Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Nel paese di Gesù
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IN GALILEA

VII. Una giornata a Nazareth

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VII.

 

 

Una giornata a Nazareth.

 

Nella sera di giugno; mentre io passeggiava, solinga, lungo il corridoio dell’ospizio francescano, guardando dalle ampie finestre, fra le ombre notturne, la grande valle nazzarena, io fui presa da una infinita tristezza. Vengono questi minuti di smarrimento, quando si è in viaggio, molto lontani dalla patria, molto soli, col senso vago e sterminato della distanza, col fastidio e con lo sgomento del mondo indifferente, ignoto, in cui ci si trova; minuti in cui tutto il fascino della lontananza, del pellegrinaggio in paesi novissimi, fra nuovissima gente, è completamente perduto. Una o due volte, in questo mio viaggio, io aveva provato questo senso di dolore e di orrore, questo desiderio impotente della patria e della famiglia. In quella sera tutta stellata, ma oscura, anche le stelle parvero a me estranee, ostili, nemiche: non erano le mie stelle, quelle del mio paese. Passeggiavo, lentamente, a capo basso: non volevo rientrare subito nella mia celletta, temendo di trovarvi più acuto lo spasimo del mio spirito infermo. Dopo aver sbrigato alcune sue faccende, il frate ospitaliero di Nazareth, frate Giovanni da Rotterdam, un colosso olandese, dal cuore mite come quello di un fanciullo, specialmente devoto a Maria Vergine, un frate che mi parlava sempre o della Madonna, o di sua madre, della madre sua che viveva ancora a Rotterdam, mi raggiunse, per darmi la buona notte. Lo guardai, un po’ stralunata: egli comprese che qualche cosa mi trafiggeva. Era un semplice uomo, assai semplice: volle sapere prima, se non ero malata. Allora, avevo forse qualche triste pensiero? Tacqui. Egli insistette con tanta buona grazia, con tanta bontà, che io, veramente, fra la tristezza larga che mi aveva invasa, trovai la vera, la profonda ragione. E gliela dissi.

Gli dissi — non mi parlava, frate Giovanni, sempre, della sua diletta madre e non gli potevo parlare, io, del mio diletto figlio? — che, l’indomani era il tredici giugno, giorno di sant’Antonio; che, questo essendo il bel nome del mio figliuolo primogenito, e il giorno a me sacro, come gli altri giorni, sacri ai nomi della famiglia, era la prima volta che lo passavo lontano dal mio figliuolo: e che ciò, infine, mi faceva struggere d’inane tenerezza. Egli m’intese subito: mi guardò con tanta pietà, che io, nella penombra, mi misi a piangere. Poi, mi disse, nel suo francese di Olanda, che mi racconsolassi: che, nella grande chiesa dell’Annunziazione, vi era un altare dedicato a sant’Antonio e che lui, frate Giovanni da Rotterdam, essendo devoto assai al Taumaturgo di Padova, avrebbe l’indomani, alle cinque del mattino, prima quasi dell’alba, detta una messa a quell’altare.

Je dedierai cette messe, à votre petit garçon, madame, et vous l’entendrez — mi concluse quella gentilissima anima di frate.

E immediatamente, io fui confortata, giacchè egli mi aveva fatta la promessa che consola.

 

 

Non era l’alba, ancora, alle quattro e mezza, quando mi svegliai: una fioca luce appena si mostrava in Oriente, il paesaggio nazzareno, tutto fresco, si adombrava nelle ultime oscurità notturne. Innanzi alla mia porta, con pensiero previdente frate Giovanni da Rotterdarn, prima di andarsene alla chiesa dell’Annunziazione, a dire la messa, aveva lasciata una lanterna accesa. Così, come se facessi una escursione misteriosa, ma col cuore pieno di dolcezza, attraversai tutto l’ospizio francescano, ove solo altri tre o quattro pellegrini erano alloggiati: e dormivano, essi non avevano un piccolo figlio, chiamato Antonio, di cui ricorreva l’onomastico e da cui ero lontana migliaia di miglia! Quando uscii sulla piazzetta innanzi all’ospizio, intesi freddo, addirittura: una brezza faceva frusciare i tre o quattro grandi alberi, che l’adornano, idilliacamente. La chiesa dell’Annunziazione, è distante cento passi, forse, forse neppur cento, dall’ospizio. Mi volsi alla città di Maria e di Gesù: era immersa nel silenzio più grande, in cui la campana della messa, della messa a sant’Antonio, mandava suoni cristallini, vibranti. Nessuno in chiesa, salvo il fraticello converso che accendeva i lumi, innanzi all’altare di sant’Antonio e che doveva servire la messa, dopo aver suonata la campana. Ombra, dapertutto: fuori, sulla città e sui colli amati da Gesù: dentro, nella chiesa che è stata eretta sulla casa di Maria, sulla grande scena di Gabriele e della Serva del Signore, ombra, ancora. Io, sola; sola avrei ascoltato quella messa che doveva attirare tutte le benedizioni del Cielo sulla testa del mio figliuolo lontano; sola, avrei pregato per lui, per la serenità del suo spirito e per la salute del suo corpo; e, certo, a distanza, egli avrebbe udito che qualche cosa gli giungeva, di lontano, la speranza, il desiderio, la preghiera, la benedizione. Il frate escì, coi paramenti sacri; si avvicinò all’altare; non mi cercò, con gli occhi, preso dalla sua fede candida, entusiasta. preso dall’atto sublime del sacrifizio divino, di cui sarebbe stato il sacerdote, fra un momento; non mi cercò, poichè egli sapeva, anche, che io ero , in un angolo oscuro del tempio, immersa nella contemplazione e nell’orazione, sentendo tutta l’alta poesia della fede, tutta la poesia sentimentale di quell’ora, di quella chiesa, di quell’altare, di quella preghiera. Alla mia destra, dietro l’altar maggiore, era quel che resta, a Nazareth, della casa di Maria, poiché l’altra metà è a Loreto; dietro l’altar maggiore, era la colonna che biancheggiava, nella oscurità, la colonna che indica il posto dove Gabriele si posò, dove pronunciò la divina ambasciata; e intorno la vasta chiesa deserta, in cui una sottile luce si cominciava a diffondere. Divotissimamente, all’altar maggiore, frate Giovanni seguiva a dire le parole e a fare gli atti che rendono la messa così bella, così espressiva, così suggestiva, dal primo Evangelio alla Elevazione, all’ultimo Evangelio: seguiva, con voce emozionata, con gesto largo, sentendosi solo col suo Dio, in quella chiesa, potendo esprimere al suo Dio, tutta l’ampiezza del suo sentimento religioso: e io stessa, in un angolo estremo, mi sentivo sola col mio Signore, sola e fedele e umile e tremante di commozione, mentre la immagine della piccola creatura adorata, mi sorgeva vivida nella mente, coi begli occhi dolci e buoni. Altre volte, cento volte, io mi ero prostrata, a capo basso, nel sacro momento in cui Cristo discende nell’ostia e avevo avuto nell’anima il sussulto forte: mai, come in quell’alba nazzarena, in quella chiesa dedicata al grande fatto mistico, in quella solitudine augusta, innanzi a quella purissima anima di sacerdote, in quel giorno a me carissimo, per una anima carissima piccina, mai, come allora, io sentii il sussulto supremo frangere il mio spirito, perchè il Signore vi entrasse, come sull’altare!

 

 

Solo verso le quattro pomeridiane, più oltre, anche, io feci un grande e lungo giro per la città di Nazareth, così gentile sulle colline verdi e fiorite, così battuta dai venti che recano odori di altri alberi, di altri fiori, così benedetta da Dio, così prediletta dagli uomini. Dalle undici di mattina alle quattro pomeridiane, in quella stagione troppo avanzata, in cui io era andata in Palestina, non è possibile uscire di casa, perchè il sole è troppo bruciante, perchè la luce è troppo abbagliante, perchè l’aria è troppo pesante: bisogna star chiusi, in camera, sdraiati, in piedi, coricati, pensando, sognando, fumando, leggendo, dormendo: io aggiungevo a queste svariate occupazioni, in clausura, lo scrivere. Non escii, dunque, per Nazareth, se non verso le cinque pomeridiane, dopo aver dormito, letto, fumato, sognato e scritto. Avevo visitato i santuarii, nel primo giorno, assai minutamente, quello dell’Annunziazione, quello di San Giuseppe, quello della Santa Tavola: ora, volevo vedere la città, le persone, uomini, donne, bimbi, e udir le voci, e scorgerne un poco i costumi. Niente di meglio che andarsene, a zonzo, per le vie, quando si vuol sorprendere la vita di un paese; camminando piano, guardando molto, senz’avere l’aria, contrattando un qualche oggetto, parlando con una donna, ridendo con un bimbo. Sono piaceri semplici, ma delicati: sono impressioni ingenue, ma gradite: sono quadri che s’imprimono nella fantasia, più che i superbi monumenti e i magnifici palazzi. Nazareth è molto, molto più piccola di Gerusalemme, meno maestosa, niente maestosa, anzi, ma più graziosa; Nazareth è più piccola di Betlemme, ma è più circondata da giardini, da orti, da campi arati, da fattorie; e Nazareth, sovra tutto, non ha musulmani, ebrei, greci scismatici, copti, abissini. Essa appartiene, come luogo Santo, tutta alla nazione latina, cioè ai francescani: non vi si seminano discordie di sette, ire di fanatismi orientali, dispute feroci e feroci vendette. Nazareth è il paese della pace, per la fede di Cristo: i monaci francescani vi vivono in perfetta quiete, dediti teneramente a opere di pietà e di carità, da niuno disturbati. A Gerusalemme, a Betlemme, a Jaffa, a Kaipha, a Tiberiade, gli elementi turchi, giudei, sono così discordanti e gli elementi cristiani così turbolenti! A Nazareth, tranquillità profonda. La piccola città è in salita, in discesa, arrampicata come è, su per due colline, ma le vie, le viottole vi sono praticabili; qua e dei ciottoli vi fanno inciampare, ma la maggiore strada che conduce al mercato, è quasi lastricata. I nazzareni sono più agricoltori che altro: pure, in città, lavorano a industrie semplici, fanno i muratori, i fabbri, i calzolai, i tessitori. Ho guardato assai le loro bottegucce, piccole, ma non sudice: il fondo ne è bruno e, per lo più, si appoggia sulla pietra della collina, mentre il davanti è di fabbrica: ho guardato assai, perchè come una di queste bottegucce, doveva esser quella di Giuseppe, il mastro legnaiuolo. Le idee, i costumi, la vita sono quasi immobili, da centinaia di anni, in Palestina, verso i paesi dove già la civiltà è penetrata: assai più immobile, quasi rigida, nei paesi interni di Galilea. Non debbono aver molto cambiato le botteghe di Nazareth, da quello che erano duemila anni fa, quando il buon Giuseppe tirava la pialla e il buon Gesù lavorava umilmente, pieno l’anima del suo divino segreto. Questi nazzareni sono buoni, sono pii, sono umili. Da uno di loro ho comperato una gala di rete di spago, con fiocchi rossi e azzurri, per guarnire la bardatura di un asinello: sono lavoretti di poco momento, ma gentili. Parlava italiano questo nazzareno, essendo andato alla scuola dei francescani e aveva certi occhi ridenti, certi denti candidi. Non, forse, egli era parente, in lunga discendenza, del pio Giuseppe? Una torma di bimbi mi ha circondata, in una viottola ve ne era uno, così piccino, così svelto, con certi occhietti scintillati, che parlava arabo, presto presto! Ma era un cristianello: me lo disse frate Giovanni da Rotterdam: un cristianello che già imparava il suo catechismo. Io gli detti dei soldi.

Moi aussi, je donne toujours quelque chose à ces enfants — mi soggiunse il frateJe pense que l’enfant Jésus était comme eux, ici, avec la même figure, peut-étre...

Quando arrivai alla grande fontana di Nazareth, il sole tramontava. Questa grande fontana è un po’ fuori la città, nella direzione della chiesa dell’Annunziazione, cioè in direzione della casa di Maria, ma lontana almeno cinquecento passi. Ivi mi sedetti, sovra una pietra. L’acqua sgorga da tre polle e cade in una larga conca di pietra; ma la conca è rotta, l’acqua fugge da tutte le parti, forma delle larghe pozze e un ruscello, più lontano, dove le donne lavano. Imbruniva. Continuamente, da due o tre viottole, arrivavano le donne nazzarene, a prender l’acqua, per la notte che si approssimava. Venivano, portando disinvoltamente la loro gran tunica azzurro cupa, sollevata un poco alla cintura e trattenuta da un grosso cordone azzurro, portando il gran manto azzurro che covre il capo, cala un poco sulla fronte e avvolge tutta la persona, in pieghe nobili: non si vedevano che i piccoli piedi scalzi, le mani sottili, il viso ovale. Le nazzarene sono quasi tutte belle: è un dono, si dice, che ha legato la Madonna alle sue cugine e alle sue nipoti. Anche quando non son belle, sono fini, snelle, di un pallor caldo orientale o di un bruno leggiero: la loro figura si muove con grazia, con nobiltà, con fierezza. Portano l’anfora di creta talvolta appoggiata sul fianco, talvolta inclinata sul cercine, quando è vuota; ritta sul capo o ritta sul fianco, quando è piena. Quanto era dolce l’ora o il paesaggio, in quel tramonto! Le nazzarene venivano, venivano, con passo lieve e cheto, appena radendo terra, alla fontana, chinavano l’anfora sotto la sorgente, chinavano la persona flessuosa, risollevavano l’anfora con moto facile, se ne andavano, silenziosamente. L’ora era dolce; grigio, un poco, violetto, un poco, il cielo. L’acqua cantava, dalle sorgenti; fuggiva lontano, cantando. Altre donne, ancora, arrivavano, se ne andavano. Ed io ebbi il senso preciso dell’annullamento del tempo: e mi parve vedere avanzarsi, in vesti azzurro scure, a piedi scalzi, fra le tenuità crepuscolari venendo dalla sua casa, con l’anfora sul fianco, tenendo per mano il piccolo figlio, la Madonna istessa.


 

 


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