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NELL’IDILLIO
I.
Ephrata...
Chiedo perdono di aver adoperato una parola ebraica nel titolo: essa è così significante, ed esprime con tanta verità quello che è Betlemme, terra di Giuda! Ephrata è il nome ebraico di Betlemme e vuol dire la fruttuosa. Ora, se così soave non fosse alla nostra favella la parola Betlemme, se essa non ci fosse infinitamente cara nel titolo perchè nostra madre ce la insegnò, perchè i nostri figli la impararono da noi, forse noi l’abbandoneremmo per l’antico motto, dove pare raccolta tutta la virtù e tutta la forza dell’umile paese della Natività. La fruttuosa, dunque: cioè il posto dove, per una benedizione del cielo, qualche cosa di grande e d’insperato si è compiuto, e da quel giorno felice, il grano dei campi come l’erba dei prati, l’ingegno degli uomini come la bontà delle donne, la florida bellezza dei bimbi come la venerata vecchiaia degli anziani, tutto, tutto ha fruttificato e fruttifica, al calore benefico di un sole materiale e spirituale. Certo, solo qualcuno o niuno rammenta l’antico nome, per cui il carattere della semplice e bella terra di Giuda è così impresso nel suo senso simbolico: ma tutti ricordano le profezie e le invocazioni a questa cara povera terra, da cui doveva uscire il Salvatore delle anime. Dicevano le profezie che non sarebbe stata l’ultima, Betlemme, ma che si rallegrasse, perchè era dal suo seno che sarebbe uscita la novella luce del mondo: e il gran frutto, veramente, in una notte gelida di dicembre sotto lo scintillio delle altissime e pure stelle, in un khan dove erano raccolti, sotto la parete di roccia, anche degli animali domestici, il frutto divino era nato nella fortunata Betlemme. Chi la chiamò, dunque, Ephrata? Quale profeta le attribuì questo emblema? Quale antiveggenza, quale chiaroveggenza colpì coloro che dettero un titolo alle bigie mura che discendono per il colle, fra i vigneti, fino alla gran pianura, donde i pastori salirono ad adorare la creaturina rosea, un po’ tremante di freddo, nei suoi bianchi pannilini? Quando, nell’alba, il piccolo figlio ebbe teso le manine all’azzurro cielo da cui scendeva, e Maria si fu consolata delle sue sofferenze e della sua povertà, innanzi alla ricchezza che le era nelle braccia, ecco, i destini di Ephrata erano compiuti, giacché essa era stata veramente fruttuosa, giacchè dalla divina vigna si era staccato il grappolo divino, che doveva contenere la vita; ed essa si potette chiamare Betlemme, nome dolce, nome indimenticabile che tutti i teneri cuori non possono udir pronunziare, senza struggersi dalla tenerezza, segretamente.
Così graziosa e vivida e simpatica, Betlemme, arrampicata alla sua collina! In un’ora vi si va da Gerusalemme, e vi è miracolosamente in Turchia, una strada carrozzabile che si percorre, senza rischio di rompersi il collo e senza neanche troppe scosse; il che, subito, vi fa l’effetto di una dolcezza inaspettata. Come vi avvicinate a Betlemme e girate un angolo di strada, voi lo vedete tutto quanto, il caro paese, ove nacque il bimbo divino: esso discende, folto di case fra i campi seminati, fra vigneti, fra gli alberi di frutta dove eccelle quello dell’albicocca, circondato di verde, serrato fra la sua modesta ricchezza agricola. Poi, entrandovi, voi attraversate, è vero, una via molto stretta, ma, dalle porte aperte delle casette, voi scorgete degli ambienti puliti, decenti, senza quella nerezza e quel puzzo di tante altre case, ahimè, cristiane di terra Santa! La popolazione di Betlemme ascende, adesso, a ottomila anime, ma la sua maggior gloria non è di esser diventato, da un povero borgo attaccato a certe cave di pietra, quasi una piccola città, non è nell’agiatezza che vien ad essa dal lavoro, dall’attività, dall’infaticabilità, ma è di essere, quasi tutti gli ottomila suoi cittadini, cristiani.
Il paese prescelto dal destino, perchè il picciolo Redentore vi aprisse gli occhi alla luce, non può avere nè musulmani, nè ebrei; e il titolo di cristiani, ai Betlemiti, pare il più grande che essi possano avere. Ora, circola in questa Betlemme, così sognata, spesso, nei sogni infantili, tale un soffio soave di bene che, sembra — e non sembra solo, ma è — la Natività v’irradii tutta la sua poesia. Questi Betlemiti amano il lavoro, come la sorgente di ogni loro fortuna: le loro industri mani incidono delicatamente la madreperla, in tanti oggetti di pietà; essi intessono i bei rosarii; essi lavorano quella nera pietra vulcanica, che è la pietra del Mar Morto, in oggettini da tavolini; essi adoperano l’ambra, l’olivo, gli ossi dell’olivo, e persino i granelli dei frutti per far corone, per far collane: essi non hanno mai riposo, sino a che il fondo del loro magazzino non sia completo. Poi, partono. Il Betlemita è viaggiatore. Esso va lontano, da Betlemme a Roma, in Francia, in America, a vendere la sua merce, vivendo frugalmente, imparando sempre la lingua del paese dove va, guardando, osservando, acquistando un’acutezza e una cortesia di modi, che solo nella felice Betlemme si ritrova. Coloro che non lavorano e non viaggiano, coltivano i campi: e mentre i fratelli sono lontani, essi aumentano la piccola fortuna della casa e al felice ritorno, tutto si mette in comune, il frutto del commercio e il frutto dell’agricoltura. Nè sono avidi: essi vogliono che le loro case sieno nette, che i loro figliuoli non guazzino nel fango del ruscello, e le loro feste di Natale hanno uno sfoggio grandioso, e vi è pellegrinaggio di tutta la Terra Santa, ai ventiquattro dicembre, per assistere alle funzioni nella chiesa della Natività. Essi amano molto le loro donne e ne sono anche molto gelosi: pure, non le trattano con quel disprezzo orientale, che vi ferisce in tutti i paesi turchi, da Jaffa a Smirne, da Beyrouth a Costantinopoli. La donna betlemita è un elemento di benessere e di felicità, nella loro casa, come in nessun’altra regione di Palestina.
E la donna betlemita merita questo amore, questa gelosia, questo rispetto. Anzi tutto, ella è schiettamente bella. Non bruna, ma di un pallor caldo e vivo, i suoi occhi sono larghi, aperti e hanno uno sguardo franco e diritto, mentre la bocca, di un puro disegno, è sobria di sorrisi, un po’ austera, forse, ma nobile. (Ora, quasi dappertutto, in Oriente, le donne guardano con gli occhi socchiusi, obbliquamente: e le loro bocche sono grandi e mal tagliate). La betlemita non è alta, ma porta la persona così fieramente e la testa così diritta sul collo, che sembra alta: la sua persona è grassoccia, senz’essere grassa: i suoi piedi e le sue mani sono piccoli. Poi, il suo vestito ha una linea artistica. Ella indossa una tunica lunga e stretta di cotone azzurro cupo, che va dal collo sino ai malleoli; ed è rialzata, questa tunica, un poco, come una camicetta, da un cordone alla cintura. Sopra questa tunica, ella adatta una duplice stola, avanti e indietro, di lana azzurra cupo, ricamata tutto di rosso. Se ella è fanciulla, non porta che un nastro nei capelli, e sopra questo un gran fazzoletto o velo di cotone bianco, riccamente ricamato di rosso, di azzurro, all’orlo: ma se è maritata, sui capelli porta una specie di berretto di panno, su cui, attorno attorno, sono cucite le monete di oro e di argento, che formano tutta la sua dote. Le monete hanno un buchetto e si reggono cucite, come tante foglie, una sull’altra, tanto che ve ne possono metter molte, di monete. Su quel berretto, la betlemita maritata gitta il suo velo, ma con tanta grazia e con tanta dignità che l’occhio ne è incantato. E credete che queste betlemite sieno donne di semplice figura? No. Mentre la pigra gerosolimitana pensa solo ad accovacciarsi in chiesa, con l’occhio stupido, e il suo figliuolo nelle pieghe del suo velo, con tre e quattro figli intorno, e passa le ore a dire orazioni che non capisce, la svelta betlemita lavora alla casa, fa qualche piccolo commercio di frutta e di grano, e persino si occupa a incidere la madreperla. Mentre il suo uomo è lontano, ella guarda la casa, ella cresce i figliuoli, ella aumenta il peculietto familiare e la sua fierezza la mette al coperto da qualunque pericolo. Ah, bisogna vederle, quando scendono a Gerusalemme, con le anfore di olio sul fianco, o col paniere della frutta, camminando ritmicamente, col velo gittato su dal berretto, a pieghe statuarie, coi piccoli piedi che appena toccano terra! Esse guardano e passano, quietamente superbe e pure umili: e al pomeriggio, salutato il Santo Sepolcro, finito il lavoro con la preghiera, esse ne ritornano, a gruppi di quattro e cinque, al loro grazioso paese. Non cantano, non parlano, le belle bocche sono mute e fiere.
Ora, tutto questo, dicono i Betlemitani, è un gran dono del Divino Fanciullo.