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II.
Il presepio.
È evidente che Nostro Signore è nato in un khan. Il khan, in Oriente, non è neanche una locanda, è qualche cosa di molto meno. Per lo più, è un edificio di cui esistono soltanto le mura grezze, senza tetto; spesso è in piena campagna, spesso è appoggiato a qualche roccia, a qualche grotta; talvolta, quando il khan è magnifico, possiede una mezza tettoia, un lembo di tettoia. È un luogo di sosta, di riposo, fatto specialmente per i cavalli, per i muli, per gli asini: vi sono delle rastrelliere, vi si trova del fieno, dell’orzo, vi è dell’acqua, gli animali possono mangiare e bere. In quanto ai moukres, cioè i cavallari, essi si stendono per terra, col capo sulla sella e si addormentano al chiarore delle stelle e al fulgore del sole. Il viaggiatore si può sedere o sdraiare fuori la porta del khan, sovra un poggiuolo di pietra che serve per montare a cavallo, e se ha un mantello e un tappeto, può anche dormire, fuori di questo khan. Ordinariamente, pel viaggiatore non vi è altro rinfresco che un bicchiere di acqua: se il khan è assolutamente magnifico, si può arrivare ad avere persino una tazza di caffè, ma niente altro. In questi khan vi è il padrone, con un paio di garzoni: nei khan più lontani, in posti un po’ pericolosi, il governo turco mantiene un soldato, un zaptiè.
Nel felice tempo della Natività, i khan dovevano essere anche più primitivi, per lo più prolungazioni delle grotte naturali. Betlemme aveva una piccola locanda, ma Giuseppe e Maria, non potettero andarvi non già che mancassero dei denari per pagare l’alloggio, ma perchè la locanduccia era piena zeppa. Quirino, in nome dell’Augusta Roma, aveva bandito il censimento e tutta la Palestina era sossopra, giacchè ognuno doveva andare a segnarsi nel paese di cui era oriundo. Giuseppe, discendente di Davide, malgrado il suo molto umile stato di falegname, doveva andare a Gerusalemme. La via da Nazareth a Gerusalemme, per Nahim, è lunga sei o sette giorni di cammino, a piccole tappe: Betlemme era una delle ultime stazioni dove Maria e Giuseppe, stanchi, si fermarono la notte del ventiquattro dicembre. Essi, non trovato posto all’alberguccio, si rassegnarono ad andarsene al khan, dove sarebbero stati poche ore, dovendo il dì seguente partire per la città santa. Così Maria, che, in quel tempo, se tutte le tradizioni di Terra Santa non isbagliano, aveva quattordici anni e mezzo, partorì in quel poverissimo rifugio, dove si battevano i denti dal freddo; e gli animali, che erano lì presso, videro il Piccolo Figlio sulla paglia della loro rastrelliera e vennero a riscaldarne il corpicino col fiato caldo. In alto, su quel misero ritrovo di animali e di gente umile, si fermò la luminosa stella che aveva guidato i tre Re nel loro cammino: uno di essi veniva dalla Persia, uno dalle Indie e uno dall’Abissinia, e tutti, con le loro ricchezze, con le loro offerte, vennero a inginocchiarsi innanzi al povero khan di Betlemme, dove il bimbo aveva aperto gli occhi, che dovevano accendere il mondo di una luce di amore.
A che farvi la storia della chiesa, bellissima, edificata sul sacro posto della Natività? Tutte queste chiese di Palestina, dovute in massima parte alla immensa pietà di sant’Elena, madre di Costantino, sono state distrutte totalmente o in parte, sono state ricostruite intieramente o rifatte in parte: questo cinque o sei volte, e la loro istoria è complicata. Qui, a Betlemme, malgrado le vicissitudini, e non sono state poche, la grotta dove nacque il fanciulletto divino, è rimasta intatta. Si prende un piccolo cero, sopra, nella chiesa, e si discendono dodici scalini abbastanza alti, tagliati nel muro. L’ombra vi si fa folta, intorno, mentre camminate per lo strettissimo corridoio di un sotterraneo. Alla fine, un vivido chiarore di lampade vi colpisce, un luccicare di ori e di argenti, e voi vi trovate nella grotta della Natività. È una grotta naturale, fatta di una roccia calcarea tenera e sormontata da una volta artificiale. La sua lunghezza è di dodici metri, la sua larghezza di tre o quattro metri, non più: essa ha tre porte, ma non riceve nessuna luce di fuori. Vi ardono cinquantatrè lampade, continuamente: e il suolo è coperto di marmo bianco e anche le pareti della roccia: una splendida tappezzeria in cuoio impresso copre queste pareti. A sinistra, entrando, dopo tre passi, voi trovate un’abside e, sotto, un’apertura circolare che lascia vedere una pietra di colore bluastro, un gran diaspro: quest’apertura circolare è circondata da una stella in argento, inchiodata sul marmo. Intorno al disco, vi è scritto HIC DE VIRGINE MARIA JESUS CRISTUS NATUS EST. Le ginocchia si piegano e avidamente le labbra si posano sul freddo argento, come se vi ricercassero la pura fronte del neonato, la piccola mano innocente. Ma poco più su, la roccia ha uno scavo: è la culla, è il posto della rastrelliera, dove la Vergine Maria mise a dormire il piccolino, invocando su lui benigna la notte di dicembre: è il posto ove sono venuti a inginocchiarsi i pastori che vegliavano nella gelida notte, i pastori che furono qui sospinti dalle parole dell’Angelo: andate e troverete un bimbo avvolto nei pannilini e coricato in una grotta: Esso è il Signore. Ed ecco, davanti ai nostri occhi sparisce la meravigliosa chiesa, costruita su questo misero ricovero della giovinetta madre e del neonato; voi dimenticate che, essendo più che mai qui sfrenato il fanatismo dei greci scismatici, il governo turco deve tenere presso ogni altare, sempre, un soldato, perché non si rinnovi un’altra guerra di Crimea, accaduta perchè i greci, nel 1847 rubarono la stella della Natività; voi non vedete più nè soldati, nè preti greci, nè preti armeni, nè nessuno più: voi non vi accorgete più delle ricche lampade e dei marmi preziosi che formano gli altari e delle tappezzerie istoriate e dei quadri; voi non vi rammentate e girate per sotterranei e urtate in qualche persona ignota. Che è ciò? Nulla. Qui è nato il Bimbo verso cui si stendono, da duemila anni, mani di tutti i bimbi cristiani della terra: questa è la culla dove egli è stato deposto, dalle mani leggiere e carezzose della giovane madre: qui, forse, per addormentare il piccolo infante essa gli cantò una canzoncina, nel lento e molle linguaggio ebraico. Questo il presepio. Questo è il posto semplice, ingenuo, candido, familiare, che le più umili immaginazioni sognano, che le mani più pie, più tenere e più inesperte tentano di riprodurre: questo è il posto verso cui vanno le aspirazioni più miti e i desiderii più casti. Chi può pensare altro, sentire altro, qui, che questo mistero così commovente nella sua povertà e nella sua nudità, chi può avere altra emozione che quella più amorosa, più materna e più figliale? Il presepio: ah, guardiamolo bene, poichè se tutte le esistenze consumate nelle lotte e nelle sofferenze domanderanno al cronista vagabondo, di ritorno nella patria, che cosa sia il Golgotha e che cosa sia il Santo Sepolcro, se tutte le anime che ancora non piegarono, che ancora combattono, vorranno conoscere che cosa sia il Monte degli Ulivi e che cosa sia Gethsemane, ben altre più curiose e più insistenti interrogazioni riceverà il cronista, varie piccole anime, intorno al presepio, intorno al loro grande affare mistico.
I bimbi non sanno il dolore della Passione: essi non conoscono che questa grotta gelida, dove intorno viveva una gran campagna piena di alberi, di prati, di viottole fra il verde — non così, dunque, è il paesaggio di Betlemme? — dove era una popolazione di pastori, di agricoltori, di suonatori di cornamuse, di cacciatori, persino, dove, da tutte le strade, accorrevano persone, in questa povera piccola grotta, a guardare la creaturina, nella sua culla di pietra, sulla paglia degli animali domestici! Le piccole mani dei bimbi tremano di commozione, quando nella notte più nera e più fulgida dell’anno essi portano un bambinello Gesù, tutto nudo, eppure sorridente, per collocarlo in fondo alla grotticella del loro presepio: e certo, in questa notte, le preghiere, le emozioni, le tenere lacrime salgono al cielo più gradite, più care, venute da innocenti, sovra un innocente. Bisognerà dirlo, al ritorno, ai bimbi dai grandi dolci occhi curiosi, dove brilla una luce di intelligenza e di pietà, che il presepio è come essi lo suppongono, una piccola grotta dove il musco e l’erba si stendevano, dove nella penombra s’intravvedevano i placidi occhi del bove e il bianco muso dell’asinello, dove Maria si è chinata sul bimbo per riscaldarlo del suo calore, dove, innanzi alla porta, tutta una fila di gente buona e semplice è venuta ad inginocchiarsi. Chi dimenticherà mai questa viva roccia e questo cerchio di argento, dove palpitò la prima volta il cuore di Gesù? Chi la potrà obbliare, quando bisognerà raccontarla ai piccoli amici del Divino Fanciullo, a queste creature care, che gli formano intorno il coro che egli più ha amato, in tutta la vita? Essi ascolteranno, attoniti: e saranno ben felici che la loro illusione non svanisca: e chi parlerà loro sarà assai più felice, nel raccontare loro solo la verità.