Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Nel paese di Gesù
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LA VIA DOLOROSA

II. Ghetsemane

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II.

 

Ghetsemane.

 

Non già le quattro mura chiuse e soffocanti di una cappella, sieno pur esse decorate magnificamente dalla pietà religiosa, non già l’edifizio di pietra, che opprime lo spirito, che respinge lo sguardo rivolto al cielo, ma il giardino, in piena aria, il giardino fiorente sulla costa del monte, sotto il gran cielo di Palestina, cielo di un azzurro così tenero che va nel bianco, il giardino rorido di rugiade notturne nelle delicate aurore orientali, continuamente lieto del canto degli uccelletti ecco Ghetsemane, che vi prende, che vi tiene, che non vi lascia, che, di lontano, vi mette nell’animo il suo uncino e che vi attira, ancora, sempre, con una forza intima e segreta. Infine, poi, che cosa è questo magico giardino? Esso è fatto da otto vecchissimi, antichissimi ulivi; l’ulivo non muore mai, esso rinasce dalla sua radice, e questi alberi hanno veduto Gesù sedersi sotto la loro ombra, pregare e ammaestrare i suoi discepoli. Otto ulivi: ma così vecchi e maestosi, che due di essi, specialmente, hanno la grandezza e la maestà delle querce. I loro tronchi sono enormi: il più grosso ha otto metri di circonferenza, sorgendo dalla terra, e il suo fogliame verde cinereo si stende ampio sull’orto di Ghetsemane. E non sembra più legno, l’antichissimo tronco: sembra pietra, sembra roccia, ne ha il colore, ne ha la durezza, ne ha i crepacci silicei: mentre, in su, meravigliosamente, è tutta una vegetazione fresca e vivida, e i cari vecchi ulivi dell’indimenticabile giardino dànno ancora un raccolto. Otto ulivi: ma, tra loro, la carità poetica dei frati francescani, con una intuizione geniale, ha disseminato le più ridenti, le più vivaci aiuole di fiori, e in quel clima caldo, in quel paese così mancante di acqua, il giardino di Ghetsemane sempre tutto fiorito, sempre di una freschezza ammirabile, pare un lembo di terra incantata fra la vastità di un arido deserto. E il contrasto fra tutti quei fiori dai colori delicati, dai profumi soavi, coi vecchi ulivi, il cui bigio colore pare quello della grande età, è affascinante: accanto ai tronchi che hanno visto migliaia di anni, crescono le picciole rose bianche dai petali così tenui, i geranei rosei screziati di rosso più vivo, le speronelle di un così grazioso color viola, e certi grandi gigli rosei, alti sul loro stelo lanoso e schiudentisi, come coppe di odori grati, all’aere che passa. Passarono, passarono i secoli sugli antichissimi ulivi, e questi giocondi e olezzanti fiori non vivono che un giorno, ma sempre la loro leggiadra giovinezza si rinnova intorno agli alberi carichi di anni, e sempre la loro fugace beltà, la loro smagliante gioventù circonda amorosamente l’austero gruppo degli ulivi argentei, che vissero e videro tanto travolgersi di tempi e di cose: ed è una carezza perenne di fiori che abbraccia gli augusti alberi, è un sorriso di primavera eterna che avvolge questa grande e venerabile vecchiaia.

 

Ogni giorno, Gesù, abbandonata la città di Gerusalemme dove era mal visto e mal sofferto, lasciando il Tempio che gli faceva disgusto, poichè in esso la Legge era diventata la sorgente di tutte le ipocrisie e di tutte le cupidigie, Gesù, seguito dai suoi discepoli, esciva dalla città e veniva a questo giardino di Ghetsemane. Il profeta di Galilea amava la campagna con profondo affetto, amava ascendere sui monti, dove la parola è più libera e più sonora, amava istruire coloro che lo seguivano, innanzi ai puri spettacoli della natura. Ascendendo alla metà del Monte degli Ulivi, egli entrava in quest’orto di Ghetsemane, di cui il padrone era un suo amico e che lo lasciava liberamente trascorrere pel piccolo possedimento. Quassù, sotto questi ulivi, egli sedeva. Era l’ora pomeridiana, così dolce, in Oriente. Quante volte, a traverso il fogliame fine d’argento, egli deve aver levato gli occhi al cielo, cercandovi la visione di suo Padre, da cui ripeteva l’ardor sacro della predicazione! Quante volte il gaio canto degli uccellini, salutanti il sole che tramontava dietro Gerusalemme, deve aver messo nel suo cuore così grande, una tenerezza infinita, un infinito struggimento! Accanto a lui, era Simon Pietro, in cui egli aveva una fede così forte, che neppure l’atto di viltà del rinnegamento arrivò a far crollare, erano Giovanni e Giacomo, che egli si compiaceva di chiamare i figli del fulmine, tanto era ardente il loro apostolato, e vi erano i discepoli minori, e vi erano le pie donne: Maria di Cleofe, che lo seguì e lo amò, dal primo momento della sua predicazione; Maria di Magdala, la passionale donna di Galilea, a cui egli aveva tutto perdonato, e in cui egli aveva compito uno dei suoi più alti miracoli spirituali; Maria di Bethania, la sorella di Marta e di Lazzaro, su cui le parole di Cristo facevano l’effetto di un incantamento; e Susanna, moglie di Couza, e altre tre o quattro che, fedeli, pietose, tenerissime, non sapevano più staccarsi da lui. A costoro egli parlava, sotto questi vecchissimi ulivi. Allora, nell’idillio di una primavera rinascente, in un paese ancora benedetto dal Signore, che non aveva ancora subìto gli orribili cataclismi che ne hanno persino cangiato la natura del suolo, innanzi a un cielo limpido, fra gente che lo ascoltava con umiltà di cuore e con adorazione, piena l’anima di una divina speranza fidente in un avvenire largo e nobile, in cui l’umanità rigenerasse per sempre il suo spirito, Gesù diceva le parole dolci, le parole soavi, quelle parole di un amore fluente e così vasto che spietravano i cuori più duri, che infiammavano le immaginazioni più secche e più misere. O annosi ulivi, voi udiste la meravigliosa parola! Appoggiato a uno dei vostri vetusti tronchi, innanzi a quel monte Sìon dove rifulse la gloria di Davide e di Salomone, Gesù disse la nova legge di carità, di eguaglianza, la nova legge che liberava per sempre le anime, che le rendeva salde contro ogni sventura umana, nel nome di una suprema promessa: e tra i vostri rami, o ulivi, l’eco della parola sublime si diffuse, e da questo ignoto giardino di Palestina, di sotto questi poveri vecchi umili ulivi, questa parola la doveva udire il mondo.

 

Eppure, questo nome di Ghetsemane si unisce al dolore più alto che abbia trafitto il cuore del Martire: e la fatale notte di spasimo, di accasciamento, passata, solitariamente, in quest’orto, è molto più dura e più tragica di tutta l’agonia sulla croce. Qui egli venne, nella sera terribile. Il suo animo era commosso e agitato: ma i suoi discepoli nulla intendevano e non sapevano consolarlo. Raccomandò loro di non dormire e confessò ad essi la sua infinita debolezza: lo spirito era pronto, ma la carne soffriva. Essi non compresero: si addormentarono ed egli restò solo, nella notte tenebrosa, solo in quell’orto, così ameno, dove aveva passato delle ore così belle, e che adesso si ammantava di lutto, solo, innanzi al cielo, solo innanzi al tremendo problema che si agitava nel suo spirito. Tentò di pregare, tentò di unirsi con l’orazione a suo Padre: non potette. Una tristezza mortale lo invase e un mortale sgomento. Andò a chiamare i suoi discepoli: essi dormivano. Amaramente rimproverò loro di non poter vegliare neppure un’ora, ma essi si riaddormentarono. Solo, di nuovo solo, senza difesa contro l’orribile sfiducia delle cose, degli uomini, dei tempi che lo aveva vinto! Ah, è in questa notte di lugubri paure, di solitudine sconsolata, di incertezza immensa, che Gesù vide, come in riassunto universale, tutta la infinita miseria dell’essere umano, tutte le radici degli inevitabili peccati che nessuna religione e nessuna morale arriveranno mai a distruggere, tutte le inveterate tentazioni della consuetudine ereditaria, contro cui non vi sono forze per combattere, tutte le decadenze del sangue e dello spirito, tutte le debolezze della fibra e del cuore, tutto il male nascosto nelle vene e nelle anime; pronto a combattere, sempre, e combattente con ogni arme, egli misurò l’uomo, Gesù, in questa notte tremenda, e gli apparve così irrimediabilmente povero di coraggio, indifeso contro tutte le offese del mondo e della carne, così cieco, così sordo, così vagante alla ventura fra mille pericoli, che gli parve impossibile di salvarlo, mai! Solo, perduto nelle ombre, col supplizio, con l’onta, con la morte imminente che lo aspettavano Gesù, come uomo, dubitò della sua opera, per la prima volta ne dubitò, e così crudelmente, che tutta la sua fibra umana si sconvolse, ed egli grondò sangue da tutti i pori. È in questo obliato orto di Ghetsemane, che egli chiese a stesso, nel dubbio più lacerante che abbia mai fatto spasimare un gran cuore, se tutta la sua predicazione non fosse stata un vano rumore portato via dal vento, se la semente della sua parola come nella parabola non fosse caduta sulla roccia dell’egoismo, o non fosse stata divorata dalla cupidigia degli uccelli di rapina: egli chiese a stesso, se tutta la sua vita terrena, dedicata a questa luminosa idea, di rifare lo spirito del mondo, non fosse stata consumata inutilmente: egli si chiese, se non era inutile, oramai, morire sulla croce!

Angosciosa domanda, fatta da una natura vergine e ardente, sorpresa, a un tratto, nella medesima anima divina, dal gelo del dubbio; sconfitta a un tratto, dalla sfiducia più triste; avvilita dal pensiero di aver invano sofferto, di dover morire invano! E caduto nella umiliazione più profonda, le mani di Gesù si sono congiunte, ed egli ha pregato il suo Signore, perchè questo calice gli fosse risparmiato: e questo giardino ha udito, ha udito la parola più disperata che sia mai uscita da una bocca umana. Quante ore durò, dunque, questa notte di Ghetsemane? Ah, chiediamolo a tutti coloro che conobbero, nella vita, come il loro Dio, di queste notti indescrivibili, immersi in una desolazione sconfinata, vedendo intorno a crollato tutto; chiediamo a tutti coloro che spasimarono, in una di queste notti senza luce e senza soccorso, finite la loro gloria e la loro fortuna; chiediamola a tutte le anime grandi che ebbero la loro notte di Ghetsemane, in cui sentirono l’inanità dei loro sforzi, la meschinità di tutti i loro tentativi, la caducità di ogni loro opera. Chi ha misurato quelle ore, mai? Le poche, nitide parole dell’Evangelio vi imprimono un sacro spavento, giacchè tutta la lunghezza dei tormenti morali di Gesù, tutto il traboccante dolore del suo spirito, in quelle ore solinghe, risulta con una semplicità terribile. La tragedia fu avvolta dalle tenebre, fu senza spettatori, fu alta, fu incommensurabile; e quando il Figliuolo dell’Uomo uscì e porse la guancia a Giuda, in verità, egli aveva vinto, ma era già morto.

 

O giardino di Ghetsemane, il sepolcro di Giuseppe di Arimatea non raccolse che il suo corpo; ma tu hai udita la sua parola e tu hai visto le sue lacrime, tu sei più sacro, a noi, di ogni sacro posto: e niuno può accostarsi a questi secolari ulivi senza tremare.

 

 

 


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