Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Addio, Amore!
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PARTE PRIMA

VI.

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VI.

 

La lettera di Anna a Cesare Dias, diceva così:

«Non so che nome darvi, se il vostro così fiero e così dolce, se il nome di un amico che tutto dice e nulla dice: non so se io debba scrivere qui la parola che il rispetto m'impone, o quella che più fortemente m'impone il cuore. Forse non dovrei darvi nessun nome; forse, non dovrei lottare contro questa ineluttabile volontà superiore, che mi travolge. Ma sono anche una creatura così miserabile, così priva di qualunque forza morale, che gran parte dell'anima mia è inconscia di quello che fa, e quando tento di reagire, sono già vinta? Ah, non un'ora di nobile battaglia feconda nel mio cuore! Solamente una profonda ignoranza dei sentimenti e delle cose, un cieco abbandono alle dolcezze dell'affetto, e infine la perdita di ogni pace e di ogni speranza. Quanto voi dovete disprezzarmi! E siete giusto, se disprezzate una creatura fragile, una donna il cui cuore è sempre aperto, la cui fantasia è sempre pronta ad accendersi, la cui mobile mente giammai non posa, e le cui vene, malgrado sieno guarite dalla gran febbre, ardono ancora, di nuovo, quasi questo ribelle sangue non sapesse altro che bruciare! Se mi disprezzate – i vostri occhi, la vostra voce, il vostro contegno me lo diconofate bene, poichè io non capisco mai di aver torto nella vita, e quando mi accorgo di aver avuto torto, è troppo tardi per riparare alla mia infelicità e a quella altrui; ah, disprezzatemi, disprezzatemi, voi avete ragione di farlo: io mi piego al vento che soffia, simile a una debole canna: io mi arrovescio nell'aquilone, spezzata, poichè non so combattere, morire. Disprezzatemi, nessuno lo può fare, nessuno ha il diritto di farlo come voi. Che cosa valgo io, più di una canna che ondeggia, che si piega e che finisce per giacere infranta, non morta!? Quando siete lontano da me, io posso pensare a voi con un certo coraggio, fidando sulla vostra bontà, sulla vostra indulgenza, per farmi perdonare la mia mancanza di forze; quando siete lontano, a me pare di essere più donna, più resistente, più coraggiosa, e posso sognare di starvi, non a paro, no, mai questo, ma accanto, di seguirvi nelle cose dell'anima. Sogni, sogni! Quando siete vicino, ogni mia fiducia in me stessa, ecco, si smarrisce; e mi sembra di essere così sciocca, così stravagante, così incoerente, che giammai più, giammai penso di poter ottenere la vostra indulgenza. Io ripenso la vita mia passatagiustamente e crudelmente, me l'avete rimproverata – e ci trovo tale un cumulo di puerili illusioni, un criterio così falso dell'esistenza e dell'amore, un abbandono così ingiustificato di tutte le tradizioni del decoro femminile che le fiamme della vergogna mi salgono al viso. Non lo avete visto? Prima di quel fatale giorno di Pompei – il primo della mia vera vita! – io aveva tutto un tesoro di sensazioni, d'impressioni, d'idee mie, personali, che regolavano, forse sregolavano la mia esistenza; esse crollarono, esse furono distrutte, esse sparvero dalla mia anima, per sempre, da quel giorno. E innanzi a voi che inneggiate a quanto fu il mio odio, innanzi a voi che calpestate tutto quello che ho amato, io chino la testa e più inchino l'anima e vi do ragione, e dico che voi solo avete ragione; e vorrei versare nelle mie parole, nei miei atti tesori di umiltà, per convincervi che io vedo la verità, che voi appunto siete la verità, e che l'anima mia vuole venire dietro la vostra, come le pie donne di Gerusalemme andavano dietro a Gesù Cristo. Ah datemi un po' di forza, voi che siete forte, voi che non avete mai errato, voi che avete vinto voi stesso e il mondo! Datemi della forza, voi che mi apparite come il modello della serenità e anche della giustizia, superiore alla sventura, perchè avete forse saputo soffrire in silenzio, superiore alla gioia umana, perchè ne avete apprezzata la vacuità, superiore all'amore, perchè sapete che sia: e intanto facile all'indulgenza, facile al perdono, perchè anche siete uomo, e non dimenticate di essere uomo. Voi mi disprezzate, certo, poichè tutti i forti disprezzano i deboli; ma, certo, voi avete anche pietà di me, così sbattuta nell'uragano della vita, senza bussola, senza stella, ora in cima a un maroso, ora in un abisso profondo. Io sono già il frammento di un primo naufragio, io vi ho lasciati anni di salute e di speranza, io vi ho veduto finire tutta la lieta e balda fede della mia gioventù; e temo di perdermi nuovamente, per sempre, se voi non mi salvate. Ditemi pure tutto: fate di me quel che volete, ingiuriatemi, dopo avermi disprezzata, ma non mi lasciate alla mia debolezza, alla mia fragilità, non mi togliete la vostra forza, che è il mio solo sostegno. Come debbo chiamarvi? Amico? Sì, amico, io mi perdo se voi non mi salvate, se non lasciate che l'anima mia cammini accanto alla vostra, sentendo tutto l'effluvio magnetico, potente, della vostra forza, se non mi soccorrete della vostra spirituale compagnia, se non mi date la leva per sorreggere la mia esistenza. Amico, amico, amico, non mi respingete: dite tutto, fate tutto, ma non mi scacciate da voi, se no, io debbo morire. Ah la carità dell'anima è grande più di quella materiale e costa assai meno, si elargisce così facilmente e soccorre così prontamente! La carità dell'anima la possono fare i ricchi di forza spirituale, come voi. Io, la poverella, batto alla vostra porta».

La lettera di Anna a Cesare Dias continuava, dicendo così: «Voi mi avete profondamente addolorata, dicendomi che è forse Giustino Morelli, l'uomo che mi ha fatto rifiutare le nozze con Luigi Caracciolo. Non posso udire il nome di Morelli, senza essere assalita da un fremito di sdegno. Credete che io sia in collera con lui? No, no. Egli non è, per me, che la vana ombra di una persona morta; e la sera degli Ugonotti al San Carloahimè, quella musica mi canta nell'anima indimenticabile – egli era colà, io non lo vidi, non volli vederlo, senza dolore e senza curiosità. Io non l'odio: io non sono sdegnata contro lui. Egli non ha colpa di nulla: era un povero innocente, sciocco e meschino, onesto, sì, onesto – voi lo diceste tale – ma così piccolo di cuore e di mente!... ed è per questo, che il mio sdegno è contro me stessa, che ho elevato quell'infelice sino all'immensa altezza della mia idea amorosa, che ne ho fatto una figura ideale, che ho creato un idolo, così per prostrarmi, per adorarlo. Dio, Dio, come mi sono potuta ingannare così? Come ho potuto imporre il dramma dell'amore a un disgraziato tanto limitato d'ingegno e di sentimento, che solo udendomi parlare allibiva, si sgomentava? Quando ci penso, mi torco le mani per la disperazione, poichè veramente io ho abbruciato il primo, purissimo incenso del mio cuore a un essere nullo: perchè è permesso di amare un pazzo, un dissoluto, un poveretto ignoto, ma non è permesso amare uno sciocco pauroso, che va a denunciare al tutore la pupilla che vuol fuggire con lui! Che errore! Non me lo perdonerò giammai: e sembra che sia un errore irrimediabile, poichè tutti gli amori lasciano tracce nell'anima che non si cancellano, poichè non si ama impunemente, poichè l'abbandono del cuore non si dimentica, poichè ha un bel disciogliere, il tempo, questi matrimonii dell'anima, tutto non si può scordare: e io ho amato uno sciocco timido, una creatura che mi baciava le mani, come il mendicante ad una signora benefica, sentendo la propria povertà di spirito, mentre, io avevo tanto amore da farne una ricchezza! Non ho veduto nulla allora, non ho compreso nulla, ho amato anche io come una infelice creatura stupida, che ama un individuo senza ragione al mondo, che tutti i tesori del proprio cuore, stupidamente, per vederli dispersi nella inanità e nella miseria spirituale. Ah, io non l'odio, Giustino Morelli, che era quello che era, quello che è adesso, quello che sarà sempre: una persona mediocre piena di timidità, conscia della propria mediocrità, e che ha finito per rifiutare, per paura, sì, per paura! Perchè dovrei odiarlo, se io ho voluto amarlo, per forza, se io ho voluto fuggir via di casa, con lui, mentre egli non voleva! Io sono la colpevole in tutto e per tutto; io porto questa macchia sulla coscienza, d'aver messo l'ideale e l'amore in così mediocre persona, io ho deturpata tutta la mia giovinezza, cercando di soffiar la vita in faccia a una statuetta di creta: io non posso che odiare me stessa, la mia cieca fede, la mia cieca ostinazione, la mia folle superbia, tutta la mia pazza illusione. Non posso dunque rammentare il passato, e non posso guardare l'avvenire, senza sentirmi invadere da un'amarezza senza confine: e ho il senso di qualche cosa, che non è più riparabile: un fantasma si mette fra me e la felicità, è il fantasma del mio amore morto, che non è stato una vergogna, ma è stato mia decadenza d'anima. E quando adesso mi si dice che io amo ancora quel povero Giustino Morelli, adesso che gli occhi del mio cuore hanno spezzato il loro mistico suggello, adesso che io vedo la forza e la debolezza dove si trovano, adesso che io so le ragioni alte e segrete dell'amore, io non posso far a meno di fremere, di gridare, di non tollerare che mi si ingiurii. Poche ore di vita bastano per una conoscenza acuta del bene e del male, ore tormentose ed intense, in cui la verità solleva tutti i veli delle cose, e ci soffoca dolorosamente, con la sua troppo luminosa presenza, a cui i nostri occhi non reggono! Le ore che ho trascorse a Pompei in uno strazio crescente, mi hanno detto tutto, battendo sul mio cuore, battendo sul mio cervello, abbruciando le mie vene e dando la suprema sapienza delle cose umane alla mia anima. Adesso... io non posso ingannarmi più. Io sono sempre quella debole persona, che deve amare così, fatalmente, intensamente, con una dedizione assoluta di se stessa, poichè l'amore, per essa, è il vero stato dell'anima: ma io ho messo l'ideale mio, dove esso merita di stare, in un cuore alto e forte; io ho appoggiato il mio vacillante spirito a chi non ha mai vacillato. Mi sono pentita, profondamente, del mio primo amore: ho recitato il mea culpa della passione, ogni giorno, ogni ora: ho invocato, non so quale spirituale lavacro, per purificare il mio cuore dalla mediocrità del suo primo amore: ho sentito che solco lascia nel suo passaggio qualunque amore, anche il più lieve: ma adesso non mi pentirò più, poichè il lungo viaggio, il pellegrinaggio lungo che fanno le anime attraverso le sfere del pensiero e del sentimento, per cercare colui che debbono veramente amare, per sempre, ecco, è compiuto per me. Il mondo non è, per chi conosce la passione, che un malinconico vagabondaggio, alla ricerca di chi si deve amare: ed anche un cieco brancolare nell'ombra e nel vuoto; ed è un pericolare ad ogni passo, e talvolta cadere in un abisso, giacendovi lungamente, rialzandosene con le ossa frantumate, medicando alla meglio le ferite, riprendendo il cammino, fino a che, ancor sanguinando, si ritrova finalmente l'Eletto. Anche io vengo di lontano, dunque: e la mia vita è stata assai aspra, senza più lume di stelle che mi rischiarasse, senza voce amica che m'incoraggiasse, senza una mano che mi sostenesse: e già sono caduta, lacerandomi la faccia e le mani ai triboli del cammino, rilevandomi col sangue che mi accecava, mescolandosi alle lacrime: andando innanzi di nuovo alla mia sorte, che non era quella del mio amore, ma era quella del mio secondo amore; anche io ho trovato l'Eletto. Poveretta anima martoriata, credo di poter rivivere conservando la malinconia della prima delusione, non potendo assolvermi da un peccato che io sola ho il diritto di rimproverarmi, ma sentendo che il focolare fiammeggiante deve accogliermi, non potendo lasciarmi morire nel gelo della campagna e della notte: e chieggo soccorso, poichè nulla in me si è mutato tranne l'ignoranza giovanile, che è sparita, poichè io ho acquistato la scienza, ma non ho acquistato la forza, poichè io conosco tutto, ma sono sempre una misera esistenza tremante di sgomento, desiderosa dell'amore e invocante la grande benedizione umana. Io mi prostro e con la fede, non del neofita, ma del martire che ha già sofferto la tortura, io prego il Signore, perchè mi conceda la divina palma che i martiri hanno meritato. Io mi prostro e prego, perchè anche io abbia la mia parte di gioia, poichè finora non feci che piangere, su me stessa e sugli altri; io prego, inginocchiata, perchè non mi fallisca anche questa speranza, ora che ho trovato il sicuro porto delle grandi calme. Iddio non può respingermi: voi, amico, non potete respingermi. – Anna».

Cesare Dias lesse molto attentamente questa lettera un paio di volte. Poi uscì di casa e badò ai suoi affari e ai suoi piaceri: ritornando in casa, ritrovò la lettera, la rilesse per la terza volta e scrisse subito questo biglietto che mandò ad Anna.

«Cara Anna – Tutto quello che mi dite, sta bene: ma io non ho capito chi è l'uomo che amate. Saluti cordialiCesare Dias».

Ella ricevette questo biglietto, lo lesse e sopra un foglietto bianco, senza data, senza apostrofe, scrisse questo:

«Amo voi – Anna Acquaviva».

Cesare Dias stette un giorno senza rispondere e non si fece neppur vedere. Poi rispose di nuovo:

«Cara Anna – Sta bene: e poi? – Cesare Dias».

Ella rimase esterrefatta. Aveva dato un gran passo nella esaltazione della sua passione, sapendo bene che arrischiava così tutto il suo avvenire, superando la ritrosia e la vergogna di un amore confessato così, in un abbandono doloroso: e credeva di dover fare su Cesare Dias una impressione profonda, forse di odio, forse di antipatia, forse di noia. Credeva che egli le avrebbe scritto una lettera irritata, che le avrebbe annunziato una sua partenza; e invece ella riceveva un bigliettino qualunque, freddo caldo, senza importanza, come per un fatto qualunque. Stupefatta, esterrefatta, quella che le si parava innanzi era la soluzione peggiore. Cesare Dias non era arrabbiato, lusingato: era indifferente. E non lo pungeva che una semplice curiosità, mentre ella fremeva di ansia. Per lei, la passione era, ancora una volta, una tragedia: ma per Cesare Dias era, ancora una volta, un qualunque fatto umano, quotidiano, niente altro.

Immutabile, immutabile. Cesare Dias: questa era la idea saliente, nella gran confusione della mente di Anna: immutabile innanzi all'amore, innanzi al dolore: spirito che nulla poteva turbare: anima, il cui metallo non temeva acido corrosivo. Ella, buttata sul letto, con la faccia nascosta nei cuscini, sussultava, torcendo le lenzuola con le dita nervose, pensando che ella gli aveva detto tutto e che Dias era restato indifferente, padrone del proprio cuore. Che fare, adesso? Non lo sapeva. Ma vi sono dunque cuori così gelidi, che nessuna vampa di amore giunge mai a riscaldare? Ma quello che è tragedia in tante esistenze, per alcune altre non è, dunque, che un miserabile fatto di cronaca? Che cosa fare? mio Dio, che cosa fare? Non aveva egli chiesto, con la più disinvolta curiosità: e poi? voleva sapere il poi di quell'amore. Cesare Dias, con la mite curiosità di un lettore di romanzo, che anela di conoscere la risoluzione dell'istoria: la interrogava, così, forse per cortesia, mentre ella aveva tremato di sgomento, aprendo i due biglietti che egli aveva scritti e che ella aveva riposti sotto il capezzale. Ma che uomo era dunque costui, che a quell'impeto di passione, così profondo, così leale, sgorgante dall'anima, qual grido di chi invoca soccorso sentendosi perdere, avente tutta l'umiltà, tutta la purità spirituale, chi era dunque costui, che a tale immensa prova di amore, non domandata e che nulla, poi, domandava, restava indifferente?

Ella, soffocando i suoi singhiozzi nel cuscino, in quella notte lunga di veglia, ebbe costantemente una impressione di gelo, di vuoto, pensando a quello che era il cuore di Cesare Dias: le parve di trovarsi innanzi a una montagna altissima di ghiaccio, dal sentiero stretto e ripido che ascendeva fra due pareti di ghiacciai, nel bianco accecante della neve, senza che voce umana palpitasse in quel candore, senza che raggio di sole arrivasse a disciogliere quella eterna neve. In quella visione febbrile si vedeva sola, camminando lentamente per la via di montagna, muovendo i passi stanchi e pesanti, sentendosi aggravare la testa e opprimere il respiro per quel freddo, per quel biancore, per quella desolazione di silenzio e di morte: le pareva che le sue forze si esaurissero, rapidamente, che giammai sarebbe giunta alla meta, donde si potesse vedere il chiarore consolante del firmamento: le pareva che il suo combattimento contro quel gelo, contro quel mortale biancore, contro quel soffio esiziale che veniva dalla montagna, era perduto, e che ella non sarebbe giunta viva nelle altitudini. Anzi in quel vivace delirio della sua fantasia, ella ebbe lo spettacolo di un corpo giacente fra le nevi, con le palpebre livide, con le braccia violacee, con le mani abbandonate lungo la persona morta: e le sembrò, nella fantasia inorridita, di ravvisare la propria figura, morta, prima di aver toccato la cima del suo ideale desiderio. Un urlo di terrore le uscì dal petto.

– Che hai? – le chiese Laura, svegliandosi.

– Non ho nulla, dormi in pace – ella aveva risposto, tremando ancora, coprendosi gli occhi con le mani.

Ma poichè le più tranquille ore dell'alba si erano approssimate, il suo delirio si era quietato, man mano, e la voce dell'amore era diventata più forte di ogni visione. Sentendosi nel cuore una passione indomita, ella diceva che questa passione doveva, sì, doveva fare il miracolo di commuovere Cesare Dias: e che tutti coloro che amano piamente, umilmente, con la fede e con la devozione dell'amore, finiscono per essere amati, in un'ora, in un giorno. Se la volontà ha il suo fluido magnetico, l'amore ha un effluvio, un fascino così prepotente, che non vi resiste nessuna indifferenza. Lo amerò tanto, lo amerò tanto – ella pensava fra – che egli non potrà mai sentire la violenza di questo amore. Ella ricominciava a sperare nel solo talismano che possiedono certe anime, e che è il loro amore; ella voleva adoperare la preziosa reliquia, i cui miracoli non si contano più, per iscongiurare il freddo demonio della indifferenza. Chi sa! Egli aveva quarant'anni, ma le dolci e tenere lusinghe di un affetto infinito non avevano, forse, mai carezzato quel cuore: cuore inaridito, prima ancora di aver conosciuto la sorgente delle più soavi lacrime. Chi sa! Son così forti, certi uomini, solo perchè vissero solitari e schivi, perchè non vollero cedere alla tenerezza: e forse l'amore tardivo è destinato a crear loro una seconda gioventù, una novella vita più umana, più bella, più festosa.

Nel cervello di Anna si delineava e s'ingrandiva l'ideale di una missione di devozione immensa, di sacrificio amoroso, di profonda aspettazione della passione, che ella dovesse compiere, perchè Cesare Dias, forse ignaro della grande fiamma, intendesse, un giorno, tutta la dolcezza che si ha, amando ed essendo amati. Le pareva di esser eletta, come un apostolo delle Passione, a questo lavoro sentimentale, lungo, silenzioso e pur costante e ostinato, sino a che in quelle ceneri spente si ritrovasse la divina favilla della divina fiamma: le pareva ormai di aver trovato la causa e il mezzo e il fine della sua vita. Ella doveva amarlo: ecco tutto. Amarlo attraverso il tempo, attraverso lo spazio, da vicino e da lontano, fino alla tomba e più in , fin dove l'anima vive: amarlo senza speranza immediata, con un lontanissimo, altissimo bagliore di speranza: amarlo, con la fedeltà e l'abbandono di chi ha riposto tutto e nulla vede oltre l'orizzonte del sentimento: amarlo con la semplicità e la modestia delle anime giovanili, cui non morde la vanità, l'ambizione: amarlo, infine, così bene, così intensamente, che egli vivesse in un ambiente saturo di amore, che egli lo respirasse nell'aria, che se ne sentisse a poco a poco egli stesso invaso, egli stesso dominato. Se l'amore fa ancora di questi miracoli, Anna lo avrebbe compiuto: e se ella non avesse ottenuto il santo premio del suo abbandono, ebbene, ella sarebbe morta, contenta di aver consacrato la sua esistenza all'amore. Una fede ardente, adesso la rialzava e le dava una novella vita di coraggio. Ella sperava di vincere: e si gloriava anche di perdere, purchè potesse amare.

Ella si metteva in cammino, forte della sua missione, tenendo gli occhi fissi a un luminoso ideale, tendendo le braccia a quella vetta fulgente, non curandosi dei triboli della vita, della morte che avrebbe potuto coglierla prima di giungere alla meta. I grandi ideali hanno bisogno di questa profonda abnegazione: ella si sentiva, a un tratto, come sollevata da una potenza ulteriore, spinta da una ragione morale che la trasformava, la rendeva ferma e fiera nel segreto della sua fierezza. Piena di questo concentrato entusiasmo, ella scrisse questa lettera a Cesare Dias:

«Perchè mi domandate il poi dell'amore? Io non lo conosco. E non l'ho mai chiesto a Dio, che ha permesso che io amassi una seconda volta: non l'ho chiesto a me stessa, in quella divina sera, in cui mi accorsi che il mio cuore era risorto e che vi amavo. Io ignoro quello che avverrà poi: questo è il misterioso motto del destino, che si rivela a noi sempre troppo tardi, quando i nostri falli sono irreparabili. Io non ho imparato che una sola verità, limpida e schietta: vi amo. E voi, forse, lo sapevate, poichè non è possibile che i miei occhi, che la mia voce, che la genuflessione delle mie parole, dove l'anima mia si genufletteva, non vi avessero detto che vi amavo. Non mi avete vista piegar ogni giorno il mio capo altero e insofferente di giogo, a voi, che per tanto tempo mi faceste ribrezzo? Sì, lo confesso, avevo ribrezzo quando mi davate la misura della vostra glaciale scienza umana e mi sembravate un essere demoniaco, condannato a un mefistofelico sogghigno. Non vi rammentate? Ero una creatura ribelle, indomita, ostinata nelle proprie idee, stravagante nelle sensazioni e nelle impressioni, solitaria nella mia collera e nelle mie tenerezze; e mentre voi mi guardavate con diffidenza e con disprezzo, io vi guardavo con superbia e con isdegno. Ma attraverso la mia alterigia, la mia ostinazione e la mia debolezza, è passata la catastrofe del mio primo amore, che mi rivelò tutta l'inanità delle mie speranze, tutto il disordine delle mie idee, tutta la vacuità delle mie illusioni; e nell'ora suprema, quando colui che era la Passione, per me, era fuggito vigliaccamente, poichè non amava, o, almeno non amava abbastanza, colui che era l'indifferenza, era accorso a perdonare, a soccorrere, a far rivivere. Nella febbre, che mi ha riarsa nella sera della mia fuga, tornando da Pompei, io ho cominciato ad amarvi, perchè, veramente, voi solo eravate la saggezza e la forza. Dopo... tutta l'anima mia, trasformata, non poteva che legarsi alla vostra, per sempre, sapendo la propria fragilità, cercando l'ombra della vostra figura per ricoverarvisi. E questo cerco ancora. Io non vi chieggo di amarmi. Forse siete legato da amori passati, presenti; forse non volete amare adesso, come non avete amato mai; forse non vi piaccio, spiritualmente e materialmente. Che accade nell'anima vostra? Chi sa! Io intendo solo che siete forte, che siete savio, che non vi piegate e che non vi spezzate, che infine, proseguite la vostra bella strada, tranquillamente, fra il pacifico trionfo della vostra superiorità. Avete amato, amerete? Chi sa e che importa, poi? L'unica cosa che m'importa, l'unica che io voglio, è che voi vi lasciate amare, senza annoiarvi, senza che troviate necessario di allontanarvi, senza impormi il terribile castigo della vostra assenza: voglio che mi promettiate di volermi bene non come una pupilla, non come una sorella, ma come una povera fanciulla che vuol dare tutto il suo amore e tutta la sua vita al suo amore. Rassicuratevi, non vi chiederò nulla. So che non sacrifichereste una delle consuetudini della vostra esistenza, a nessuno: so che tenete massimamente a non turbare neppure l'apparenza della vostra vita: so che non volete aver noie. Ebbene, nulla mi è più sacro di un vostro desiderio, di una vostra abitudine, di un vostro pensiero: e non sarà mai che io voglia darvi un sol fastidio, una sola noia. Vivete come avete vissuto, sempre; soltanto rammentatevi, che in un angolo di Napoli vi è una persona, vi è un cuore che in voi mette tutta la sua ragione di vivere e continuate a dargli qualche minuto della vostra presenza. Vi amo profondamente, teneramente, non spero mai di essere amata da voi: quest'assoluta mancanza di speranza, quest'assoluta mancanza d'illusioni, fanno sì che non avrete da me nessuna noia. Il mio amore sarà sempre intorno a voi, ma non ne avvertirete mai il peso: ma sarà una compagnia silenziosa: ma la passione mia preferirà l'ombra. Io debbo amarvi così, col rispetto, con la gratitudine, con la immensa riconoscenza della persona morta che è risorta. Così Lazzaro che era stato quattro giorni, morto, nel sepolcro, udì la vivificante voce del Redentore, e sorrise e seguì dovunque Gesù Cristo che gli aveva ridata la vita. E, d'altronde, non dovete dimenticare mai che io vi amo così intensamente, che per una parola vostra andrei alla morte, senza dolore, anzi ebbra di entusiasmo. Perchè io sono una indegna. Lo riconosco e me ne dolgo, e la mia disperazione soltanto m'induce a questa forma solitaria e desolata dell'amore. Io sono una indegna; io ho amato troppo presto e male; io ho strappato i fiori primieri del mio spirito e li ho dispersi, foglie e petali, al vento; io ho sprecato stupidamente il mio amore; e voi, voi, voi, siete stato testimone della mia miserabile tragedia; voi mi avete raccolta esanime sulla spiaggia, dove ero stata abbandonata, simile ad Arianna. Probabilmente, se voi foste stato il mio primo ed unico amore, se io avessi potuto offrirvi il candidissimo fra i cuori, se io avessi potuto dedicarvi tutta la splendida fioritura dei miei sogni, il dono avrebbe avuto per voi la seduzione delle cose innocenti, ma io sono una rovina d'amore: attraverso la mia anima, un ciclone morale è passato e dalla grande mestizia di questo disastro, pallido, roseo crisantemo che sboccia sopra un sepolcro, il secondo amore è germogliato. Io sento che voi non potete trovare in me, alcuna poesia, come non hanno poesia le vedove nella cui anima vaga un fantasma: e voi meritate una donna assai più forte e assai più bella. Vi dico questo, malinconicamente, per spiegarvi la ragione della mia umiltà, per farvi vedere che voi veramente mi fate una grazia lasciandovi amare da me. Credo che sarete così generoso. Credo che non vorrete infierire contro una creatura, che fu già colpita una volta e che adesso non resisterebbe più: credo che la pietà alligni nel vostro cuore, malgrado lo studio che mettete a nasconderla.

«Non siete voi dunque colui che mi disse, con la voce tremante di compassione, in quella stanza oscura e deserta del Diomede, mentre mi pareva di morire, povera figliuola, povera figliuola? Non siete voi colui che nel fantastico viaggio verso Napoli, mentre io ardeva di febbre, appoggiava la sua mano carezzevole sulla mia fronte? Ah, voi siete pietoso: sì, sì, io lo so: è per la vostra pietà, appunto, che io vi amo: è per la pietà vostra, appunto, che voi mi lascerete il diritto d'amarvi sino alla morte, sino a che l'anima vive, in questo mondo, o nel mondo degli spiriti. Eccolo, il poi, il poi dell'amore: è l'amore istesso: per sempre, per sempre, niente altro che l'amore. Che debbo dirvi di più? Scrivendovi questa lettera, assai audace, eppure piena di umiltà, io vi ho lealmente confessato tutto lo stato dell'anima mia.

«Voi avete, adesso, la misura della mia passione e sapete perchè ho ricominciato ad amare, dopo aver finito d'amare: voi conoscete la mia assoluta sfiducia in me stessa e nel mio avvenire, e vedrete che ogni piccola gioia, invocata sempre, sarà per me considerata quale una grazia del Signore, quale una grazia fattami da voi. E questa lettera non chiede risposta. Che dovreste dirmi? Nulla che possa piacermi: e tutte le spiacevoli cose, io le so, io le suppongo. Voi non mi amate, questo è il gran fatto: probabilmente non avrete per me neppure della simpatia, mai: probabilmente voi mi trovate di un ridicolo perfetto: probabilmente questa lettera vi susciterà un movimento d'ira e vi bisognerà tutta la vostra pazienza e tutta la vostra bontà per sopportarmi. Io... non potrei leggere una lettera in cui vi fosse dell'indifferenza, dello sdegno, della incredulità, una decisiva sentenza, per me, di morte – ah, io non esagero in questo momento, credetelo – senza tremare, senza soffrire immensamente. Non mi scrivete nulla, poichè voi siete così lontano e così diverso da me, che mi ferireste, senza neppure intenderlo. Quante cose che dite, mi fanno rabbrividire di dolore! Quante ore vostre di cui non conosco il segreto, quanti vostri desiderii, che, saputi da me, m'immergerebbero nella disperazione! Non mi scrivete nulla, sul serio, per ischerzo: ho paura. Voi, naturalmente scettico, non potete che farmi del male, parlando di questa passione che non dividete, che non dividerete mai, che forse disprezzate: e non potete calcolare l'effetto di una vostra parola, scritta sopra una carta a me diretta. Io ho baciato devotamente, come si baciano le reliquie dei santi, quei due biglietti che mi avete scritto: ma la serenità di spirito che vi regnava, quando io era immersa nel più profondo turbamento, mi ha fatto passare due orribili notti di veglie e di visioni paurose, in cui la distanza fra me e voi mi è parsa incommensurabile. E se penso che vi devo subito rivedere, dopo di avervi mandato questa lettera, io tremo di vergogna e di sgomento: se io penso alle prime parole che mi dirigerete, dopo di averla ricevuta, io mi metto le mani sulle orecchie, per un moto istintivo. E ancora una volta, per tutto questo che vi ho detto, io vi scongiuro ad aver pietà di me, a trattarmi come una creatura malata di spirito, di cuore, che ha bisogno di tutta la compassione della gente sana: non mi dite niente, non mi mortificate, lasciatemi solitariamente alla mia passione, ricordatevi che una parola, che un cenno può aprire una ferita insanabile; abbiate per me la indulgenza che avreste per un bimbo che, scherzando con una rivoltella, si è messo un colpo nella testa. Non mi sgridate, io soffro e non voglio mostrare di soffrire, perchè la mia sofferenza m'inebria. Ah come vi amo, quanto vi amo! – Anna Acquaviva».

Malgrado che egli prevedesse il contenuto di questa lettera, Cesare Dias diventò molto pensoso dopo averla letta. La stessa ritenutezza con cui era scritta, l'umile riserbo che vi reprimeva ogni sfogo di passione, in una persona così altera e così impetuosa qual'era Anna, gli facevano una maggiore impressione, che se vi fosse il lirismo più esagerato. E se il suo amor proprio di uomo quarantenne, a cui è bastato dir due parole soltanto e carezzare una fronte infuocata dalla febbre, per essere amato da una donna, era soddisfatto e lusingato, se l'orgoglio maschile che alberga specialmente in tutti gli animi superiori, aveva un trionfo non chiesto e non sperato, in fondo all'anima vi era una preoccupazione. L'amore di Anna lo metteva in grande imbarazzo: ed egli sapeva per prova che era la donna dei partiti estremi, la donna che sa soltanto amare ed obbedire all'amore. Per adesso, ella si mostrava genuflessa, con la testa china, senza speranze, e senza desiderii: per adesso, ella si piegava, domata da un sentimento di lei più forte e diceva che non voleva nulla, che non chiedeva nulla. Ma poteva durare tutto questo? Cesare Dias era un uomo di grande esperienza e non gli sfuggiva nessuno degli inconsci, ma astuti procedimenti dell'amore; e capiva bene che tutto non era detto nella lettera, e che Anna doveva avere la sua idea.

Certo l'amore di una bella e appassionata fanciulla di venti anni aveva qualche cosa di molto carezzevole per il suo vecchio cuore inaridito e gli dava un afflato di novella giovinezza: bisogna stare in guardia contro questi tranelli del sentimento, bisogna badar bene, perchè tutto si paga a questo mondo, massime le glorie, anche non cercate, della vanità. Lasciarsi amare, forse può esser dilettevole, anzi è certamente grazioso, quando l'uomo ha quarant'anni e la donna ne ha venti, ed è bella, e si prostra innanzi all'uomo, quasi innanzi all'immagine del suo Dio: ma quanto tempo può durare un simile stato di cose? Fino a quando la passione solitaria può servire di pascolo a se stessa? Non viene l'istante della ribellione, il gran minuto in cui qualunque asceta dell'amore vuol essere amato, come il mistico, nelle preghiere, implora e vuole dal Signore il divino dono della Grazia? Certamente, tenendola in quel riservo della sua prima lettera, Cesare Dias era sicuro che ella sarebbe restata in quello stato di ascetismo: ma l'ora sarebbe giunta in cui Anna, per la ragione dell'età, del carattere, del temperamento, per la ragione istessa dell'amore avrebbe voluto essere amata da Cesare Dias. L'amore non corrisposto è una chimera di breve durata: l'amore ha bisogno d'amore. Che avrebbe egli fatto, quando Anna avrebbe voluto essere amata?

Così la sua mente positiva di uomo che non può essere ingannato, da se stesso, da altri, gli aveva subito rivelato dove era il grave imbarazzo della sua situazione. Questo pensiero un po' tormentoso, lo accompagnò dovunque andasse, anche in mezzo ai piaceri e alle sue consuetudini mondane; mentre era distratto dalla conversazione, dal giuoco, dallo spettacolo teatrale, un'idea gli attraversava il cervello dicendogli: bada, ella ti ama e un giorno vorrà essere amata. Questo era il fatto: tutto il resto era un cumulo di parole. E infine, egli a furia di sillogismi, arrivò a scartare anche questa segreta piccola tortura: non aveva fatto proprio nulla per far nascere quell'amore, e probabilmente queste grandi passioni, viventi nel vuoto, non durano molto tempo. Anna, forse, avrebbe dimenticato. Egli era un uomo assolutamente refrattario alla infelicità e quando qualche cosa lo tormentava, egli trovava, nelle risorse della sua mente, una formula per consolarsi di quello che gli accadeva. Egli diceva con un poeta che il cor del saggio poco si allegra e poco si addolora. Bisognava lasciar fare al tempo. Forse Anna avrebbe obliato. Non aveva dimenticato Giustino Morelli?

Cesare Dias finì per iscuotere tutta quella poca inquietudine che lo aveva colto; e non gli restò in fondo all'animo, che la tranquilla soddisfazione di una bella conquista, fatta involontariamente. Era un uomo, infine: ed essere amato, a qualunque uomo, fa sempre piacere. Dopo... al dopo avrebbe provvisto con la sua fredda saviezza, man mano che si presentassero gli avvenimenti.

Non rispose, dunque. Fra le altre cose egli era nemico delle lettere di amore, meschina vanità dei giovinotti e degli uomini maturi, che ebbero pochi successi d'amore: lettere di amore che dicono molto più dell'amore, che non provano nulla dell'amore, e che sono destinate ad essere disperse, a capitare in cattive mani; a essere lette da chi non deve leggerle. E che le avrebbe potuto scrivere? Nulla. Egli non l'amava. Essa lo aveva bene indovinato, che egli non aveva nulla da dirle. Anzi, per affrontare subito le difficoltà, mancando da due giorni da casa Acquaviva, vi si recò alla sua solita ora, verso le due, a piedi, col suo passo elastico che era una delle attrazioni della sua maturità, fumando un eccellente sigaro, contento, alla fine, del mondo e di se stesso. E il suono del campanello, che annunziava la sua venuta, squillò nel cuore di Anna. Da che aveva scritto quella lettera, in cui aveva messo il suo segreto, dopo l'ora di spossatezza che succede a questi sforzi spirituali, ella aveva ricominciato a dubitare. Col pensiero aveva seguito quella carta bianca, in cui ella aveva scritto e firmato col suo nome la confessione del suo amore, e la vedeva giungere nelle mani di Cesare Dias, vedeva il sorriso di lusinga, ma anche di scherno, di costui, e impallidiva quasi fosse presente alla scena, e non fosse quella una visione della sua fantasia. Egli, forse, aveva lacerata irosamente quella carta dove la mano di Anna si era posata con tanta tenerezza: e la sua immaginazione era così vivace, che udiva il rumore fischiante della lettera lacerata in mille pezzi, vedeva cadere i pezzi minuti nel cestino delle carte vecchie e dei vecchi giornali che servono ad accendere il fuoco nel caminetto; ed ecco Cesare Dias, annoiato, sdegnato, si metteva alla scrivania per scriverle un biglietto freddo ed aspro, per dichiararle che ella era un'audace, una pazza, per dirle una di quelle ingiurie quiete e gentili nella forma, brutali nella sostanza. Già s'incamminava il servitore di Dias, a portare quella sciagurata sentenza ad Anna: ed ella sussultava, nascondendosi la faccia fra le mani, arrossendo di scorno innanzi ad un semplice sogno. Era così agitata, così distratta, così assorbita nei suoi pensieri, così fuori della vita reale, che Stella Martini la guardava, crollando il capo, temendo che i brutti tempi della malattia di Anna fossero ricominciati: e sua sorella Laura, ogni tanto, sorrideva con un po' d'ironia, ella che sapeva bene di che si trattasse.

– Ma che ha? – le chiedeva Stella parlando di Anna.

– Non so, non sorispondeva tranquillamente Laura.

Ma una volta, forse stanca delle affettuose domande della damigella di compagnia, glielo disse:

Credo che sia tormentata dalla passione – e quest'ultima parola quasi fischiò fra le rosse e fresche labbra della savia Minerva.

Nuovamente? – ridomandò Stella, un po' angustiata sebbene avesse già immaginato qualche cosa di simile.

– Già; nuovamentereplicò la bellissima bionda dagli occhi bigi.

– E per chi?

– Non mi ha detto di dirvelosoggiunse subito Laura, uscendo dalla stanza per troncare la discussione.

Ma a Stella Martini era parso che il volto così chiaro e sereno di Laura si fosse oscurato facendo quel discorso. E di nuovo fece a se stessa i più amari rimproveri, poichè avrebbe dovuto essere la più cara confidente delle due fanciulle, e invece Anna non diceva nulla, chiusa nei suoi misteriosi dubbi, sopportando solitariamente il proprio dolore: e Laura non pronunciava parola, non faceva atto, così impenetrabile, come fanciulla non fu giammai. Ella si pentiva di non mostrarsi premurosa, di non interrogare ogni giorno il cuore delle fanciulle, di non essere più materna, infine. Ma invero tutta la sua vita era sfiorita, ella era un essere senza tetto, senza famiglia, senza pane, obbligata a vivere presso coloro che le pagavano i suoi servigi, in modo che la naturale sua timidità cresceva, e le due ragazze finivano per ispirarle soggezione. Ella capiva che non faceva tutto il suo dovere, accompagnandole a passeggio, in chiesa, in teatro ed alle visite, assistendole quando erano malate, e aiutandole nel governo della casa; vi era qualche cosa di più amoroso, di più intimo, che avrebbe dovuto stabilirsi fra le fanciulle e lei. Giusto, in quel giorno, dopo aver avuto quella recisa risposta da Laura, ella si era recata immediatamente nella stanza delle ragazze, dove aveva trovata Anna che pregava, inginocchiata innanzi a un'immagine della Madonna; non aveva voluto disturbarla e si era ritirata discretamente. Era tornata una seconda volta; Anna era ancora inginocchiata, ma aveva piegata la fronte sul velluto dell'inginocchiatoio, e si udiva, talvolta, un profondo sospiro sollevarle il petto. Stella si accostò e la toccò pian piano sulla spalla; Anna levò il capo, fissandole in volto gli occhi trasognati.

– Che avete? Soffrite? Perchè mi scacciate dai vostri dolori? – giunse ella a dire, superando la sua timidità di persona servile.

– Se soffro, la colpa è mia; e non può consolarmene che Diomormorò Anna, levandosi dall'inginocchiatoio.

– Pur troppo, a ognuno di noi, miseri, è dato di far qualche malesoggiunse Stella, semplicemente – ma ci è dato anche di far qualche bene. Il vostro cuore è assai turbato?

– Assai – disse con voce profonda Anna.

– Voi avete messo le vostre speranze dove non possono realizzarsi, ancora una volta?

– Ancora una volta.

– E perchè, mia cara, procurarvi tale tortura?

Perchè è forse questo il mio destino.

– Siete giovane, bella e ricca: dovreste essere padrona del vostro destino. Lasciate ai poveri, ai solitarii, subire la fatalità di una triste sorte.

– Ah, io sono più misera della mendica disfatta, dagli anni e dalla povertà, che stende la mano al viandante! – scoppiò a dire Anna, smorta, con gli occhi accesi dalla febbre.

– Non parlate così, voi non sapete, – mormorò dolcemente Stella, prendendole le mani, obbligandola a sedersi.

– Non posso raccontarvi, non posso, è più forte di me – disse Anna, con tale voce angosciata, che parea soffocasse.

– Non mi raccontate nulla, mia cara, io intendo, io non sono qui che una povera mercenaria, ma vi voglio tanto bene! E voglio dirvi, Anna, che non vi sono dolori irrimediabili...

– Se la Madonna non mi aiuta, il mio dolore è irrimediabile.

– Solo alla morte delle persone che amiamo, non vi è rimediodisse Stella, crollando la testa. – Lo vedrete... poi...

Preferisco morire se debbo vivere così – disse cupamente Anna.

– Ma è proprio disperato, il caso? Non avete un barlume di speranza?

– Forse... – disse Anna.

– È un uomo, da cui dipende la speranza?

– Sì.

– Io lo conosco?

Ma Anna si mise un dito sulle labbra, accennandole di tacere. Un campanello era squillato. E Stella Martini udì sgorgare dal petto di Anna, dalle sue labbra convulse, allo squillo di quel campanello, un'esclamazione straziata:

– Oh Dio!

– Che avete? – disse l'altra trasalendo.

– Nulla, nulla – mormorò Anna, smarrita, passandosi il fazzoletto sul volto, quasi a dissiparne l'emozione. – Andate pure di ...

– Vi debbo lasciar sola?

– Ve ne prego, lasciatemi, sono troppo confusa: un solo momento di pace...

– E verrete... di ? – disse Stella, esitando ancora.

– Verrò... verrò quando potrò... tanto da ridiventar calma.

Stella Martini se ne andò pianamente. In salotto, Cesare Dias mostrava a Laura, molto attenta, le vignette del Figaro illustrato e ambedue sfogliavano lentamente le grandi pagine nere e colorate del fascicolo. Dias salutò e domandò:

– E Anna?

Ora viene – disse Stella, che era ancora inquieta.

– Sta bene?

– Così... così.

– Non sta bene, forse? – chiese lui alzando la testa.

– Non mi pare: ma vedrete voi, adesso.

Quei due ricominciarono a guardare le incisioni, che erano assai belle. Stella li lasciò, silenziosamente, volendo celare quello che sentiva e temendo che non le riuscisse. Mentre Cesare Dias e Laura Acquaviva commentavano con una parola le illustrazioni, entrò Anna, con un passo leggerissimo. In verità, ella sentiva battere precipitosamente il suo cuore e i suoi polsi, e non ebbe neppure la forza di salutare. Si sedette, dall'altra parte della tavola, senza far rumore, passandosi con un moto consueto dei suoi minuti di assorbimento, gli anelli della mano destra alle dita della mano sinistra, guardandosi le mani attentamente, come se le vedesse per la prima volta, come se vi scorgesse certe misteriose lettere tracciate sull'epidermide. Coloro non si accorsero di nulla: finirono di vedere il Figaro illustrato, e Dias, riponendolo sul tavolino, disse:

– È proprio grazioso.

Grazioso, proprio – soggiunse Laura, approvando.

Allora videro Anna. Dias la salutò, con un sorriso amabile, e le chiese:

– Come state?

Bene – ella rispose, con una voce un po' debole.

– La signora Martini mi diceva che non vi trovava bene...

– È il suo affetto... ma sto benissimomormorò ella, mortificata di quella premura in cui si vedeva solo la pietà, nient'altro. – Sono un po' nervosa...

– È la temperatura: lo sciroccospiegò Dias, diventato subito freddo.

– Sì, lo sciroccoripetette Anna parlando come una sonnambula.

Guarirete col sole.

Guarirò col sole... forse – replicò ancora ella macchinalmente.

Laura che non aveva interrotto quel dialogo, chetamente, come era il suo solito, si levò e se ne andò. Anna vide bene che restava sola con Cesare Dias e fece una mossa, a trattenere Laura. Ma la voce non le uscì dalle labbra, e la mano ricadde sul tavolino. Tremava. Cesare Dias la guardava, sorridendo un poco: ella teneva le palpebre chine, non reggendo a quello sguardo e a quel sorriso. Non si può negare che egli vedesse quell'emozione, tutta quanta, e che non ne godesse un poco. Però, disse fra , che quella scena muta non si potea prolungare: tanto che, facendo un cenno che parea riassumesse un discorso passato, pronunziò con tono leggero, dove non mancò un velo di gaiezza:

– Dunque, dicevamo che mi amate?

Essa lo guardò, sbarrando gli occhi e senza poter parlare: fece un gesto che indicava un'affermazione larga, di cosa fatale.

– Sarei curioso di sapere il perchèosservò lui, sempre con la stessa intonazione, giocando con la medaglia antica sospesa alla catenina del suo orologio.

Essa gli rivolse un'occhiata di sorpresa: ma non disse nulla.

– Già, il perchèsoggiunse Dias. – Vi deve essere una ragione, quando si ama una persona, e non un'altra. Ditemela perchè io ho forse qualche virtù di cui non mi sono mai accorto...

Anna, confusa, pallida, lo supplicò tacitamente con lo sguardo: non lo aveva scongiurato di non burlarsi di lei, di non adoperare lo scherno contro la sua passione? Egli intese e immediatamente:

Scusate, Anna: ma ho la cattiva abitudine di non prendere sul serio molte cose, che sembrano serie agli altri: smetterò, poichè vi fan male i miei scherzi. Ma non dimenticatelo: un giorno o l'altro me lo direte, il perchè mi amate.

Perchè siete voi e non un altro – ella disse, piano.

– La ragione è acuta e profondaosservò Dias, con un fuggevole sorriso, – ma ha bisogno di molte ore di meditazione per essere compresa. E mi amerete naturalmente, sempre?

– Sempre – ella disse, a voce molto bassa.

– Posso dirvi una cosa, che vi farà dispiacere? – domandò lui, fra lo scherzo e la serietà.

Ditela – ella sospirò.

– Mi pare, senza farvi offesa, che siate un po' volubile... non è vero? Anche un anno fa, credevate di amar qualcun altro... sempre. Convenite che lo avete perfettamente dimenticato. E fra un anno fa, questo altro sempre, il mio sempre, diciamo così, chi sarà?

Ma si arrestò. Con un pallore terreo che le aveva rese violette persino le labbra, con gli occhi pieni di lacrime, ella pareva per isvenire, tanto quello scherno l'aveva straziata. Egli se ne accorse: se gli poteva dare una certa soddisfazione il vedere che ella vibrava sotto le sue parole quasi corda sonora, non era Dias un uomo perverso e non faceva male a nessuno, senza ragione.

– Vi ho fatto troppo dispiacere, è vero? Nulla annoia tanto, quanto la verità... Non è neppure la verità? Allora, come voi volete. Ma sorridete un poco, solo un pochino: non credete che solo le lacrime sieno interessanti. Siete graziosa, anche quando sorridete.

E la infelice, dominata da quella voce, da quella superiorità d'animo che trapelava da ogni parola, fra le lacrime che le velavano lo sguardo, sorrise, stentatamente, ma sorrise.

– Dunque, amore eterno – egli riprese. – E che farete con questo?

– Null'altro che amarvi.

– E vi basta?

– Mi deve bastarerispose Anna, fermamente.

– Vi contentate con facilitàsoggiunse lui, con una certa lentezza. – E sarete sempre così modesta nelle vostre speranze?

– L'avvenire è nelle mani di Diodisse lei, non avendo il coraggio di mentire.

– Ah... ecco, volevo dire. Dall'avvenire voi sperate qualche cosa: altrimenti non vi contentereste, anzi non vivreste. L'avvenire, bel fatto! Cioè fra venti anni: io sarò decrepito e avrò bisogno, come quel truce Amenofi, re di Egitto, solamente di una tomba. Ci avete mai pensato alla vecchiaia?

– Non m'importa – ella disse – per me siete giovane.

– E dovrei amarvi, nevvero? Questo è quello che desiderate da me! – egli domandò, con un'ironia finissima.

– Io non vi ho chiesto nulla: non mi umiliate – ella soggiunse semplicemente e fieramente.

Egli s'inchinò, un po' sconcertato. E volle tentare di consolarla, per compassione, in un altro modo. Mise la mano nella tasca interna del suo soprabito e ne cavò fuori un portafoglio rosso di bulgaro. Lo aprì e ne prese le tre lettere che essa gli aveva scritte:

– Ho pensatodisse lentamente – di portare con me queste lettere. Si disperdono così facilmente le lettere, e tanto facilmente le leggono gli estranei. Dunque, siccome io so quello che contengono, e voi dovete aver piacere di riprenderle: ve le restituisco.

E gliele porse, guardandola, credendo di averle detto una cosa graziosa e gentile. Ella, però, non riprendeva le lettere, non distendeva la mano, disperata all'idea che, a lui, proprio, non gliene importasse niente di conservare quelle carte, dove ella gli aveva confessato di amarlo. Sono un così caro tesoro, queste lettere, quando si ama! E invano ella tentava di armarsi contro la indifferenza di Cesare Dias, invano, poichè le sembrava una sofferenza insopportabile: e quella lotta le s'impresse sulla fisonomia.

– Ma come! – esclamò lui – non vi fa piacere di aver queste lettere? Ma tutte le donne non desiderano altro, quando le hanno scritte, che di riaverle!

Laceratele voi – ella mormorò, decisa di sopportar tutto, per tentare di diventar più forte.

– È una villania, lacerare le lettere...

Laceratele, laceratele – ella soggiunse, amaramente.

– Come volete – disse lui, lacerando le lettere.

Ella chiuse gli occhi, un minuto secondo. Poi, con un pallido sorriso, gli disse:

– Ecco, è sicuro che non mi amate.

Rispetto la vostra opinionedisse lui, galantemente.

E le stese la mano, per salutarla. Ella gli diede una mano sottile, fredda, restante immota in quella di lui. Lo vide sparire. Lentamente, rientrò nella stanza da letto e si sedette a capo letto, appoggiando il gomito sul capezzale e la fronte alla mano. Così la trovò Stella Martini: calma, in apparenza. Le parlò; Anna non rispose, quasi non avesse udito. Poi, ad un tratto, levando il capo, le disse, parlando come in sogno:

– Vi rammentate, Stella, di quel giorno in cui vi ho abbandonata, nella chiesa di santa Chiara?

– Sì, me ne rammento.

– Ebbene, oggi vi dico questo e non ve lo scordate mai, mai: in quel giorno, Stella, io ho scritto la mia sentenza di morte.

 


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