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IX.
Sono sei ore di cavallo, dal Thabor a Tiberiade, sei ore complete, perfette: a cui, aggiungendo una fermata di mezz’ora, a metà strada, per far respirare le bestie, non si può arrivare a Tiberiade, partendo dopo mezzogiorno dal Thabor, se non alle sette di sera: ed è già un po’ tardi, e la sera è infida, per le rugiade, per le ombre, in quei paraggi deserti di Palestina. Sei ore di trotto serrato, in cui il dragomanno Mansur, talvolta, rallentava le briglie, per lasciarmi prendere il davanti, vedendo che incominciavo a impazientirmi, in cui il povero nazzareno, così intelligente e ben educato, mi raccontò tutte le istorie che più avrebbero dovuto divertirmi, ma che, dopo la terza ora di cavallo, cominciarono a irritarmi, profondamente. Quella regione di Galilea che si distende dal Tabor a Tiberiade, è una delle più aride, più uniformi, più monotone: mentre l’altra via che congiunge Tiberiade a Nazareth e che passa per Loubieh, per Sephoris, per Cana, è così amena, così leggiadra, così confortante La prima, la mala strada, quella che si percorre nell’andare, è una serie d’immense spianate deserte, che degradano lentamente, l’una dopo l’altra, e dietro a ognuna, poichè essa par che confini col cielo, vi sembra d’indovinare, non so quale paesaggio bizzarro e interessante: e viceversa, quando arriva al suo limite, non trovate nulla, anzi quasi quasi, tanto la discesa è insensibile, non vi accorgete di essere arrivato al limite e vi trovate in un’altra, amplissima spianata, che vi par sempre quella, una sola, desolante! Sucrie Mansur, paziente dragomanno, fra la quarta e la quinta ora di cammino, mi rivolgeva delle occhiate timide, vedendo il mio malumore, la mia stanchezza, la mia tetraggine o mi diceva ogni tanto
— Un altro poco... un altro poco.
Io non gli credeva. Sapevo che ci volevano sei ore intere, non un minuto di meno. La fatica mi dava un’irritazione sorda. Tutta la strada da Nazareth al Thabor, e la perigliosa ascensione, e il precipitoso discendere, le prime tre ore, infine, mi sembravano oramai così liete e così accidentate: ma queste del pomeriggio, lente, eguali, attraverso quelle pianure senza un albero, senza un uomo, senza una capanna, mi eccitavano a una tristezza impaziente, a una voglia di piangere, di gridare, di gittarmi per terra e non andare più avanti. Infine, Mansur disse:
— Fra mezz'ora, vedremo Tiberiade.
Gli credetti, ingenua! Difatti, a un certo punto, dietro il limite dell’ultima spianata, qualche cosa d’intensamente azzurro apparve, che non era il cielo: era il lago di Genesareth, il lago di Tiberiade, così vasto, così azzurro, da meritare il nome di mare di Genesareth. Quale profondo sospiro mi sollevò il petto!
— Ed ecco Tiberiade — m’indicò Mansur.
Difatti, sovra una delle sponde di quella squisita coppa d’azzurro, a riflessi d’acciaio, si vedeva, piccola, la città romana, con la sua bigia fortezza. Illusione, illusione! Ci eravamo sopra ed era lontana: l’avevamo ai nostri piedi e per discendervi, ci mettemmo più di un’ora, settanta minuti terribili, in cui Tiberiade pareva che scendesse sempre più giù, quasi per sfuggirci. Settanta e, forse, ottanta minuti di discesa a picco, come chi facesse, a cavallo, gli scalini di una scala fatata, che vi deve portare al nadir della terra. Certo, io piansi di collera, in quell’ultima ora di cavallo, — erano state nove, in un giorno — e quando io mi fermai, sotto il portico dell’ospizio di Tiberiade, credo che avessi la febbre della infinita lassezza.
Ora, nell’ospizio francescano di Tiberiade, non vi erano se non due monaci di San Francesco, e tre o quattro servi, per i pellegrini. Quella che fu una vera e pomposa città romana, e che sorgeva, in uno dei passaggi più ridenti del mondo, sulle rive del lago, adesso vive malissimo, sotto un clima opprimente e malsano, fra un calore umido, un vento grave e caldo, e le più odiose zanzare. Andare a Tiberiade, per un francescano, è subire con rassegnazione un castigo o cercare da sè una penitenza, o compiere un voto mistico. Molti, vi si ammalano: qualcuno, ne muore. Solo padre Benedetto, il Guardiano, florido, di buon umore, ci resisteva da due anni: dei due monaci che erano con lui, uno, vecchio, buonissimo, era morto la settimana prima. Avevano voluto portarlo via, quando si ammalò: ma egli non volle, felice di morire su quel lago, dove Gesù aveva pronunziate le parole più alte del suo insegnamento. Del resto, questo monaco era piissimo, ed era ritenuto per santo.
Appena giunta e buttatami sopra un divano, domandai se vi era una stanza sul lago: non ve ne erano, il convento era costruito molto curiosamente, vasto, del resto: con lunghi corridoi vuoti e sonanti, con molte camere da pellegrini, deserte: con certe luci vacillanti di lumi ad olio, che si agitavano stranamente. Pensai di andare a letto subito: ma padre Benedetto non volle che vi andassi, senza prendere qualche cosa, ed ero appena giunta nella mia stanza, che venne l’altro monaco, il secondo, il superstite, a portarmi del the e delle uova. Lo guardai questo monaco: era vecchio anche lui, come quello che era morto: era scarno, pieno di rughe, dal volto legnoso, ma con un mite sorriso incoraggiante. Si stupiva che volessi solo delle uova e del the: ed io che avevo della stanchezza persino nella punta delle dita, lo guardavo come una ebete.
— Padre, siete solo, col Guardiano? — gli dissi, per dirgli qualche cosa.
— Eh... solo — sospirò lui. — L’altro è morto.
Non mi parve di vedere un lampo tremolo nello sue pupille? Vedendo che cascavo dal sonno, se ne andò, augurandomi la buona notte. Io, come sempre, feci una ispezione nei dintorni della stanza: dava, con la porta, sovra un lungo corridoio nero, dove si aprivano tante altre stanze. Al vento, quelle porte battevano, mal chiuse, si schiudevano, lasciando vedere confusamente i letti bianchi e vuoti. Chiusi a catenaccio la porta; poi, aprii la finestra. Era bassa. Dava sul cortile, innanzi alla chiesa. Chiusi anche la finestra, smorzai il lume, e andai a letto. Credo che avessi dormito una mezzora. quando mi svegliai in sussulto, avendo caldo grande. Supposi di aver la febbre: respiravo malissimo; allora, andai ad aprire la finestra; mi coricai; mi addormentai. Dopo poco, altro sussulto: avevo distintamente udito camminare nella mia stanza.
Che fare? Guardai verso la finestra, restando immobile: si vedeva un quadrato di luce più chiaro, come brumoso: e qualche cosa di nero, sul chiaro, il profilo dell’antichissima costruzione romana, una torre. Un gallo cantò. Nessun altro rumore. Forse, mi ero ingannata, pensai: ero nervosa, tutto quell’ambiente nuovo, quel paese ignoto, quel monastero deserto, quel gran vento sonante nei corridoi, avevano formato nel mio cervello quell’allucinazione di passi: del resto, avevo una rivoltella carica, sul tavolino da notte. Era così buffa, questa istoria della mia rivoltella! Non avevo mai toccato un’arma da fuoco, e malgrado la sua piccolezza e la sua gentilezza, essa mi faceva ribrezzo: la tenevo chiusa nel fodero, ma mi pareva che dovesse sempre esplodere nella valigia e fare un disastro. Pure, con molta ostentazione, dovunque giungevo, la cavavo dalla valigia, questa rivoltella, e la posavo sul tavolino da notte, accanto a letto. Per farne che?
Di nuovo, udii camminare, così dappresso, che trabalzai dal letto e gridai quel chi è, così inutile e pericoloso. Nessuna risposta. Ma avevo acceso, tremando, il lume: nessuno, nella stanza, vuota, quieta. Però, compresi che non avrei dormito più. Mi alzai e mi vestii. Presi un libro e distesami sul divanetto, mi misi a leggere i pensieri del signor Arturo Schopenhauer, che avevo portati meco, così, per non divertirmi troppo in viaggio. Di nuovo il passo, ora vicino, ora lontano. Andai alla finestra, istintivamente: guardai giù, nelle tenebre del cortile. Vi era qualcuno. Lo vidi muoversi rasente il muro, sotto la mia stanza, così vicino che pareva fosse dentro la mia camera: andava e veniva, questo qualcuno, ora trascinando i passi, ora camminando con precauzione. A poco a poco, mi abituai alla oscurità: e vidi che teneva il capo basso e le mani abbandonate lungo la persona; ma non poteva bene distinguere, se fosse un uomo o una donna. A un tratto, sparve, come se la terra lo avesse inghiottito: poi riapparve, dopo un poco, come se fosse sorto dalle viscere della terra. Nel riapparire, levando egli un po’ il capo, vidi che era il monaco dal viso legnoso, il compagno dell’altro monaco morto, l’altro vivo. E compresi che si levava da terra, dove si era buttato giù.
Ma non andò via. Passeggiava, su e giù, ma sempre in uno spazio ristretto, come se girasse su sé stesso, in quel cortiletto, innanzi alla chiesa, e si fermava di scatto; di scatto ricominciava a passeggiare: talvolta, si batteva la fronte con le mani. Adesso vedeva bene tutto questo, perchè mi ero abituata all’oscurità, e anche perchè avevo smorzato il lume, in camera mia. Quell’ombra mi teneva, ormai. Sentivo che non avrei lasciato quella finestra, fino a che egli non se ne fosse andato. Ma egli, instancabile, ardente, riprendeva le sue gite innanzi e indietro, ma sovra tutto in cerchio, attorno attorno a un punto fantastico che io non vedevo, che non sapevo che cosa fosse. Qualche volta, un profondo sospiro esciva dal suo petto: la finestra era bassa, la notte era taciturna, io lo udivo perfettamente. Mi veniva voglia di chiamarlo, di dirgli qualche cosa, ma non osavo. I miei nervi erano egualmente esaltati, come oppressi dalla stanchezza: un’aria pesante, umida, affogante avviliva i miei polmoni: e le zanzare mi mangiavano le mani e la faccia.
Provavo delle sensazioni curiose di stupore e di angoscia, gittata sullo sporto di quella finestra, all’oscuro, tenendo chiuso fra le mani il triste libro di Schopenhauer, guardando quell’ombra d frate che si agitava, nelle tenebre, innanzi alla chiesa, nella notte avanzata. Ma che faceva? Perchè non andava a dormire, così vecchio e anche lui oppresso, come me? Perchè vegliava in quell’ora così alta della notte, in quel paese ignoto, sulle rive di un lago sacro ai miracoli? Pregava forse? E perchè non pregava nella sua stanza o nella chiesa? Perchè sospirava così dolentemente? Che aveva? Era malato? Era pazzo?
Non avevo più sgomento: ma sentivo, sempre più, uno stupore triste avvincermi l’anima, qualche cosa che mi tentava alle lacrime e mi dava la voglia delle lacrime, sulle palpebre, sulle labbra. Quel frate vegliante, a Tiberiade, nell’atrio della vecchia chiesa consacrata agli Apostoli nella notte di giugno greve e male odorante, di non so che, qualche cattivo odore dell’aria, quella sua veglia straziata e muta, dove niuno lo soccorreva, dove niuno, forse, sapeva le sue pene, formavano nel mio cervello un effetto di sogno. Non dormivo, io, no: le gambe, le braccia, le spalle mi dolevano sempre, per la cavalcata di nove ore, ma con un dolore più lento, meno acuto: i nervi erano più molli, ma più inerti, anche: lo stupore m’inchiodava sempre a quella finestra a guardare le mosse del monaco. Talvolta queste mosse parevano quelle di un frenetico: si levava lungo lungo, e squassava le braccia. A un certo punto, l’ho udito singultare. Che aveva? Perche singhiozzava così, egli, un frate, che non si doveva rammentare più nè della patria, nè dei parenti, che non aveva nè passioni, nè desiderii, un vecchio monaco di san Francesco, in Terra Santa, in un angolo deserto di Terra Santa? Chi piangeva? E perchè nessuno asciugava le sue lacrime? Chi era, quel poverello, perché non trovava più sonno, perchè singultava così? Io non intendevo più nulla: vedevo quel fantasma, nelle ombre, muoversi convulsamente: talvolta, lo perdevo di vista, per rivederlo subito.
La prima luce dell’alba mi trovò che dormivo, buttata sulla finestra, bevendo l’aria molle e greve di Tiberiade: e il frate era ancora lì, lungo disteso, per terra, sovra una cosa bianca. Dormiva anche lui, stanco e disfatto di quella notte di veglia, di convulsione: e quella cosa bianca, era la lapide, sotto la quale avevano sotterrato l’altro monaco morto.
Ho poi saputo, che il povero vecchio frate non poteva resistere al dolore di aver perduto il suo compagno, per il quale aveva una tenerezza e una venerazione immensa. Ogni notte si levava, come chiamato da una voce interiore, veniva in quel cortiletto, dove, innanzi alla porta della chiesa, era stato seppellito l’estinto: e lì passava insonni le ore notturne, pregando, e parlando, talvolta, a colui che non era più. Il Guardiano ne aveva scritto a Nazareth, temendo per la salute del suo amico frate: e, intanto, dolcemente, lo ammoniva a restare nella sua cella, la notte. Ma costui non poteva! Doveva abbracciare quella tomba, sino all’alba. Per me, io suppongo, in quella notte, di aver preso dall’aria, dalle zanzare, il germe della febbre di malaria ostinata che mi scoppiò, quindici giorni dopo, a Costantinopoli, che mi è durata tre anni, in memoria di quelle ore strane e morbose, dove mi parve aver sognato una visione di spasimo ed era una realtà.