Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Nel paese di Gesù
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LA VIA DOLOROSA

VII. Ombra, che soffre

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VII.

Ombra, che soffre.

 

Io ebbi la consolazione di trovarmi a Gerusalemme il giorno del Corpus Domini. Sapete che questo è un giorno caro alla memoria, vibrante nella fantasia di chiunque abbia trascorso l’infanzia nei bei paesi caldi, dove la pietà religiosa ha così facilmente aspetti solenni ed entusiastici, e dove le sue forme sono così spesso affascinanti di giocondità e di tenerezza. In tutto il soleggiato e ridente mezzogiorno, la festa del Corpus Domini rammenta il più lieto scampanìo, nella gran giornata fra la primavera e l’estate; rammenta un baldacchino sorretto da bastoni d’oro e una pioggia di petali, da tutti i balconi, da tutte le finestre, e un profumo di fiori, dappertutto: e canti, e suoni, e incensi turbinanti nell’aria già troppo tiepida. L’arte profonda e nobile di Francesco Paolo Michetti ha riassunto, nella sua espressione più inebriante, questi colori e questi sorrisi, questa festa delle cose e degli uomini: e quanti cuori, già freddi, già aridi, hanno tremato, per i tornanti ricordi infantili, innanzi al quadro dei pittore abruzzese! Una volta il Corpus Domini era il Natale estivo ma un Natale più breve e più intenso, all’aria libera, sotto il sole, tra la fioritura, tra le facce ridenti dei bimbi e delle donne: e se i costumi impallidiscono e languono, se noi vediamo con isgomento la più giovane generazione privata di queste dolci e amorose sensazioni, una specie di egoismo sentimentale ci fa essere bene stretti, più saldi, alle memorie dell’età più bella.

Così, fui intimamente contenta della mia presenza nella moderna Sionne, la città che dovrebbe essere consacrata, tutta quanta, alla preghiera, agli inni, all’esaltazione del Signore. Pensavo che questo Corpus Domini, nel paese dove Gesù aveva vissuto e predicato, dove aveva sofferto ed era morto, doveva avere, questo Corpus Domini, un fulgore speciale. Ahimè! Dimenticavo che ci trovavamo in Turchia. Non già che i turchi si oppongano, in nessun modo, alle manifestazioni del culto cristiano; anzi, ammiratori schietti del grande profeta Issa, ritengono che non sia mai troppo quello che i fedeli cristiani fanno per lui. Ma Gerusalemme sempre turca è: e le processioni pompose, a traverso quartieri musulmani o, peggio, a traverso quartieri ebrei, sarebbero un non senso. Gerusalemme è di Maometto: la moschea di Omar, costrutta sulle rovine del tempio di Salomone, è più grande, più bella, sì, purtroppo più bella, esteticamente parlando, della chiesa del Santo Sepolcro!

Così, la Chiesa latina fa sua processione il giorno del Corpo del Signore, nell’interno della chiesa, modestamente, ma con spirito intenso di venerazione. Tutta la comunità Francescana vi prende parte, e quell’anno, vi era anche padre Luigi da Parma, il piccolo frate che è generale dei francescani, e molto umilmente egli vi apparve, confuso fra gli altri monaci, tenendo viva la tradizione di semplicità e di oscurità del grande Francesco. La chiesa del Santo Sepolcro, ve l’ho detto, è vasta: più che vasta, è bizzarra, è stravagante, fatta di sette od otto chiese riunite: nella chiesa del Santo Sepolcro, oltre la sacra edicola che racchiude la tomba, vi è la cappella sotterranea, dove sono le altre tombe di Giuseppe d’Arimatea; la cappella sotterranea di santa Elena e della Invenzione della Croce; la cappelletta del piccolo carcere di Gesù; la cappella dell’apparizione a Maria Maddalena; la cappella della flagellazione; la pietra dell’unzione, che è appena passata la soglia della chiesa madre; la chiesa del Golgotha e in essa la cappella dell’inchiodamento sulla croce; la cappella della Morte; la cappella della Deposizione e ne dimentico. Sono forse troppe? No.

Ho enumerato queste chiese e queste cappelle, giacchè la processione latina doveva percorrerle tutte, pregando e cantando: essa cominciava alle tre, e io, alle due e mezzo, ero già in chiesa. Già piena di latini, di donne gerosolimitane cristiane, avvolte nei bianchi manti di mussolina, dove, talvolta, portano anche un bimbo, dentro come una nicchia, piena di betlemite dalla fine beltà, di signore europee curiosamente vestite, d’inglesi cattoliche così strane sotto i larghi cappelli coperti di un fazzoletto di mussola, di pezzenti avvolti in cenci sporchi: sovra tutto, piena di bimbi e di bimbe, giacchè Sionne pare si presti singolarmente alla moltiplicazione della razza umana, essa aveva sempre il suo aspetto così stupefacente, questa chiesa del Santo Sepolcro, accozzaglia di elementi mistici e profani, riunione di fanatici e d’indifferenti, brutta e bella, insieme, sporca e ricchissima, disgustante ed emozionante!

La processione latina uscì alle tre in punto, dalla grande cappella di Maria Maddalena che appartiene ai francescani. Innanzi venivano i cavass del convento, cioè le due guardie armate e vestite magnificamente, con grandi bastoni dal pomo dorato che battevano in terra, regolarmente; poi i chierici; poi metà della comunità francescana; poi, il baldacchino, sotto il quale era il Corpo del Signore; poi, l’altra metà dei monaci di San Francesco e, dietro, una turba di bimbi, delle scuole francescane, di bimbe cui insegnano le monache di San Giuseppe, e infine i credenti latini, di ogni condizione. Lunghissima processione, come vedete, che si svolgeva, si snodava con difficoltà, data la strana giravolta della chiesa e i suoi mastodontici pilastri e le Cappelle aeree e sotterranee. I chierici e i monaci cantavano; le monache, le bimbe, i bimbi rispondevano, cantando: e alla prima fermata, innanzi al Santo Sepolcro, fra il sole che entrava dagli alti finestroni, fra l’incenso fumante, la giornata parve quella dei Corpus Domini, gloriosa e gioconda, con le voci delle innocenti creaturine, dei pietosi frati, delle monache dalle bianche cuffie.

Quelle monache! Quattro e cinque di esse, vestite di grigio, con le cuffie bianche, andavano e venivano, perchè le bimbe si inginocchiassero a tempo, perchè pronunziassero bene la risposta: e ciò facevano, quietamente, con quell’andare lieve che esse hanno, con quell’affaccendarsi tranquillo e quasi inapparente, sempre pregando. Vi era una monaca di età, più grave, e una giovane e florida, tutta serena nel viso, e una trentenne, sempre in moto, badando a tutto, tacitamente, con una cura ansiosa di ogni minuto. Infine, fra le bimbe, un po’ indietro, vi era un’altra monaca, che subito attrasse la mia attenzione. Anzi tutto, non era vestita di grigio: era vestita tutta di nero, con una tunica e una pazienza simili a quelle delle Carmelitane, le figlie della grande Teresa di Avila, salvo che eran nere, la tunica e la pazienza: la sua cuffia non aveva le grandi ali bianche delle Suore di Carità; ma era una cuffia bianca, piccola e stretta, con un sottogola bianco, anche piegolinato. Di che ordine era? Non claustrata, certo: il suo velo nero era rigettato indietro e pendeva tristemente sul nero della tonaca.

Questa monaca, appartenente ad una regola a me ignota, era alta e snella, le pieghe della sua veste fluttuavano larghe, sotto la pazienza, a ogni passo lento che dava. Il suo andare indicava la persona vinta da una stanchezza mortale: giacchè a ogni passo che dava, si fermava, come se non potesse andare avanti: e ogni volta che si muoveva di nuovo, pareva che dovesse crollare in terra: crollare non violentemente, ma dolcemente, svenire, svanire, sparire. Di lei, non si vedevano che il volto e le mani. Volto giovane, molto: non doveva avere più di ventidue anni; ma così consunto, così pallido, così trasparente, che pareva vi fosse passato sopra tutto il dolore umano. Gli occhi oscuri erano pieni di una lassezza indicibile, guardanti intorno senza vedere, incerti, malinconici, talvolta velati di lacrime; la bocca pallidissima, dalle labbra fini, aveva, in certi momenti, una espressione straziante. E quelle mani, quelle mani! Una di esse, bianca, pendeva, quasi inanimata, lungo la nera veste: l’altra reggeva il cero: e il cero era sottile, ma le dita erano così scarne, così deboli, che tremavano reggendo il cero e quasi lo lasciavano sfuggire. Mani diafane, dalle vene già troppo violacee, mani di donna che piange, che soffre, che agonizza, che muore!

Perchè, subito, il giorno del Corpus Domini mi si abbuiò nella mente? Perchè tutto il mio essere, compiuta la preghiera innanzi alla preziosa tomba fu preso tutto quanto da quell’aspetto di dolore? Perchè io non potei fare altro che guardare quella persona fragile, che appena appena si trascinava dietro la processione, che ogni tanto vacillava come colpita da vertigine, che volgeva i suoi grandi occhi dolenti, senza sguardo? Io non so. Fui vinta da un sentimento ignoto di pietosa curiosità sentimentale, dal fascino dei dolori che passano innanzi a noi, dal mistero di tutto ciò che è triste, dall’apparizione di un’anima silenziosa, avvolta ne’ veli di una sofferenza sconosciuta. Chi era colei, donde veniva, che soffriva? Io non sapeva nulla; io nulla poteva domandare, a lei, ad altri: io era nella folla dei devoti oranti, ella era fra le bimbe che cantavano, ed era una monaca, e parea che morisse, a ogni fiato, di dolore, di sofferenza: questo, niente altro. Ma bastava, perchè l’anima mia, in quel mistico pomeriggio, ritornata dalle sue divine contemplazioni, si legasse a quel fantasma, chiuso nelle vesti monacali, come a un enigma di pianto.

Quanto quella monaca doveva soffrire! Si vedeva che per venire in chiesa e per seguire la processione ella aveva fatto uno sforzo sovrumano: e le forze le mancavano, ogni tanto. La processione era lunghissima, e faceva grandi fermate: a ogni chiesa, a ogni cappella, tutti s’inginocchiavano e pregavano, cantando per un quarto d’ora, per mezz’ora. Ella non s’inginocchiava, poveretta, cadeva sulle ginocchia, perduta nelle onde nere della sua veste monacale, immersa in un accasciamento profondo, a capo basso, con la mano che tenea il cero senza più forza, lasciando colare a terra le stille della cera: uno straccio, per terra, un batuffolo nero, donde, ogni tanto, si levava un volto bianco, esangue, come aspirante invano l’aria. Il levarsi le era di una pena infinita: e due volte, la vidi farsi anche più pallida e socchiudere gli occhi, come se morisse.

Quelle lunghe stazioni, in ginocchio, ne dovevano esaurire ogni estremo vigore: alla terza cappella, umilmente, ella andò ad inginocchiarsi presso il muro, per sorreggersi. Povera, povera! Due e tre volte, tentò di cantare anch’essa, rispondendo ai mottetti, volendo unire la sua voce a quella fresca e forte delle bimbe e dei bimbi: ma solo la bocca, la dolente bocca si schiuse, nessun suono ne uscì e io vidi delle lacrime passare nei begli occhi oscuri. Ogni tanto la monaca, che più si occupava delle fanciullette, le sorrideva, di lontano, e la infelice le rispondeva, con un sorriso così malinconico, così stanco, così infinitamente stanco! Erano dei sorrisi incoraggianti, quelli che la custode delle bimbe le dirigeva; ma la dolente non ne traeva conforto. Ella si faceva sempre più bianca. Due grandi ombre nere si allungavano, sotto i suoi occhi.

Ora muore, forse — pensai io, tremando, come se fossi in preda a un sogno pauroso.

E un sogno mi pareva, quella lenta teoria di monaci, di chierici, di conversi, quell’ondeggiante baldacchino bianco, quelle file di bambine e di fanciulli dalle bocche schiuse, dalle gole piene di canto, dagli occhi tranquilli e beati: tutto quel misticismo buono e sereno, effondendosi sotto le volte dell’antichissimo tempio, dove il Figliuol dell’Uomo era stato crocifisso ed era giaciuto, morto, pareva un gran sogno di pace e di preghiera, attraversato da un’ombra che sembrava avesse chiuso nel suo petto, nel suo cuore, tutte le asprezze, tutte le torture, tutte le miserie umane. Quella monaca! Gracile e sparente nelle pieghe della sua nera tonaca, con un piccolo viso consumato da uno squisito e terribile male — che male? — un male dell’anima, un male del corpo? che male? con quegli occhi nuotanti in fluido di tristezza, con quella bocca sottile dalle labbra violette, con quelle mani così pure e così bianche come l’ostia e che ricadevano, ogni tanto, senza energia per tenersi, quella monaca era l’emblema di quanto può sopportare questa povera esistenza umana, così limitata nella gioia, così senza confini nel dolore!

— Oh, muore, muorepensai ancora, in un minuto, vedendola appoggiare il capo a un pilastro, quasi esanime.

Ma la monacella guidatrice del piccolo armento infantile, si era accostata a lei e le parlava pianissimo. La misera l’ascoltava, a occhi socchiusi, senza rispondere: due volte accennò col capo di no, fiaccamente. Quelle parole dell’altra, chi sa, le avevano dato del vigore. Quando la processione riprese la sua strada, andando da una cappella all’altra, ella si levò, d’un tratto. Aveva preso un rosario dalla tasca e lo aveva accostato alle labbra, quasi che da esso sorbisse un liquore confortante ed eccitante. Ma, più innanzi, quando si dovette discendere alla chiesa sottostante, della Invenzione della Croce, io tremai per lei. Una scala larga, a gradini sconnessi e lucidi, vi conduce: quindici e venti gradini, senz’appoggio, su cui si distese la coda della processione mentre, laggiù, innanzi all’altare di sant’Elena, i frati salmodiavano. Ah! ella non potette discendere. Si trattenne su, sotto l’arco della scala, in ginocchio appoggiata all’architrave: io la rivedo ancora, così smorta, fra la cuffia ed il soggolo, con le palpebre illividite e abbassate sui cari e tristi occhi, con la bocca un po’ aperta, di chi respira difficilmente — qual male atroce, dunque? — e le due mani tenenti il rosario, il cero, afflitte da un tremore mortale. ella potette salire alla chiesa del Golgotha. È all’altezza di un primo piano, la chiesa del Calvario, e da una balaustra si affaccia in quella del Santo Sepolcro: misteriose tenebre la circondano, lassù, i ceri vi mettono una luce che non si spande e gli argenti della Madonna e dei santi bizantini, qua e , scintillavano. Una rapida, stretta, marmorea scala vi conduce, in alto: e per essa ascese la processione, non tutta quanta, giacchè non è grande la chiesa del Golgotha. Udivo le voci cantare, lassù, innanzi a quel cerchiello gemmato e aureolato di oro, ove fu conficcata la croce: e venivano, sin giù, gravi sonore quelle dei monaci, più giovanili e argentine quelle dei chierici, tènere, un po’ stridule, un po’ trillanti quelle dei bimbi e delle bimbe.

La monaca non era salita. La vidi tentare l’ascesa: non potette: al primo scalino, non resse più. Anzi, strano a dirsi, per un minuto, come un’onda di sangue le corse al viso e lo infiammò: ella ebbe un passaggio di disperazione sul viso, a quel calore, a quel rossore: strinse le labbra, come se reprimesse un singulto, un grido, un sospiro, non so che: e parve aspettasse, in uno stato di agonia, qualche cosa di terribile, tanto i suoi occhi erano sgomenti e spalancati, tanto una intensa ansietà le si leggeva sul volto. Sopra, pregavano e cantavano, A mano a mano, il suo viso si fece di nuovo bianco, allontanandosene il sangue che lo aveva fatto abbruciare, ai pomelli, sulla fronte: le tinte pallide, ceree, vi ripresero il loro dominio. E mentre ella restava in ginocchio, innanzi allo scalino dove non aveva potuto salire, io, di dietro al mio pilastro, io vidi da quelle palpebre abbassate uscire due grandi lacrime. Taciturna, nell’ombra, smarrita fra le ombre, a capo chino, ella piangeva, senza singhiozzare, senza nemmeno sospirare: le grosse lacrime uscivano dalle frangia bruna delle sue ciglia, si disfacevano sulle guance scarne, piovevano sulla veste nera ed ella non pensava neppure ad asciugarle; le lasciava cadere, così, mentre la mano che teneva il rosario, ormai non lo portava più alle labbra e il cero era quasi consumato, fra le dita. Pianse; non so, io, quanto pianse: mi parve che fosse un fiume di lacrime: un mare di lacrime, sgorgato da quegli occhi, e che le avesse impregnato la veste e la persona, e che avesse inondato la chiesa e che avesse sommerso il mio cuore e la mia persona. Ora, la monacella delle bimbe, svelta e operosa, ridiscendeva, e passando vicino alla poveretta, si fermò un minuto, guardandola. Non le disse nulla. Si guardò attorno. Tutti pregavano: la penombra era fitta. La monacella cavò dalla tasca il suo fazzoletto e asciugò le lacrime della piangente, con un gesto gentile e carezzoso. Quella levò il capo e ringraziò, con un moto melanconico degli occhi e della bocca.

Ora, non restava alla processione che di pregare innanzi alla pietra dell’unzione, per terra. Sovra di essa, fu disteso il corpo di Gesù per imbalsamarlo, e milioni di baci di credenti non l’hanno consumata. Sovra vi ardono quattordici lampade di argento: e nell’entrare e nell’uscire dalla chiesa del Santo Sepolcro, ognuno vi si prosterna, lungo disteso per terra, per toccarla, con la fronte e con le labbra. Tutta la processione circondò la pietra della unzione. prosternandosi, baciandola, a mano a mano, sotto le quattordici lampade di fine argento che perennemente vi bruciano sopra. Prima, baciarono la bianca lapide, lucida dai baci, i monaci francescani, uno ad uno; poi i chierici, poi le bimbe e i bimbi; poi, tutti i devoti: era un chinarsi, un buttarsi giù, unico: certe bocche si fermavano più a lungo, sul marmo: certe altre lo baciavano freneticamente! certi volti si rialzavano, tutti turbati da quel contatto. La monaca era rimasta addossata a una parete del vestibolo, dove è la pietra dell’unzione, con gli occhi chiusi: aspettò che, lentamente, la processione si allontanasse, per inginocchiarsi sulla sacra reliquia. Si guardò, con occhio smarrito, intorno: era sola. Non s’inginocchiò, cadde: cadde, con le braccia aperte, abbracciando convulsamente la pietra, baciando la pietra convulsamente. E restò , come un corpo morto, qualche cosa di nero, che adorava la pietra dove Gesù fu imbalsamato dalle pie donne.

 

 

Ho più tardi, saputo la istoria di questa monaca. Era tisica, quasi morente, ed ora venuta in Terra Santa, inviatavi dal suo convento, per vedere se Gesù avesse fatto un miracolo, per quella poveretta. L’aria calda d’Oriente, talvolta, aiuta la volontà divina. Ma ella non aveva detto così. Sicura di morire, aveva dichiarato di voler morire dove era morto il suo Signore. Quella festa fu l’ultima a cui prese parte. Quando io partii per la Galilea, ella era già riunita al suo Signore, come aveva desiderato.



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