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VIII.
Sul Thabor.
Da tutte le parti della bella Galilea, il Thabor vi appare dominante l’orizzonte; esso ha una piacevole forma rotonda e vi accompagna in tutte le escursioni alle vostre spalle, o innanzi a voi, facendo capolino a destra, a sinistra, riapparendo sempre, come un faro fedele. Le sue linee sono seducenti, arrotondate con delicatezza; più vi avvicinate e più vi appare tutto boscoso di alberi grandi e piccoli. E, a mano a mano, un desiderio vivo vi assale di imprendere quella salita, a traverso il verde, d’immergervi in quei sentieri ombrosi, di trovarvi sulla cima, dove Egli apparve ai suoi discepoli stupefatti e commossi, con le vestimenta candide come il lino e col viso folgorante. Il Thabor ha l’aria così semplice e così facile, ha l’aspetto così amabile di una elevazione comoda, donde lo spettacolo della florida Galilea deve essere stupendo! Il dragomanno non fa nessuna difficoltà d’accompagnarvi, ma non mostra nessun entusiasmo; il cavallaro vi domanda se state bene in sella; e ambedue vi dichiarano, infine, che voi potrete, forse, salire a cavallo su Thabor, ma che ne discenderete a piedi, senz’altro. La via è ripida, dunque? Ripidissima. E perchè non farla a piedi? No, il piede del cavallo, che conosce quei terreno, è più sicuro. E al discendere?
Al discendere, cascherebbe anche il cavallo, se portasse un cavaliere o un’amazzone. Pure… l’indomani mattina, malgrado le notizie scoraggianti, la partenza da Nazareth è decisa. I cavalli si avviano col loro passo tranquillo e fermo, il dragomanno fuma, il cavallaro canticchia un suo verso arabo, mentre il suo piccolo cane, che si chiama Filfel, cioè pepe, ci saltella intorno. La via, per un’ora, è un sentiero stretto ma buono, fra campi di terra rossa, rossa come il mattone: il Thabor si avvicina sempre più, elevandosi, montando sulle nostre teste. Un po’ di salita comincia. A un tratto, sotto un grande ulivo, il dragomanno si ferma, scende da cavallo, viene ad osservare le cinghie della vostra sella, tocca le staffe, se sono sicure: prima di rimontare a cavallo, fa l’istessa operazione alla sua sella e alle sue staffe. Lentamente, egli si avvia avanti: il cavallaro si colloca vicino a voi, con la mano al pomo della vostra sella.
Allora comincia l’ascensione più bizzarra più spaventosa, che vi sia, fra tante non è neppure un sentiero, è un solco più o meno profondo, pieno di sassi pungenti, qua franante, là sbarrato da pietroni lucidi, dove l’unghia del cavallo scivola: un solco così ripido, che il cavallo è in una linea obliquissima e il cavallaro, ogni momento, vi raccomanda di abbassar la testa sulla criniera. Questo solco ha da un lato il precipizio, a picco, appena appena velato dagli alberetti che si piegano sull’abisso, e dall’altro lato la parete alta del monte. Il solco gira, a larghe curve, ma ad ogni curva, che vi vedete innanzi, è così incerto quel solco, quel fossetto, dove appena entra il piede del cavallo, è così erta la salita, le pietre scoscendono così, intorno a voi, che è difficile padroneggiare la vertigine. Cento volte voi pensate che era meglio venir su a piedi, ma quando guardate in terra, vi pentite del pensiero; ed è meglio non distrarsi, giacchè il cavallaro vi piega da sè sulla sella, in avanti, fino a stare curvo, e quando voi vi distraete troppo, vi mette una poderosa mano nella schiena, come sostegno. L’ascensione continua, la pianura di Galilea si abbassa, pare che ondeggi sotto i vostri occhi, come un mare: il muro della montagna si abbassa, si abbassa sempre, mentre il povero cavallo, coperto di sudore, biancheggiante di spuma, intraprende l’ultimo tratto, il più terribile, la vera scalata di una muraglia. Il Thabor è vinto!
Biancheggia, sulla cima, il piccolo ospizio dei francescani, con la chiesa; il posto si chiama porta del vento, in arabo Bab-el-Auoa, poichè vi domina un vento fresco, continuo, talvolta tempestoso. Come dappertutto, un buon francescano vi conduce in Chiesa, a dire qualche orazione: e, dopo, vi guida in una cima alpestre, dove qualche rara pianta odorosa ancora germoglia. È il posto della Trasfigurazione. La divina scena che la mano di Raffaello dipinse, con una spirituale intuizione e in cui egli trasfuse le estreme sue forze d’artista e di credente, è qui. Le nuvole che si vanno urtando nel cielo meridiano, preparando una delle brevi bufere del Thabor, sembrano a noi debbano aver incoronato, allora, il gran fulgore del viso di Gesù. Non fu ieri, dunque? Intorno intorno, la pianura di Esdrelon quasi palpita, sotto il vento che cade dal Thabor: lontano, biancheggiano i paesi di Galilea, cioè Sephoris, la patria di Sant’Anna e della Madonna, Cana, il paese delle nozze e del primo miracolo, Naim, il paese della vedova e del figliuolo malato, e lontano lontano la declinante via che porta al lago di Tiberiade. Come volentieri dovea venire quassù il figliuolo dell’Uomo, colui che ha sempre amato le montagne, tanto il suo spirito tendeva alle alte regioni pure, tanto egli bramava di accostarsi al suo Padre, che era nel Cielo! Tre apostoli soli erano con lui, nel momento della Trasfigurazione: Pietro, Giacomo e Giovanni; gli altri si erano fermati al piano in un villaggetto arabo, chiamato Dabourieh, in memoria di Debora; solo i suoi fedelissimi lo accompagnarono alla cima ed ebbero il sublime spettacolo. La voce di padre Agostino da Saragozza, un francescano spagnuolo dalla dolce pronuncia, trae chi contempla dalle sue visioni. È ora di rifocillarsi e bisogna anche partire. Prima di salire a cavallo, il frate vi presenta un registro di visitatori, per apporvi la firma. Ahimè quanta poca gente sale sul Thabor! In questo anno, da febbraio a giugno almeno tremila pellegrini di religione hanno visitata la Palestina — escludiamo i touristes, quasi tutti inglesi, quelli vanno dove li porta Cook — e solo ottantadue, dal febbraio al giugno, sono saliti sul Thabor, per visitare il posto della Trasfigurazione. La via era orribile anche ai tempi di Gesù; difatti, i più pigri apostoli non vi salirono restarono al principio della strada. Solo Pietro, Giacomo Giovanni, i più devoti, i più ardenti, soverchiarono in quel giorno la cima del Thabor e si ebbero in premio lo spettacolo stupendo. Segno il mio nome all’ottantatreesimo posto, dopo Paul Bourget che vi è passato un mese prima di me, e sono contenta di esser venuta su: ma sarò più contenta, quando sarò giunta al piano.
Per salire sul Thabor, ci vogliono quarantacinque minuti, a parte il lungo cammino in pianura: quarantacinque minuti indimenticabili per le ossa dell’ascensionista! Prima d’intraprendere la discesa, domandate con trepidazione al dragomanno: altri quarantacinque minuti? Egli crolla il capo, sorridendo, dicendo di no, ci vuol molto meno, molto meno, Dio sa lodato! E vi accostate al cavallo per salirvi su. Come, volete salire a cavallo? Il dragomanno si sorprende della vostra audacia o della vostra pigrizia: nessuno discende a cavallo, dal Thabor. Il cavallaro raccoglie le redini dei due cavalli e si avvia fischiettando, per farsi seguire dal cagnolino Filfel. La discesa comincia a piedi. Discesa? Non si discende, dal Thabor, ci si dirupa. Invano, cercate andare lentamente, con precauzione: un moto precipitoso vi prende. L’uomo si ravvolge, si svolge, si torna a ravvolgere, disordinatamente, nei suoi movimenti, come una banderuola tormentata dal vento, come una rotella frenetica di fuoco d’artifizio, per quel solco scabro, a zig-zag, a giravolte, per quel fosso ineguale che dovrebbe essere una via. Per quarantacinque minuti! Il moto è così rapido, così vertiginoso che diventa meccanico, che diventa incosciente e si scende e si gira e si gira, e si scende, con una impulsione quasi folle, giù, giù, giù, scivolando, sducciolando, pericolando a diritta, pericolando a sinistra, accovacciandosi, rialzandosi, cadendo un paio di volte, con una completa assenza di volontà, come una trottola, di cui non si possa più fermare il meccanismo. Giù: il piano! Sedersi sovra un macigno, pigliarsi la povera testa fra e mani e domandarsi se si è vivi, completamente vivi. Risposta semiviva, ma favorevole. Bere un sorso di cognac; respirare un poco, quietamente: il tempo stringe. Saliamo a cavallo per il lago di Genesareth e per la gloriosa città di Tiberiade