Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Nel paese di Gesù
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QUATTROCENTO METRI SOTTO IL MARE

III. Sodoma e Gomorra

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III.

 

Sodoma e Gomorra.

 

Il Mare Morto è lontano dieci leghe, da Gerusalemme, collocato a millecentosettantatrè metri sotto il livello della Santa Sionne, a trecentonovantadue metri sotto il livello del mare Mediterraneo, in tale depressione, da far credere di essere discesi in un sotterraneo. La immensa coppa delle sue immobili acque è chiusa da due catene di montagne alte e nude, i monti di Giuda e i monti di Moab; e sulle rive nude, come sulle vette eccelse, non appare traccia di vita umana o vegetale, mai. La larghezza più grande del Mare Morto è di diciassette chilometri: la sua maggior lunghezza, è di settantadue chilometri: la sua profondità maggiore, di centonovantasette metri. Ma nella rigidezza metallica delle sue acque, nella tinta uniforme, dove pare che non si possa specchiare neppure l’azzurro del cielo, l’occhio misura vagamente sterminate vastità; e, nella immaginazione, rimane l’apparizione di un oceano immobilizzato, che niuna nave oserà mai varcare. Le acque del Mare Morto sono grasse e pesanti: non mancano di limpidità, ma lo sguardo non penetra oltre i primi strati scintillanti, micacei, come minerali. Esso offrono una grande resistenza a chi vi si vuole bagnare, giacchè è molto difficile di potervi penetrare e il corpo viene subito a galla, come un pezzo di sughero; l’audace che voglia prendervi un bagno, dove coprirsi il corpo contro i minerali che sono nell’acqua e covrirsi la testa per evitare i colpi di sole: per nuotarvi, bisogna arrivare a tener la persona obliquamente, perchè nella posizione ordinaria le gambe si alzano, il busto va giù, la bocca beve involontariamente dell’acqua e il suo sapore è orribile. Quando l’acqua del Mare Morto penetra negli occhi, vi produce dei bruciori insopportabili, simili a quelli del tabacco, ma più persistenti; e, uscendo da quell’acqua, la pelle è tutta coperta di cristalli di sale, come si ricopre di simili cristalli qualunque oggetto vi si immerga. Essa contiene del sodio, del cloro, del magnesio, del calcio, del potassio, dell’acido solforico, del bromo, della silice, dell’acido carbonico, in molta quantità, il cloro specialmente: e vi si trovano anche delle tracce di ferro, di manganese, di alluminio, di acido fosforico, di ammoniaca. La sua temperatura è calda, ma variabile: spesso s’incontra uno strato di acqua fredda, fra due strati di acqua calda. Non un essere vivente, nel seno di questa acqua, nessuna specie di pesci, che possa resistere alla salsura del lago d’Asfaltide: talvolta, ma raramente, qualche triste uccello acquatico ne rade lo specchio metallico, senz’appannarlo, e presto sparisce.

Il Mare Morto riceve tre fiumi: l’impetuoso Giordano, il Callirhoe e l’Armon; ma il Mare Morto non ha sfogo: tutto ciò che vi si riversa di centinaia, di migliaia di litri d’acqua, non aumenta le sue dimensioni, non fa crescere il suo livello: il fenomeno di una immensa evaporazione è di una bizzarria che aumenta la solennità e il mistero dello ambiente. Per tre o quattro miglia, intorno, la terra arida biancheggia di sale e le zampe dei cavalli affondano in quel candore, come in una neve scintillante. Qua e , ma lontano dalla spiaggia, sorge qualche arbusto contorto e inaridito: vi crescono degli strani frutti, che, quando sono freschi, hanno un orribile sapore d’amaritudine sulle labbra e, quando sono secchi, sono ripieni di cenere. È il frutto del Mare Morto, nato da una vegetazione condannata, in un tetro deserto, un frutto atroce al palato, frutto di castigo, anche esso portante le tracce della maledizione di Dio.

 

 

Innanzi a questo mare senza onde e senza tempeste, che ha, nelle albe orientali, l’azzurro freddo dell’acciaio non temprato e, nelle ore più luminose, arriva allo scintillio dell’argento fuso, su questa spiaggia che non vide mai una barca di pescatori, un battello di naviganti, e in cui i piedi degli uomini e degli animali si sprofondano in una arena bruciante, innanzi a quest’acqua che, ricevendo il vivido e sonante Giordano, lo uccide, innanzi a queste acque morte, la curiosità puerile si tace, ogni frivola ansietà di viaggiatore spensierato si dilegua. Che importa se il manico dell’ombrello esca tutto brillante di sali, e il fanciullo del cavallaro, venendo fuori da quelle acque, paia una statua di sali, mentre il volto gli si raggrinza per il bruciore degli occhi e delle labbra? Che importa se quella isoletta, laggiù, talvolta appaia, talvolta scompaia, sommergendosi nelle acque o emergendone? La distanza, fra l’isoletta e la riva, che preme, e che preme se un qualche inglese l’ha percorsa a nuoto? Chi osa occuparsi di questi particolari, innanzi all’alto e tragico silenzio che domina sul Mare Morto, fra gli acri sentori che vi parlano di bitumi e di zolfi, tra lo aspetto austero che prendono persino gli arabi che vi accompagnano, creature impressionabili e timorose dell’ira di Dio?

Piuttosto, è una fantastica curiosità che vi fa discendere da cavallo, che vi fa piegare ansiosamente su quelle acque, guardandovi dentro con la stessa intensità con cui, forse, Dante ficcò lo viso a fondo nella sua immortale e funebre visione dell’inferno. Sotto le fumanti acque di questo lago d’Asfaltide, seppellito da una pioggia di fuochi devastatori, di bitumi soffocanti, di metalli incandescenti, giacciono le cinque città peccatrici, giace, la superba e sciagurata Pentapoli, in cui non fu possibile di ritrovare dieci giusti: e il Signore lo fulminò, questo nido voluttuoso di vizii e di orgogli, il castigo si allargò truce, implacabile sulle cinque città, e il Mare Morto con le sue acque calde, viscide, fermentanti, simile a immenso crogiuolo in fusione, distese sulla valle aprica, dopo aver inghiottito le case, i palazzi, i templi, dove non uno degli abitanti si salvò.

Di Sodoma e Gomorra, di Adama, di Segor e di Soboim, non una pietra rimase, non una traccia umana, e per tutto il gran paese dei patriarchi il terrore di quella punizione celeste si distese, e Sodoma e Gomorra furono, nei tempi dei tempi, lo spettro pauroso di tutte le città date al peccato, e l’orrendo presentimento del fuoco di Dio, ruinante dalle sfere sulla terra, turbò i sonni dei re empii e dei principi infedeli. Qual lungo pellegrinaggio, di lontano, verso questo lago di Asfaltide, immoto, vasto e solitario, dove non grido di uccello passa nell’aria, dove le acque respingono gli animali e gli uomini, dove tutto è cocente, dove le palpebre arroventate soffrono, e soffrono le nari frementi, e sulla lingua è impossibile non provare un senso di amarezza! Per secoli e secoli, qui convenne la gente, attirata da questa valle di punizione; e quanti volti umani, pensosi, tristi, si curvarono, volendo conoscere il segreto di Asfaltide: e ognuno tornò indietro, più pensoso e più triste, avendo aggiunto ai sottili veleni, che sono deposti in fondo a ogni cuore e per cui le sorgenti della vita si attossicano, questa infinita tristezza che è la visione del Mare Morto.

mai, come in questo lago di Asfaltide, il simbolo ebbe una più efficace e terribile espressione. No, lo sguardo non giunge a distinguere i profili delle città sommerse, nelle quietissime morte acque: Sodoma e Gomorra sparvero per sempre, e non pietà di anima religiosa, non entusiasmo di spirito artistico, potrà mai evocarlo, dal liquido e bituminoso sepolcro. Eppure il peccato e il suo castigo, eterna, indivisibile, inflessibile unione, sono dappertutto. Quella immensità deserta, dove non cresce erba, dove anche la terra è calda, dove anche le zolle sono aridi minerali; quella distesa di mare che giammai non si sollevò in onde, che manda i suoi vapori solfurei nella tranquillità dell’aria, sino al cielo; quel metallo liquido, dove si urtano e ribollono gli elementi più opposti, in mescolanze chimiche stravaganti; quelle tinte senza vita, come fatte di pietra, come fatte di ferro; quell’assenza di vita; la morte di quel leggiadro e vivido Giordano, le cui onde lustrali bagnarono il biondo capo di Gesù, e che vanno a perire nei gorghi profondi e oscuri del Mare Morto; quel calore che dissecca e quel sentore che offende; quell’acqua che è sale e che è metallo; quei frutti che sono vetro e che sono cenere — tutto questo è l’anima, è il suo peccato, è il suo castigo. Colui che avvilì il suo spirito, degradò la sua nobile essenza nei piaceri dell’egoismo, colui che visse della propria superbia e di questa si fece sgabello, trono e corona; colui che adorò la materia, come cosa ideale; colui che sacrificò la parte più pura di , alla più impura di , delle cose e del mondo; costui, nel momento istesso che più grande gli sembra il trionfo del proprio peccato, costui sente di avere, nel suo spirito o nei suoi nervi, in ciò che lo circonda e in quello che per sempre lo circonderà, questo deserto, questa solitudine, quest’aridità.

L’anima che obbedì vigliaccamente ai più bassi e ciechi istinti, appena passata la breve ora delle sue gioie, vede deturpato, per sempre, lo spettacolo della vita: non vi sono, per lui, né campagne ridentifiori che auliscono, uccelletti canori: tutto è pietra, è polvere, è metallo, è ardore tetro, è tormento dei sensi. Il frutto dell’esistenza, così florido agli occhi, così promettente di dolce succo alle labbra, non contiene oramai più per lui, se non un mucchio di cenere. Come un infelice e scellerato abitatore della Pentapoli, egli negò le sublimi ragioni della vita, egli violò per sempre il candore del suo cuore, egli rinunziò alla santità degli entusiasmi, egli tolse fede all’ideale; e quando il suo sogno di piacere è trascorso, egli non ha trovato in sé se non la devastazione, la ruina, il silenzio delle cose morte. Le acque punitrici si sono chiuse su quella devastazione e niuno le indagherà, giammai più. Dio volle che questo paesaggio del Mare Morto, fosse quel che è: l’immagine del peccato e del castigo. Ma chiunque ha vissuto nell’errore e ha idolatrato l’errore, ha visto sommergere l’anima sua sotto un orribile lago di Asfaltide.

 

 


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