sian corrisposti, che i nostri odii sieno efficaci, non è necessario? No, non è necessario. Una cosa sola è necessaria: Colui che per due giorni giacque, in questa roccia, aveva detto questo. La saldezza degli affetti familiari, la venerazione dei figli, la gratitudine degli amici, la fede e la lealtà di tutti, non sono, dunque, cose necessarie? Non bisogna, dunque, piangere o gemere, se tutte le nostre fatiche non ebbero compenso e se tutti i nostri sentimenti furono scherniti? Non bisogna, dunque, dolersi se nulla condusse alla sua mèta il nostro intelletto e il nostro cuore? Se noi restammo per via, se giacemmo, inerti, senza più sangue nelle vene, senza più volontà nell’anima, senza più desiderio, senza più speranza, dobbiamo noi consolarci, solo in noi? Solo in noi? Sempre in noi? Una sola cosa è necessaria: la vita dello spirito.
L’Anima vede e sa. Egli visse la grande vita dello spirito e volle che tutti, per lui, la vivessero. Quanti erano dolenti, oppressi, infermi, infelici, quanti deboli per il sesso, per l’età, per la condizione, donne, vecchi, bimbi, malati, poveri, conobbero, da lui tutte le consolazioni interiori che sollevano, che purificano: quanti subivano le contingenze odiose di tutte le sventure, gli abbattimenti di tutte le miserie, le tristezze di tutti gli abbandoni, seppero che vi è, nella propria coscienza e nella sublime idea dell’ultimo compenso la fonte purissima di ogni conforto. La vita dello spirito che assunse in lui una forma divina, nell’oblio di tutti i calcoli umani, nel perdono di tutte le offese, nella pietà verso tutti i peccatori umiliati, contriti, nell’amore per tutti i sofferenti, egli la dette in dono a tutti coloro che credettero in lui e che in lui crederanno: dono divino, fatto solo per guarire le anime, fatto solo per compire i più meravigliosi miracoli interiori. La vita dello spirito che può essere semplice e umile ma sempre consolatrice che può essere grande, potente e che può condurre l’uomo sulle cime dell’ideale, che forma dei martiri, che forma degli eroi: che è il sorriso della giovinezza, la forza della virilità, la benedizione della vecchiaia: la vita di Colui che nacque in Betlemme e che morì in Gerusalemme. Dice l’anima, quieta, serena, oramai pacificata: Tu mi hai parlato, o Signore in questa notte terribile e dolce: tu hai risposto al tuo servo. Io conosco la Verità e la Via.
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Dal vano rotondo della cupola, scende, nel tempio, la luce dell’alba e circonda la sacra edicola. Poi, il sole vi penetra e l’avvolge in un’aureola trionfale.