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II.
Il popolo.
Là tra le sessantamila persone che dimorano nelle sacre muraglie, vi è, forse, un popolo di Gerusalemme? Chi meriterà, dunque, questo nome eletto, invidiato dagli altri popoli e caro al Signore?
Non gli ebrei che formano, oramai, la metà, oltre la metà, degli abitanti di Gerusalemme. Israele aveva avuto, dono incommensurabile, una divina promessa, aveva avuto la sublime realtà del più grande avvenire che sia serbato a un popolo: ma si stancò di esser pio, buono, felice. Dal fatale giovedì del Nisam, in cui gli ebrei, bizzarramente furenti e ciechi di furore contro il Nazareno, vollero, essi vollero, che il sangue di quel giusto cadesse sulle loro teste e su quelle dei loro figliuoli, la invocata maledizione li colpì e furon dispersi, e non furono più nè una nazione, nè un popolo. Lentamente, temperandosi le ragioni politiche e religiose, e i turchi immergendosi sempre più in quel cortese e freddo aspetto d’indulgenza, che ha base nel loro indifferentismo, gli ebrei hanno ricominciato a tornare a Gerusalemme. Vi ritornano da tutti i più lontani paesi di Europa, pallidi, stanchi, quasi sempre malaticci, con l’aria timida di cani frustati, sogguardando obliquamente ogni persona, temendo in ognuno un nemico, un persecutore, taciturni, pensosi, incapaci di disputare, con un bisogno di nascondersi, sempre in piccole case oscure e silenziose, in meschine botteghe, dove quasi non appare mercanzia: e malgrado che il loro numero sia sempre crescente, in questa Sionne che è l’oggetto della loro tenerezza e delle loro lacrime, malgrado che il minuto commercio e anche una parte del grosso commercio di Gerusalemme sia nelle loro mani, essi non prendono baldanza, essi conservano quell’aria di gente paurosa e infelice, che non osa levare la testa, che non la leverà, forse, mai, tanto i secoli e gli avvenimenti hanno appesantito sovra essa un destino di tristezza e di disperdimento.
Ah essi san bene, tutto! Sanno di vivere in Gerusalemme per una generosa concessione, per una distrazione sovrana, e vi si sentono come in un domicilio provvisorio, dipendenti da un firmano imperiale che li può cacciare in bando; hanno l’aria d’intrusi che quasi rubino l’aria e il sole della santa Sionne; per la via camminano lungo le mura; si distinguono ai capelli lunghi e spesso arricciati sulle tempie e sulle orecchie, si distinguono a certe particolari fogge di vestiti; si distinguono, sovra tutto, a un aspetto costante di debolezza, d’infermità, anche nei giovani, anche nei bimbi. Essi s’industriano in ogni più piccolo e più sottile negozio: vendono di tutto: comprano di tutto: fanno i cambiavalute: alcuni, più audaci, arrivano a fare della piccola usura, ma con tali precauzioni, con tali finezze, che niuno può colpirli in fallo. Una casa di banca, la più importante in Gerusalemme, è fatta d’israeliti: ma, vi si agisce all’europea, largamente: ed è situata nel quartiere dei nazareni. Sono eccezioni. Tutti gli altri si dànno, con cautela, con tenacia, con ostinazione, al minuto commercio. Non sanno lavorare la terra. La loro tradizione di pastori e di agricoltori è stata dispersa, come la loro razza: venti secoli di commerci, d’industrie, di negozii, sono nelle loro vene. Le loro donne, raramente belle, quasi sempre pallide, quasi sempre sciupate, con certi occhi chiari dallo sguardo incerto, non vanno velate, ma portano un certo curioso berretto antico, posato di traverso sulla fronte, coi capelli nascosti: sopra vi stringono uno scialle di lana bianca a fiori rossi e a fiori gialli: anche vanno raccolte, silenziose, appena guardandosi intorno, camminando presto per raggiungere le loro case, che sono le più brutte di Gerusalemme. E pur di essere qui, dove, sino a duemila anni fa, essi avevano il Tempio e la patria e le tradizioni, essi sopportano un viver dispregiato, ogni sorta di angherie; pur di poter pianger, qui, il venerdì, sull’unico muro del Tempio restato in piedi; pur di morire qui e di aver un po’ della terra nera, nella valle di Giosafat, sul loro corpo!
Neppure il dominante popolo turco è il popolo di Gerusalemme. I turchi in numero di otto o diecimila, restano a Gerusalemme come fanno dappertutto, dove il loro coraggio e il senso della loro forza han conquistato delle terre; vi restano con quella tranquillità, quella indolenza, e quel disinteresse morale, che sono virtù speciali del popolo ottomano. Ho detto disinteresse morale! Poichè il loro imperio sulla Palestina è uno dei più fruttiferi, materialmente: tutte le concessioni ai cristiani, cioè ai latini, ai greci, agli armeni, sono state fatte, rarissime volte, per la generosità di un Sultano, quasi sempre, a prezzo di danaro. Ogni palmo di Terra Santa è costato lacrime, sangue e quattrini ai credenti e si può dire che il paese di Gesù, inaridito dall’incuria dell’islamismo ha reso ben più importante messe alla Sublime Porta che non grano, frumento, uva ed aranci!
Così, i turchi esercitano una mite signoria, in Gerusalemme. Così sono, secondo loro convenga talvolta indifferenti e talvolta opportunisti. Essi hanno conquistato Gerusalemme un tempo e la tengono: ma cristiani ed ebrei vi sono trattati con dolcezza. La prima stazione della via Crucis, cioè il Pretorio di Ponzio Pilato, onde partì il Martire, è, ora, una caserma turca: ebbene, ogni venerdì, i padri francescani vi cominciano la divozione della via Crucis, seguiti da pellegrini, da credenti gerosolimitani, da altri curiosi: e i soldati turchi guardano ciò, quietamente, senza interesse, ma senza disprezzo. I guardiani, alla porta della chiesa del Santo Sepolcro, sono turchi: vivono tutta la giornata, sdraiati sovra una piattaforma coperta di tappeti, fumano, non chiedono mance, non interpellano nessuno e neppure osservano la folla dei fedeli. Anzi, essi ammirano Gesù. Per loro, è meno grande di Maometto, ma è sempre un grande profeta, come Davide: lo chiamano Naby Issa, cioè il profeta Gesù. Anche Maria è oggetto della loro ammirazione la chiamano Sitti Mariam, cioè madama Maria. Essi credono fermamente che, nella moschea di Omar, in Gerusalemme, il gran macigno sospeso in aria, cioè la Sacra Roccia presa al tempio di Salomone, sia tenuta sospesa dalle mani miracolose dalla madre di Maometto e della madre di Gesù. Ancora, essi credono che, quarant’anni prima della fine del mondo, Naby Issa, cioè Gesù, ritornerà e, vedete caso bizzarro, maomettano egli stesso, convertirà al maomettanesimo tutto il mondo. Dopo di che, vi sarà il cataclisma finale.
Popolo di Gerusalemme, il turco? Non lo credono neppure i turchi. Fedelmente, essi venerano, nella stupenda moschea, la terza dell’Islam, dopo quelle di Mecca e Medina, venerano gli avanzi dei patriarchi e dei profeti, poichè la parola di Maometto li vivificò: sulla Sacra Roccia che è l’antico Santo dei Santi, di Salomone, venerano i due peli della barba di Maometto: ma lasciano che ognuno veneri i suoi profeti, i suoi martiri e i suoi santi. Il musulmano lascia fare, finchè il lasciar fare non lo secchi, o non guasti i suoi affari. Esso ha conquistato Sionne, ma non è, il turco, un sionista o un gerosolimitano.
Non i cristiani, non le cosidette nazioni cristiane, sono il popolo di Gerusalemme: i latini, i greci scismatici, gli armeni scismatici, i russi, i copti, i maroniti, rappresentano, è vero, i fedeli soldati di Cristo, ma sono profondamente divisi dai loro scismi e dai loro fanatismi. Solo i latini, solo la falange benedetta dei frati francescani, custodi dei Luoghi Santi, cui si uniscono un paio di migliaia di credenti latini, solo essi possiedono, da San Francesco, lo spirito di umiltà, di temperanza, di una divozione che potrebbe esser l’origine di un popolo cristiano, a Gerusalemme, del vero, del solo popolo, a Gerusalemme. Ma sono pochi! Così, quattromila greci, duemila latini, mille armeni, oltre tutte le divisioni cristiane, formano una riunione discorde, sempre in guerra, che non piglierà un carattere di unità, mai. I credenti latini, greci, armeni, copti e persino i protestanti, vivono a Gerusalemme in un stato d‘inquietudine, di disagio, di collera, in cui solo la Sublime Porta giunge a imporre la quiete, quando le ire scoppiano. Per questo stato belligero, ognuna di queste nazioni non fa che sentirsi unita dal vincolo religioso solo alla propria chiesa, solo al proprio scisma: e fiduciosa d’esser depositaria di un’alta e perfetta missione spirituale, non si dà a nessun lavoro materiale, a nessuna industria, a nessun commercio, non pensa, per nulla, a fare o ad accrescere la propria fortuna. Latini, greci, armeni, vivono all’ombra dei loro conventi e dei loro ospizii, avendone, in dono, alloggio, soccorsi di denaro, medici, medicine, scuole, ogni protezione, ogni aiuto. L’ozio più profondo regna in queste nazioni. Sì, esse frequentano tutte le funzioni sacre dei loro riti, sono fanatiche, ma molto spesso la loro pietà religiosa diventa una quistione d’interesse. Quante volte, nella loro illuminata fede, i monaci francescani l’hanno, con me, riconosciuto e rimpianto questo misero stato di cose, per cui l’esercizio della religione, oramai, diventa una professione e l’uomo che è andato a messa, alle cinque del mattino, crede di aver compiuto tutto l’obbligo suo. I francescani dànno del lavoro, obbligano al lavoro, allo studio: ma i latini sono pochi, sono pochi!
Pure, purchè la nostra nazione esista, purchè la gran fede latina mantenga alto il suo prestigio, in Terra Santa, bisogna chiudere gli occhi... ma non sperare di poter formare, in un lontanissimo avvenire, il popolo di Gerusalemme. Non lo formeranno, certo, questo popolo, nè gli ebrei che non sono più un popolo, ma un’accozzaglia di gente, venuta da tutte le religioni estreme e inetta a ogni spirito di organismo e di riunione; nè lo formeranno, mai, i turchi, che sono turchi, che vi stanno lì come in una guarnigione, nè le nazioni cristiane piccole, pigre, fanatiche, nemiche fra loro; neppur voi lo formerete, il popolo di Gerusalemme, o arabi delle campagne, o bei beduini armati sino ai denti, che venite dal deserto di Gerico, persino dall’Arabia Petrea, dai monti inaccessi e dalle pianure sconosciute: voi venite in Sionne per vendere, per comperare; ma voi non la vedete, voi non la conoscete, voi non l’amate, frettolosi di fuggirvene, appena potete, alle vostre capanne e alle vostre tende. Forse, mai, Gerusalemme avrà un popolo. Ella fu grande avanti a Dio e Dio vi ripose tutta la sua gloria: ma Qualcuno troppo amaramente vi soffrí, troppo crudelmente vi morì.