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II.
Al Jérusalem-hôtel di Jaffa, vi è sempre molta gente e non ve ne è mai. Mi spiego. Jaffa è il porto dove i battelli francesi, austriaci, russi ed egiziani lasciano e prendono i pellegrini di religione e i touristes di Terra Santa: tutti battelli di una puntualità eccezionale, che arrivano e vanno via a giorno fisso e che risolvono il problema anche di partire a ora fissa, malgrado la importanza maggiore o minore del carico di merci, che debbono imbarcare o scaricare, dappertutto. Or dunque, ogni pellegrino di Gesù, come ogni touriste, sa perfettamente a che ora di quel tale giorno si troverà a Jaffa, e a quale ora di quell’altro giorno, se ne andrà: e sul piccolo taccuino dell’itinerario può disporre di sè stesso e del tempo, con calcoli matematici. Un solo treno ferroviario parte quotidianamente da Jaffa per Gerusalemme, alle due e mezzo pomeridiane: mettendovi tre ore, e aggiungendovi i ritardi naturali in Turchia e naturalissimi in quella perigliosa e odiosa ferrovietta, si può calcolare di giungere in Gerusalemme alle sei e mezzo. Viceversa, un solo treno discende ogni giorno da Gerusalemme a Jaffa: parte alle otto del mattino, è al suo destino alle undici e mezzo. Così, i battelli che portano visitatori ai Luoghi Santi, li depongono a Jaffa, fra le nove e le dieci del mattino: i viaggiatori salgono al Jérusalem-hôtel, si lavano, fanno colazione e ripartono subito per la gloriosa Sionne, che così austeramente li aspetta sovra i suoi colli; i battelli che ripartono imbarcano verso le tre i viaggiatori che vengono via da Terra Santa; costoro, al solito, hanno appena il tempo di lavarsi il viso e di far colazione, al prelodato, anzi prelodatissimo Jérusalem-hôtel. Dopo questa spiegazione, che spero non sia troppo filamentosa, si comprende come il registro dei viaggiatori sia sempre di mattina, ricchissimo, al Jérusalem, mentre, alla sera, non vi è mai nessuno. Il gran tumulto è dalle nove della mattina alle due, ogni giorno: è un rumoreggiare di carrozze, lungo la via polverosa, ma che sale fra gli orti odorosi degli agrumi di Jaffa agricola e orticola, che va dalla città sporca e nera, alla colonia tedesca bianca e linda, di cui il Jérusalem è uno dei più belli ornamenti e il signor Hardegg, proprietario dell’albergo, è la gemma più preziosa: è uno schioccare di fruste e un tintinnìo di campanelli: è una processione di facchini carichi di valigie e di bauli inglesi — quasi tutti inglesi, ahimè — coverti di cartellini, di tutti gli alberghi del mondo: un discutere, un gridare sotto la pergola fiorita, innanzi all’hôtel: è un salire e scendere quelle sonore scale di legno: è un chiamare, dalle porte aperte, per l’acqua, per sapere l’ora della colazione, per chiedere una tazza di caffè: è un rumore di voci, di persone, di chiavi che stridono, di sedie che cascano: tutta la installazione precipitosa di un’ora soltanto, nell’impazienza di andarsene via, ancora. A un tratto la campanella della colazione suona: malgrado la flemma britannica, che farebbe suonare tre campane, non una, prima di venir giù, al Jérusalem è un diruparsi per le scale. Venti, trenta persone, sempre, a colazione: greci egiziani, russi, tedeschi, ma inglesi, sovra tutto: colazione abbondante e mediocre, ma niuno ci bada, dovendo subirla una sola volta, non ci badano neanche i meticolosi inglesi: vino di Hèbron, Hèbroner wine, a una lira la bottiglia: e si divora, distratti, frettolosi, senza neppur guardare i proprii vicini, con cui si starà a tavola, forse, una sola volta. Caffè preso in fretta, bruciante: nota pagata frettolosissimamente e quindi non osservata. Alle due, nuovo tumulto: alle due e mezzo, silenzio profondo, claustrale nel Jérusalem-hôtel, fra il fruscio che viene dagli aranceti, intorno.
Eppure vale la pena di restare due o tre giorni, nell’andare e nel venire, a Jaffa. Non solo per la città che è originale e graziosa e che merita una certa dimora: non solo pei suoi giardini, famosi in tutta la Siria: non solo pei suoi monasteri e per le sue chiese. Dopo tutto questo, vale la pena di restarci pel Jérusalem-hôtel e per il signor Hardegg, suo proprietario. Chi è costui? Un ometto magro, asciutto e robusto, malgrado la sua età: con un paio di corte fedine, che completano una faccia scarna, austera silenziosa: sempre vestito in pantaloni bigi, soprabito nero e berrettino di velluto nero sul capo calvo: sempre corretto e persino rigido, muto, sparente. Il signor Hardegg è un albergatore, sì, ma è anche un cristiano di prim’ordine: non solo cristiano, ma moralista: non solo moralista, ma filosofo. Sarebbe impossibile rilevare tutte queste sue alte qualità intellettuali, giacchè egli non parla, non si degna parlare coi suoi viaggiatori e nelle tre o quattr’ore del tumulto egli fa qualche rara apparizione sulla soglia di una porta, per le scale, dando delle occhiate fredde, qua e là, non dischiudendo le sue labbra sottili, mai. Coloro che fanno nel suo albergo quella breve fermata, hanno appena il tempo di osservare o, forse, non osservano che sulle porte delle stanze, invece di esservi un numero d’ordine, come in ogni altro albergo, vi è il nome di un patriarca, di un profeta, di un grande personaggio, infine, dell’Antico Testamento. Vi erano, sul mio pianerottolo, la stanza Abraham e la stanza Jacob, la stanza Ezekiel e la stanza Elias: girando un poco, si trovava la stanza Davide e la stanza Dan: dirimpetto alla mia, vi era la stanza Melchisedec e io abitava la stanza Josua, cioè Giosuè, il gran generale che fermò il sole. Nè possono, questi viaggiatori, leggere il bizzarro libro che trovano deposto sul tappeto del tavolino, in mezzo alla stanza: libro stampato ora in inglese, ora in tedesco e persino in italiano, e la cui copertina è tutta un simbolo, di animali che raffigurano i sette peccati mortali, di dragoni dell’Apocalisse, di candelabri con sette branche. Dentro… ma qual viaggiatore frettoloso lo apre mai, quel libro? È per questo che il signor Hardegg, albergatore, cristiano e filosofo moralista, prende i denari dei viaggiatori che restano tre ore, ma li disprezza: non vi è mezzo di moralizzare costoro. Quelli che rimangono, quelli sono oggetto dell’evangelizzazione del signor Hardegg. Qualcuno, infine, rimane.
Vi è sempre il console di Grecia, che dimora colà: il rappresentante di Cook, con sua moglie e sua figlia: vi era, in quel tempo, un alto ufficiale turco, un nipote del Sultano, aiutante di campo del pascià di Gerusalemme, un giovane bello, intelligente, coltissimo, uno di quei musulmani raffinati, che hanno vissuto a Parigi, a Pietroburgo, nelle ambasciate. E rimane qualche viaggiatore fantasioso, curioso, stanco, che, per una ragione spirituale o fisica, non sale a Gerusalemme, nello stesso giorno: queste sei o sette persone non fanno chiasso, pranzano quietamente, facendo della conversazione tranquilla. Il pranzo è buono. Il signor Hardegg ama i viaggiatori che si fermano: li può moralizzare: e li fa pranzare bene, mentre gli altri, i fuggenti, fanno colazione male. Il signor Hardegg si decide, nella sua magnanimità, ad essere presente al pranzo: ma non mangia. Quando mangia? Chi sa! Egli digiuna spesso spesso, per devozione. Egli parla — o miracolo — a’ suoi viaggiatori che restano. Sono, per lui, soggetti morali, che leggeranno il suo libro. Difatti, dopo un po’ di conversazione, si sale in camera: si legge qualche libro proprio, un pochino: si scrive una lettera: ma, infine, tutti quei serpenti, quelle volpi, quelle tartarughe, quelle faine sulla copertina vi attirano: e voi leggete il trattato di morale del signor Hardegg. Singolare intruglio di passi della Bibbia e di commenti stravaganti, di frammenti dei santi dottori della Chiesa con postille bizzarre del signor Hardegg, albergatore del Jérusalem-hôtel: minacce, profezie, esclamazioni, frasi misteriose e paurose e, sovra tutto, l’idea che ogni passo che si fa, è un peccato. Per un viaggiatore, la cosa è amena! Distrattamente, si prende e si riprende questo libro, dove, in confusione, si discorre di simboli e dove la filosofia tolstoiana, quella della Sonata a Kreutzer, è rifatta grottescamente. Il signor Hardegg desidera sopra ogni cosa moralizzare i mariti e le mogli: lo stato coniugale gli sembra uno dei più peccaminosi: le apostrofi contro gli infelici coniugati, vi sono violente. Poi, ai suoi viaggiatori che restano, il signor Hardegg fa delle interrogazioni, improvvise. Risalendo dal mio pranzo, verso le nove, lo incontrai presso la porta della mia stanza Josua.
— Etes vous marie? — mi chiese, senza guardarmi in viso.
— Certainement, monsieur — dissi, tutta stupita.
— Lisez mon livre — soggiunse: e scappò.
Lo rividi il giorno seguente, sotto la pergola, mentre salivo in carrozza:
— Vous avez lu? — mi domandò, severamente.
— Oui, monsieur — gli risposi, con umiltà.
— Et vous avez compris? — riprese, con un tono austero, dove non mancava una certa minaccia di castighi divini.
— Je l’éspère — replicai, tutta compunta.
Egli, era contento di me. Difatti l’indomani, trovai una copia italiana del suo trattato di morale: ne avevo tre copie, così, in francese, in inglese e in italiano. Nel pomeriggio, verso le sei, lo vidi che passeggiava avanti all’albergo: giusto io, presso la finestra, in una sedia a dondolo, leggevo le sue elucubrazioni tetre, e sorridevo. Egli mi guardò e crollò il capo, soddisfatto. Gli sembravo una buona pianta. Così, il cameriere venne subito, ogni volta che lo chiamavo, andarono a cercare le mie lettere, alla posta, con una rapidità fulminea: la serva rifece due volte, invece di una, la mia stanza: e la mia bottiglia di Hèbroner, smezzata, mi fu conservata fedelmente. In quei giorni, Hardegg non evangelizzava se non me, un russo malato di petto e una signora inglese: il console di Grecia, l’impiegato di Cook, l’alto ufficiale turco mi parevano, ormai, sordi alle sue lezioni di filosofia morale. Ma io, fra tutti, ero oggetto della sua attenzione: e dall’alto del suo orgoglio di filosofo, mi disse au revoir, quando me ne andai, per salire a Gerusalemme. Difatti, ci rivedemmo dopo sei settimane, quando ripartii per la Galilea. L’albergo era così tranquillo e fresco fra le piante dagli acuti profumi e vi fremeva così vivamente intorno la brezza marina, che io vi passai volentieri due giorni, scrivendo sempre. Sul mio tavolo era aperto il filosofico volume: e il signor Hardegg potette supporre che io prendessi delle note, sulla sua opera. Mi sorrise, di lontano, in quei due giorni: ma una volta soltanto! Quando partii, andandomene definitivamente, in Galilea, egli ebbe la condiscendenza di aprirmi lo sportello della carrozza: e vi rimase appoggiato, mentre caricavano i bagagli.
— Il faut lire mon livre, chez vous. — mi consigliò, con alterigia, non scevra da una tal quale benevolenza.
— Je n’y manquerai pas — promisi, con solennità.
— Et le donner à votre marì. Voilà la copie, pour lui. — e ne cavò una quarta copia, dalla tasca.
— Mercì, mercì... — gli dissi, confusissima.
— Si vous avez des difficultés, écrivez moi. On m’écrit de partout, pour des objections phylosophiques et morales.
— Vous êtes un apôtre, monsieur Hardegg — gli dissi, convinta.
— Oui, madame — egli rispose, degnando di cavarsi il berretto di velluto nero, mentre andavo via.
Del resto, salatissimi i conti del signor Hardegg, del Jérusalem-hôtel.